Il “Saggio” del mese
FEBBRAIO 2024
L’attenzione per il territorio, visto come elemento imprescindibile di conoscenza dei fenomeni socio-economici e come dimensione ottimale per costruire un diverso modello di sviluppo, rappresenta da tempo una costante in molti dei nostri “Saggi del mese”. A maggior ragione lo è in quello scelto per questo Febbraio 2024 espressamente incentrato ad esplorare aree interne del nostro paese rimaste ai margini della tumultuosa, ma contraddittoria, crescita italiana. Conoscere le ragioni di questa emarginazione è utile proprio per meglio mettere a fuoco limiti e negatività dell’idea di sviluppo che l’ha ispirata e sostenuta
il cui
autore è Filippo Tantillo
(1968, ricercatore,
film-maker e attivista, lavora per università e istituti di ricerca italiani ed
europei alla messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio e dei
fenomeni sociali. Fa parte dell'associazione Riabitare l'Italia e del Forum
Disuguaglianze e Diversità)
Le prime righe dell’Introduzione
illustrano bene l’oggetto dell’esplorazione di Tantillo e anticipano le
considerazioni di fondo ricavate in questo suo “viaggio
nelle aree interne”:
……..Una parte
del nostro paese negli ultimi anni è sparita dal discorso pubblico e
dall’agenda politica. Costituisce più della metà del territorio nazionale ed è
abitata da almeno 13 milioni di persone, vale a dire circa il 22% di tutti gli
italiani. Derubricata a ultimo residuo dell’Italia rurale, una vandea abitata
da una popolazione anziana e antimoderna, oggi appare sulla mappa demografica
del Paese come un arcipelago di luoghi vuoti, quasi senza più abitanti…..E’
però sufficiente guardarci dentro per scoprire che sono terre tutt’altro che
immobili, sensibili alla trasformazioni climatiche e ai mutamenti dell’economia
mondiale, percorse incessantemente da flussi di umani, e quindi tali da
restituire l’immagine di un Paese molto più grande e vario di come si
autorappresenti …..
Sono sette le aree scelte
da Tantillo come paradigmi di questa situazione, confusamente racchiusa nella
confusa e indeterminata definizione di “aree
interne”, ed ognuna è abbinata ad un colore che ne sintetizza la
peculiarità ambientale:
Smeraldo = Le valli
Occitane (Piemonte)
Rosso =Il fiume Simeto (Sicilia)
Verde = L’Appennino
centrale
Argento = La costa
ionica della Calabria
Grigio = Le Dolomiti
orientali al centro d’Europa
Giallo = I confini
mobili del Molise
Cenere = La Sardegna centrale
Le percorreremo, va da sé a
volo d’aquila, in questa sintesi per rintracciare in ognuna di esse i tratti
specifici della loro emblematica capacità di testimoniare le ricadute
fortemente negative che hanno dovuto subire, ma al tempo stesso anche la
capacità di reinventarsi grazie ad idee e progetti (in buona misura accompagnati dalla “Strategia nazionale per le Aree Interne” istituita
nel 2012 dall’allora Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca) che molto possono valere per una
generale svolta
Smeraldo = Le valli occitane (smeraldo
per il verde intenso dei suoi boschi)
E’
un angolo delle Alpi, che scende dall’Alta Val di Susa fino a sfiorare il mare
Ligure a cavallo del confine fra Italia e Francia, che raggruppa quattordici
valli e le loro diramazioni in valli laterali (sono
circa 120 Comuni, tutti sotto i 5.000 abitanti di cui una ventina con meno di
cento, per una popolazione totale di circa 80.000 persone)
accomunate dall’appartenenza linguistica al ceppo occitano (l’antica “Lingua d’oc”). Per quanto investite in modo differenziato
dall’impetuosa crescita economica del secondo dopoguerra tutte hanno subito un
pesante svuotamento di abitanti, dovuto al venire meno delle condizioni di
sussistenza della tradizionale economia di montagna (ben
raccontata nel libro “Assalto alle Alpi” di
