La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
Febbraio
2024
E’ una parola che, pur arrivando da lontano dalla classicità
greca e romana, si collega ad una tematica più volte presente nel nostro attuale
riflettere sull’urgenza di una svolta radicale nel rapporto fra l’uomo e la
Terra. Ancora recentemente, nel “Saggio del mese” dello scorso Dicembre,
Umberto Galimberti evidenziava la svolta intervenuta nel pensiero filosofico
greco con Platone: mentre i suoi predecessori, le varie scuole presocratiche,
vedevano l’uomo profondamente connesso alla physis, alla natura, la sua
concezione lo colloca invece al di fuori come soggetto esterno. Già Heidegger,
a cui Galimberti chiaramente si ispira, aveva individuato in questa svolta la
nascita dell’attitudine umana, perfezionata poi dal metodo scientifico e dalla
tecnica, a considerare la physis un oggetto conoscibile, disponibile,
utilizzabile, cancellando così ogni possibile identificazione. Come vedremo, percorrendo il libro che con titolo omonimo l’ha ispirata, questa parola del
mese si collega strettamente a questo aspetto mettendo ancor più in luce la sua
fallacia.
METAMORFOSI
(dal
vocabolario on line Treccani) metamòrfoṡi, sostantivo femminile
derivato dal verbo greco classico “metamorphò”
(trasformare)
composto da “meta” (oltre) e “morphé” (forma) = trasformazione di un essere o di un oggetto in un
altro di natura diversa, in senso estensivo e figurato cambiamento,
modificazione in genere, nell’aspetto, nel carattere, nella condotta, nell’atteggiamento
morale o spirituale
Il libro in questione è
ed il suo autore è Emanuele Coccia
(1976, filosofo italiano, professore presso l'École des
hautes études en sciences sociales dal 2011, noto per la sua metafisica vegetale, è nome
sempre più di peso nel dibattito internazionale, autore di diversi saggi fra
cui: “La vita sensibile”, “Il bene nelle cose”, “La vita delle piante. Una
metafisica della mescolanza”)
Coccia già nel sottotitolo esplicita l’assunto (che riassume aspetti filosofici, ma anche biologici, fisici,
chimici) alla base della sua idea di metamorfosi:
siamo un’unica, sola vita, intendendo con
ciò un’idea di per sé molto semplice: la vita di tutte
le specie è una, e una sola. Fin dal suo comparire questa vita si
muove, si sposta, soprattutto si trasforma, è cioè soggetta a continua metamorfosi,
ma sempre resta quella che per la prima volta è comparsa seppure in forme
primitive. Non è semplice per tutti noi, così concentrati sulla nostra
personale vita, appropriarci davvero di questa verità “cosmica”,
accettare cioè che anche il nostro individuale essere altro non è che una forma
particolare assunta dall’incessante scorrere metamorfico della vita “una”. Neppure la svolta impressa da
Darwin con la sua rivoluzionaria concezione dell’evoluzione,
con la quale già rendeva traballante l’idea umana di essere una forma di vita “a sé stante, e superiore”, è riuscita a
fare breccia in questa, per quanto comprensibile, convinzione. La constatazione
oggettiva che tutte le forme di vita sono fra di loro connesse in un continuo
procedere metamorfico ed evoluzionistico significa, a ben vedere, qualcosa di
più della sola ricostruzione fisiologica del loro passare da uno stadio
all’altro, l’intuizione darwiniana trascina con sé la cosciente accettazione
del fatto che l’identità di ogni specie è puramente relativa, che ogni
specifica identità è determinata dalla continuità metamorfica con le
altre specie. Non solo, allo stesso modo emerge con evidenza che non esiste
neppure contrapposizione tra il “vivente”
e il “non vivente”, quella che
intendiamo come “vita” in effetti a sua
volta altro non è che l’eterna mutazione, e combinazione, dei mattoncini di “non vivente”, che emersi dalla nascita
dell’Universo, e dopo aver formato la chimica di base della Terra (Gaia), compongono
ogni forma “vivente”. Questo
rivoluzionario modo di intendere la vita, se pienamente compreso, non solo
dovrebbe liberare il campo da ogni teleologia (la
concezione filosofica secondo la
quale l'universo, con tutto ciò che comprende, sia orientato da una finalità,
decisa da una volontà divina o provvidenziale piuttosto che da un principio
