venerdì 15 settembre 2023

Il "Saggio" del mese - Settembre 2023

 

Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2023

Completiamo con quest’ultima sintesi il nostro viaggio nei molteplici spunti di riflessione contenuti nella raccolta di saggi

dell’ormai a noi familiare David Graeber

(David Graeber, 1961-2020 antropologo e saggista statunitense)

In questo saggio Graeber affronta dal punto di vista dell’antropologia (uno sguardo universale sull’uomo, sulla sua storia, sulla sua cultura che sempre di più ci pare in grado di cogliere aspetti che sfuggono alle altre discipline umanistiche) un tema, da sempre presente nella storia dell’umanità, che assume una rilevanza particolare in questa fase che impone svolte radicali in campo economico, sociale, culturale e politico, da Graeber riassunto nel concetto di “creatività sociale” ….. con creatività sociale intendo la creazione di nuove forme sociali e organizzazioni istituzionali …. E sua esplicita convinzione che ogni evoluzione sociale umana sia sicuramente sollecitata da fattori di ordine vario che impongono, con tempistiche più o meno accelerate, modifiche nelle strutture delle relazioni e delle istituzioni che le formalizzano. Ma, al tempo stesso, questi cambiamenti, spesso in forma inconsapevole, sono a loro volta in grado di influenzare i fattori che li stanno determinando … gli esseri umani creano nuove forme sociali allo scopo di promuovere specifici obiettivi, ma in effetti questi stessi obiettivi emergono proprio grazie alle istituzioni che creano ….. Consiste esattamente in questa duplice influenza il ruolo della creatività sociale che richiede, di conseguenza di essere analizzata, in quanto tale, nelle sue forme, nelle sue articolazioni, nei suoi modelli preesistenti e contemporanei. Graeber per meglio illustrare questa sua convinzione cita un esempio esemplare di creatività “sociale (e politica)”: il concetto di “rivoluzione” elaborato da Karl Marx basato sulla sua idea che, nella fase moderna della civiltà occidentale, siano rintracciabili due paradigmi di creatività sociale: la produzione “capitalistica” di merci e la collegata rivoluzione “borghese”. Questi due episodi, ormai giunti al loro pieno compimento, hanno prodotto benefici cambiamenti e collegate contraddizioni, ingiustizie, conseguenze ambientali e climatiche, tali da richiedere un nuovo cambiamento che necessariamente avra' forma di una rivoluzione (intesa nella sua accezione più pura di svolta radicale) la quale, ed in questo passaggio consiste il valore esemplificato che Graeber trova interessante, ….. può avvenire solo coniugando capacità critica e creativa nella dimensione, che le unifica, di una immaginazione riflessiva” …..

Marx cita l’esempio dell’architetto che, a differenza dell’ape, costruisce un edificio nella sua immaginazione prima che nella realtà. Ma se la capacità rivoluzionaria emerge dall’esercizio critico dell’esistente, il rivoluzionario non può agire come l’architetto, non è infatti suo compito ideare dei modelli di una società futura per poi realizzarli (Marx definisce questo atteggiamento sterile “utopismo”), ma deve creare le condizioni per un movimento reale di cambiamento autonomamente capace di individuarli e realizzarli proprio grazie all’esercizio della “creatività sociale”

Questa idea marxiana di “immaginazione riflessiva”, ben presto soffocata dall’eccesso di dogmatismo teorico dei suoi inadeguati eredi, è stata poi ripresa, e posta al centro della sua elaborazione filosofica, da Castoriadis (Cornelius Castoriadis, 1922-1997, filosofo, sociologo, economista, psicanalista greco naturalizzato francese) il quale, convinto di questa involuzione del marxismo post-Marx, riteneva che ….. le società si auto-istituiscono, ma sono cieche della loro stessa creatività, una società veramente rivoluzionaria è una società che si auto-istituisce, ma esplicitamente … Graeber, da antropologo, si interroga in questo suo saggio, su quale contributo possa venire dalla antropologia per tentare di sanare questa insufficiente comprensione e valorizzazione della “creatività sociale”, e lo fa chiamando in causa un concetto all’apparenza lontanissimo dal tema: quello del ”feticismo”.

