Il “Saggio” del mese
GENNAIO 2024
Giovanni De Luna ( 1943, storico
specializzato in Storia dell’Italia Unita, a lungo docente di Storia
Contemporanea presso l’Università di Torino, saggista e autore televisivo di
diverse trasmissioni a carattere storico)
Parte prima, il Novecento
(nella quale De Luna recupera i tratti salienti dei fatti
storici che lo hanno segnato)
1 – E’ passato il
Novecento = Tre recenti accadimenti
hanno indotto De Luna a tentare di spiegare, in termini di sintetica
riflessione storica, i suoi personali sentimenti di inquietudine e sgomento
maturati, al culmine della sua attività di storico ed al compimento dei suoi
ottant’anni, per il preoccupante corso che l’umanità sembra aver intrapreso nel
nuovo secolo/millennio: la pandemia, ossia la natura che si ribella
all’uomo mettendo a nudo la fragilità della sua idea di essere al vertice delle
gerarchie naturali ed accentuando le preoccupazioni per l’inerzia globale
nell’affrontare le emergenze ambientali climatiche - il ritorno della guerra alle porte
dell’Europa, il
terrore voluto, programmato, gestito dagli uomini per fini eticamente
inaccettabili – il
collasso della democrazia in Israele (De Luna ha scritto questo saggio
diversi mesi prima della sconvolgente guerra nella striscia di Gaza seguita al
criminale pogrom del 7 Ottobre, ciò rende ancor più sorprendente, e meritoria,
questa sua attenzione) avvenuto con l’insediamento nel
Dicembre 2022 del nuovo governo Netanyahu, ossia il paradigma della fragilità
dell’artificialismo politico novecentesco con la sua invenzione dal
nulla di uno Stato malgrado ciò capace di essere, fino a tale data, un “miracolo
democratico” a dispetto di opposizioni acerrime e conseguenti
eccessi difensivi. Questi ultimi fatti storici completano un lungo elenco di avvenimenti
che hanno messo a nudo l’inconsistenza del pilastro concettuale del Novecento: l’idea,
teleologica, che, a dispetto delle tante tragedie che hanno segnato questo
secolo, ancora e sempre ogni stadio della storia sarebbe stato migliore del
precedente, a maggior ragione nell’era di uno sviluppo tecnico e tecnologico
senza precedenti. Le generazioni che hanno attraversato questo secolo sono
state così tanto compresse tra tragedie e fiducia nel futuro da stentare ad
esprimere un giudizio ragionato sul secolo definito dallo storico inglese Eric
Hobsbawn “il secolo breve”. De Luna suggerisce
di provarci usando la chiave di lettura della coppia “continuità/rottura”
per individuare le analogie e le differenze tra ieri e oggi.
2 – Le guerre = Diversi
storici hanno definito il Novecento, guardando all’impressionante numero dei
morti, il “secolo delle guerre”, tra il
1900 ed il 1993 sono infatti avvenute 54 guerre che hanno causato un totale di
circa 100 milioni di vittime (fra
campi di concentramento, pulizie etniche, conflitti armati internazionali,
guerre civili, terrorismo). Nella prima parte del secolo è stata
l’Europa l’area più interessata, dopo il 1950 l’epicentro dei conflitti si è invece
spostato verso il Medio Oriente, l’Africa, e l’Asia. La definizione di secolo
di guerre mette inoltre in risalto il nesso strettissimo tra “guerra”
e “genocidio”,
mai così eclatante nella storia umana, ed al tempo stesso fa emergere i “nodi”
che intrecciano per la prima volta: guerra, violenza, ricerca scientifica, tecnologia e
logiche produttive industriali. Il tratto epocale del secolo delle
guerre (il cui paradigma
sono le due atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki)
sembra infatti consistere in un carattere eccessivo e smisurato, determinato
proprio dalla combinazione di tutti questi elementi, non solo e non tanto per
le sue dimensioni quantitative quanto per l’oggettiva mancanza di una
giustificazione ragionevole del rapporto fra effetti e strumenti. La bomba
atomica ha rappresentato per molti decenni, tutti quelli della “guerra fredda”
una vera angoscia sentitamente vissuta dall’intera umanità.