Albino Ferrari nostro “Saggio del mese” di Luglio 2023),
che qui si è articolato in due fasi: una prima che ha visto un consistente
spostamento verso le grandi città industriali e una seconda caratterizzata da
una ulteriore migrazione interna verso i fondovalle dai centri abitati di
media/alta montagna (la
prima fase si è concentrata negli anni 60/70/80 ed è spiegata soprattutto dalla
mancanza di lavoro, la seconda non si è ancora arrestata ed è sempre più
segnata dalla crescente mancanza di servizi). E’
su questi ultimi che si concentra l’attenzione di Tantillo, è qui infatti che
si colgono con drammatica evidenza i segni dell’abbandono umano (riforestazione
e ripopolamento di animali selvaggi, case e interi borghi ormai degradati),
ma è sempre qui che negli ultimi due decenni è possibile cogliere interessanti segnali
di una possibile svolta, anticipata da un primo significativo cambiamento
avvenuto negli anni Settanta. E’ in questo decennio che prende corpo un
risveglio identitario delle popolazioni di queste valli basato sulla riscoperta
del proprio patrimonio culturale in ispecie linguistico. Il dialetto occitano,
fin lì vissuto come sinonimo di emarginazione, di povertà, di ignoranza,
diventa un motivo di orgoglio, di recupero di una identitaria cultura storica
di grande valore. Nascono movimenti, che ne richiedono la tutela e la valorizzazione,
che raccolgono e danno voce ad una esigenza di riscatto e che ottengono nel
1999 un’apposita legge che riconosce l’occitano come lingua, che ne permette
quindi l’insegnamento nelle scuole ed un uso limitato nella pubblica
amministrazione. Questo straordinario risveglio culturale dà luce nuova alle
valli e viene premiato da un interesse turistico dapprima limitato a
viaggiatori appassionati di cultura e trekking, principalmente stranieri e
benestanti (ancora oggi le guide
moderne di alcune valli sono solo in tedesco) e poi capace di
coinvolgere famiglie e giovani. Il crescente riscontro di interesse, e di
ritorno economico, fa da ulteriore volano al recupero della vivibilità
complessiva delle aree fin lì più trascurate delle valli occitane: si
recuperano case ed alpeggi, si ridà vita ad intere borgate (Elva, Ostana, Pralup, per citare
alcuni esempi), nascono Fondazioni, Circoli Culturali,
Festival e Feste, l’artigianato locale si rilancia. Il recupero dell’identità
linguistica si coniuga da subito con la difesa e la valorizzazione delle
montagne non più basata sull’industria dello sci ma attenta alla difesa
dell’ambiente. Tutto questo movimento non si è ancora tradotto in una ripresa
di residenti stabili, pesa ancora troppo la mancanza di servizi adatti ad una
popolazione in gran parte anziana. Non a caso, a testimonianza della valenza
innovativa di questa esperienza, si è fatta strada l’idea di sostenere un nuovo
mirato welfare di valle sfruttando, nel loro pieno rispetto, la grande
ricchezza di risorse naturali, a cominciare dalle acque. E’ un mondo nuovo che
sta creando nuove istituzioni finalizzate ad una idea di sviluppo sociale ed
economico che richiede una trasformazione delle strutture decisionali legandole
di più al patrimonio ambientale e culturale. L’Italia vuota per essere riempita
richiede anche questa tipo di svolta. Nelle valli occitane, con tutte le
immaginabili difficoltà, tutto questo sta iniziando a succedere.
Rosso = Il fiume Simeto (rosso come la lava dell’Etna dal quale nasce)
Il
bacino fluviale del Simeto è vivido testimone di molti aspetti caratteristici
della storia siciliana. A lungo le sue acque, alimentate dalla nevi dell’Etna,
sono state preziose per una agricoltura, in gran misura diversificata e basata su
piccoli appezzamenti, che ha sostenuto l’economia di una popolazione numerosa.
