La
Parola del mese
Una
parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
SETTEMBRE 2023
La parola di questo mese è un neologismo di derivazione inglese inizialmente declinata in ristretti ambiti prima letterari e poi scientifici e solo recentemente più diffusamente utilizzata per definire un atteggiamento ed un comportamento collegati al cambiamento climatico, all’emergenza ambientale e all’ingiustizia sociale. La parola è……
ESCAPISMO
Escapismo = s.m. dall’inglese
escapism
(letteralmente “tendenza alla fuga”) indica l’atteggiamento proprio di chi costretto
da circostanze, da eventi, dalle conseguenze di proprie scelte, tende a cercare
vie di fuga, scappatoie, evasioni (l’inglese
escape significa “evasione”)
Nasce
in ambito letterario per definire, come loro limite, movimenti artistici troppo
concentrati su produzioni fantascientifiche, di solito distopiche, che
evidenziano una sorta di tendenza a cercare “distrazione
da ciò che andrebbe invece affrontato”. Con questa stessa accezione è
poi entrato nella terminologia psicologica per indicare un forma patologica di
“fuga dai problemi della realtà” che porta
ad un eccesso di immaginazione, di disimpegno. Negli ultimi decenni ha infine assunto
una nuova specifica accezione relativa a comportamenti, a forme mentis,
inerenti modalità di reazione alle problematiche ambientali e climatiche.
Indica in particolare la tendenza a fuggire dalle responsabilità e dai
cambiamenti che da queste derivano su stili di vita, su forme di produzione e consumo.
Si tratta di un tema molto dibattuto per il suo impatto negativo sulle
politiche di adattamento e di mitigazione che l’accelerazione e l’accentuazione
della crisi ambientale e climatica stanno sempre più imponendo come non più
rinviabili. Escapismo definisce quindi, anche in questo
specifico caso, una fuga, più o meno consapevole per quanto diffusa a livello
di massa, dal confronto e dalle indispensabili coerenti conseguenze con una
realtà ormai innegabile. Esistono opinioni contrastanti sulle cause che stanno
provocando questa forma di escapismo, ma non è certo lo spazio di una “Parola
del mese” quello adatto per riportarle e valutarle. Ci è sembrato comunque
interessante riportare un articolo che (commentando un recente saggio di Douglas Rushkoff,
docente di media studies al Queens College di New York) esplora la declinazione di escapismo messa
in atto, questa sì coscientemente, dalla componente più scandalosamente ricca
dell’umanità coniugandola con l’altrettanto subdolo ritardismo (un atteggiamento
strategico che mira a prolungare quanto più possibile il business as usual (il giro di affari solito) che ha di fatto sostituito l’ormai insostenibile negazionismo climatico).
Appare infatti indispensabile valutare come la
componente più ricca e con la maggior influenza mediatica e politica stIa
pesantemente incidendo sull’escapismo di massa.
Come i miliardari vogliono
salvarsi
dalla fine del mondo
distruggendolo
Articolo di Alessio Giacometti (dottorando in scienze sociali a Padova. Scrive su
diverse riviste on line) - Il Tascabile
Un manipolo di
ultraricchi convoca un noto futurologo in un resort di extra lusso nel deserto.
A ossessionarli è ciò che chiamano “l’Evento”, il collasso della civiltà cui
si preparano da tempo senza riuscire a risolvere alcune questioni dirimenti:
come mantenere l’autorità sui propri accoliti quando il mondo precipiterà nel
caos? Cosa offrire ai servitori in cambio di fedeltà e protezione? Come
impedire diserzioni e rivolte? I magnati ipotizzano collari per il controllo
umano, robo-guardie, c’è chi propone persino il sequestro delle scorte
alimentari. Riconoscono apertamente che equipaggiare il più inaccessibile dei
bunker per l’apocalisse non servirà a nulla, se non saranno pronti anche a
gestire l’imprevedibilità del comportamento altrui. Il futurologo rimane
interdetto. E le risposte che dà non soddisfano il gruppo di ultraricchi. Non
sta prendendo sufficientemente sul serio le nostre preoccupazioni, pensano
loro. Così com’è arrivato il futurologo se ne va, con una scoperta decisiva
però: che l’anarco-individualismo esasperato degli ultraricchi non solo è
d’ostacolo alla mitigazione della crisi climatica, rischia anche di
pregiudicare le iniziative collettive di adattamento al clima che si scalda.