attivo connesso al suo stesso divenire), ma anche e soprattutto sostenere la consapevolezza
che tutte le forme di vita, nessuna esclusa, hanno titolo a godere della stessa
importanza, dello stesso valore: la metamorfosi è il principio
di equivalenza tra tutte le nature, il processo reale che produce tale
equivalenza, rispetto alla quale nessuna forma di vita, uomo compreso, può
vantare un privilegiato differenziarsi. Se questo vale allora la metamorfosi possiede una duplice evidenza: ogni essere vivente possiede
in sé una pluralità di forme, al contempo ereditate e trasmissibili, e al tempo
stesso, proprio per questa ragione,
ciascuna di esse non esiste in maniera autonoma, separata. E’ questa la
convinzione filosofica - per certi aspetti di per sé non così sorprendente,
eppure costantemente ignorata e sottovalutata nel procedere storico del
pensiero umano - che muove il saggio di Coccia e dalla quale prende le mosse
per condurci in viaggio nelle varie fasi del vivere metamorfico esplorandole in
successione. Ci limitiamo, costretti dalle abituali dimensioni di un post, a riprendere l’essenza
del suo riflettere su: nascite –
bozzoli – reincarnazioni – migrazioni – associazioni.
Nascite
L’atto del nascere, del “venire al mondo”, comune a tutte le forme di vita,
dai batteri agli esseri più complessi, è al tempo stesso il processo più
individuale e la conferma più evidente della continuità metamorfica. Nascere,
per l’essenza ultima comune a tutte le sue modalità, significa infatti
l’impossibilità di separare ogni distinta individualità dalla storia naturale
che l’ha preceduta e dalla predisposizione a consegnarsi a quella che la
seguirà. In qualunque forma si manifesti la nascita avviene sempre in un corpo
altro, ed è
esattamente questo che in ultima istanza chiamiamo “natura”, nascere in effetti altro non è
che una riconfigurazione naturale, e metamorfica, di qualcos’altro che “c’era prima”. La cui materia, che sempre resta
quella originaria del comparire della vita, viene redistribuita diversamente in
una nuova forma a sé, a testimoniare il completamento di una metamorfosi che istituisce una sorta di gemellarità cosmica con tutte le altre forme viventi, va da sé a partire innanzitutto da quella che
l’ha avviata e contenuta. Se sono cioè gemelli gli esseri che hanno condiviso
lo stesso guscio natale, lo sono, per ragioni di contiguità, anche tutti gli
esseri che appartengono alla stessa specie, ma non di meno sono gemelle anche
tutte le specie che nascendo duplicano incessantemente la comune matrice
naturale. Al tempo stesso però ogni nascita costituisce un singolo anello della
molteplicità
che costantemente, di vita in vita,
testimonia la continuità evolutiva della trasformazione delle sue forme. La pluralità
degli esseri viventi rappresenta cioè il moltiplicarsi della vita che resta
però la stessa per tutti, per la semplice ragione che se così non fosse
non sarebbero possibili né la nascita né l’evoluzione. L’intreccio che in ogni nascita
avviene tra molteplicità e continuità racconta quindi una vita che, restando
sempre la stessa, è una versione più recente, più aggiornata, di quella l’ha
preceduta e resa possibile. In questo modo il passato non si manifesta
unicamente come memoria vitale perché, a sua volta, viene riorganizzato, ricostituito arbitrariamente, trasfigurato,
metamorfizzato. Vale a dire che è proprio nell’atto del nascere che prende
corpo una nuova versione della lunga
catena evolutiva che, iniziata con i primordiali atomi, ha via via segnato il
formarsi metamorfico del vivere. In questo quadro esistenziale nascere non
significa solo far parte del mondo, ma anche essere una sorta di specchio che
accoglie in sé il mondo stesso, la natura stessa. Questa evidente verità spiega
anche il fatto che ogni essere senziente, compreso l’uomo con la sua vantata
coscienza di sé, sia dimentico della sua nascita. Non può che essere così: ogni nuova vita è
una nuova casa della natura, che per plasmarsi in modo diverso deve essere
costruita sulla base della memoria di tutto ciò che è stato prima, ma al tempo
stesso essa deve essere dimentica di tutto ciò per permettere al nuovo di
essere tale. E’ in questa dimenticanza che risiede l’essenza della metamorfosi.