Nel secondo dopoguerra sono state attivate politiche di forte incentivazione
alla monocoltura industrializzata di agrumi finalizzata all’esportazione (peraltro ormai entrata in crisi
irreversibile stante la forte concorrenza globale),
accompagnate da un utilizzo specifico delle acque e da una radicale
trasformazione dell’ecosistema fluviale. Lo stravolgimento della tradizionale
struttura produttiva ha comportato la concentrazione dei piccoli appezzamenti, la
collegata perdita delle fonti di reddito familiare è stata compensata
unicamente con le classiche politiche assistenziali. Si sono così innestate
pesanti dinamiche di emigrazione, di disagio e di perdita di identità delle
tradizionali comunità locali. In aggiunta lungo i 116 km del Simeto sono via
via sorte una miriade di discariche abusive (a
servizio dell’area urbana della vicina Catania)
gestite dalla criminalità organizzata di stampo mafioso che hanno ulteriormente
compromesso l’ambiente fluviale e la residua agricoltura parcellizzata. In
questo quadro di degrado economico, sociale e ambientale, all’apparenza senza
vie d’uscita, la molla per una reazione dal basso è stata fornita proprio dal
tema della difesa dell’ambiente innescata dal progetto regionale di
localizzazione di un mega inceneritore rifiuti. Nei primi anni duemila nasce il
Presidio del fiume Simeto (che
unisce ben 63 organizzazioni locali di vario genere)
inizialmente finalizzato a contrastare tale scelta (lotta
che nel 2011 si è chiusa con una confortante vittoria) ma
capace di allargarsi ad una coinvolgente lotta di contrasto alle ecomafie e al
complessivo degrado dell’intera area fluviale. Lo slogan “dalla protesta alla proposta” ha
segnato questo salto di qualità che ha scelto come suo simbolo un’enorme carta
del territorio (larga
10 metri e alta tre) che riassume in una rappresentazione cartografica-politica (si tratta di una forma diffusa nelle
pratiche di lotte sociali sintetizzabile
nella formula “un mondo disegnato dal suolo”) tutti i possibili progetti che nelle
intenzioni del Presidio potranno restituire all’area interna del fiume Simeto
una sua vivibilità ed una sua identità (si
parla ad esempio di recupero di siti storici, di valorizzazione di prodotti
tipici quali i pistacchi di Bronte, di avvio di gestione collettiva di terreni
agricoli dismessi). La positiva esperienza dell’opposizione
all’inceneritore ha quindi compattato una rete diffusa di associazioni, circoli
culturali, sezioni di partito che le stanno dando concreto e capillare seguito,
aprendo in questo modo due differenti fronti: uno di aperto conflitto con la
mafia locale (non
mancano di certo intimidazioni, anche pesanti, e sabotaggi) e
uno di confronto, aperto e costruttivo perché basato su tematiche concrete e
mirate, con le amministrazioni locali. I due fronti ovviamente si intrecciano e
confermano che il recupero delle arre interne può avvenire solo grazie ad una
stretta, e diversa, sinergia fra cittadinanza e istituzioni
Verde = L’Appennino centrale (il verde dei suoi prati e dei suoi alpeggi)
La
popolazione di Roma è passata dai 1.600.00 circa di abitanti del 1950 ai
2.900.000 circa del 2016, buona parte di questa crescita (unitamente a quella delle prospicienti
città costiere adriatiche) è avvenuta nell’arco di trent’anni,
nel 1980 già si contavano 2.850.000 abitanti, ed è in gran misura costituita da
cittadini provenienti dalle aree interne dell’Appennino Centrale. Questa parte
della lunga catena appenninica si presenta come un susseguirsi di catene
montuose, mai troppo alte e impervie, intervallate da ampie valli, una parte
significativa di questo paesaggio è racchiuso in quattro parchi nazionali e in
tre grandi parchi regionali, si parla del più vasto insieme di aree protette di
tutta l’Europa, che forma unitamente ai vasti pascoli (con gli immancabili contrasti tra
allevatori e fauna selvatica. Il WWF calcola che ogni anno siano uccisi dai 200
ai 500 lupi su una popolazione complessiva di 3.000 esemplari, le cui nascite a
fatica compensano le uccisioni) uno straordinario unicum
ambientale. Si parla purtroppo di un pezzo dell’Italia a fortissimo rischio
sismico che nel corso degli ultimi decenni ha inferto danni pesantissimi, con
molte vittime, ad un patrimonio abitativo già del suo vecchio e trascurato.
Questo insieme di caratteristiche naturali e di intensi ed inevitabili fenomeni
migratori ha fatto sì che le zone più interne degli Appennini Centrali siano
ormai divenute una lunga sfilza di piccole città fragili con pochissimi
abitanti. In questo contesto fortemente segnato, la possibilità di una svolta
poggia su un fenomeno di recente avvio, ma che già vede una sua significativa
consistenza: quello dei rientranti. Tornano, raggiunta la pensione,
anziani originari del posto, ma tornano anche molti giovani, i loro figli e
nipoti. Sono soggetti eterogenei non solo per età, ma anche per motivazioni e
aspettative. Sono soprattutto i giovani che con questo percorso all’inverso
stanno creando le condizioni per una inversione di tendenza. Molti riattivano
coltivazioni e allevamenti, altri riattano casolari abbandonati per avviare
attività di turismo sostenibile, di artigianato, di servizio alle persone. Sono
in parte figli di una cultura disillusa che spesso tornano per pura necessità
viste le porte chiuse che trovano in basso, altri però, e sono quelli più
motivati, compiono una scelta di vita con al suo centro il senso di comunità,
gestendo forme di agricoltura ecologica e solidale, ed un rapporto pieno con l’ambiente
che ispira il tipo di turismo che offrono, certo non è più quello mordi e fuggi
dello sci (il Terminillo è in
queste zone, e d’altronde manca proprio la neve).