lo psicanalista Franco Fornari chiamò “prospettiva pantoclastica” la possibilità che
l’uomo con le sue stesse armi fosse in grado di distruggere l’intero pianeta,
d’altronde dal 1945 al 1996 sono state costruite 130.000 testate nucleari pari
a una potenza esplosiva di 25.000/30.000 megatoni. Quella usata in tutte le
guerre precedenti sfiorava a malapena i 10 megatoni
Qualcosa
poi però deve essere avvenuto se ai nostri giorni la ventilata possibilità del
ricorso ad armi atomiche sia stata presentata come una fra le tante opzioni
possibili
3 – I lager = Il genocidio,
compagno di strada delle guerre, ha assunto nel Novecento, con l’esperienza del
nazismo, la dimensione del totale annientamento dell’oggetto odiato. La morte
di un intero popolo, intesa come progetto totale e definitivo, non è stata una
esasperazione casuale, ma ha rappresentato il voluto culmine della “politicizzazione
della vita”, di una visione biopolitica (una
idea di potere che si sente legittimata a disporre in toto della “nuda vita”, della pura esistenza biologica
spogliata di ogni cittadinanza) del corpo di intere
popolazioni ridotto a banale posta in gioco di strategie politiche. I campi nazisti
di sterminio di razze inferiori (ebrei
ma anche zingari) questo raccontano, ad Auschwitz la
cancellazione della nuda vita di popoli interi, perseguitati in quanto tali e
non in ragione di loro opinioni o della loro fede, ha rappresentato il vero ed
unico scopo. Ed al tempo stesso l’organizzazione “industriale” dei lager, ben
evidenziata da molte ricostruzioni storiche, testimonia l’apogeo terrificante di
un’altra idea novecentesca: la concezione, anch’essa biopolitica, di corpi
interamente sottomessi alle logiche automatizzate del Lavoro (De Luna usa il maiuscolo per tutti i
termini che a suo avviso restituiscono la trama concettuale del Novecento,
quindi Lavoro, ma anche Guerra, Morte, Politica, Stato, Partito). I
lager (prima dell’accelerazione
dello sterminio puro e semplice verso la fine della guerra) erano
infatti strutturati su due fasi: iniziale produzione forzata e poi, quando i
corpi erano sfiniti e quindi improduttivi, l’eliminazione. I lager hanno
rappresentato una sorta di laboratorio dell’applicazione scientifica della
Morte su scala industriale fino ad assumere le condizioni estreme, ma coerenti
con le premesse che le hanno create, di un “inferno progettato dall’uomo”.
4 – I gulag = Non convince l’idea da alcuni sostenuta di
porre sullo stesso piano dei lager i gulag sovietici, una criminale esperienza
di impressionante impatto numerico, perché sul piano concettuale essi hanno
rappresentato un diverso obbrobrio: l’eliminazione di sottoprodotti di scarto,
di intralcio, del sistema, nella quale la morte dei corpi non era la vera finalità,
ma un sottoprodotto, non disdegnato, di altri progetti. I gulag (un sistema di migliaia di singoli
campi, spesso situati in zone molto fredde della Siberia, che si calcola
abbiano avuto un totale di circa 18 milioni di internati, rinchiusi per brevi e
lunghi periodi) hanno rappresentato, assieme alle
deportazioni di massa (circa
sei milioni di individui) e alle immediate fucilazioni di massa (nel solo biennio 1937/1938 sono state
fucilate più di 800.000 persone) lo strumento per
eccellenza dello spietato controllo sociale e politico del regime di Stalin. Ma
i loro sistemi brutali di trattamento servivano, non a eliminare la nuda vita
come nei lager, ma a “governarla”, sono cioè stati un mezzo non meno
scientificamente rivolto contro chi veniva considerato dissidente ed oppositore.