Bozzoli
La difficile comprensione ed
accettazione delle metamorfosi, del continuo mutare che investe
il mondo tutto, ha una sua spiegazione: il cambiamento mette a disagio. Per quanto a parole si esaltino
trasformazioni, progresso e sviluppo, ogni cambiamento reale, prima di essere
progressivamente assimilato, viene sempre vissuto con timore e sospetto. Sono
sostanzialmente due le modalità di trasformazione contemplate dal pensiero
umano: la conversione e la rivoluzione, ma la metamorfosì non è né l’una né l’altra. La conversione descrive la trasformazione di un
soggetto nell’ambito della quale ”convertirsi a…” è il frutto di un suo percorso interiore che si completa
grazie ad una cosciente padronanza di sé. La metamorfosi, al contrario, non è un atto di
volontà cosciente e personale, è una forza antica, esterna al soggetto, che
opera in piena autonomia. La rivoluzione, intesa in senso lato, indica invece il cambiamento,
radicale, del contesto in cui il soggetto vive. Nella storia dell’uomo si è da
sempre accompagnata a trasformazioni della “tecnica” o della “politica”, ma, in entrambe queste modalità, la rivoluzione sempre e
comunque esprime la pulsione narcisistica a governare il mondo intorno di chi
le ha promosse. Lo fa la
tecnica che, come strumento di proiezione
perfezionata e potenziata degli organi anatomici, consente un più completo
controllo ed utilizzo della natura, lo fa la rivoluzione come esaltazione
della volontà di cambiamento sociale, politico e culturale. E quindi ambedue
altro non sono che una forma della volontà umana, individuale e collettiva. La
metamorfosi indica invece un processo di mutazione slegato dal soggetto, dalla
sua volontà e dalla sua comprensione, nel quale esso è ridotto ad uno stadio di
“bozzolo”. Questa strana e passeggera forma
di vita chiama in causa il mondo degli insetti, autentici maestri di metamorfosi, per i quali infatti ogni crescita si
associa ad una modifica della loro forma. Se non è certo proponibile un
parallelo fisiologico tra uomo e insetti
è però rintracciabile un ammonimento allegorico in questa loro capacità
metamorfica: come gli insetti devono spogliarsi del vecchio corpo per passare
ad un nuovo modo di vivere (in una successione di fasi che
hanno una loro logica: il primo organismo è dedito alla nutrizione, alla
crescita, il corpo nuovo è finalizzato all’avvenire della specie tramite la
riproduzione) così l’uomo, se e quando orientato ad un cambiamento, deve
ugualmente spogliarsi del vecchio modo di vivere per poterne adottare uno
nuovo. E d’altronde come non cogliere l’evidenza che ogni crescita, quella
dell’uomo compresa, verso una forma adulta, e poi anziana, sancisce una
identica metamorfosi del corpo connaturata alla nuova condizione di vita. Non di
meno si può constatare che tutte le metamorfosi biologiche mantengono, grazie alla
loro continuità organica, la proprietà dei corpi di non troncare mai il
rapporto con la loro infanzia. Così come sostenuto da biologi e botanici
gioventù e vecchiaia sono in effetti stadi di ogni vita che comunque restano
fra di loro connessi seppure alternandosi in differenti sfasature temporali.