Protagonista della
vicenda descritta qui sopra è Douglas Rushkoff, docente di media studies al
Queens College di New York e autore di “Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno
alla catastrofe lasciandoci qui” (Luiss University Press, 2023), che si apre appunto col racconto in prima
persona del consulto avuto con la congrega di prepper (survivalisti) miliardari. Quello dei rifugi anti-apocalittici – in
versione esclusiva e militarizzata per i più abbienti, cooperativa e
autosufficiente per le piccole comunità della classe media – è un business in
spettacolare ascesa, soprattutto nell’America borghese, cristiana,
repubblicana, che da sempre coltiva paranoie sulla fine del mondo o il tramonto
dell’Occidente. Di peculiare, nel survivalismo praticato dai miliardari, c’è
che i loro bunker superattrezzati non sono semplici rifugi, caverne luxury per superstiti facoltosi:
parlano sfacciatamente di una forma
mentis che concepisce l’adattamento in maniera competitiva,
individualistica, difensiva, ostile nei confronti della vita e disconnessa dal
resto società. Una mentalità da survival of the richest che,
commenta Rushkoff, in un mondo trasformato dai cambiamenti climatici “ci fa immaginare
un’esistenza più simile a quella in una fortezza ben difesa che a quella in
un’oasi accogliente”. Il libro di
Rushkoff è una allucinata sortita all’interno di questa specifica mentalità
degli ultraricchi di fronte alla sfida dell’adattamento, un habitus sfrontato
e prevaricante che l’autore stesso chiama “Mindset” e definisce così: il Mindset si basa su uno scientismo del tutto ateo e
materialista, che crede che la tecnologia possa risolvere ogni problema, (…)
ritiene i rapporti umani un fenomeno di mercato, teme la natura e le donne,
pensa che i contributi del singolo non debbano nulla al passato e mira a
neutralizzare l’ignoto dominandolo e privandolo di anima” . Mossi
da un simile orizzonte mentale, i super-ricchi sono convinti che la crisi
climatica non sia una loro colpa, che un sovrappiù di tecnologia basterà a
rimettere le cose a posto, che la catastrofe rappresenti una nuova opportunità
per fare affari, che in caso di collasso loro stessi meritino di salvarsi più
di chiunque altro, che avranno vita lunga nella “tecno-bolla” dei loro bunker
iper-artificiali, che un piano B sarà sempre possibile con una fuga nello
spazio e la fondazione di una nuova civiltà in qualche remoto eso-pianeta. A
detta di Rushkoff e di chi scrive, è una visione della crisi climatica e dei
modi di fronteggiarla quanto mai sviante e pericolosa. Per lungo tempo i
super-ricchi sono stati i più tenaci araldi del negazionismo climatico, oggi non
più difendibile e perciò rimpiazzato dall’altrettanto subdolo “ritardismo”:
un atteggiamento strategico che mira a prolungare quanto più possibile il business
as usual ostacolando i cambiamenti necessari o procrastinando
indefinitamente le misure urgenti per la de-carbonizzazione. Quando si tratta
di mitigare l’impatto ambientale, gli ultraricchi tendono a favorire
interventi minimi e conservativi, enfatizzano gli svantaggi economici delle
politiche socialmente più trasformative, oppure spingono per enormi soluzioni
tecnologiche e di mercato al riscaldamento globale che ribaltino la situazione
collocandoli nuovamente in una posizione di vantaggio competitivo. Fatto
equivoco, le soluzioni avveniristiche che caldeggiano promettono di realizzare
un salto evolutivo per il progresso della specie e finiscono immancabilmente
per concentrare nelle loro mani sempre maggiore ricchezza. Il Mindset è una
strategia di ultra-accelerazione ma senza alcuna destinazione, ha fatto notare
Malcom Harris in un’intervista a Rushkoff apparsa su Wired: “è come voler
costruire un auto tanto veloce da sfuggire ai fumi del proprio scappamento”. Oggigiorno,
come ricordato da Andrew Hunter Murray sul Financial Times,
non c’è praticamente miliardario che non abbia elaborato un proprio
personalissimo piano per salvare il pianeta. Il più ricco tra i ricchi, Elon
Musk, ha lanciato una competizione con un premio da 100 milioni di
dollari per lo sviluppo di tecnologie per il sequestro del carbonio
atmosferico. Ancora più ambiziosamente, Jeff Bezos ha sborsato 10 miliardi di
dollari in programmi di “crescita verde” con il suo Bezos Earth Fund.