La logica repressiva che li ha ispirati ha guardato di più al Lavoro che alla Morte (ad ogni gulag era assegnato
l’obiettivo dell’autosufficienza economica e della produzione di un
significativo surplus, il loro contributo all’economia sovietica è stato molto
rilevante, soprattutto per il settore delle estrazioni minerarie)
5 – Il totalitarismo = Il totalitarismo novecentesco (un modello di organizzazione statuale che
nega la separazione dei poteri e d il pluralismo politico che prende piede nel
convulso intermezzo fra le due guerre mondiali. E’ stato attentamente
analizzato da Hanna Arendt nel suo saggio “Le origini del totalitarismo”) rappresenta
il fenomeno politico che spiega la lucida follia di lager e gulag perché nasce
con la finalità ultima del dominio totale di uomini, e delle loro idee, sugli
altri uomini a partire dai loro corpi. Per essere meglio capito
richiede di chiamare in causa altri fenomeni che hanno segnato il Novecento, in
particolare sono stati determinanti per la sua affermazione l’intreccio fra organizzazione
scientifica del lavoro e della produzione (il fordismo), la
partecipazione politica di massa (i
grandi partiti), le nuove forme di comunicazione di massa (il
mondo dei media), la dissoluzione dei valori culturali ottocenteschi
(nuovi modi di vivere), nuovi equilibri
geopolitici globali (l’eredità
della Prima Guerra e della fine del colonialismo classico).
Una vera e propria rivoluzione che si è accompagnata al sorgere di nuovi Stati (i 42 Stati sovrani di inizio secolo
diventano 183 ad inizio anni Novanta) molti dei quali, specie nelle
ex colonie, non di rado hanno assunto esplicite forme autoritarie a
dimostrazione di un fenomeno non circoscrivibile, temporalmente e geograficamente,
ai suoi casi più emblematici: stalinismo, fascismo, nazismo. Il pendolo della
storia segna con il totalitarismo un fase contraddittoria per il ruolo dello
Stato: la sconfessione del liberismo ottocentesco che, all’insegna del laissez
faire assegnava al mercato la libertà di autoregolarsi, si concretizza nei
totalitarismi, sostenuti da un sistema
di valori ideologici, in un ruolo dello Stato persino asfissiante su ogni
aspetto dell’economia e della società, al lato opposto diventa però, a partire
dalla crisi economica del 1929, la genesi dell’idea di uno Stato sì
interventista in campo economico ma rispettoso della libertà della società e
degli individui sino a divenire l’incubatrice dello “Stato sociale” che prenderà
forma compiuta nel secondo dopoguerra. L’intera storia novecentesca si è così svolta attorno al
contrapporsi di queste due concezioni che, con accentuazioni
diverse, ha interessato quasi tutti gli Stati. Ma è soprattutto l’Europa ad
aver espresso i casi più significativi della soluzione totalitaria che, basata
su un rigido corpo di dottrine affidate ad un partito unico guidato da un “Capo”
a cui obbedire ciecamente, ha richiesto un uso estensivo ed intensivo di
tecniche di condizionamento di massa unitamente ad un opprimente apparato di
controllo.
6 – Le ciminiere = Il
1973, l’anno della grande crisi petrolifera, rappresenta la data simbolo di
un’altra determinante svolta. Fin lì il Novecento, ampliando a dismisura il
lascito ottocentesco, è stato definibile come il “secolo delle ciminiere”, un
elemento fumante nel paesaggio che testimoniava la centralità della fabbrica, il
luogo, fisico e simbolico, in cui avveniva il confronto fra due attori sociali,
l’operaio ed
il padrone, tra loro contrapposti ma ambedue legati ad una visione “edificante del
lavoro”. Il lavoro salariato, per tutta la fase ottocentesca del
capitalismo semplice fonte oppressiva di sopravvivenza economica, nel primo Novecento
assume una valenza sociale identitaria (Primo
Levi fa dire al protagonista del suo libro “La chiave a stella” che “ogni lavoro che incammino è come un primo amore”)
fino a proporsi come una misura morale, un tratto che definiva per ognuno il
suo posto nella società. Ma nel secondo Novecento, con il definitivo affermarsi
del lavoro automatizzato e tecnologizzato dominato dalle “macchine”, questa valenza è
andata sempre più scemando (il
famoso film “Tempi moderni” con la scena di
un disumanizzato Chaplin divenuto parte integrante della catena di montaggio
resta emblematico di questa svolta). L’individuo
progressivamente smette di essere definito dal lavoro che svolge per acquisire,
la sua identità sociale esce dalla fabbrica per assumere la veste del “consumatore”.
