giovedì 15 febbraio 2024

Il "Saggio" del mese - Febbraio 2024

Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2024

L’attenzione per il territorio, visto come elemento imprescindibile di conoscenza dei fenomeni socio-economici e come dimensione ottimale per costruire un diverso modello di sviluppo, rappresenta da tempo una costante in molti dei nostri “Saggi del mese”. A maggior ragione lo è in quello scelto per questo Febbraio 2024 espressamente incentrato ad esplorare aree interne del nostro paese rimaste ai margini della tumultuosa, ma contraddittoria, crescita italiana. Conoscere le ragioni di questa emarginazione è utile proprio per meglio mettere a fuoco limiti e negatività dell’idea di sviluppo che l’ha ispirata e sostenuta 

il cui autore è Filippo Tantillo

(1968, ricercatore, film-maker e attivista, lavora per università e istituti di ricerca italiani ed europei alla messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio e dei fenomeni sociali. Fa parte dell'associazione Riabitare l'Italia e del Forum Disuguaglianze e Diversità)

Le prime righe dell’Introduzione illustrano bene l’oggetto dell’esplorazione di Tantillo e anticipano le considerazioni di fondo ricavate in questo suo “viaggio nelle aree interne”:

……..Una parte del nostro paese negli ultimi anni è sparita dal discorso pubblico e dall’agenda politica. Costituisce più della metà del territorio nazionale ed è abitata da almeno 13 milioni di persone, vale a dire circa il 22% di tutti gli italiani. Derubricata a ultimo residuo dell’Italia rurale, una vandea abitata da una popolazione anziana e antimoderna, oggi appare sulla mappa demografica del Paese come un arcipelago di luoghi vuoti, quasi senza più abitanti…..E’ però sufficiente guardarci dentro per scoprire che sono terre tutt’altro che immobili, sensibili alla trasformazioni climatiche e ai mutamenti dell’economia mondiale, percorse incessantemente da flussi di umani, e quindi tali da restituire l’immagine di un Paese molto più grande e vario di come si autorappresenti …..

Sono sette le aree scelte da Tantillo come paradigmi di questa situazione, confusamente racchiusa nella confusa e indeterminata definizione di “aree interne”, ed ognuna è abbinata ad un colore che ne sintetizza la peculiarità ambientale:

*   Smeraldo = Le valli Occitane (Piemonte)

*    Rosso =Il fiume Simeto (Sicilia)

*   Verde = L’Appennino centrale

*   Argento = La costa ionica della Calabria

*   Grigio = Le Dolomiti orientali al centro d’Europa

*   Giallo = I confini mobili del Molise

*   Cenere = La Sardegna centrale

Le percorreremo, va da sé a volo d’aquila, in questa sintesi per rintracciare in ognuna di esse i tratti specifici della loro emblematica capacità di testimoniare le ricadute fortemente negative che hanno dovuto subire, ma al tempo stesso anche la capacità di reinventarsi grazie ad idee e progetti (in buona misura accompagnati dalla “Strategia nazionale per le Aree Interne” istituita nel 2012 dall’allora Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca) che molto possono valere per una generale svolta

Smeraldo = Le valli occitane (smeraldo per il verde intenso dei suoi boschi)