George Soros, Bill Gates e Richard Branson finanziano invece progetti di
ricerca applicata in geo- ingegneria (nostra Parola del mese di Giugno 2019), a dispetto delle perplessità sollevate da
centinaia di scienziati del settore. Già nel 2008, il climatologo David Victor etichettava come greenfingers,
“pollici verdi”, questi filantro-capitalisti, miliardari patriottici o
speculatori convertiti che assurgono al ruolo di salvatori del pianeta e
premono per progetti di riparazione tecnologica vasti e rischiosi, di cui ovviamente
intendono conservare la proprietà intellettuale qualora gli sviluppi si
rivelassero propizi. Per i super-ricchi le crisi non sono infatti che
un’occasione per spremere ulteriore profitto, come avvenuto con la campagna
del Grande
Reset avanzata da Klaus Schwab, fondatore del World Economic
Forum, per rilanciare l’economia mondiale dopo la pandemia di COVID-19 con una
nuova forma di capitalismo “consapevole”, benevolo, più direttamente coinvolto
e protagonista nella risoluzione dei grandi problemi dell’umanità. È così che,
piegando a proprio vantaggio le catastrofi sociali e ambientali, i super-ricchi
diventano ancora più ricchi, macinando profitti stellari: negli ultimi due
anni, l’1% dei più ricchi al mondo si è intascato i due terzi della
nuova ricchezza prodotta a livello globale, mentre gli introiti di Apple,
Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta sono aumentati del 20% (+1.100 miliardi di
dollari) e le quote azionarie addirittura del 50%. Stando alla classifica stilata
da Forbes, nell’ultimo anno il numero di persone con un patrimonio
superiore al miliardo di dollari è cresciuto del 20% e sono oggi oltre 2.500 i
miliardari a spasso per il pianeta con un una ricchezza complessiva di 13.1
trilioni di dollari, quasi quanto il PIL annuale dell’intera Unione Europea. I
milionari sono invece più di 60 milioni, si concentrano come i miliardari
principalmente negli Stati Uniti, e godono di una fortuna che ammonta in totale
a oltre 150 trilioni di dollari, più del PIL mondiale. I super-ricchi non mancano
mai di ripetere che una simile concentrazione di capitale non è un problema per
i piani di mitigazione, anzi: solo una élite tecnocratica e illuminata al
potere sarebbe in condizione di risolvere le sfide dell’umanità, in primis il
riscaldamento globale. È vero al contrario che nulla come la ricchezza si
correla all’impatto ambientale: i miliardari hanno un’impronta di
carbonio migliaia di volte superiore a quella dei loro compatrioti e secondo le
stime del Stockholm Environment Institute e di Oxfam, tra il 1990 e il
2015, l’1% degli individui più ricchi del pianeta ha emesso nell’atmosfera più
gas serra del 50% degli individui più poveri. Da sempre i super-ricchi
distolgono l’attenzione dalle loro scandalose emissioni colpevolizzando un
unico fattore, quello a loro più speculare: la sovrappopolazione e la crescita
demografica nei Paesi del Sud globale, peraltro in forte rallentamento.
Imputano ai consumi retrivi e inquinanti dei super-poveri la maggiore
responsabilità delle emissioni, ma è chiaro che una politica incisiva di
mitigazione dovrebbe aggredire la forbice delle diseguaglianze da
entrambi i lati, contrastando i sovra-consumi dei più ricchi e al contempo il
sottoconsumo dei più poveri. Come scrive il geografo sociale Danny Dorling
in Inequality and the 1% (Verso
Books, 2019), i super-ricchi impoveriscono
l’economia alle spese di tutti, inchiodano la società in uno schema di
diseguaglianze incrollabile, compromettono gli sforzi per la mitigazione che
non li vedano direttamente nella posizione di decisori o beneficiari. I governi
di tutto il mondo non intervengono sui loro patrimoni perché credono che solo
dal loro portfolio di investimenti possano scaturire le soluzioni necessarie,
arrendendosi così al “male minore” dell’ingiustizia sociale purché i
capitalisti mantengano la promessa del technological fix. Ci si
dimentica però troppo spesso che la diseguaglianza economica non è un
sottoprodotto detestabile del capitalismo, è il suo stesso obiettivo: come
esemplifica Rushkoff, il mercato è un tavolo da poker in cui ogni giocatore
mira a rimanere l’ultimo, quello che con un bluff o un colpo di fortuna riesce
a sgominare gli avversari e a vincere l’intera posta in gioco. “Le società che sono
arrivate a un tale livello di diseguaglianza economica non sono mai riuscite a
evitare il fascismo”, avverte
Rushkoff, “tantomeno
una civiltà che ha massacrato il suo ambiente è mai stata in grado di sfuggire
al collasso”. C’è poi un altro
problema irrisolto e di lungo corso con i super-ricchi, reso palese oltre un
secolo fa da Thorstein Veblen nella sua celeberrima “teoria della classe
agiata”: all’origine di ogni forma di proprietà e
concentrazione di capitale pulsa l’istinto a emulare la ricchezza altrui, e
sono perciò i ricchi a dettare mode, costumi e gusti, influenzando le
aspirazioni dei più e plasmando la percezione di ciò che è ritenuto normale,
irrinunciabile o auspicabile possedere. Una simile spinta agonistica all’emulazione
dei ricchi e al loro reciproco superamento può innescare una deriva pericolosa:
tutti pretendono di avere sempre più privilegi, anche il ricco che rifugge
dalla massa di emuli con consumi ancora più ostentativi, lusso sfrenato, turismo
estremo, o quello che lo stesso Veblen chiamava “ozio vistoso”.
