Cap.
1 = Istanbul incrocio di civiltà
Quanto successo nella scena geopolitica globale negli ultimi due
decenni sta quindi imponendo una maggiore attenzione alle dinamiche interne ed
esterne della Turchia odierna. Per meglio capirle è però premessa recuperare,
anche solo molto sommariamente, che cosa questo paese e soprattutto la sua
capitale storica, Istanbul, ha rappresentato nella storia dell’intero Medio Oriente
e dell’Europa. E’ bene, in primo luogo, tenere in parte distinte queste due
realtà, non sempre infatti, ed ancora oggi sembra essere così, Istanbul e
Turchia sono pienamente coincise nel loro sentire profondo. (Istanbul rappresenta solo il 3% del territorio turco, ma con i
suoi attuali 16 milioni di abitanti, che si presume presto diverranno 20 milioni,
vale circa il 20% dei circa 85 milioni della popolazione turca). Ciò detto resta indiscutibile che è alla città che si affaccia
sul Corno d’Oro che bisogna guardare per capire il passato, il presente, ed il
possibile futuro, di tutta la Turchia
è bene
ricordare che il nome inglese “Turkey”, non a caso formalmente mutato nel 2022
nel nazionale “Tùrkiye”, non è mai
piaciuto in patria. La ragione è che in inglese turkey significa anche
“tacchino” e ciò ha spesso dato spazio a ironiche battute comprensibilmente mal
digerite dai turchi
La ragione consiste soprattutto nel fatto che da sempre è a
Istanbul che si manifesta lo “strabismo turco”, con un occhio che guarda ad
Oriente ed uno volto ad Occidente. E’ qui che poggia l’orgoglioso ritenersi il
ponte di due mondi, è qui che tale orgoglio è spesso evoluto, ed anche ai
nostri giorni sembra essere così, nell’ambizione di possedere una riconosciuta
centralità geopolitica e culturale
L’attuale simbolo fisico di questo vantato status è
rappresentato dal “ponte sul Bosforo”, di notte sempre illuminato di rosso, il
colore della bandiera turca. Erdogan ne ha poi cambiato il nome in “Ponte dei
Martiri del 15 Luglio” in onore dei
caduti nella difesa del suo governo dal tentato golpe del 2016
Istanbul non è sempre stato il nome di questa città che come Roma poggia
su sette colli:
viene fondata
nel 667 a.C. come colonia greca con il nome di Bisanzio,
per essere poi
scelta dall’imperatore Costantino come luogo in cui erigere nel 324 d.C. la
“Nuova Roma”, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente (altrimenti detto Impero
bizantino), non a caso battezzata nel 330 d.C. con il nuovo nome di Costantinopoli, nome che manterrà a lungo fino
alla definitiva caduta di tale Impero nel 1453
l’Impero
Ottomano (1299-1922) la conquista in tale anno e qui sposta dal Cairo la sua
capitale che assume, informalmente, il nome di Istanbul (forse di derivazione dal greco “istin polis” che significa “verso
la Città”
tale nome
però diventa quello ufficiale solamente nel 1930 con la nascita della
Repubblica Turca
Anche questo mutare di nome testimonia l’evoluzione dello
strabismo di cui si è detto, che sembra però arrestarsi con l’avvento della
civiltà ottomana quando il neonato Impero è di fatto, e come tale viene
ritenuto e vissuto, una potenza globale a sé stante. Sono due le
caratteristiche che contraddistinguono questo passaggio e che ancora oggi sono
rintracciabili nella cultura turca:
un forte approccio guerriero, militaresco, del
potere
una indubbia propensione istituzionale che si è
tradotta nella creazione di una struttura statale molto articolata e pervasiva
I mille anni di vita dell’Impero Romano d’Oriente hanno visto una
rispettosa convivenza delle due anime religiose cristiana e mussulmana,
terminata nella seconda metà del 1500 con le frequenti guerre, innescate dalle
ambizioni espansive turche, fra le potenze europee e l’Impero Ottomano. La
battaglia di Lepanto del 1571 ed il fallito assedio di Vienna del 1683 sono le
due date cardine che ne segnano la progressiva decadenza, geopolitica ma anche
culturale, durata per ben duecentocinquant’anni fino al 1922. In questo lungo
arco storico l’orgoglio turco è costretto a mordere il freno a fronte
dell’avanzare del potere economico, prima ancora che militare, dell’Europa
industrializzata. Non a caso la Repubblica Turca nata nel 1923 con a capo il
generale Mustafa
Kemal, detto Atartuk (Padre dei Turchi)
si conforma a questa svolta geopolitica epocale e assume una impronta
decisamente “moderna” (il fatto che
questa svolta sia stata opera di capi militari è l’ulteriore prova delle innate