E’ un fenomeno agli albori, ma non mancano incoraggianti riscontri
Argento = La costa ionica della Calabria (l’argento del mare increspato dai venti)
Siamo
in una area emblematica del disastro economico e sociale che da sempre
caratterizza buona parte del Sud Italia così sinteticamente riassumibile:
agricoltura di sussistenza, assenza di attività industriali, marginalità
turistica, incapacità politiche e amministrative, assistenzialismo puro, servizi
inesistenti, infrastrutture inadeguate e, certo non ultima, una fortissima
presenza della ‘ndrangheta. Completa questo quadro, che ha consolidato nel
secondo dopoguerra tratti antichi, una autolesionistica mancanza di attenzione
e rispetto dell’ambiente che ha implicato uno sviluppo urbanistico del tutto
incongruente: a partire dagli anni sessanta, con un processo del tutto non governato,
sono stati letteralmente abbandonati i borghi vecchi di mezza collina e si sono
creati nuovi centri sulla litoranea fatti di abitazioni anonime e già degradate
(già nel 1961 l’allora
Primo Ministro Fanfani così sintetizzava questa situazione: qui si tratta di
rifare la struttura economica e sociale, e spesso persino il suolo).
Il vuoto della politica ha lasciato spazio al contrapporsi di interessi locali
tale da impedire una benchè minima progettualità di area (solamente nei primi anni del secondo
dopoguerra un movimento politicizzato di braccianti è stato in grado di
esprimere alcune amministrazioni con una qualche visione, però ben presto
vanificata da questo tratto conflittuale, non a caso molti sostengono che
Calabria debba essere declinata al plurale: le
Calabrie). In un contesto così caratterizzato, e così
storicamente consolidato, una qual certa svolta difficilmente può essere
avviata per percorsi endogeni, occorre che intervengano fattori esogeni capaci
di coniugarsi con le sopite risorse interne. Ed è esattamente questo che è
avvenuto nella costa ionica calabra. A partire dalla fine degli anni Novanta su
queste coste si sono concentrati flussi migratori tanto consistenti quanto fin
lì imprevisti (lo
sbarco simbolo di questa inaspettata novità è quello del barcone Ararat
approdato il 27 Dicembre 1997 sulla spiaggia di Badolato con 826 persone a
bordo in buona parte curdi iracheni). Si è trattato di un
autentico shock che ha trovato, ovviamente, del tutto impreparate istituzioni e
servizi sociali, ma al contrario sindaci e associazioni locali capaci di
affrontare questa emergenza con un inaspettato spirito di coinvolgimento e
solidarietà. Questo spirito si è tradotto in un’autentica rivoluzione culturale
che ha intaccato, del tutto imprevedibilmente, uno dei pilastri della mentalità
diffusa: la
casa di proprietà. La consapevolezza di un patrimonio edilizio,
quello dei borghi collinari, inesorabilmente condannato al degrado, collegata
alla necessità urgente di dare accoglienza a quelle migliaia di persone
provenienti da paesi ancora più poveri della già povera Calabria, ha innescato
un movimento di straordinaria valenza. Le case degli antichi borghi, affidate
ai nuovi arrivati, si sono via via ripopolate e sono tornate a vivere di una
vita nuova, di colori e voci diverse. Il termine che è stato usato per definire
questo fermento collettivo non è stato “accoglienza”, ma “ospitalità”, più in grado di definire
il rapporto che si è creato capace di coinvolgere buona parte della comunità
locale. Sino al punto di innescare una ricaduta anche in termini di turismo, ma
di un turismo diverso, perché composto da persone (specie
dal Nord Europa) attratte proprio dal patrimonio edilizio da
ripopolare e dal clima sociale che lo ha rianimato (è
stata in particolare la nota esperienza di Riace e del suo sindaco di allora,
Mimmo Lucano, assurta a fama internazionale a fare da volano a questa
inaspettata svolta). In questa stessa area è stata di recente
avviata una esperienza di carattere del tutto opposto: il borgo di Gerace è
stato selezionato per un finanziamento di 20 milioni di euro, all’interno di un
progetto PNRR, finalizzato ad una totale rigenerazione urbanistica con la
creazione di strutture ricettive “classiche”, a parere di molti destinata
all’insuccesso per la semplice ragione che il turista classico privilegia
località meglio dotate di servizi e collegamenti, e magari più glamour. Le note
vicende giudiziarie, innescate da una opposizione politica ideologica, hanno pesato
moltissimo sulla crescita di questa svolta che ha comunque lasciato una
importante eredità culturale: quella di un turismo “diverso” fatto di cultura (anche in questo Riace è capofila),
di relazioni umane all’insegna della ospitalità.