E’ un angolo delle Alpi, che scende dall’Alta Val di Susa fino a sfiorare il mare Ligure a cavallo del confine fra Italia e Francia, che raggruppa quattordici valli e le loro diramazioni in valli laterali (sono circa 120 Comuni, tutti sotto i 5.000 abitanti di cui una ventina con meno di cento, per una popolazione totale di circa 80.000 persone) accomunate dall’appartenenza linguistica al ceppo occitano (l’antica “Lingua d’oc”). Per quanto investite in modo differenziato dall’impetuosa crescita economica del secondo dopoguerra tutte hanno subito un pesante svuotamento di abitanti, dovuto al venire meno delle condizioni di sussistenza della tradizionale economia di montagna (ben raccontata nel libro “Assalto alle Alpi” di Albino Ferrari nostro “Saggio del mese” di Luglio 2023), che qui si è articolato in due fasi: una prima che ha visto un consistente spostamento verso le grandi città industriali e una seconda caratterizzata da una ulteriore migrazione interna verso i fondovalle dai centri abitati di media/alta montagna (la prima fase si è concentrata negli anni 60/70/80 ed è spiegata soprattutto dalla mancanza di lavoro, la seconda non si è ancora arrestata ed è sempre più segnata dalla crescente mancanza di servizi). E’ su questi ultimi che si concentra l’attenzione di Tantillo, è qui infatti che si colgono con drammatica evidenza i segni dell’abbandono umano (riforestazione e ripopolamento di animali selvaggi, case e interi borghi ormai degradati), ma è sempre qui che negli ultimi due decenni è possibile cogliere interessanti segnali di una possibile svolta, anticipata da un primo significativo cambiamento avvenuto negli anni Settanta. E’ in questo decennio che prende corpo un risveglio identitario delle popolazioni di queste valli basato sulla riscoperta del proprio patrimonio culturale in ispecie linguistico. Il dialetto occitano, fin lì vissuto come sinonimo di emarginazione, di povertà, di ignoranza, diventa un motivo di orgoglio, di recupero di una identitaria cultura storica di grande valore. Nascono movimenti, che ne richiedono la tutela e la valorizzazione, che raccolgono e danno voce ad una esigenza di riscatto e che ottengono nel 1999 un’apposita legge che riconosce l’occitano come lingua, che ne permette quindi l’insegnamento nelle scuole ed un uso limitato nella pubblica amministrazione. Questo straordinario risveglio culturale dà luce nuova alle valli e viene premiato da un interesse turistico dapprima limitato a viaggiatori appassionati di cultura e trekking, principalmente stranieri e benestanti (ancora oggi le guide moderne di alcune valli sono solo in tedesco) e poi capace di coinvolgere famiglie e giovani. Il crescente riscontro di interesse, e di ritorno economico, fa da ulteriore volano al recupero della vivibilità complessiva delle aree fin lì più trascurate delle valli occitane: si recuperano case ed alpeggi, si ridà vita ad intere borgate (Elva, Ostana, Pralup, per citare alcuni esempi), nascono Fondazioni, Circoli Culturali, Festival e Feste, l’artigianato locale si rilancia. Il recupero dell’identità linguistica si coniuga da subito con la difesa e la valorizzazione delle montagne non più basata sull’industria dello sci ma attenta alla difesa dell’ambiente. Tutto questo movimento non si è ancora tradotto in una ripresa di residenti stabili, pesa ancora troppo la mancanza di servizi adatti ad una popolazione in gran parte anziana. Non a caso, a testimonianza della valenza innovativa di questa esperienza, si è fatta strada l’idea di sostenere un nuovo mirato welfare di valle sfruttando, nel loro pieno rispetto, la grande ricchezza di risorse naturali, a cominciare dalle acque. E’ un mondo nuovo che sta creando nuove istituzioni finalizzate ad una idea di sviluppo sociale ed economico che richiede una trasformazione delle strutture decisionali legandole di più al patrimonio ambientale e culturale. L’Italia vuota per essere riempita richiede anche questa tipo di svolta. Nelle valli occitane, con tutte le immaginabili difficoltà, tutto questo sta iniziando a succedere.

 Rosso = Il fiume Simeto (rosso come la lava dell’Etna dal quale nasce)