tendenze militari turche). Nasce così
una struttura istituzionale laicizzata e occidentalizzata con forti innovazioni
in tutti i settori della società e della stessa cultura turca. Ancora oggi,
dopo ottant’anni dalla sua nomina a presidente, Atartuk è oggetto di un vero e
proprio culto, ma ciò non ha impedito che in modo occulto sia tornata a
presentarsi una qualche ritrosia, in buona misura di carattere religioso, verso
quello che viene da alcuni giudicato un eccesso di modernismo. Sono questi i
due tratti storici, forte laicismo repubblicano e insofferenza verso i suoi canoni,
che caratterizzano la Turchia odierna, la linea di frattura fra Istanbul ed il
resto del paese, fra le grandi città e le campagne dell’Anatolia. Ed è in
questa Turchia che nel 2003 viene eletto Primo Ministro l’ex sindaco di
Istanbul Recep
Tayyip Erdogan. L’analisi della Turchia (che
quest’anno celebrerà i cent’anni di vita dell’odierna Repubblica) del XXI secolo non può prescindere da quella del personaggio
politico che, nel bene e nel male, la sta rappresentando da ben tre decenni, la
sua metamorfosi da politico nazionale non poco controverso, e non più tardi
dell’Ottobre 2021 ritenuto dalla stampa internazionale sul viale del tramonto, a
figura centrale dell’attuale contesto geopolitico globale è elemento essenziale
per capire cosa significa oggi il nome Turkiye. E’ indubbio che il ruolo
esercitato dalla Turchia di Erdogan nel contesto globale sconvolto dalla guerra
in Ucraina non può essere considerato solo come il frutto di fortunate
coincidenze perché in effetti rappresenta il suggello di una svolta tanto
contraddittoria quanto, al momento, vincente. Un salto di qualità che arriva
pochi anni dopo l’intesa lucrosa sancita con la UE in clamoroso affanno nella
gestione dei flussi migratori (va
riconosciuto che la Turchia sta gestendo da tempo un flusso di ben cinque
milioni di profughi, un numero che fa impallidire quelli, ben più ridotti, di
tutti i paesi europei). In entrambe
queste vicende Tayyip
bey (il
“signor Tayyip”, così è chiamato in patria, o anche solo “lui”) ha dimostrato di essere scaltro, abilissimo, perché no anche
fortunato, tutte qualità maturate e coltivate, fino a rappresentarle, nelle
pieghe dell’odierna Turchia. Erdogan non nasce né ricco né acculturato, è
infatti originario del quartiere povero di Kasimpasa di Istanbul, a due passi
dai quartieri bene di piazza Taksim e Gezi Park (al
centro delle proteste di piazza del 2013 contro i suoi faraonici, e devastanti,
progetti di sviluppo edilizio) da una famiglia umile e, soprattutto la madre, molto religiosa. Non
deve quindi stupire che il giovane Tayyip a undici anni sia iscritto ad una
scuola mussulmana che forma futuri predicatori, una formazione che, seppure non
protratta a lungo, si rivelerà una sua costante (militerà
a lungo nel movimento islamico radicale “Millì Gorùs (La visione nazionale)” e
verrà persino arrestato in uno dai tanti scontri con le forze militari). Gioca anche bene a calcio (arriva
a sfiorare il professionismo)
ed anche in questo caso, segno premonitore, il suo ruolo in campo è quello di
regista della squadra. Riesce ad iscriversi all’università alla facoltà di
economia, laureandosi con ottimi voti. Gli anni dell’università sono quelli che
vedono nascere la sua passione per la politica, si iscrive convintamente ad un
gruppo studentesco di destra anticomunista, maturando così, accanto a quella
religiosa, la seconda fondamentale componente della sua impronta politica. La
sua crescita politica, e la collegata scalata verso posti di responsabilità, è
molto rapida e lo porta a maturare la convinzione che l’eccesso di estremismo
religioso non ha possibilità di successo, su questa base è tra i fondatori di
un nuovo partito l’AKP (Adalet
Kalkinma Partisi, Partito della giustizia e dello sviluppo) con chiare posizioni di centro, di cui diventa in breve il leader
indiscusso. E’ la mossa vincente, l’AKP guadagna molto velocemente consensi
fino a divenire il primo partito alle elezioni del 2002, grazie all’appoggio
dei ceti popolari, affascinati dalla cauta centralità, e di quelli altolocati,
convinti dal suo deciso appoggio all’economia di mercato e dalle sue inflessibili logiche. Consiste in questa
visione di fatto neoliberista la sua terza caratteristica politica. Sono queste
le basi sulle quali costruisce con sapiente astuzia il suo intero percorso da