L’introduzione sul mercato di una quantità ed una qualità di merci mai vista in
precedenza stravolge ogni meccanismo sociale: non si è più quel che si fa, ma quel che si
possiede e si consuma. Ma anche questa è una fase di breve durata,
nell’ultima parte del Novecento sparisce il fordismo, ma resta, ed anzi aumenta
a dismisura, il mondo dei consumi. Sotto le ciminiere si lavorava in tanti,
nelle cattedrali del consumo ci si muove individualmente, decade per sempre (?)
l’agire sociale collettivo che ha segnato uno dei tratti più distintivi del
Novecento.
7 – Le masse, la
politica = Il termine “massa” è strettamente connesso,
anche terminologicamente, a tutti gli elementi storici fin qui esaminati per la
semplice ragione che il Novecento è stato in tutti i suoi aspetti plasmato
dall’ingresso attivo delle masse nella storia, è stato a tutti gli effetti il “secolo delle
masse”, una valenza costitutiva che ha trascinato con sé un’altra
sua caratteristica fondamentale: l’irruzione sulla scena storica della politica,
il Novecento è stato indubbiamente anche il “secolo della politica”, e meglio
ancora della “politica
di massa”. I tanti movimenti rivoluzionari novecenteschi ne sono la
più fulgida testimonianza, declinata in negativo nell’adesione di massa a
fascismo e nazismo, piuttosto che, in positivo, nella nascita di partiti
definiti per l’appunto “di massa” perché alle masse si rivolgevano e
perché a lungo hanno contato sulla loro attiva adesione. Le moltitudini che per secoli erano state
costrette a subire in silenzio le conseguenze del potere concentrato in poche
mani hanno conquistato, grazie a questa forza espressa in lotte durissime, lo
spazio e gli strumenti per far pesare la propria voce. Lo hanno fatto con passaggi
rivoluzionari oppure con i modi consentiti dalle democrazie rappresentative, ma
in ogni caso sempre con convinzione e spesso con entusiasmo. E’ stata una
svolta storica radicale che ha investito, positivamente, l’istituzione “Stato”
trasformandola da pura espressione del potere di controllo a soggetto attivo
capace di governare i processi economici, sociali e culturali. Verso la fine
del secolo con il crescere della loro complessità, e del loro evolvere dalla
scala nazionale a quella globale, tanto da essere ingovernabili punti di
rottura, il connubio “masse e politica” si è però allentato fino a
divenire dalla parte della politica impotenza e da quella delle masse passivo disinteresse.
8 – Il dominio
sulla natura = In questo novecentesco contesto economico,
sociale e politico, la convinzione umana, soprattutto occidentale, (che ha antiche radici culturali nella
stortura antropocentrica del rapporto uomo/natura) di
poter disporre a piacimento della natura è così a dismisura cresciuta, con
l’esplosione produttiva e consumistica consentite dall’impressionante sviluppo
tecnologico, da compromettere seriamente l’equilibrio dell’ecosistema
terrestre. Le parabole storiche novecentesche testimoniano che nessun paese,
nessuna esperienza politica, è esente da tale responsabilità. Non lo sono stati
i totalitarismi che hanno piegato, oltre che uomini, anche natura e territorio
alle loro logiche di dominio, (Mussolini
dichiarò apertamente che il regime avrebbe cambiato radicalmente, assieme allo
spirito italico, la terra. Ancora oggi le
mitiche “bonifiche” sono ricordate come una
delle “cose buone” fatte dal fascismo), ma
non di meno lo sono state le democrazie avanzate di Europa e Usa che,
direttamente sul proprio suolo e indirettamente su quello delle ex colonie,
hanno visto nell’ambiente un semplice fornitore di risorse per alimentare il mito
della crescita infinita e del benessere consumistico. Verso la fine del
Novecento si sono così fatti sempre più evidenti gli inevitabili guasti che
questa bulimia antropocentrica ha procurato ad ambiente e clima. Il secolo si è
di fatto chiuso lasciando all’umanità intera un tremendo monito: tutte le
vicende storiche qui seguite, al di là della loro specifica valenza, sono fra