Perché il “feticismo”?

Feticismo è senza dubbio un termine che può generare equivoci in quanto declinato in accezioni molto diverse. Nato per indicare usanze strane, primitive, persino scandalose per l’etica occidentale (come si avrà modo di esaminare) ha poi assunto un più marcato significato di natura psicologica-sessuale dopo l’uso che, in questo senso, ne ha fatto Sigmund Freud (nella psicanalisi freudiana è riferito ad oggetti che attraverso processi di simbolizzazione assumono significato sessuale per rappresentare, accentuandole, difficoltà insuperate di relazione). Graeber, prima di entrare nel merito del suo utilizzo in ambito antropologico, ne recupera piuttosto la versione provocatoria usata da Marx per definire il fenomeno tipico del capitalismo in base al quale le merci non rappresentano semplici oggetti fisici definiti dal loro vero valore d’uso, ma divenendo per l’appunto autentici feticci giungono a celare i rapporti sociali ed economici in esse contenuti estremizzando, e alterando, lo stesso loro reale valore di scambio. E’ questa d’altronde la visione prevalente nella antropologia moderna che, seppure con accentuazioni diverse, si è concentrata sulle ragioni che possono spiegare la trasformazione di semplici oggetti materiali in oggetti di desiderio tali da assumere un valore eccessivo e inappropriato. Graeber è particolarmente interessato (proprio per coglierne la capacità di offrire spunti di riflessione sulla creatività sociale) a sviluppare la tesi, inizialmente formulata da Pietz (William Pietz, 1951, storico  e antropologo statunitense) che nella cultura occidentale l’idea di feticcio, e quindi di feticismo, sia il prodotto dell’incontro, con reciproche influenze, tra due tradizioni, quella europea e quella africana, avvenuto nel corso del 1500 in coincidenza con l’esplosione globale della fase mercantile. Furono in effetti dei navigatori e mercanti europei i primi ad usare tali termini per definire la diversità di calcolo del valore commerciale dei prodotti scambiati con le popolazioni africane con le quali entravano in contatto, a fini meramente speculativi, in quel secolo. Stupiva soprattutto il valore attribuito, peraltro dopo attenta e non improvvisata valutazione, a merci di ben scarso valore secondo i parametri europei, e colpiva il fatto che questi oggetti venissero trattati come cose vive, dotate di personalità e poteri, tali da meritare un nome e da essere spesso persino adorati. Non furono certo questi navigatori e mercanti, ma nei secoli successivi i primi seri studiosi delle culture “primitive”, a presupporre le possibili spiegazioni per comportamenti così bizzarri che Pietz ha riassunto nei termini di una …. congiuntura casuale tra un desiderio, un proposito, ed un oggetto balzato all’attenzione del desiderante che da lì in poi lo adotta però  come amuleto che gli consentirà di realizzare tale desiderio ovvero di portare a buon fine il proposito …. Un concetto ovviamente troppo raffinato e approfondito per appartenere a uomini interessati unicamente a realizzare i massimi di profitti commerciali (non di rado truffaldini) e che, convinti della presunta superiorità della propria cultura europea, descrivevano tali pratiche in termini di scherno e di disprezzo, Peraltro gli stessi termini usati, ed è qui che si innesta un primo spunto di rilevante interesse per le finalità di questo saggio, per raccontare le forme africane di governo e di potere descritte come caotiche, improvvisate, incomprensibili, prive di una qualsiasi apparente sistematicità. Anche se ammettevano che tali leggi e norme, fissate con procedure quantomeno originali, venivano da tutti rispettate con uno zelo volontario sconosciuto in Europa. E a maggior ragione sfuggiva del tutto ai quei primi interessati osservatori di culture diverse che i meccanismi di attribuzione del valore ad oggetti, così come le giustificazioni delle forme di potere e di governo, potessero essere, a ben vedere, molto più vicine dell’immaginato a corrispondenti concezioni della cultura europea. Lo erano perché da una parte l’attribuzione del valore alle merci, agli oggetti, sempre dipende da una valutazione soggettiva, che travalica ogni oggettivo valore intrinseco, basata su criteri culturali e valoriali specifici di ogni civiltà, e perché dall’altra, seppure con istituzioni rese altrettanto diverse dai rispettivi contesti storici, la finalità ultima del potere, in Europa come in Africa, è sempre stata sostanzialmente finalizzata a tenere sotto controllo la “guerra di tutti contro tutti(che le relazioni sociali concorrenziali sempre e comunque provocano) che Hobbes (1588-1679 filosofo politico inglese fondatore del contrattualismo moderno e teorico dello Stato assoluto) ha non a caso posto alla base della sovranità e del moderno Stato europeo.