leader del paese iniziato nel 2003 (sarà Primo
Ministro fino al 2013, per poi divenire nel 2014 Presidente della Repubblica
con pari poteri). Da subito
usa un pugno duro, molto duro, con i suoi oppositori: ridimensiona il potere
del ceto militare imponendo generali a lui vicini (lo stesso farà successivamente con la sfera giudiziaria) e mette un crescente bavaglio sull’informazione. La sua
leadership è fortemente contestata soprattutto dal mondo giovanile (insofferente verso il suo conservatorismo religioso), dagli abitanti delle grandi città, Istanbul in testa (quelli più
colpiti dalle sua politiche economiche) e dagli intellettuali (che di più si appongono alla sua gestione autoritaria e
liberticida). A questa
importante, anche se divisa, opposizione Erdogan è riuscito sin qui a tenere
testa (ha ancora vinto le elezioni generali
della primavera 2023, quelle più combattute e con esito sino all’ultimo
incerto) grazie all’inossidabile appoggio
della Turchia rurale e più legata all’islamismo. La Turchia di Erdogan in
questi venti anni ha conosciuto una relativa crescita economica (anche se il debito pubblico turco, oltremodo aumentato per le
crescenti spese militari e per le faraoniche opere pubbliche, sta seriamente
rischiando di divenire ingestibile) ed
una controversa collocazione geopolitica, Erdogan è riuscito, alternativamente,
a venire ai ferri corti con tutti i protagonisti della scena politica globale,
dalla UE agli USA, dalla stessa Russia a parte degli Stati Mediorientali,
dall’antica rivale Grecia alla NATO. Le crescenti difficoltà interne, la
diffidenza estera, hanno portato la Turchia ad un picco di pericoloso
isolamento nel 2021, storicamente il punto più basso della gestione di Erdogan.
L’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 ha improvvisamente rappresentato
una svolta del tutto imprevedibile e inaspettata, colta in modo straordinario
proprio dall’abilità tattica e dall’astuzia politica di Erdogan …… a dispetto di
tutto e tutti Tayyip bey è oggi considerato il politico più scaltro sulla scena
politica internazionale …..
Lo testimoniano, in aggiunta al ruolo che la Turchia
ed il suo leader stanno giocando nel conflitto russo-ucraino (sono finora stati
gli unici a raggiungere alcuni. per quanto parziali, accordi, come quello sul
trasporto del grano), vicende come l’estenuante trattativa per l’ingresso turco
nella UE (prospettiva che oggi interessa molto meno la Turchia e che, se mai
avverrà, la vedrà comunque negoziare da posizioni di forza), e quella per
l’accoglimento e la gestione dei flussi migratori dall’Est, e poi ancora il
braccio di ferro con la Nato per l’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza
Atlantica
E’ quindi indubbio che la rilevanza geopolitica della Turchia si
spiega proprio con la sua capacità di cogliere e sfruttare al meglio le
occasioni che quest’epoca di profondi mutamenti può offrire. E’ altrettanto
importante tenere in giusta considerazione, per meglio capire le sue prossime
mosse interne ed esterne, le sue personali caratteristiche politiche qui
velocemente ripercorse che riflettono quelle di gran parte della società turca:
profondo attaccamento ai valori dell’islamismo, un forte legame con una visione
politica decisamente orientata a destra, una totale adesione alle concezioni
neoliberiste del mercato, un’innata propensione dispotica all’esercizio del
potere, una mai celata ambizione a riportare la Turchia, in posizioni di forza,
al centro delle relazioni tra Occidente e Medio Oriente. Tutto ciò acquisito, è pur vero che la società turca è un crogiolo di
tendenze molto marcate e molto differenziate. Un recente avvenimento consente
di meglio leggerle: il devastante terremoto del Febbraio 2023. L’intera
Anatolia è purtroppo considerata zona ad altissimo rischio sismico (non diversamente da San Francisco gli esperti prevedono, con
tempistiche imprevedibili, un futuro terremoto, il Big One, capace di devastare
la Turchia tutta e Istanbul in particolare)
confermato dal devastante terremoto del 1999 (quasi
18.000 vittime) che
distrusse intere cittadine e villaggi per nulla attrezzati per fronteggiare un
simile evento. “Mai
più” si disse allora, e “mai più” fu anche uno degli slogan che
consentì a Erdogan di vincere le elezioni generali del 2003. La sua idea della
“nuova
Turchia” prevedeva infatti anche politiche antisismiche molto rigorose.