La rincorsa non può mai avere fine proprio perché i ricchi spostano l’asticella
dell’emulazione sempre più in alto, contribuendo più di ogni altro fattore alla
costruzione sociale dei desideri delle classi subalterne. Oltre a impedire
l’attuazione di piani equi per la mitigazione e a provocare il consumismo
emulativo delle masse, i miliardari promuovono una visione dell’adattamento che
dipinge l’umanità come già spacciata. C’è un filo conduttore che lega il ritiro
in bunker anti-apocalittici alla fuga nel metaverso e alla colonizzazione
spaziale fomentate dai survivalisti miliardari, vale a dire la certezza fallace
che anche nelle peggiori circostanze planetarie sarà in ogni caso possibile
ricorrere a un’exit strategy per salvarsi la pelle e gli affari. Si
prenda l’esplorazione spaziale: come ribadito dall’astrofisica Erika Nesvold,
autrice di Off-Earth (2023) e curatrice di Reclaimed
Space (2023), sono le fantasie escapiste dei super-ricchi ad alimentare
oggi il mito della frontiera spaziale, tra nuovi pianeti da occupare, miniere
lunari da fondare e hotel di lusso da mandare in orbita. A eccitare questa
nuova ondata di avventurieri dello spazio è l’impressione che il cosmo
abitabile sia potenzialmente sterminato, svincolato dalla finitudine di un
pianeta Terra ormai esausto. E tuttavia l’immaginario eufemistico che
propugnano aziende come SpaceX e Blue Origin dimentica colpevolmente di
menzionare l’inquinamento da space junk, le emissioni insostenibili
e deprecabili dell’industria spaziale, l’assoluta vulnerabilità della vita
orbitale. Più esploriamo lo spazio più ci rendiamo conto di quanto ci rimanga
precluso: la fuga spaziale non è possibile, anche se i miliardari continuano a
fingere che lo sia. C’è poi un altro aspetto curioso nella fuga verso altri
pianeti perorata dai survivalisti danarosi: lo stesso Rushkoff fa notare che ai
tempi della Guerra Fredda le missioni spaziali erano sì intrise di
insopportabile nazionalismo statunitense o sovietico, ma erano vissute anche
come un’entusiasmante impresa collettiva. Ora non è più così: la corsa allo
spazio è un business per tycoon, una dimostrazione di supremazia
tecnologica e potere finanziario tra i giganti del tech. Altro che grande passo
per l’umanità, il successo delle spaceflight companies segna la
resa finale all’ultraliberismo: secondo Rushkoff “è la prova che viviamo in un mondo dove una persona
può guadagnare abbastanza da dare vita a un programma spaziale e mettere in
atto con successo la strategia di fuga definitiva”. È una visione aberrante in cui il progresso della
civiltà culminerebbe quando, assoggettata la natura terrestre per mezzo della
tecnologia, un pugno di ultraricchi si distaccherà dal resto dell’umanità per
creare nuovi ambienti entro cui continuare a crescere. Frattanto all’élite
tecnocratica del pianeta toccherà trincerarsi in bunker pattugliati e isolarsi
quanto più possibile dai dannati della Terra. A giudizio di Rushkoff ciò che
impensierisce di più i prepper miliardari è proprio quella
folla: La folla di Washington, la folla
che ha eletto Trump e la folla che devasterà i loro rifugi. I ricconi che oggi
salgono sul carro della tecnologia dal volto umano non si preoccupano tanto
dell’impatto delle loro piattaforme sulle persone, quanto dell’impatto
potenziale delle persone sulla loro sicurezza e sui loro privilegi. Temono che
si rendano conto di quel che è successo finora. La fobia per i
futuri migranti climatici riflette quella speculare per i migranti di oggi:
ecco perché Peter Thiel, epitome dei survivalisti più spietati, oltre ad
allestire il suo personalissimo bunker in Nuova Zelanda, finanzia l’attività di
gruppi alt-right contro l’immigrazione clandestina negli Stati
Uniti. Allo stesso modo, i miliardari non temono l’intelligenza
artificiale in sé, che loro stessi contribuiscono a sviluppare, ma le masse di