E’ curioso il fatto che Hobbes abbia contribuito in modo determinante alla ridefinizione dei concetti di potere, di sovrano, di Stato, di contratto sociale, proprio a metà del 1600 (“Il Leviatano” viene pubblicato nel 1651), ossia negli stessi anni in cui i racconti di navigatori e mercanti parlavano di sistemi di relazioni sociali delle popolazioni africane non molto dissimili da quelli da lui delineati. Va però precisato che Hobbes nulla sapeva di tali situazioni

In questo quadro di sostanziale omogeneità di fondo di due culture non così contrapposte sembra comunque a prima vista emergere una rilevante diversità che richiama in causa il significato di fondo dei feticci e del feticismo: mentre in tutte le teorie politiche, quella di Hobbes compresa, che hanno ispirato la nascita dello Stato moderno la giustificazione del ruolo del potere risiede ancora e sempre nella volontà divina, e quindi in un valore che trascende l’ordinario umano, nelle pratiche delle popolazioni africane tale giustificazione viene affidata proprio al ruolo dei feticci di volta in volta individuati. Questa diversità bene spiega l’evidente maggiore strutturazione sistemica del potere in Europa e al contempo l’innegabile apparente improvvisazione delle forme di potere in Africa, meglio comprensibile proprio se si tiene nella giusta considerazione la natura mutevole dei feticci. Ma anche per questo aspetto Graeber invita ad andare oltre l’apparenza e a cogliere, ancora una volta, una sostanziale convergenza. Si può infatti sostenere che, a ben vedere, questa diversità comunque evidenzia la comune convinzione che la pace sociale, il valore universale a cui si tende regolando gli inevitabili contrasti e finalizzando ad esso le varie forme del potere, sia una “questione di accordi” il cui rispetto è affidato al condiviso riconoscimento di un potere superiore, di natura sovrannaturale, al quale non è lecito sfuggire

Graeber inserisce a supporto di queste considerazioni numerosi significativi esempi ricavati nel corso delle sue osservazioni da antropologo sul campo. Per lunghi anni ha infatti studiato le modalità con cui popolazioni africane, nord e sudamericane, gestivano i loro rapporti sociali e comunitari ed il collegato ruolo dei rispettivi feticci. Sono annotazioni molto particolareggiate che qui non sono riportabili nel loro dettaglio per non deviare questa sintesi dall’aspetto del saggio qui ritenuto il più interessante

Nel giro ampio delle suggestioni antropologiche che Graeber passa in rassegna per cogliere il ruolo del feticismo come reale pratica di creatività sociale emerge un altro aspetto, sempre collegato alle ragioni di fondo giustificative del potere, che assume una significativa importanza: le forme con le quali il potere si manifesta e si rende evidente e riconosciuto. Ricompare qui un concetto ampiamente studiato da Graber (e in questo blog sintetizzato nella Parola del mese di Agosto scorso)la gerarchia. L’aver istituito una stretta relazione tra potere e sistema dei feticci implica (elemento che emerge in tutte le popolazioni studiate da Graeber) che la figura a cui viene consegnata l’autorità di regolazione dei rapporti sociali comunitari, essendo totalmente giustificata, e rafforzata, dal rapporto con un determinato feticcio, non richiede, a differenza di quanto emerge nella cultura europea, di altre manifestazioni di riconoscimento del ruolo. A maggior ragione quindi questo indissolubile legame tra potere e feticcio, con quest’ultimo che è per natura mutevole variando di volta in volta, diventa di fatto un meccanismo che rende l’intero sistema gerarchico soggetto a continui mutamenti. Secondo Graeber diventa quindi possibile ricavare dall’insieme delle considerazioni sin qui svolte (solo apparentemente lontane dal tema della creatività sociale) alcuni elementi analitici:

*   in tutte le varie forme storiche assunte dal sistema del potere questo sembra trovare la sua giustificazione ultima in un principio strutturale costituito da qualcosa esterno ad esso, di norma con carattere trascendentale (per quanto sin qui esaminato) che può consistere nella volontà divina alla base degli Stati europei nati nella modernità piuttosto che nel sistema dei vari feticci africani (e di altre popolazioni e civiltà)

*   la dinamica evolutiva del potere è universalmente determinata, fermo restando quanto sopra, dal relativo specifico sistema di relazioni sociali ed economiche (in primis commerciali) che di norma si forma, universalmente,  in una ampia gamma di soluzioni che si collocano all’interno di due opposti poli: la “guerra totale(quella di tutti contro tutti) ad un estremo e all’altro “la reciprocità totale(di fatto il comunismo)

restando nel campo degli studi antropologici quest’ultimo aspetto emerge soprattutto nel lavoro di Marcel Mauss (1872-1950, antropologo, sociologo, storico delle religioni, francese. I suoi studi si sono concentrati soprattutto sulla magia, sul sacrificio e sullo scambio del dono)

Con riferimento a questi due elementi di validità universale, ed eterna, Graebre riprende il tema inizialmente posto della creatività sociale tornando e all’idea marxiana del “feticismo delle merci” di Marx, per meglio capire come oggi essa possa essere declinata nel sistema di relazioni sociali ed economiche basato sul “mercato capitalistico”. Marx aveva elaborato questo suo concetto riflettendo, su basi economiche e sociali, su aspetti esasperati, ma caratterizzanti, della produzione e del consumo capitalistici per poi confermarlo, e rafforzarlo, nell’ultima parte della sua attività analitica nella quale aveva iniziato ad addentrarsi in studi antropologici. Queste sue intuizioni e questa definizione hanno poi trovato una certa rispondenza nelle osservazioni antropologiche sul campo qui sinteticamente riportate, dalle quali emerge, in ultima analisi, un dato di fondo: la relazione con il feticcio, e con il suo rapporto fondativo del potere, è solo all’apparenza inconsapevole, al di là della ritualità che sancisce il nuovo ordine sociale, come si è visto garantito proprio dall’adozione di un nuovo feticcio, quest’ultimo una volta scelto vive di vita propria e viene visto, e vissuto, come dotato di un potere proprio. La sequenza di fondo – le persone creano una cosa e poi agiscono come se quella cosa avesse potere su di loro, è proprio il tipo di sequenza a cui pensa Marx quando parla di feticismo (delle merci). E’ questo un passaggio importante per meglio cogliere il rapporto tra feticismo e creatività sociale che ha mosso il percorso di questo saggio. Il punto cruciale infatti non consiste tanto nel fatto che gli oggetti elevati a rango di feticci siano già di per sé stessi il frutto di una forma di creatività sociale, e che quindi possano esistere solo in uno “spazio di rivoluzione(la forma più alta di creatività sociale), ma piuttosto nel fatto che essi siano di per sé stessi “oggetti rivoluzionari”. Nella fattispecie delle popolazioni africane (e delle altre civiltà) il feticcio (termine che a questo punto della sua analisi Graeber giudica però tecnicamente inadeguato) è sostanzialmente un “dio in costruzione”, vale a dire che la forma più alta di giustificazione del potere, presente come si è visto con identica funzione nella stessa cultura europea, è a tutti gli effetti una “costruzione creativa umana”. E pertanto il ….. feticismo diventa allora il terreno in cui cominciamo a vedere quegli oggetti che abbiamo creato o di cui ci siamo appropriati per nostri scopi come dei poteri imposti da noi su di noi proprio nel momento in cui cominciano ad incarnare un vincolo sociale appena creato …..