Poco più di vent’anni dopo, nel Febbraio 2023, un altro terremoto, tre volte
più potente di quello del 1999 ha fatto spaventosamente tremare Turchia e
Siria, causando circa 50.000 morti, 40.000 dei quali nella sola Turchia. Una
vera tragedia provocata dalla devastante forza della natura, ma anche dalla
fragilità di molte delle nuove costruzioni erette dopo il 1999, in teoria
rispettose delle recenti norme antisismiche. La
rabbia popolare è stata molto forte e da subito si è indirizzata verso i
costruttori responsabili di tali criminali speculazioni e contro politici e
amministratori loro complici (la Turchia è
il paese dei condoni edilizi, ben 25 negli ultimi cinquant’anni, buona parte
dei quali sotto Erdogan). Una rabbia
che è arrivata a sfiorare lo stesso Erdogan tanto da contribuire non poco
all’esito incerto delle elezioni generali del successivo Maggio 2023 (vinte solo al ballottaggio con il 52% dei voti, contro il 48% del
candidato dell’opposizione che, per quanto favorita nei sondaggi precedenti,
non si è presentata sufficientemente compatta al voto. Notevole il fatto che
abbia votato più dell’88% degli elettori).
Il sisma non ha messo solo a nudo inefficienza e malaffari ma ha anche
evidenziato le contraddizioni del sogno della “nuova Turchia”, la più
importante delle quali, pilotata da Erdogan in primis, consiste nell’aver
lasciato, stante la sua neoliberista visione del mercato, spazi enormi ai
profitti privati e con un ribaltamento simil keynesiano, anche grazie ai faraonici investimenti in infrastrutture pubbliche
fra i quali il nuovo ponte sul Bosforo, il nuovo
mega aeroporto di Istanbul, i due tunnel sottomarini sempre nel Bosforo, diverse
linee ferroviarie e autostradali. In aggiunta a tali innovative infrastrutture i
governi di Erdogan hanno attuato politiche urbanistiche quanto mai permissive e
prive di ogni rispetto per l’ambiente. La famosa rivolta di Gezi Park del 2013,
che fece tremare non poco lo stesso Erdogan, è avvenuta proprio per opporsi
allo smantellamento del parco per fare spazio all’ennesima gigantesca opera
pubblica. A questo elenco di esorbitanti voci
di spesa va poi aggiunta quella, davvero considerevole, per spese militari, non
a caso l’esercito turco è considerato fra quelli meglio armati e meglio
equipaggiati
La “nuova Turchia” non è quindi consistita in un ammodernamento
sociale e istituzionale, ma in un unico gigantesco cantiere, con pesanti
conseguenze sui conti statali e sul debito pubblico, relativamente tenuto sotto
controllo grazie ad una politica inflazionistica che sta impoverendo
all’inverosimile il paese (da quattro
anni l’inflazione turca è stabilmente a due cifre, ed ha raggiunto ad agosto
2023 il 58,9% su base annua avendo raggiunto nell’Ottobre 2022 la stratosferica
percentuale dell’85,5%). E’ davvero
sorprendente che in un quadro simile Erdogan sia, seppure a fatica, riuscito ad
essere rieletto, segno evidente di un consenso di natura ideologica, unito al
vanto di un riacquistato prestigio geopolitico, che va ben oltre la gestione
reale del paese. Alla terra che trema e che così fa tremare, ma ancora non