esclusi che potrebbe generare e bisognerà tenere a bada in un modo o
nell’altro. Il “capitalismo della paranoia” dei rifugi anti-apocalittici risponde così a un
bisogno molto specifico dei survivalisti facoltosi, ossia evitare il dilemma
morale dell’empatia, di decidere se aiutare o meno chi è in difficoltà. Quello
dei bunker “è un business volto a fare in modo che quando si chiuderanno le
porte non ci saranno molti bambini affamati a bussare”, sostiene Rushkoff: un
modo per non affrontare le conseguenze etiche del proprio egoismo, placare il
proprio senso di vergogna e tenere alla larga l’altrui istinto di vendetta. Per
i prepper miliardari la dimensione materiale del survivalismo
è scontata e banale, ben più complicato è trovare invece delle argomentazioni
credibili per darsi uno straccio di giustificazione morale: cosa legittima gli
ultraricchi a fuggire dalla realtà? Che diritto hanno di lasciare indietro
tutti gli altri? Il Mindset dei survivalisti danarosi è rovinosamente imbevuto
dei precetti della genetica delle popolazioni e del liberismo di mercato, due
scienze che combinate assieme hanno dominato la modernità e condotto l’umanità
alle porte del collasso dando forma al darwinismo sociale più feroce. In natura
e in società a sopravvivere e riprodursi sarebbe l’individuo più egoista,
competitivo, senza scrupoli, pervicace nel massimizzare i propri interessi
personali a discapito degli altri. Forti di questa convinzione ipocrita e
sbagliata, i miliardari sono certi di essere tali per proprio merito e
promuovono un malcelato disprezzo per le masse di sconfitti che si lasciano
alle spalle. Eppure, sempre secondo Oxfam, la maggior parte delle entrate
dai super-ricchi non deriva da talenti personali, prestazioni lavorative
retribuite o innegabili capacità manageriali, ma dal rendimento per il possesso
di asset che globalmente viene tassato in media al 18%, poco più della metà
dell’aliquota massima applicata in molte nazioni ai salari dei lavoratori
dipendenti. Storicamente la pressione fiscale è cresciuta ovunque nel mondo,
per tutti, ma in proporzione molto meno per i più ricchi – complice la teoria
economica del trickle-down secondo cui tagliando le tasse alle
classi privilegiate queste acquisterebbero più servizi dalle classi subalterne,
favorendo così l’occupazione e il “gocciolamento” della ricchezza verso il
basso della piramide sociale. Ciò che gli indicatori delle disuguaglianze ci
dicono è che al contrario il gocciolamento avviene verso l’alto, solo a
beneficio dei più ricchi: più che di trickle-down, si potrebbe
parlare di soaking-up, di “assorbimento” della ricchezza da parte
di una sparuta plutocrazia di happy few. Nulla di nuovo sotto il
sole: è ciò che le teorie critiche del capitale contestano da sempre. Marx
stesso parlava di “accumulazione originaria” per identificare quel momento
preciso, assieme arcano e criminale, in cui una concentrazione critica di
proprietà dei mezzi di produzione matura al punto da rendere possibile
l’instaurarsi del modo di produzione capitalistico. Le nazioni che precorsero
il capitalismo moderno – Paesi Bassi, Gran Bretagna, Stati Uniti – non
divennero ricche perché i loro imprenditori erano più intelligenti o lavoravano
più sodo, ma perché estorsero plusvalore dai proletari e accumularono risorse
da altre nazioni, a cominciare dai combustibili fossili, senza i quali il
capitalismo industriale non sarebbe mai stato possibile. Analogamente, i
miliardari della Terra hanno avuto strada spianata nell’accumulare capitali
così vasti che sembra oggi impossibile scalfire il loro potere, con cui
pretendono di mettersi al comando di un’umanità minacciata dal collasso
ambientale. Come provare a fermarli? Dalla COP27 per il clima dell’anno scorso
si parla sempre più spesso di sistemi di riparazione loss and damage per