Sono una lenta e graduale metamorfosi di un’unica forma di vita. Con un
salto logico, neppure così tanto azzardato, può rientrare in queste
considerazioni persino il ruolo della “tecnica”, se considerata in quella che è la sua ultima vera essenza:
l’essere un accorgimento per superare insufficienze biologiche. Tecniche
fisiologiche, come il bozzolo, adottate da specie animali e vegetali (l’elenco esemplificativo è davvero lungo) a ben vedere non sono nella loro sostanza
così diverse da quelle artificiali usate dall’uomo per andare oltre le
potenzialità concesse dalla sua fisiologia di muoversi nell’ambiente. Ogni
tecnica, fisiologica o artificiale che sia, è quindi una sorta di procedura di
ringiovanimento, un rifornimento di potenza giovanile. Non è allora così
azzardato affermare che ogni oggetto tecnico (ad esempio arnesi, strumenti, macchinari,
dispositivi, e persino un libro) è, come il bozzolo, una metamorfosi del corpo, una modifica della sua identità naturale.
In questo senso
anche le trasformazioni metamorfiche del mondo vegetale rispondono ad una
identica finalità, con un di più non poco rilevante: nelle piante la
successione di fiori, frutti, foglie, modifica al tempo stesso il loro corpo e
al contempo la loro relazione con l’ambiente esterno e con le altre forme di
vita
Il bozzolo non è solo il paradigma
della maestria metamorfica della tecnica, esso indica soprattutto una modalità
dell’ “essere
al mondo”.
E’ cioè la dimostrazione vivente che la metamorfosi rappresenta il rapporto con sé
stesso che un organismo matura nell’ambiente in cui vive, testimonia cioè la
pulsione alla sopravvivenza ed all’evoluzione, che ogni essere vivente concretizza
disfacendo e ricostruendo il proprio corpo, i propri geni. Nella originaria ed
unica metamorfosi della Terra i bozzoli sono ovunque, raccontano tutto ciò che
è vita: il
mondo è un bozzolo fatto di bozzoli.
Reincarnazioni
E’ forse per un inconsapevole senso di colpa (al contrario reso esplicito in alcune culture animistiche) verso chi e cosa riduciamo a cibo che consideriamo la nutrizione un semplice scambio di energia, ma così facendo non prestiamo adeguata attenzione a due aspetti fondamentali dell’alimentazione. Il primo: in quanto animali mangiare significa appropriarsi di altra vita, animale o vegetale che sia. La vita si nutre di vita, mangiare significa fondere due o più vite in una sola. Il cibo testimonia che ogni essere vivente serve di nutrimento per altre forme di vita (l’uomo stesso, quando muore, diventa banchetto per organismi), diventa cioè una sua, non voluta, trasformazione metamorfica in un ciclo vitale che non si chiude mai. A questo primo aspetto se ne collega un secondo: la nutrizione, salvo casi eccezionali e limitatissimi, coinvolge sempre esseri di specie diverse. Anche questo aspetto è prova dell’unità vitale della Terra, la vita si nutre di vita indipendentemente dalla forma che ha. Ne consegue inoltre, a rafforzare questa unità vitale, che nessuna specie può limitarsi a sé stessa, la sua sopravvivenza, e quella che a sua volta può garantire ad altri, dipende dalle altre forme di vita. La nutrizione è una ulteriore prova della provvisorietà e della limitatezza delle forme che la vita ha evoluzionisticamente assunto. Vale a dire che mangiare, o essere mangiati, altro non è che una perenne metamorfosi. L’alimentazione, così intesa, è inoltre la prova che la morte non può essere pensata come il contrario della vita proprio perché altro non è che il passaggio dell’unica vita da una forma all’altra. Ogni morte è la continuazione della vita sotto altre sembianze. E’ però questa una considerazione “indigesta” per l’animale uomo, la presunzione umana di rappresentare una forma di vita diversa perché superiore a tutte le altre sembra rappresentare un ostacolo insormontabile. L’idea di essere a nostra volta “cibo” ci appare inaccettabile, suscita un rifiuto, la percepiamo come un’ingiustizia “morale”. La negazione istintiva dell’uomo occidentale ad accettare di essere parte, una delle parti, dell’unica metamorfosi vitale si spiega in buona misura con la sua convinzione di essere, pur vivendo in modo pieno la vita attraverso il suo corpo, fatto “di materia mentale”, di essere l’unica forma di vita a disporre di tale prerogativa.