di loro negativamente collegate dall’essere responsabili, stante la convinzione
di cui si è detto, del maggiore rischio di sopravvivenza che la specie umana abbia
mai conosciuto
9 – Il fallimento
della politica = Questa pretesa antropocentrica di disporre
della natura chiama allora al banco degli imputati il Novecento nella sua veste
di secolo
della politica, se con politica, come si è detto, si intende la
dimensione statuale chiamata a governare il percorso umano in tutti i suoi
aspetti, rapporto con la natura compreso. La somma dei problemi aperti che il
Novecento lascia in eredità ha una prima responsabile, la politica unitamente
alla sua più compiuta espressione, lo Stato con l’intero insieme delle sue
competenze. Come si è detto è proprio nel Novecento che lo Stato si è globalmente
imposto come l’attore principale delle scelte legate al vivere umano,
evolvendosi dalla ottocentesca forma che limitava la sua sfera d’azione alla
politica estera, all’ordine pubblico, ai servizi pubblici essenziali, in una ben
più articolata e onnicomprensiva nuova forma. I limiti della politica nella
forma dello Stato (nazionale) si
sono resi evidenti nell’esasperazione dei propri interessi particolari fino a
concepire la guerra come strumento principe per risolvere i conflitti che ne
derivavano. L’impalcatura statuale come forma per eccellenza della politica,
dopo essersi così facendo macchiata delle tragedie novecentesche, si sta infine
dimostrando del tutto inadeguata ad affrontare lo scenario, che a fine
Novecento si è sempre più chiaramente delineato, di un mondo che ha, nel bene e
nel male, scavalcato confini e barriere in campo economico, sociale e
culturale. L’emergenza ambientale e climatica sono solo l’ultima, e la più
evidente, testimonianza del fallimento di questa idea novecentesca di politica
Allora
proprio nulla da salvare del secolo breve? certo che no, il giudizio soprattutto
delle generazioni della seconda metà, quelle che hanno conosciuto un benessere
ed una pace mai visti prima, molto salva, comprensibilmente, del Novecento, ma
per lo sguardo lungo dello storico queste positività cedono il passo agli
aspetti negativi qui percorsi a comporre un elenco tale da rende difficile la
sua assoluzione storica. Eppure resta vero che
….. il XX secolo sarà stato un brutto secolo, ma è stato
comunque il nostro, quello in cui siamo cresciuti, abbiamo amato, gioito,
sofferto. Molte idee che allora ci sembravano fondamentali sono sparite, ma
qualcosa resta. E vale la pena interrogarsi su questa eredità. annotazione autografata sulla
copertina del saggio
Nella seconda parte del saggio De Luna
riflette proprio su questa eredità.
Parte seconda,
dopo il Novecento
10 – Il senno di
poi = Non è una formula di buon
senso popolare, nel campo degli studi storici fatti e processi possono essere
valutati e compresi solo quando è certo il loro esito finale. Questo criterio appare
ormai applicabile al Novecento se tutti i suoi capisaldi concettuali sembrano
svaniti. E’ allora possibile storicizzarli ed esaminare la loro eredità
11 – La fine
della guerra fredda = Ad
esempio la fine dell’URSS e della Guerra Fredda sono
fatti storici a tutti noti su cui vale la pena riflettere per meglio capire il percorso
che ha portato a ciò e, di conseguenza, al definitivo affermarsi dell’egemonia
USA e al rafforzamento della UE grazie alla riunificazione delle due Germanie. Secondo
alcuni storici l’idea sovietica di società ed economia, così rigida e
centralizzata, non ha retto all’avvento della “società globale” innescata dai
cambiamenti tecnologici soprattutto nel campo delle ICT (informazione
e comunicazione). Una seconda tesi, di grande successo
mediatico, è stata quella della “fine della storia” (elaborata
dal politologo statunitense Francis Fukuyama) secondo la quale
nel 1989 non è finita solo la Guerra Fredda ma l’intero senso del procedere
storico dovuto alla definitiva e globale affermazione della democrazia liberale