Grigio = Le Dolomiti Orientali al centro dell’Europa (il grigio delle pareti e delle rocce)
La
principale strada che sale verso le valli delle Dolomiti Orientali passa per
Longarone, Casso ed Erto, ormai muti testimoni della tragedia del Vajont e
della criminale sottovalutazione dei rischi idrogeologici del frammentato
paesaggio italiano. Si entra da questa tragica porta in una delle zone più
simboliche delle difficoltà dell’area più ad Est dell’Italia a ricostruire una
sua identità socioeconomica troppo a lungo condizionata dall’essere una
strategica terra di frontiera. Lo stato prolungato di servitù militare,
manifestamente segnato dall’insistenza di moltissime infrastrutture militari,
ha infatti profondamente segnato il suo territorio, la sua economia, la sua
identità sociale e culturale, soprattutto nelle aree, come quella delle
Dolomiti Orientali, già del loro emarginate dalla conformazione territoriale e
ambientale (alla tragedia del
Vajont si sono spesso aggiunte le devastazioni provocate da terremoti, questa è
una zona ad altissimo rischio sismico). Con la sola eccezione di
alcuni limitati settori di eccellenza (la
coltelleria in particolare) la natura, ed i boschi soprattutto,
rappresentano ancora oggi la voce più rilevante dell’economia locale. La
tempesta Vaia del 2018, con milioni e milioni di alberi abbattuti (anche qui) da
un autentico ciclone, ha messo a nudo la fragilità di questo patrimonio di
fronte agli effetti del cambiamento climatico. Si è trattato di un fenomeno
estremo (anche se il
concetto di estremo va sicuramente rivisto con l’avanzare del cambiamento
climatico) che ha tuttavia reso più evidente il progressivo mutare,
del tutto indipendente dal diretto intervento umano, dell’ambiente boschivo che
da almeno quindici anni si è innescato con l’aumentare delle temperature. Ed ha
al tempo stesso sollecitato un radicale ripensamento delle pratiche di utilizzo
boschivo sin qui seguite che ha dato il via ad alcune esperienze di costruzione
di una filiera diversa da quella tradizionale limitata al solo taglio per
ricavare materia prima per le grandi segherie (soprattutto
austriache). E’ una svolta culturale ancor prima che
economica, si tratta infatti di meglio assecondare il cambiamento boschivo già in
corso evitando di piantare essenze “industriali” (come
l’abete rosso, ideale per lavorazioni ordinarie di segheria, ma con radici
troppo fragili) per puntare su altre più indicate per
utilizzi particolari (si
punta ad esempio su alberi di “legno di risonanza”
come l’acero e altri tipi di abete, ricercatissime per costruzione di strumenti
musicali). Questo cambiamento si accompagna a tecniche diverse di
taglio, meno estensive, più mirate, a ciclo completo sul posto. Si tratta di
uno sforzo articolato che richiede specifiche competenze di vario genere che
possono divenire una alternativa di valore al semplice lavoro da “boscaiolo”
e che stanno per questo coinvolgendo le nuove generazioni. Fin da subito sembra
essere significativa la ricaduta sulla tradizionale economia comunitaria del
bosco ridando centralità ad una pratica secolare che, non per nulla, passa
attraverso il rilancio e l’estensione delle “Regole”, ossia l’uso condiviso e
comunemente deciso di un patrimonio boschivo costruito con l’assemblaggio delle
singole proprietà (una
pratica in uso già nel Medioevo e poi erroneamente trascurata)
peraltro resa più agevole dalle possibilità telematiche di conoscenza,
comunicazione e condivisione (che
si estendono anche alla mappatura informatizzata degli alberi e del loro ciclo
di vita). L’avvio forzato, ma subito declinato in positivo, di
questo intreccio fra vecchie e nuove pratiche sta aprendo prospettive anche al (ri)fiorire di attività