Il bacino fluviale del Simeto è vivido testimone di molti aspetti caratteristici della storia siciliana. A lungo le sue acque, alimentate dalla nevi dell’Etna, sono state preziose per una agricoltura, in gran misura diversificata e basata su piccoli appezzamenti, che ha sostenuto l’economia di una popolazione numerosa. Nel secondo dopoguerra sono state attivate politiche di forte incentivazione alla monocoltura industrializzata di agrumi finalizzata all’esportazione (peraltro ormai entrata in crisi irreversibile stante la forte concorrenza globale), accompagnate da un utilizzo specifico delle acque e da una radicale trasformazione dell’ecosistema fluviale. Lo stravolgimento della tradizionale struttura produttiva ha comportato la concentrazione dei piccoli appezzamenti, la collegata perdita delle fonti di reddito familiare è stata compensata unicamente con le classiche politiche assistenziali. Si sono così innestate pesanti dinamiche di emigrazione, di disagio e di perdita di identità delle tradizionali comunità locali. In aggiunta lungo i 116 km del Simeto sono via via sorte una miriade di discariche abusive (a servizio dell’area urbana della vicina Catania) gestite dalla criminalità organizzata di stampo mafioso che hanno ulteriormente compromesso l’ambiente fluviale e la residua agricoltura parcellizzata. In questo quadro di degrado economico, sociale e ambientale, all’apparenza senza vie d’uscita, la molla per una reazione dal basso è stata fornita proprio dal tema della difesa dell’ambiente innescata dal progetto regionale di localizzazione di un mega inceneritore rifiuti. Nei primi anni duemila nasce il Presidio del fiume Simeto (che unisce ben 63 organizzazioni locali di vario genere) inizialmente finalizzato a contrastare tale scelta (lotta che nel 2011 si è chiusa con una confortante vittoria) ma capace di allargarsi ad una coinvolgente lotta di contrasto alle ecomafie e al complessivo degrado dell’intera area fluviale. Lo slogan “dalla protesta alla proposta” ha segnato questo salto di qualità che ha scelto come suo simbolo un’enorme carta del territorio (larga 10 metri e alta tre) che riassume in una rappresentazione cartografica-politica (si tratta di una forma diffusa nelle pratiche di lotte sociali sintetizzabile  nella formula “un mondo disegnato dal suolo”)  tutti i possibili progetti che nelle intenzioni del Presidio potranno restituire all’area interna del fiume Simeto una sua vivibilità ed una sua identità (si parla ad esempio di recupero di siti storici, di valorizzazione di prodotti tipici quali i pistacchi di Bronte, di avvio di gestione collettiva di terreni agricoli dismessi). La positiva esperienza dell’opposizione all’inceneritore ha quindi compattato una rete diffusa di associazioni, circoli culturali, sezioni di partito che le stanno dando concreto e capillare seguito, aprendo in questo modo due differenti fronti: uno di aperto conflitto con la mafia locale (non mancano di certo intimidazioni, anche pesanti, e sabotaggi) e uno di confronto, aperto e costruttivo perché basato su tematiche concrete e mirate, con le amministrazioni locali. I due fronti ovviamente si intrecciano e confermano che il recupero delle arre interne può avvenire solo grazie ad una stretta, e diversa, sinergia fra cittadinanza e istituzioni

Verde = L’Appennino centrale (il verde dei suoi prati e dei suoi alpeggi)

La popolazione di Roma è passata dai 1.600.00 circa di abitanti del 1950 ai 2.900.000 circa del 2016, buona parte di questa crescita (unitamente a quella delle prospicienti città costiere adriatiche) è avvenuta nell’arco di trent’anni, nel 1980 già si contavano 2.850.000 abitanti, ed è in gran misura costituita da cittadini provenienti dalle aree interne dell’Appennino Centrale. Questa parte della lunga catena appenninica si presenta come un susseguirsi di catene montuose, mai troppo alte e impervie, intervallate da ampie valli, una parte significativa di questo paesaggio è racchiuso in quattro parchi nazionali e in tre grandi parchi regionali, si parla del più vasto insieme di aree protette di tutta l’Europa, che forma unitamente ai vasti pascoli (con gli immancabili contrasti tra allevatori e fauna selvatica. Il WWF calcola che ogni anno siano uccisi dai 200 ai 500 lupi su una popolazione complessiva di 3.000 esemplari, le cui nascite a fatica compensano le uccisioni) uno straordinario unicum ambientale. Si parla purtroppo di un pezzo dell’Italia a fortissimo rischio sismico che nel corso degli ultimi decenni ha inferto danni pesantissimi, con molte vittime, ad un patrimonio abitativo già del suo vecchio e trascurato. Questo insieme di caratteristiche naturali e di intensi ed inevitabili fenomeni migratori ha fatto sì che le zone più interne degli Appennini Centrali siano ormai divenute una lunga sfilza di piccole città fragili con pochissimi abitanti. In questo contesto fortemente segnato, la possibilità di una svolta poggia su un fenomeno di recente avvio, ma che già vede una sua significativa consistenza: quello dei rientranti. Tornano, raggiunta la pensione, anziani originari del posto, ma tornano anche molti giovani, i loro figli e nipoti. Sono soggetti eterogenei non solo per età, ma anche per motivazioni e aspettative. Sono soprattutto i giovani che con questo percorso all’inverso stanno creando le condizioni per una inversione di tendenza. Molti riattivano coltivazioni e allevamenti, altri riattano casolari abbandonati per avviare attività di turismo sostenibile, di artigianato, di servizio alle persone. Sono in parte figli di una cultura disillusa che spesso tornano per pura necessità viste le porte chiuse che trovano in basso, altri però, e sono quelli più motivati, compiono una scelta di vita con al suo centro il senso di comunità, gestendo forme di agricoltura ecologica e solidale, ed un rapporto pieno con l’ambiente che ispira il tipo di turismo che offrono, certo non è più quello mordi e fuggi dello sci (il Terminillo è in queste zone, e d’altronde manca proprio la neve). E’ un fenomeno agli albori, ma non mancano incoraggianti riscontri