e del capitalismo. Un’altra tesi, decisamente più pessimista, è stata quella
dello “scontro
di civiltà”, la fine del conflitto politico USA-URSS, comunque sia
avvenuta, lasciava cioè il campo ad un confronto, persino più duro ed esteso,
tra i valori dell’Occidente e tutti quelli del resto del mondo, per quanto fra
di loro variegati e distinti, ai primi non allineati. Con il senno di poi
sembra possibile sostenere che queste due ultime tesi non abbiano retto alla
prova del tempo, la democrazia non ha per nulla conquistato tutto il mondo e al
contempo lo scontro di civiltà non si è innescato, nei termini immaginati, per
l’evidente maggiore forza di quella occidentale. Qualche merito va invece
concesso alla tesi della società globale: l’economia, nella sua versione
neoliberista, si è fatta globale imponendo un’interdipendenza fra Stati e aree
che scavalca ogni blocco, rivoluzionando ovunque sistemi produttivi e relazioni
sociali globali, innescando una radicale trasformazione del mercato del lavoro
mondiale, omogeneizzando l’intero pianeta su nevrastenici standard
consumistici. Di certo per un primo tratto ereditario del Novecento, quello del
“Lavoro”
e delle collegate relazioni sociale, sembra evidente che si debba parlare di rottura
e non di continuità
12 – Guerre
simmetriche e asimmetriche = Di continuità si deve, purtroppo,
parlare per un secondo aspetto costitutivo del Novecento, la “Guerra”, fine
della Guerra Fredda non ha per nulla significato la fine delle guerre, che sono
proseguite dilatandosi nel passaggio tra i due secoli, anche se con evidenti
diversità rispetto a quelle “classiche” novecentesche. Tra il 1989 ed il 2005
su 121 conflitti ufficialmente censiti solo 11 sono stati combattuti tra Stati
nazionali, tutti i restanti sono scoppiati al loro interno. Non solo: nel 2016
le guerre in corso vedevano coinvolti come protagonisti, accanto a soli 67
Stati, ben 774 gruppi e organizzazioni militari/paramilitari non riconducibili
ad uno Stato (si
pensi agli eclatanti casi dell’Isis e del gruppo mercenario Wagner).
In termini “tecnici”
questa impressionante evoluzione viene definita come differenza tra “guerre
simmetriche”, quelle combattute da Stati-nazione con eserciti in
divise e bandiere riconoscibili e con una loro qual osservanza delle regole del
Diritto Internazionale, e “guerre asimmetriche”, tutte quelle che al
contrario non sono altrettanto caratterizzate da precisi canoni di
inquadramento dei partecipanti, dei mezzi usati e delle forme di combattimento.
In mezzo sono collocabili le cosiddette “guerre civili”, ossia quelle che, come quelle
già avvenute nella Seconda Guerra (ad
esempio la nostra stessa Resistenza),
hanno rafforzato uno scontro tra Stati con un conflitto armato al loro interno
ad esso stesso però riconducibile. La
ragione principale di questa evoluzione consiste nella già evidenziata crisi
dello Stato-nazione provocata dalla globalizzazione e dal diverso intreccio
delle relazioni conflittuali che spesso si sono tradotti in linee di frattura
interne agli Stati coinvolti. Non a caso le guerre asimmetriche si sono
affermate solo dopo la fine della Guerra Fredda che, con la sua logica di
divisione mondiale in “blocchi”, aveva in qualche modo ingessato (anche grazie allo spettro del terrore
atomico) uno status quo turbato esclusivamente da alcune “guerre locali”
(ad esempio a quelle della
Corea e del Vietnam), sempre contenute dal rispetto
dell’equilibrio bipolare. Con la fine della divisione in blocchi anche le guerra
locali hanno mutato volto, ovunque nel mondo si accendono e si spengono focolai
di violenza bellica, creati da tensioni etniche, religiose, di controllo
risorse naturali, che sempre più sfuggono ad ogni possibilità di controllo e
soluzione (ad esempio nell’Afghanistan). In
questo quadro sempre più “irregolare” si è poi inserito il fenomeno, mai
visto in precedenza con questa portata e queste modalità, del “terrorismo”,
emblematico di una “guerra ai civili” (ad
esempio la “guerra santa” del jihadismo).