indennizzare, almeno in parte, le perdite irreversibili del riscaldamento
globale, ma soprattutto per rimediare al peccato originale dell’accumulazione
originaria delle corporation dell’industria fossile e di altri settori
inquinanti. C’è chi stima che le ventuno maggiori aziende del fossile
dovrebbero decurtare dai propri profitti oltre 200 miliardi di dollari l’anno
per compensare i danni causati da emissioni e cambiamenti climatici alle
popolazioni più vulnerabili. Secondo un altro studio, da qui al 2050 i
Paesi che hanno approfittato maggiormente del capitalismo fossile sarebbero
tenuti a versare alle nazioni meno inquinanti circa 170 trilioni di dollari per
riequilibrare le sperequazioni nell’appropriazione del carbon budget
planetario. Anche Nicholas Stern, autore del celebre report sui cambiamenti
climatici, ha calcolato assieme ad altri economisti che ai Paesi meno
attrezzati servirebbero due trilioni l’anno per rendere sostenibile il proprio
sviluppo. Perché non cominciare con una super-tassa ai super-patrimoni? In una
lettera inviata ai leader del Nord del mondo, oltre centocinquanta economisti
tra i quali Yanis Varoufakis e Jason Hickel hanno chiesto di
introdurre un’imposta del 2% sui capitali dei super-ricchi, sufficiente a
raccogliere oltre 2,5 miliardi di dollari con cui iniziare a finanziare un
fondo di loss and damage a sostegno dei paesi più esposti ai
cambiamenti climatici. Si stima che in Regno Unito una tassa del 0,5%
ai patrimoni superiori al milione di sterline sarebbe sufficiente a coprire la
quota dovuta al fondo dall’intera nazione. L’idea di base della giustizia
climatica riparativa è che l’atmosfera sia un common, un bene
comune che ad oggi è stato utilizzato in maniera iniqua e colonizzato a
vantaggio di pochi. Ritardisti climatici, economisti iperliberisti e politici
conservatori si oppongono ai meccanismi internazionali di ristoro che prevedano
una tassazione aggressiva dei super-patrimoni, soprattutto negli Stati
Uniti, ma come sarebbe altrimenti possibile sostenere i programmi di
mitigazione e adattamento nei Paesi meno attrezzati? Come togliere il kerosene
dalle stazioni di rifornimento di Lagos ed evitare che una marea di migranti
climatici si sparga in giro per il mondo? È la realpolitik più auto-interessata
e crudelmente competitiva a imporre di pensare globale, a preoccuparsi per il
carburante che il più sperduto abitante di Hanoi versa nel serbatoio del suo catorcio,
radiato da chissà quale Paese europeo ormai avviato alla transizione. Ci
vogliono coraggio politico e coordinazione internazionale per fare in modo che
i super-ricchi si facciano carico della responsabilità storica delle emissioni
e dell’obbligo morale della mitigazione: sarebbe la dimostrazione che le leggi
non valgono solo per chi è povero e debole, con un ritorno enorme in termini di
consenso popolare. Poi c’è la sfida da far tremare i polsi di rendere eque e
giuste le politiche per l’adattamento: “i nostri scopi non devono essere quelli del Mindset”, ammonisce Rushkoff al termine del suo libro, “non dobbiamo mirare
a traguardi individuali, a vittorie tangibili, a fughe col malloppo, ma
dobbiamo cercare invece un progresso incrementale verso una forma collettiva di
coesione”. Non possiamo riparare,
non esiste alcun luogo abbastanza al sicuro in cui nascondersi, e la fuga
altrove non è un’opzione. I super-ricchi sperano ancora che una trovata
risolutoria dell’ultima ora possa garantire loro un altro secolo di progresso
senza subire le conseguenze delle proprie azioni, ma sono ormai consapevoli che
i loro affari e il loro stile di vita hanno gli anni contati. “Sanno che gli
edifici che hanno costruito saranno spazzati via dall’oceano”, chiosa Rushkoff laconico. La strada dell’escapismo è già finita.
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