Argento = La costa ionica della Calabria (l’argento del mare increspato dai venti) 

Siamo in una area emblematica del disastro economico e sociale che da sempre caratterizza buona parte del Sud Italia così sinteticamente riassumibile: agricoltura di sussistenza, assenza di attività industriali, marginalità turistica, incapacità politiche e amministrative, assistenzialismo puro, servizi inesistenti, infrastrutture inadeguate e, certo non ultima, una fortissima presenza della ‘ndrangheta. Completa questo quadro, che ha consolidato nel secondo dopoguerra tratti antichi, una autolesionistica mancanza di attenzione e rispetto dell’ambiente che ha implicato uno sviluppo urbanistico del tutto incongruente: a partire dagli anni sessanta, con un processo del tutto non governato, sono stati letteralmente abbandonati i borghi vecchi di mezza collina e si sono creati nuovi centri sulla litoranea fatti di abitazioni anonime e già degradate (già nel 1961 l’allora Primo Ministro Fanfani così sintetizzava questa situazione: qui si tratta di rifare la struttura economica e sociale, e spesso persino il suolo). Il vuoto della politica ha lasciato spazio al contrapporsi di interessi locali tale da impedire una benchè minima progettualità di area (solamente nei primi anni del secondo dopoguerra un movimento politicizzato di braccianti è stato in grado di esprimere alcune amministrazioni con una qualche visione, però ben presto vanificata da questo tratto conflittuale, non a caso molti sostengono che Calabria debba essere declinata al plurale: le Calabrie). In un contesto così caratterizzato, e così storicamente consolidato, una qual certa svolta difficilmente può essere avviata per percorsi endogeni, occorre che intervengano fattori esogeni capaci di coniugarsi con le sopite risorse interne. Ed è esattamente questo che è avvenuto nella costa ionica calabra. A partire dalla fine degli anni Novanta su queste coste si sono concentrati flussi migratori tanto consistenti quanto fin lì imprevisti (lo sbarco simbolo di questa inaspettata novità è quello del barcone Ararat approdato il 27 Dicembre 1997 sulla spiaggia di Badolato con 826 persone a bordo in buona parte curdi iracheni). Si è trattato di un autentico shock che ha trovato, ovviamente, del tutto impreparate istituzioni e servizi sociali, ma al contrario sindaci e associazioni locali capaci di affrontare questa emergenza con un inaspettato spirito di coinvolgimento e solidarietà. Questo spirito si è tradotto in un’autentica rivoluzione culturale che ha intaccato, del tutto imprevedibilmente, uno dei pilastri della mentalità diffusa: la casa di proprietà. La consapevolezza di un patrimonio edilizio, quello dei borghi collinari, inesorabilmente condannato al degrado, collegata alla necessità urgente di dare accoglienza a quelle migliaia di persone provenienti da paesi ancora più poveri della già povera Calabria, ha innescato un movimento di straordinaria valenza. Le case degli antichi borghi, affidate ai nuovi arrivati, si sono via via ripopolate e sono tornate a vivere di una vita nuova, di colori e voci diverse. Il termine che è stato usato per definire questo fermento collettivo non è stato “accoglienza”, ma “ospitalità”, più in grado di definire il rapporto che si è creato capace di coinvolgere buona parte della comunità locale. Sino al punto di innescare una ricaduta anche in termini di turismo, ma di un turismo diverso, perché composto da persone (specie dal Nord Europa) attratte proprio dal patrimonio edilizio da ripopolare e dal clima sociale che lo ha rianimato (è stata in particolare la nota esperienza di Riace e del suo sindaco di allora, Mimmo Lucano, assurta a fama internazionale a fare da volano a questa inaspettata svolta). In questa stessa area è stata di recente avviata una esperienza di carattere del tutto opposto: il borgo di Gerace è stato selezionato per un finanziamento di 20 milioni di euro, all’interno di un progetto PNRR, finalizzato ad una totale rigenerazione urbanistica con la creazione di strutture ricettive “classiche”, a parere di molti destinata all’insuccesso per la semplice ragione che il turista classico privilegia località meglio dotate di servizi e collegamenti, e magari più glamour. Le note vicende giudiziarie, innescate da una opposizione politica ideologica, hanno pesato moltissimo sulla crescita di questa svolta che ha comunque lasciato una importante eredità culturale: quella di un turismo “diverso” fatto di cultura (anche in questo Riace è capofila), di relazioni umane all’insegna della ospitalità.