Le tragedie belliche novecentesche, per quanto di dimensioni impressionanti, rispondevano
comunque a logiche che consentivano, quando le armi si sono taciute, di
ricostruire su diverse basi livelli accettabili di equilibrio fra i
contendenti. La continuità/discontinuità delle guerre attuali incute persino
paure maggiori proprio perchè motivate da logiche per molti versi irragionevoli
e quindi incontrollabili. La guerra russo-ucraina, giunta al culmine di questa trasformazione, si presenta come paradigmatica
dell’evoluzione del concetto di guerra: è al tempo stesso “simmetrica”, due eserciti
nazionali che si fronteggiano, “civile”, ucraini filorussi contro ucraini
filoccidentali, “guerra
ai civili”, viste le cifre di vittime non militari, “combattuta da
mercenari e irregolari”, Wagner, Ceceni ma anche Azov, “forza locale ma
inserita nel globale”.
13 – Il ritorno dello Stato = Sembra
più complessa l’applicazione della coppia “continuità/rottura” alla terza componente
strutturale del Novecento: lo Stato ed il suo ruolo. Si è visto che dopo aver caratterizzato
con un ruolo centrale l’intero esso ha poi conosciuto la “rottura” del profondo ridimensionamento
imposto dalla globalizzazione, ma due avvenimenti del nuovo secolo sembrano
averlo riportato al centro della scena con una qual “continuità” con il precedente
ruolo. La
crisi globale del 2007/2008 prima
e la pandemia
Covid dopo hanno infatti ridato
centralità allo Stato e a tutte le sue competenze ed articolazioni. Dalla prima
è emerso con evidenza che il mercato, globalizzato e finanziarizzato, lasciato
libero di inseguire con qualunque mezzo le proprie logiche di profitto non era
in grado da solo di riparare le conseguenti inevitabili crisi, rendendo
evidente che, come
nel 1929, solo il ruolo coordinatore, regolatore, e propulsore dello
Stato poteva ad esse porre rimedio. La seconda, con il suo impressionante
carico di morti e due anni di forti limitazioni in ogni campo dell’agire umano,
ha fatto comprendere che simili emergenze, sempre più da mettere in conto
stante il disastro ambientale, possono essere efficacemente contrastate e
assorbite solo con un intervento pubblico congiunto al contributo della
scienza. Ma anche in questo caso il riaffermarsi di una continuità con
l’eredità novecentesca non è stato al contempo privo di elementi di rottura.
Ritorno dello Stato si, ma non dello Stato del Welfare, le politiche
neoliberiste di esaltazione del privato continuano imperterrite a dettare legge
e a imporre il suo ridimensionamento. Ritorno dello Stato si, ma non dello Stato
potente e sicuro di poter
governare ogni processo storico. L’incapacità statuale di governare fino in fondo
i processi globalizzati ha messo a nudo la sua impotenza strutturale, nessuno
Stato da solo è oramai in grado di muoversi con adeguata capacità in questo
contesto. Non solo, fenomeni epocali come quello delle migrazioni di massa
hanno ormai raggiunto dimensioni tali da accentuare a dismisura questa
impotenza strutturale producendo così tensioni sociali, insicurezze,
alimentando timori e reazioni esasperate e quindi irrazionali chiusure e
limitazioni. Negli ultimi anni sono stati costruiti in tutto il mondo ben
10.000 km di “muri”,
che non assomigliano per nulla al “muro”
simbolo del Novecento, quello di Berlino. Questo separava due mondi,
capitalismo e comunismo, democrazia e totalitarismo, i muri di oggi separano le persone,
quelle che vogliono difendere la propria sicurezza e quelle che scappano dalle
loro insicurezze. Altri muri, figurati, sono poi sorti anche all’interno degli
Stati, in molte parti del mondo, Europa in primis, si possono cogliere
tendenze, più o meno accentuate, al separatismo, al sogno anacronistico di tante
piccole patrie nel segno di mitiche purezza etnica e identità storiche. E
peraltro anche muri e separatismo trovano spiegazione in questo ritorno, monco
e spuntato, dello Stato nella sua attuale versione di un soggetto
pretenziosamente “sovrano”, ma a tutti gli effetti privo di vera sovranità.