Graeber anche in questo passaggio riporta a sostegno alcune significative testimonianze raccolte nel corso del suo decennale lavoro antropologico

Ciò vale per lo stesso Marx, che pure ha inserito il concetto di feticismo delle merci in quello ben più ampio di “alienazione”, convinto com'era che la società sia il frutto di un’azione collettiva, alla quale ognuno contribuisce per quanto gli è possibile e consentito, che sempre più si è storicamente fatta complessa fino a rendere problematico il suo controllo ….. di conseguenza siamo pressochè costretti a sovraccaricare le nostre azioni e creazioni di una sorta di potere alieno, quando ciò avviene con oggetti materiali si parla di feticismo delle merci, e quindi come i feticistici africani creiamo delle cose e poi cominciamo a trattarle come divinità. Non a caso quindi, a suo avviso, i consumatori giungono a vedere il valore delle merci come una proprietà insita nella merce stessa dimenticando che esso altro non è che il valore del lavoro che contiene. Da qui in poi rischia di divenire inevitabile il considerare le “leggi di mercato”, piuttosto che le caratteristiche fondative di qualsiasi sistema sociale, come immutabili, al di fuori di ogni possibile nuova azione di creatività sociale perché protette da un di più che sfugge al controllo umano. Va però detto, secondo Graeber, che Marx stesso non porta alle loro più piene conseguenze queste constatazioni: per quanto convinto che la produzione di beni materiali sia sempre e comunque una produzione di relazioni personali e di rapporti sociali, e quindi un costante processo creativo in continua trasformazione, riduce però la creatività sociale alla sola azione politica per la conquista del potere comprimendo in questo modo la stessa idea di rivoluzione. E’ cioè un errore affrontare il sistema nel suo insieme sottovalutando le specificità di tutte le sue componenti ritenendo così rivoluzionaria la sola complessiva creatività generale. A ben vedere Marx smentisce sé stesso per la semplice ragione che restringere il momento rivoluzionario ad una completa svolta sistemica altro non è che ripetere lo stesso errore dell’architetto, di cui sopra, da lui stesso criticato nella sua iniziale fase più filosofica. La lezione antropologica che viene dal feticismo delle popolazioni africane si muove esattamente nella direzione opposta ed offre una visione alternativa di creatività sociale. Il costante mutamento del feticcio di riferimento era la base, altrettanto costante, per creare qualcosa di nuovo, nuovi gruppi, nuovi rapporti sociali, nuove comunità. In questo processo creativo tutti erano quindi in qualche modo coinvolti e, conseguentemente, anche la totalità da esso creata assumeva una sua maggiore validità proprio grazie a questo diffuso coinvolgimento   …… in altre parole erano momenti rivoluzionari, in una prima fase non necessariamente mirati ad una trasformazione totale, e d’altronde nessuna trasformazione è realisticamente davvero totale. Ogni atto di creatività sociale è in qualche misura rivoluzionario, ma nessuno lo è completamente. Queste cose sono sempre questioni di gradazione ….. In un processo come questo diventa più comprensibile che il feticcio, seppure rivestito dell’aura sovrannaturale che lo giustifica e lo sostiene, in fondo altro non è che la consapevolezza del fatto che le nostre azioni e creazioni hanno un potere su di noi, e che quindi rappresentano un elemento importante di cui tenere conto in ogni processo di creatività sociale. Il pericolo semmai arriva quando il feticismo viene totalmente sostituito ed annullato dal sovrannaturale che rappresenta, vale a dire quando gli dei che abbiamo immaginato esistere dietro i feticci diventano reali. Un pericolo che ha oggettivamente, e non a caso, investito soprattutto le costruzioni sociali che, mirando esclusivamente al cambiamento totale, sono state davvero immaginate come l’opera di un architetto.

……. Cosa ci insegna tutto questo? se non altro che, se si prende sul serio l’idea di creatività sociale, si dovrebbero abbandonare le presunte certezze che troppo spesso hanno ispirato processi di cambiamento. I processi di creatività sociale sono, in una certa misura, inconoscibili. Forse è meglio così. E comunque la creatività sociale deve restare il fulcro di una vera teoria sociale, soprattutto in un momento storico in cui gli eredi di quei mercanti e navigatori che deridevano gli africani ed i loro feticci sono riusciti ad imporre la loro bizzarra teologia materialistica al punto che l’unico valore riconosciuto alla vita umana è quello di essere un mezzo per produrre merci feticizzate ….  



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