Grigio = Le Dolomiti Orientali al centro dell’Europa (il grigio delle pareti e delle rocce) 

La principale strada che sale verso le valli delle Dolomiti Orientali passa per Longarone, Casso ed Erto, ormai muti testimoni della tragedia del Vajont e della criminale sottovalutazione dei rischi idrogeologici del frammentato paesaggio italiano. Si entra da questa tragica porta in una delle zone più simboliche delle difficoltà dell’area più ad Est dell’Italia a ricostruire una sua identità socioeconomica troppo a lungo condizionata dall’essere una strategica terra di frontiera. Lo stato prolungato di servitù militare, manifestamente segnato dall’insistenza di moltissime infrastrutture militari, ha infatti profondamente segnato il suo territorio, la sua economia, la sua identità sociale e culturale, soprattutto nelle aree, come quella delle Dolomiti Orientali, già del loro emarginate dalla conformazione territoriale e ambientale (alla tragedia del Vajont si sono spesso aggiunte le devastazioni provocate da terremoti, questa è una zona ad altissimo rischio sismico). Con la sola eccezione di alcuni limitati settori di eccellenza (la coltelleria in particolare) la natura, ed i boschi soprattutto, rappresentano ancora oggi la voce più rilevante dell’economia locale. La tempesta Vaia del 2018, con milioni e milioni di alberi abbattuti (anche qui) da un autentico ciclone, ha messo a nudo la fragilità di questo patrimonio di fronte agli effetti del cambiamento climatico. Si è trattato di un fenomeno estremo (anche se il concetto di estremo va sicuramente rivisto con l’avanzare del cambiamento climatico) che ha tuttavia reso più evidente il progressivo mutare, del tutto indipendente dal diretto intervento umano, dell’ambiente boschivo che da almeno quindici anni si è innescato con l’aumentare delle temperature. Ed ha al tempo stesso sollecitato un radicale ripensamento delle pratiche di utilizzo boschivo sin qui seguite che ha dato il via ad alcune esperienze di costruzione di una filiera diversa da quella tradizionale limitata al solo taglio per ricavare materia prima per le grandi segherie (soprattutto austriache). E’ una svolta culturale ancor prima che economica, si tratta infatti di meglio assecondare il cambiamento boschivo già in corso evitando di piantare essenze “industriali(come l’abete rosso, ideale per lavorazioni ordinarie di segheria, ma con radici troppo fragili) per puntare su altre più indicate per utilizzi particolari (si punta ad esempio su alberi di “legno di risonanza” come l’acero e altri tipi di abete, ricercatissime per costruzione di strumenti musicali). Questo cambiamento si accompagna a tecniche diverse di taglio, meno estensive, più mirate, a ciclo completo sul posto. Si tratta di uno sforzo articolato che richiede specifiche competenze di vario genere che possono divenire una alternativa di valore al semplice lavoro da “boscaiolo” e che stanno per questo coinvolgendo le nuove generazioni. Fin da subito sembra essere significativa la ricaduta sulla tradizionale economia comunitaria del bosco ridando centralità ad una pratica secolare che, non per nulla, passa attraverso il rilancio e l’estensione delle “Regole”, ossia l’uso condiviso e comunemente deciso di un patrimonio boschivo costruito con l’assemblaggio delle singole proprietà (una pratica in uso già nel Medioevo e poi erroneamente trascurata) peraltro resa più agevole dalle possibilità telematiche di conoscenza, comunicazione e condivisione (che si estendono anche alla mappatura informatizzata degli alberi e del loro ciclo di vita). L’avvio forzato, ma subito declinato in positivo, di questo intreccio fra vecchie e nuove pratiche sta aprendo  prospettive anche al (ri)fiorire di attività artigianali e di piccola industria (in particolare nei settori della orologeria e dell’ottica) in grado di contrastare l’immancabile spopolamento anche qui avvenuto