anche per questo atteggiamento esiste
una diversità di concezioni in altre culture giudicate dall’Occidente “primitive”.
Basti pensare che molti popoli non occidentali deliberatamente espongono i cadaveri
dei propri morti al pasto degli animali selvaggi
Sicuramente incide poi uno dei dogmi fondanti la religione
cristiana, quello della “resurrezione dei
corpi”, che ha sicuramente contribuito a rafforzare questa
convinzione. In effetti, secondo alcuni antropologi a partire da Claude Lévi
Strauss, il mito della resurrezione, che in quanto tale negherebbe la metamorfosi del
corpo dopo la sua morte (dimenticando così che il cadavere brulica di vita per quanto
diversa), rappresenta una evoluzione di un
altro mito, molto più antico, quello della “reincarnazione”.
In questo mito ogni vita non resta imprigionata nei limiti del corpo che la
ospita, ma si trasmette ad altri corpi in una eterna catena di trasformazioni
che, coinvolgendo ogni forma vivente, è a tutti gli effetti l’eterna metamorfosi
della vita terrestre.
Alla base del rifiuto della
trasformazione dei corpi morti si pone una stretta correlazione tra l’idea
dell’uomo fatto di materia pensante e quella della separazione fra corpo e
anima/spirito, questa separazione nel mito delle resurrezione resta tale anche
dopo la morte del corpo che, considerato l’unico possessore della propria
anima/spirito, ad essa si ricongiungerà nella resurrezione. Non mancano
peraltro nella cultura occidentale convinzioni che sembrano smentire questa
idea, basti pensare alla celebrazione dello “spirito dei nostri avi che abita
in noi”
E’ la stessa moderna scienza della “genetica”
che avvalora l’idea della costante metamorfosi, attraverso
reincarnazione, di ogni forma di vita. Ma, se ogni
vivente è un’immensa impresa di riciclaggio delle vite che l’hanno preceduta,
non è meno vero che nessuna reincarnazione è un semplice trasferimento delle
vite precedenti. I geni che da queste sono trasmigrati nella nuova vita non
sono informazioni immutabili, ma veri e propri “scrittori”
che continuamente riscrivono le informazioni ricevute in essi stessi
incorporate. La metamorfosi
genetica è in effetti una incessante opera di riscrittura
Migrazioni
L’incessante procedere metamorfico della vita sulla Terra ha, per sua stessa definizione, carattere planetario, il continuo passaggio dell’iniziale soffio di vita da un essere ad un altro non cambia solo forma, ma è per sua natura portato in aggiunta a occupare sempre posti nuovi. Ogni forma di vita è a tutti gli effetti una sorta di “Arca di Noè”, un veicolo che contiene molte altre forme di vita e che trasporta, con sé stesso, l’intero pianeta. La metamorfosi al tempo stesso abita l’intero pianeta Terra, è cioè “planetaria”, ed è, nei vari esseri che ne sono coinvolti, a sua volta pianeta di altre forme di vita. Essere nel mondo significa trasportare altro oltre sé stessi e al contempo essere trasportati da altri. Ed ogni Arca vivente non può abitare lo stesso posto troppo a lungo, è per natura portata a viaggiare, a spostarsi incessantemente, a (tras)migrare di continuo. Lo scorrere metamorfico della vita terrestre è per definizione un viaggio inarrestabile che supera ogni spazio e travalica ogni tempo. Come si