abbastanza, il quadro politico la Turchia di Erdogan cerca di compensare
volgendo lo sguardo verso il mare. L’espansione da grande potenza turca non
avverrà, se mai avverrà, sulla terraferma, troppi sono gli ostacoli, ma
conquistando l’egemonia marittima. Questa strategia, che si innesta in quella
della nuova Turchia”, ha anch’essa un nome che è un programma: “la Patria blu”,
una autentica dottrina militare marittima che mira a rafforzare le difese delle
acque territoriali turche e al tempo stesso a cogliere ogni possibile occasione
per ampliare l’influenza diretta su altre aree. Poco interessa ormai la
vocazione atlantica alla base della Nato alla quale la Turchia aderisce in
posizioni (spesso discordanti) di forza, sono infatti altri i mari a cui guarda “la Patria blu”:
l’intero Mediterraneo centro-orientale, ed in particolare il Mar Egeo, ed il
mar Nero. Questa strategia non implica soltanto l’incremento delle spese per
potenziare la flotta militare, ma anche un progetto a dir poco epocale: il
Kanal Istanbul, un nuovo canale artificiale, parallelo al Bosforo (che verrebbe così decongestionato, attualmente è attraversato da
46.000 navi ogni anno, rispetto alle 19.000 del Canale di Suez, di cui 10.000
sono petroliere) in grado di
consentire il raddoppio del numero di navi che transitano ogni anno dal mar
Nero al mar di Marmara e di ottimizzare il loro collegamento (attraverso lo stretto dei Dardanelli, già sotto controllo turco) con lo stesso Mar Egeo.

La guerra russo (che molti osservatori collegano in buona misura proprio al controllo
del Mar Nero) sta infatti
confermando la centralità strategica di questo mare. Il Kanal Istanbul è
un’opera dai costi stratosferici e di devastante impatto ambientale (si tratta di un canale artificiale lungo 45 km, largo centinaia
di metri, e dotato di adeguate infrastrutture portuali), il cui progetto è fortemente ostacolato da un fronte ampio di
oppositori interni e guardato con preoccupazione da Grecia e Russia, ma
Erdogan, anche grazie al decisivo appoggio finanziario del Qatar, non intende
retrocedere. L’ambizione strategica della “Patria blu” non è ovviamente
sostenuta solo da motivazioni militari, il controllo e la gestione dei flussi
di grano e petrolio non sono meno decisivi, così come l’estrazione ed il trasporto
di gas, spiegano la volontà di aumentare l’influenza turca sul mare
Mediterraneo centro-orientale e la scelta di Erdogan di intervenire in prima
persona nella complicata situazione libica
Nel 2019 Turchia e Libia hanno firmato un Memorandum
d’intesa che prevede, in cambio del supporto militare turco al governo di
Tripoli, la possibilità per la Turchia di avanzare rivendicazioni su importanti
fette di mare nell’area dell’isola di Cipro e di esercitare così un controllo
diretto sui corridoi chiave di approvvigionamento energetico verso la UE. Bene
si spiega quindi il forte disaccordo della Grecia, ma anche della stessa UE. E’
inoltre bene evidenziare che l’interesse turco per la Libia è propedeutico ad
ambizioni molto più grandi che investono buona parte dell’Africa nord-orientale.