Giallo = I confini mobili del Molise (il giallo delle sue colture cereagricole)  

Il territorio che ha nome Molise è stato per millenni terra di transito, di uomini, di merci (da e verso i porti adriatici) di animali (il Tratturo Magno che collega i pascoli appenninici della Maiella alle pianure pugliesi lo attraversa per intero), nomade è stata a lungo la sua identità. Ed ancora oggi questi tratti, nomadi e rurali, si sono mantenuti in buona misura tali, a segnare un netto stacco paesaggistico rispetto a quello ormai troppo diffuso dell’Italia urbanizzata e industrializzata. Non deve allora stupire se nel Molise, mentre il resto dell’Italia è già costretto a fare i conti con il post industriale, sia ancora percepibile l’anelito verso un passaggio, dall’antico al moderno, che qui non si è mai realizzato. Nemmeno il turismo, perlomeno quello canonizzato dal consumismo, è riuscito ad essere una alternativa di una qualche consistenza. D’altronde in un territorio bello perché poco antropizzato, ricco di storia però consolidata in borghi poveri di arte, il turismo deve strutturarsi in modi diversi per non restare soffocato dalla concorrenza. Eppure, mancato l’appuntamento storico con l’industrializzazione, il turismo viene ancora vissuto come l’unica prospettiva atta a fronteggiare spopolamento e mancanza di benessere. Tutti i progetti messi in campo hanno però fin qui prodotto ben pochi risultati soprattutto perché nulla(in particolare non sono mai stati avviati mirati percorsi di formazione e specializzazione per le professioni turistiche)  è stato fatto per coinvolgere le comunità locali in un cambiamento che, per essere efficace, doveva necessariamente vederle protagoniste all’interno di una ampia riflessione su quali nuove forme vincenti possa assumere un settore come quello turistico ormai globalmente inflazionato. Solo in anni recenti è iniziato per il Molise un percorso di questo tipo: con la preziosa collaborazione di un gruppo di lavoro attivato nell’ambito della Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI),  con il coinvolgimento delle Comunità Montane molisane, è stato messo a punto, non senza fatica stante la scarsa collaborazione degli enti locali, un progetto che prende avvio dalla consapevolezza dei tanti limiti da superare. Le ipotesi presentate, che sono state collettivamente delineate partendo dal racconto e quindi dal recupero della locale identità storica, suscitano interesse soprattutto tra giovani imprenditori locali che si sentono imprigionati nelle classiche logiche assistenziali. E’ in questo modo che è stato riscoperto un settore, quello dei coltelli da macello (per secoli al servizio degli allevamenti) colpevolmente trascurato perché eccessivamente dimensionato sulla domanda locale. E’ ancora una piccola cosa, ma aver destinato le risorse finanziarie disponibili nell’ambito del progetto a riattivare botteghe e laboratori, sta consentendo di rimettere in moto una filiera che recupera corsi d’acqua e piccole centrali dismesse, ridefinisce il territorio riportando alla luce sentieri e percorsi abbandonati, producendo così una proposta che, per “turisti esploratori”, dà fiato ad un’economia attenta al territorio ed alla sua storia. Aver fatto entrare anche solo uno sbuffo di aria nuova nell’asfittica mentalità rassegnata del Molise sta iniziando a smuovere la palude attendista e sta tracciando un modello di sviluppo originale, eco-compatibile, orgoglioso delle tradizioni locali.