è appena detto infatti ogni gene contiene vita antica, proveniente da chissà dove, e scrive vita nuova destinata ad andare altrove. Eppure, contraddizione metamorfica, ogni essere è istintivamente portato a “cercare casa”, uno spazio ben definito nel quale trascorrere il proprio tempo. Si tratta della propensione, per molti versi comprensibile, ad una sicurezza identitaria che sembra però confliggere con l’essere “arca”. Se quest’ultima esclude di per sé stessa l’idea di confini, la casa è l’archetipo del confine, non a caso è pensata e fatta di muri che fissano i limiti di uno spazio in cui la nostra identità è naturalmente nel suo posto. Su questa contradditoria negazione dell’arca poggia la stessa moderna concezione di “ecologia”, lo evidenzia la sua etimologia: “eco” deriva dal greco “oikos” che significa “casa” (da qui, ad esempio, “economia”, l’amministrazione della casa, o “ecofobia”, la paura di restare soli in casa) e da "logos" altro termine greco che indica lo “studiare”. Il termine ecologia nasce infatti a fine Ottocento in Europa per indicare l’insieme di discipline utili per studiare le interazioni tra gli organismi viventi che abitano lo stesso ambiente, che hanno la stessa casa, ed è ai giorni nostri utilizzato anche per definire la ricerca di un equilibrio fra l’uomo e l’ambiente circostante. Nel perseguire questa finalità, va da sé nobile e indispensabile, ha però immaginato questa interrelazione come un insieme di case, ognuna abitata da una specifica forma di vita, che formano un agglomerato attorno alla casa di gran lunga più vistosa e importante, quella dell’uomo. L’ecologia, così impostata, si è di fatto strutturata come una sorta di agenzia immobiliare della natura, all’interno della quale ogni componente naturale, fotografata in una posa immobile, trova un suo spazio purchè compatibile con la presenza, e con le esigenze per quanto attente e misurate, dell’uomo.
Emanuele Coccia dedica al tema di
quello che ritiene essere il significato ultimo di “ecologia” alcune intense
pagine qui non sintetizzate sia per la loro complessità sia per la non
immediata correlazione con “metamorfosi”.
Ci limitiamo a puntualizzare che, a suo avviso, “ecologia”, al di là del
significato di mobilitazione per le tematiche ambientali, rappresenta in
effetti una visione antropocentrica della natura nella quale tutto il non umano
viene ancora e sempre valutato in relazione all’azione umana, ed in particolare
alle sue attività economiche
Anche questa
visione si rivela però incompatibile con il ruolo insopprimibile dell’eterna metamorfosi
della vita del pianeta Terra, non è infatti possibile stabilizzare in un quadro
onnicomprensivo un vivente in continua trasformazione, di forme e di
collocazione. Nel costante processo metamorfico tutti gli esseri, uomo
compreso, mutano forma, si spostano, stabiliscono nuove relazioni fra di loro,
rendendo così impossibile fissare per sempre un equilibrio in un contesto per
sua natura instabile e provvisorio. L’incompatibilità fra metamorfosi e
ecologia, se così intesa, sancisce quindi l’illusorietà di una visione ecologica che, oltre
a mantenere al suo centro l’uomo, è strutturalmente inconciliabile con il vero
scorrere della vita terrestre.