artigianali e di piccola industria (in
particolare nei settori della orologeria e dell’ottica) in
grado di contrastare l’immancabile spopolamento anche qui avvenuto
Giallo = I confini mobili del Molise (il
giallo delle sue colture cereagricole)
Il
territorio che ha nome Molise è stato per millenni terra di transito, di
uomini, di merci (da
e verso i porti adriatici) di animali (il
Tratturo Magno che collega i pascoli appenninici della Maiella alle pianure
pugliesi lo attraversa per intero), nomade è stata a lungo la
sua identità. Ed ancora oggi questi tratti, nomadi e rurali, si sono mantenuti
in buona misura tali, a segnare un netto stacco paesaggistico rispetto a quello
ormai troppo diffuso dell’Italia urbanizzata e industrializzata. Non deve
allora stupire se nel Molise, mentre il resto dell’Italia è già costretto a
fare i conti con il post industriale, sia ancora percepibile l’anelito verso un
passaggio, dall’antico al moderno, che qui non si è mai realizzato. Nemmeno il
turismo, perlomeno quello canonizzato dal consumismo, è riuscito ad essere una
alternativa di una qualche consistenza. D’altronde in un territorio bello
perché poco antropizzato, ricco di storia però consolidata in borghi poveri di
arte, il turismo deve strutturarsi in modi diversi per non restare soffocato
dalla concorrenza. Eppure, mancato l’appuntamento storico con l’industrializzazione,
il turismo viene ancora vissuto come l’unica prospettiva atta a fronteggiare
spopolamento e mancanza di benessere. Tutti i progetti messi in campo hanno
però fin qui prodotto ben pochi risultati soprattutto perché nulla(in particolare non sono mai stati
avviati mirati percorsi di formazione e specializzazione per le professioni
turistiche) è
stato fatto per coinvolgere le comunità locali in un cambiamento che, per
essere efficace, doveva necessariamente vederle protagoniste all’interno di una
ampia riflessione su quali nuove forme vincenti possa assumere un settore come
quello turistico ormai globalmente inflazionato. Solo in anni recenti è
iniziato per il Molise un percorso di questo tipo: con la preziosa
collaborazione di un gruppo di lavoro attivato nell’ambito della Strategia
Nazionale delle Aree Interne (SNAI), con
il coinvolgimento delle Comunità Montane molisane, è stato messo a punto, non
senza fatica stante la scarsa collaborazione degli enti locali, un progetto che
prende avvio dalla consapevolezza dei tanti limiti da superare. Le ipotesi
presentate, che sono state collettivamente delineate partendo dal racconto e
quindi dal recupero della locale identità storica, suscitano interesse
soprattutto tra giovani imprenditori locali che si sentono imprigionati nelle
classiche logiche assistenziali. E’ in questo modo che è stato riscoperto un
settore, quello dei coltelli da macello (per
secoli al servizio degli allevamenti) colpevolmente trascurato
perché eccessivamente dimensionato sulla domanda locale. E’ ancora una piccola
cosa, ma aver destinato le risorse finanziarie disponibili nell’ambito del
progetto a riattivare botteghe e laboratori, sta consentendo di rimettere in
moto una filiera che recupera corsi d’acqua e piccole centrali dismesse, ridefinisce
il territorio riportando alla luce sentieri e percorsi abbandonati, producendo
così una proposta che, per “turisti esploratori”, dà fiato ad un’economia
attenta al territorio ed alla sua storia. Aver fatto entrare anche solo uno
sbuffo di aria nuova nell’asfittica mentalità rassegnata del Molise sta
iniziando a smuovere la palude attendista e sta tracciando un modello di
sviluppo originale, eco-compatibile, orgoglioso delle tradizioni locali.