Una strategia che spiega le notevoli frizioni ormai in corso fra Turchia e
Arabia Saudita ed Emirati Arabi (con il Qatar, come si è detto, molto vicino
alla Turchia
Si è quindi di fronte a visioni strategiche di ampio respiro che,
per quanto si è sin qui potuto constatare, giustificano l’ipotesi, avanzata da
molti commentatori, di un ritorno di fiamma delle storiche ambizioni
turco-ottomane ad essere non solo un fondamentale crocevia nel quadro
geopolitico Occidente/Medio Oriente, ma persino una potenza in grado di
esercitare “in loco” un controllo politico ed economico su vaste aree a ridosso
del Mediterraneo orientale. E’ però altrettanto evidente che un granello di
sabbia, ormai da tempo, rischia di compromettere i meccanismi di questo
processo: la Turchia di Erdogan deve cioè risolvere una volta per tutte la questione curda
(del peso di questo “granello di sabbia” sono recenti testimoni le
stesse complicate trattative con la Nato per l’ingresso di Finlandia e Svezia,
paesi che tradizionalmente sostengono la resistenza curda e che ospitano molti
suoi esuli). Non esiste
un censimento esatto del popolo curdo che, vittima dell’assurda divisione del
Medio oriente in Stati fittizi attuata dalle potenze europee e dagli Stati
Uniti, all’indomani della 1° Guerra Mondiale e della fine dell’Impero Ottomano,
vive a cavallo di più Stati mediorientali e soprattutto nella Turchia (secondo alcune stime i curdi oscillano tra i 35 e i 45 milioni
compresi i numerosi loro esuli in diversi paesi europei, in particolare in
Germania e nel Nord Europa) a formare un’area etnica,
non istituzionalizzata in Stato autonomo, denominata “Kurdistan” (il paese dei Curdi)

La legittima ispirazione del popolo curdo di creare un proprio
Stato si è da sempre scontrata con le pretese territoriali di Iran, Iraq,
Siria, e soprattutto Turchia. Sono ormai quarant’anni che tra il movimento di
liberazione curdo (che in Turchia è formalmente
rappresentato dal PKK “Partito dei
Lavoratori del Kurdistan) e la Turchia è in corso una guerra
(tecnicamente definita “di bassa intensità”) che fra attentati e repressioni ha provocato non poche
vittime senza portare ad alcun concreto risultato. Il conflitto si è semmai
allargato e, coerentemente con la speranza turca di chiudere con le armi la
questione coniugata con le ambizioni di espansione di cui si è detto, ha così
visto nel 2019 l’esercito turco occupare in pianta stabile la regione siriana
del Rojava (già al centro della
guerra civile siriana che, iniziata nel 2011, ancora non sembra conoscere fine) con costanti ampliamenti
In Rojava oggi vivono quattro milioni e mezzo di persone. Il 60%, la maggioranza, è di etnia curda, seguiti
da arabi sunniti (popolazione che ha quasi raggiunto, nel numero, quella
curda). Sono presenti anche minoranze cristiane, circa 55 mila persone di
diverse confessioni
L’inconciliabilità delle opposte prospettive
curde e turche è accentuata dalle caratteristiche della cultura e della società
curde che, per molti versi all’opposto di quelle turche, sono caratterizzate da
idee democratiche, multietniche, laiche, all’avanguardia per il ruolo delle
donne (in prima linea anche nel
conflitto armato) e dichiaratamente
ambientaliste. L’ urgenza turca e di Erdogan di eliminare il prima ed il meglio
possibile questa spina nel fianco spiega anche l’ambiguo atteggiamento della
Turchia verso il Califfato fondamentalista dell’Isis lasciato libero, se non
incoraggiato ed aiutato, nel tentativo di annientare la presenza curda
E’ giudizio di molti osservatori che proprio la
resistenza curda, simbolicamente rappresentata dall’eroica difesa della città
di Kobanè (oggi assediata dalle truppe turche), sia stata la chiave di volta
nella caduta del Califfato
Si
tratta di un conflitto al momento privo di soluzione anche per la timida e
contraddittoria presa di posizione di UE, USA e Nato, troppo vincolate da convenienze
geopolitiche tattiche, che in aggiunta conferma il ruolo centrale dell’esercito turco nella
gestione del paese. I militari turchi, un potere reale di fatto a sé
stante, rappresentano infatti il pilastro fondante della Repubblica fin dalla
sua nascita sotto la guida di Atarturk, ed a lungo sono stati i fedeli e severi
difensori della laicità dello Stato Turco, tanto da essere ripetutamente
intervenuti con colpi di stato di diversa intensità per fermare quelle che, a