Associazioni
Anche l’idea
di ecosistema, direttamente connessa con
quella di ecologia, non regge ad una corretta visione metamorfica. I confini
che l’uomo attribuisce ad un ecosistema di fatto sono inesistenti, la vita
sulla Terra è un insieme di spazi in continuo rimescolamento in cui la forme di vita si associano provvisoriamente
in relazione al loro stato provvisorio. Nessun confine, per quanto elasticamente concepito, può restare
stabile in questa costante trasformazione. Meno che mai quelli che includono la
dimensione umana della città,
una dimensione che non ha nulla di naturale perché è in effetti un luogo fatto
di pietre, di minerali, è tecnicamente
un deserto, un ambiente estremo nel quale
l’associazione interspecifica tra le varie forme di vita, quella che
è determinata dall’evoluzione metamorfica e che su di essa quindi si fonda, è
stata sostituita da una associazione, forzata, che condiziona la naturale metamorfosi
del vivente sottoponendola a quella di un’unica specie, quella dell’uomo.
Soprattutto nelle città (la dimensione di vita che a partire dalla Rivoluzione Agricola ha
progressivamente invaso il mondo diventando quella prevalente soprattutto nella recente
declinazione delle “megalopoli”),
ma non solo, non si coglie più l’evidenza che, in un mondo metamorfico, vivere significa stare
in spazi occupati anche da altri con i quali inevitabilmente occorre
negoziare una condivisibile associazione. Il primo elemento che dovrebbe essere
equamente condiviso è quello dell’aria,
del respiro. L’aria che
respiriamo è infatti una straordinaria prova di associazione interspecifica, è
noto che l’esplosione della vita sulla Terra è stata resa possibile
dall’ossigeno prodotto dalla fotosintesi vegetale, il
mondo zoologico è in effetti un sottoprodotto del metabolismo delle piante,
tutte le specie viventi sono cioè un effetto collaterale della loro esistenza.
La presuntuosa umanità è venuta al mondo su una Terra che era già stata
plasmata, a partire dalle piante, da molte altre specie, e questo significa che
quello che viene comunemente definito “spazio naturale”
non è per nulla “naturale”, ma è uno spazio creato e strutturato da qualcosa/qualcuno preesistente, o meglio ancora dalla metamorfosi di vite precedenti. Il
mondo, la natura, nel loro complesso, sono pertanto il risultato di una realtà
puramente relazionale in cui ogni specie contribuisce a definire il comune
territorio ecologico associativo: ogni essere è al
tempo stesso il giardino ed il giardiniere, più o meno consapevole, di altre
specie. Il culmine di questa articolata e complessa associazione, che ha contribuito a tutta l’evoluzione della vita terrestre, si manifesta
allora come il risultato progressivamente voluto da una sorta di intelligenza
cosmica che altro non è che la metamorfosi del mondo
Conclusioni
Coccia chiude
questo suo saggio citando il pensatore ambientalista amazzonico Ailton Krenak
che spesso ripete che “la vita non è
intorno a noi, ma ci attraversa dall’interno e dall’esterno”, tutto
il vivente è soltanto il flusso continuo di un’unica infinita metamorfosi.
Accettare questa verità impone come logica conseguenza comprendere che le
relazioni tra tutti gli esseri viventi
sono una “forma culturale di parentela”
che va costantemente rinegoziata e rinsaldata nel reciproco rispetto. In
particolare corre l’obbligo per l’uomo di abbandonare ogni forma di
antropocentrismo, l’auto-collocarsi al centro del mondo, ed il collegato
antropomorfismo, ovvero la tendenza a proiettare nelle altre specie attitudini e modi di vivere che sono solo
umane. Comprendere che la vita terrestre altro non è che il, sempre
provvisorio, risultato di una continua metamorfosi, che pienamente racchiude
lo stesso uomo, fa leggere in modo diverso il passato, indirizza diversamente
il presente, e proietta costantemente il vivere verso il futuro, a non avere
cioè paura di morire. Le ultime tre frasi del saggio così sintetizzano questa
nuova consapevolezza: Noi siamo il
futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso.
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