Cenere = La Sardegna centrale (la cenere degli incendi che la martoriano) 

E’ sempre stata una zona di incendi, ma quello del 2021 (durato cinque giorni, spento a fatica da 7 aerei, 13 elicotteri e 7.000 uomini) passerà alla storia per la sua violenza favorita dalla sempre più frequente siccità e soprattutto dall’esteso abbandono di prati, pascoli, boschi. Anche qui, come in tutte le aree interne già esplorate, si è di fronte al risultato, inevitabile, di un modello economico e sociale che ha volutamente dimenticato le aree territoriali che meno sembravano prestarsi alle logiche dell’industrializzazione, condannandole prima all’emarginazione e poi allo svuotamento. Ed anche qui l’esperienza dimostra che non ha però senso pensare semplicemente di ripristinare trame economiche e sociali ormai perse, quando la scommessa è quella di recuperarne la valenza identitaria, ma inserendola in modo appropriato in un contesto che deve essere calibrato, correggendone limiti e storture, sulle nuove potenzialità. E’ un autentico salto culturale che richiede coinvolgimenti personali (le aree interne sono anche dentro di noi, sostiene Tantillo) e comunitari. E’ quanto cerca di perseguire un’esperienza, mirata ai giovani, che, parafrasando la “Unione dei Fenici(la Comunità di sette comuni della Sardegna centrale) si è chiamata “Unione dei felici”. L’aspetto che sta caratterizzando questa reazione viene però ancora dal passato, è l’eredità di un movimento di associazioni e di cooperative sorte già negli anni cinquanta/sessanta nell’ambito di programmi finanziati da una organizzazione europea preposta alla distribuzione dei fondi del Programma Marshall. Questo movimento (la cui prima esperienza è stata la nascita di una cooperativa di allevamento pulcini!) ha rappresentato per decenni una preziosa forma di sostegno sociale diffuso in un contesto socio-economico, quello dell’agro-pastorale, ormai condannato all’arretratezza. Nel suo ambito, a partire dagli anni Ottanta, è stato poi promosso un progetto pilota di “ospitalità diffusa(una modalità ricettiva poi evoluta nel “bed and breakfast” e nell’agriturismo) che, raccogliendo l’attenzione di un turismo di élite, ha rappresentato il volano per un cambiamento culturale, di apertura verso il mondo capace di superare le ataviche diffidenze verso il nuovo, verso il “di fuori”. La rete cooperativa, l’apertura culturale, l’intesa sempre più estesa e profonda con chi “viene da fuori” (è riduttivo chiamare turisti le tante persone che si sono insediate in queste zone avviando attività imprenditoriali specie in campo turistico e culturale), sono diventate le basi sulle quali poggia, negli ultimi due decenni, un processo di graduale, per quanto limitato, sviluppo economico. E’ ancora poco, troppo poco, per essere una risposta adeguata a supplire a tutte le ricadute derivanti dall’abbandono delle tradizionali attività agricole e pastorali (i cui effetti sul territorio, oltretutto, si fanno pesantemente sentire come nel disastroso incendio del 2021). Ma allo stato attuale rappresenta per questa area della Sardegna ai margini del turismo di mare e delle attività economiche delle città costiere l’unica alternativa alle logiche statali e regionali ancora e sempre basate sulla costruzione di strutture ed infrastrutture (messe a disposizione del nulla) e su finanziamenti straordinari (che si disperdono in sterili rivoli assistenziali e clientelari).

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La lezione che sembra emergere dal viaggio in queste sette aree, e nei loro rispettivi colori, è proprio questa: al disordinato e mal governato sviluppo del secondo dopoguerra, che ha lasciato ai margini vaste aree del paese, creando così spopolamento, degrado ambientale, emarginazione, si è sin qui pensato di porre rimedio ribaltando su di esse, con disordinate e strumentali politiche di sostegno e rilancio, i meccanismi che sembravano aver funzionato altrove. In questa fase, in cui quel modello di sviluppo sta invece dimostrando tutti i suoi limiti e tutte le sue contraddizioni, è proprio dalle trascurate aree interne, e dai per quanto timidi processi di uscita dall’emarginazione autonomamente messi in moto, che emerge la preziosa indicazione che sono altri i valori e le potenzialità su cui puntare. Cultura, legami comunitari, mestieri e attività tradizionali riadeguati al presente, amore e cura del territorio, servizi alle persone, apertura al mondo, possono, se ben interpretati e assecondati, valere molto di più delle solite strutture, infrastrutture, finanziamenti a pioggia, calati senza adeguate visioni.



 

 

 


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