Cenere = La Sardegna centrale (la
cenere degli incendi che la martoriano)
E’
sempre stata una zona di incendi, ma quello del 2021 (durato cinque giorni, spento a fatica
da 7 aerei, 13 elicotteri e 7.000 uomini) passerà alla storia
per la sua violenza favorita dalla sempre più frequente siccità e soprattutto
dall’esteso abbandono di prati, pascoli, boschi. Anche qui, come in tutte le
aree interne già esplorate, si è di fronte al risultato, inevitabile, di un
modello economico e sociale che ha volutamente dimenticato le aree territoriali
che meno sembravano prestarsi alle logiche dell’industrializzazione,
condannandole prima all’emarginazione e poi allo svuotamento. Ed anche qui
l’esperienza dimostra che non ha però senso pensare semplicemente di
ripristinare trame economiche e sociali ormai perse, quando la scommessa è
quella di recuperarne la valenza identitaria, ma inserendola in modo
appropriato in un contesto che deve essere calibrato, correggendone limiti e
storture, sulle nuove potenzialità. E’ un autentico salto culturale che
richiede coinvolgimenti personali (le aree interne sono anche dentro di noi, sostiene
Tantillo) e comunitari. E’ quanto cerca di perseguire un’esperienza,
mirata ai giovani, che, parafrasando la “Unione dei Fenici” (la
Comunità di sette comuni della Sardegna centrale) si
è chiamata “Unione
dei felici”. L’aspetto che sta caratterizzando questa reazione viene
però ancora dal passato, è l’eredità di un movimento di associazioni e di
cooperative sorte già negli anni cinquanta/sessanta nell’ambito di programmi
finanziati da una organizzazione europea preposta alla distribuzione dei fondi
del Programma Marshall. Questo movimento (la
cui prima esperienza è stata la nascita di una cooperativa di allevamento
pulcini!) ha rappresentato per decenni una preziosa forma di
sostegno sociale diffuso in un contesto socio-economico, quello
dell’agro-pastorale, ormai condannato all’arretratezza. Nel suo ambito, a
partire dagli anni Ottanta, è stato poi promosso un progetto pilota di “ospitalità
diffusa” (una
modalità ricettiva poi evoluta nel “bed and breakfast” e nell’agriturismo)
che, raccogliendo l’attenzione di un turismo di élite, ha rappresentato il volano
per un cambiamento culturale, di apertura verso il mondo capace di superare le
ataviche diffidenze verso il nuovo, verso il “di fuori”. La rete cooperativa,
l’apertura culturale, l’intesa sempre più estesa e profonda con chi “viene da
fuori” (è riduttivo
chiamare turisti le tante persone che si sono insediate in queste zone avviando
attività imprenditoriali specie in campo turistico e culturale),
sono diventate le basi sulle quali poggia, negli ultimi due decenni, un
processo di graduale, per quanto limitato, sviluppo economico. E’ ancora poco,
troppo poco, per essere una risposta adeguata a supplire a tutte le ricadute
derivanti dall’abbandono delle tradizionali attività agricole e pastorali (i cui effetti sul territorio,
oltretutto, si fanno pesantemente sentire come nel disastroso incendio del 2021).
Ma allo stato attuale rappresenta per questa area della Sardegna ai margini del
turismo di mare e delle attività economiche delle città costiere l’unica
alternativa alle logiche statali e regionali ancora e sempre basate sulla
costruzione di strutture ed infrastrutture (messe
a disposizione del nulla) e su finanziamenti straordinari (che si disperdono in sterili rivoli
assistenziali e clientelari).
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La
lezione che sembra emergere dal viaggio in queste sette aree, e nei loro
rispettivi colori, è proprio questa: al disordinato e mal governato sviluppo
del secondo dopoguerra, che ha lasciato ai margini vaste aree del paese,
creando così spopolamento, degrado ambientale, emarginazione, si è sin qui
pensato di porre rimedio ribaltando su di esse, con disordinate e strumentali
politiche di sostegno e rilancio, i meccanismi che sembravano aver funzionato
altrove. In questa fase, in cui quel modello di sviluppo sta invece dimostrando
tutti i suoi limiti e tutte le sue contraddizioni, è proprio dalle trascurate
aree interne, e dai per quanto timidi processi di uscita dall’emarginazione
autonomamente messi in moto, che emerge la preziosa indicazione che sono altri
i valori e le potenzialità su cui puntare. Cultura, legami comunitari, mestieri
e attività tradizionali riadeguati al presente, amore e cura del territorio,
servizi alle persone, apertura al mondo, possono, se ben interpretati e
assecondati, valere molto di più delle solite strutture, infrastrutture, finanziamenti
a pioggia, calati senza adeguate visioni.
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