Restando in Europa questa contraddizione, mai adeguatamente compresa, è la
causa principale della oggettiva fragilità, dovuta proprio alla ritrosia dei
singoli Stati a procedere con coerenza e coraggio sulla strada intrapresa del
percorso comunitario nato sulle basi della tragica eredità delle guerre
innescate proprio da nazionalismi aggressivi. La crisi del 2007/2008 e il fenomeno
migratorio hanno purtroppo accentuato questa ritrosia aprendo così ampi spazi
al riaffermarsi di una idea sovranista di Stato, basata sulla sua totale
identificazione con la corrispondente idea, non meno idealizzata e non meno
insostenibile, di popolo definito in
gran prevalenza “in
opposizione” a presunti nemici interni, le élite, ed esterni, i
migranti. Sovranismo
e populismo sono quindi altre
significative evidenze di un ritorno dello Stato privo però delle indubbie
prerogative a lungo possedute nel Novecento.
14 – Tra realtà e
rappresentazione della realtà = L’esplosione di
applicazioni entrate nelle vite individuali e collettive grazie all’incredibile
sviluppo delle ICT rappresenta un elemento di così radicale rottura
con il Novecento da non consentire nessun particolare collegamento con la sua eredità,
in particolare per la formidabile conoscenza in tempo reale dei fatti del mondo
tale da incidere profondamente su umori ed orientamenti dell’opinione pubblica.
Eppure, seppure su una scala radicalmente diversa, una qual certa continuità
sembrerebbe ancora rintracciabile in questa rottura. Per tutto il Novecento, con
accentuazioni parossistiche nelle fasi di guerra e di forte tensione sociale e
politica, è infatti stato molto rilevante il fenomeno delle “voci”
(per la maggior parte del
tutto false, ma a cui i loro ascoltatori deliberatamente erano portati a
credere) create e fatte circolare ad arte, a scopo di propaganda
e di ricerca di consenso, dal potere in carica piuttosto che dall’opposizione,
oppure da un belligerante o dai suoi nemici. E’ possibile presupporre una loro
continuità con la valanga di news dell’attuale Rete? Tali voci novecentesche
equivalgono alle attuali “fake”? Il paragone non regge, anche in questo
caso non esiste continuità, ma piena rottura. Le news moderne, specie nella
versione fake, nascono a ritmi vertiginosi e incontrollati, ed anche quando
sono presumibili i loro autori ed i fini per cui vengono create, gli
ascoltatori raramente possiedono strumenti per selezionarle. Non si è di fronte
a una neutra evoluzione dell’arte della propaganda e della costruzione di
consenso, questa rivoluzione nel campo della comunicazione, della “rappresentazione
artificiale della realtà”, ha modificato in modo decisivo il mondo
della Politica,
ha di molto contribuito alla crisi della forma Partito, irrimediabilmente ancorato
a logiche interne, ed ha così accentuato la crisi di altri due pilastri
dell’eredità novecentesca.
15 – Ancora la
democrazia = Un ultimo valore fondante del Novecento,
fin qui rimasto sotto traccia ma alla base di tutte le considerazioni svolte,
chiede di entrare in scena: la Democrazia. Per tutte le generazioni
novecentesche che sono cresciute in essa, che per la sua difesa ed ampliamento
si sono battute, è difficile adeguarsi all’asfissia strumentale che
caratterizza la sua attuale efficienza. Inquinata dai sovranismi e populismi,
stravolta dai meccanismi mediatici e dalla spettacolarizzazione, sofferente per
apatia e disinteresse, stravolta in versioni “illiberali”, intaccata in diversi
aspetti fondanti, sfibrata ed estenuata, percepita come inefficace per gestire
i problemi sempre più complessi della modernità, rischia di essere una lontana
parente della democrazia basata su valori condivisi, inclusiva, partecipata,
ispirata dalla voglia di capire e contare, che ha positivamente accompagnato la
seconda parte del Novecento. Tutto ciò pesa ancor di più proprio per le
generazioni che in quei primi decenni del secondo dopoguerra hanno vissuto il
miracolo di una democrazia riconquistata e appassionatamente vissuta. L’attuale
incerta e fallimentare gestione dell’eredità del Novecento, da una parte
incapace di risolverne limiti e contraddizioni e dall’altra alle prese con
sfide finora mai conosciute, richiederebbe un di più di democrazia non un di
meno. Se è pur vero che essa non è dogma, essendo pur sempre un contenitore, se
funziona al suo meglio aiuta a riempirla di processi partecipati di costante
rinnovamento sociale, politico, culturale.