loro avviso, sembravano pericolosi cedimenti in senso opposto. E’
sostanzialmente questa la ragione che spiega i “golpe” del 1960, del 1971, del
1980, ed ancora nel 2007, con Erdogan già al potere. E’ stato questo un colpo
di stato “virtuale”
effettuato cioè con annunci che minacciavano l’intervento armato, ma senza
doverlo concretamente attuare, ed anche in questo caso la causa scatenante fu
il peso del fondamentalismo religioso rappresentato dalla possibilità che la
moglie del candidato alla Presidenza proposto ed appoggiato da Erdogan (Abdullah
Gùl),
fervente mussulmana, potesse entrare con il velo nel palazzo presidenziale di
Ankara. Il golpe virtuale ebbe successo e Gùl, senza colpo sparare, ritirò la
sua candidatura. Una vicenda che molto deve aver insegnato ad Erdogan
facendogli cioè comprendere che la sua ambizione al potere assoluto doveva
ridimensionare il potere dei militari. La svolta fu realizzata nel 2016 proprio
in coincidenza con un fallito tentativo di golpe contro il suo governo. La
dinamica di questo colpo di stato, della cui regia è stato accusato il
predicatore Fethullah Gùlen (a suo tempo stretto sodale dello
stesso Erdogan) con la complicità di alcuni alti ufficiali (ma
non appartenenti allo Stato Maggiore), è stata tale da consentire
al Erdogan un totale repulisti dell’intera struttura di comando militare
sostituita con uomini di sicura fedeltà. Identico repulisti è avvenuto,
unitamente ad una pesante repressione dei media di opposizione, in ambito
giudiziario e amministrativo. Le odierne foto del gruppo di comando turco vede,
in posizione sempre leggermente defilata rispetto al leader maximo, tre figure
di rilievo di cui tenere conto per comprendere le strategie turche: il generale
Hulusi Hakar promosso a Ministro della Difesa nel 2020 a
repulisti completato, (detto “La sfinge” è al centro del
potenziamento e delle azioni dell’esercito di terra e regista dell’operazione
“Patria blu”), Ibrahim Kahn, portavoce presidenziale, giovane
ambasciatore di mestiere, da molti indicato come il consigliere più ascoltato,
ed infine il ministro degli Esteri Mevlùt Cavusoglu, al quale è affidato il
compito di partecipare agli incontri internazionali per sostenere il punto di
vista turco. Non compare nelle foto ufficiali, ma è da molti indicato come
l’eminenza grigia del gruppo di potere di Erdogan, Hakan Fidan, a capo dei servizi
segreti turchi. Altri due personaggi rientrano a tutti gli effetti in questa
ristrettissima cerchia pur non svolgendo incarichi ufficiali, sono due
fratelli, Haluk
e
Selcuk Bayraktar, a capo dell’azienda di armamenti Baykar, il cui
gioiello è rappresentato dai droni di ultima generazione TB2 considerati i
migliori in assoluto sulla piazza. Non a caso attorno a questa tecnologia, che
conferma il peso delle armi nelle dinamiche di potere turche, si è scatenata
una autentica corsa all’acquisto da parte di molti paesi, Ucraina in primis. Si
misura anche in questo passaggio l’abilità di Erdogan, l’unico ad aver avviato
un canale diretto di consultazioni con Putin, pur essendo di fatto il fornitore
dell’arma che tanti problemi sta creando all’esercito russo. Si completa con
quest’ultimo dettaglio la panoramica che Marco Ansaldo offre dell’attuale,
ritrovata, centralità della Turchia di Erdogan, tale da indurlo a richiamare
nel titolo stesso di questo suo saggio la famosa “Marcia turca” (sonata
per pianoforte K331 di Mozart). Si sta cioè parlando di
un processo che come la sonata mozartiana alterna passaggi “andanti” ad altri
“lenti”, ma che ha indubbiamente riportato la Turchia, concentrata in Istanbul
la sua cartolina più intrigante, ad essere di nuovo “crocevia del mondo”, così come
riportato nel sottotitolo. Marco Ansaldo, per farcelo sinteticamente capire, fa
entrare in scena il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, da lui
assiduamente frequentato. Pamuk vive nella parte europea di Istanbul, e nella
sua casa, fatta di molte stanze, ha raggruppato libri di tutte le culture
mondiali che lo hanno ispirato e confortato, dedicando ad ognuna di esse una singola
stanza. C’è quindi tutto il mondo nella sua casa nella sponda europea. Pamuk
ama sottolineare che quando va dal suo dentista che si trova nella parte opposta, sulla sponda asiatica, non dice “adesso vado in Asia”, ma semplicemente
si sposta in un altro quartiere della stessa città.