venerdì 1 marzo 2024

La Parola del mese - Marzo 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

Marzo 2024

La Parola di questo mese è un recentissimo neologismo entrato nel vocabolario Treccani soltanto nel 2018 dopo essere per la prima volta comparsa, per definire una evidente tendenza politica ed istituzionale, in un articolo in prima pagina de La Repubblica del 24 Settembre 2017 a firma di Michele Ainis e dopo essere, da lì in poi, entrata con frequenza nell’odierno linguaggio politico italiano. Si tratta di ……..

CAPOCRAZIA

Capocrazia [sostantivo composto da “capo (persona che dirige, che è posta al comando di altre persone) e da “crazia (dal greco “cratos” = potere, dominio, esercizio del potere) = il potere del capo di un partito politico o di una istituzione

Siamo alle prese con un termine tanto chiaro nel suo significato quanto efficace nel sintetizzare un tratto della scena politica, italiana ma non solo, e nel recuperare, adattandolo ai tempi attuali, l’eterna e diffusa tendenza a semplificare la gestione del potere affidandola in toto al capo di turno. Non a caso Capocrazia è il titolo che lo stesso Michele Ainis

(1955, costituzionalista, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi, editorialista di diversi quotidiani) ha scelto per il suo ultimo saggio in cui prende in esame la decisione dell’attuale governo Meloni di avviare l’ennesima riforma costituzionale in questo casi basata su una accentuata idea di “premierato”)

Ainis è infatti convinto che capocrazia sia la chiave di lettura più appropriata per capire e valutare la proposta di “premierato forte”, recentemente avanzata dalla coalizione di centrodestra che sostiene l’attuale governo. La prassi prevista dalla Costituzione per approvare una sua riforma impone lunghi e complicati passaggi inevitabilmente destinati ad occupare buona parte del dibattito politico dei prossimi mesi/anni. Ci è comunque sembrato utile avviare da subito una nostra riflessione su tale tema prendendo spunto dalla personale lettura che della proposta in sé e delle visioni politiche che la sostengono fa, in questo saggio, uno dei più seguiti costituzionalisti del nostro paese (in questo post ci limitiamo tuttavia a recuperare i Capitoli più direttamente connessi alla nostra Parola del mese)

Se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare. E’ questo il rischio del presidenzialismo, è questa la sua sfida

Sono queste le parole che aprono il testo di Ainis ad indicare che mettere mano a modifiche costituzionali è sempre un passaggio molto delicato che va affrontato entrando, con serena razionalità e con un inclusivo sguardo di lungo periodo, nel suo merito a partire dalle motivazioni e dalle finalità che lo ispirano. A maggior ragione questo vale in tempi, come quelli attuali, caratterizzati da evidenti sofferenze nel funzionamento delle “classiche” regole democratiche e quindi sempre più pericolosamente propensi a soluzioni semplicistiche e sbrigative. In particolare è in questo contesto che si sta da tempo assistendo al ritorno del “mito del Capo” che, riadattato ai tempi della Rete e dei social, ha assunto secondo Ainis le sembianze di una più complessiva capocrazia. Questa nuova proposta di modifica della Costituzione italiana, che ridisegna in particolare la sua Parte Seconda (quella che definisce l’ordinamento della Repubblica) appare ispirata proprio dalla finalità di dare riconoscimento formale al ruolo del “capo”. (è bene ricordare che la Costituzione Italiana, per quanto ancora relativamente giovane, gode del poco invidiabile primato di essere fra quelle più interessate da  proposte di modifica, la maggior parte delle quali comunque naufragate in itinere). E’ dato acquisito. o perlomeno tale dovrebbe essere, che la Costituzione sia un valore condiviso da tutti, e come tale quindi al di sopra delle pur legittime visioni di parte. Pertanto le sue sempre possibili modifiche è bene che non avvengano a “colpi della maggioranza di turno”, L’augurio che tutti dovrebbero condividere e perseguire è che ciò avvenga anche in questo caso. Fermo restando questo contesto il dato di partenza su cui riflettere è una proposta che, faticosamente, ha preso le mosse grazie ad una iniziativa dell’attuale governo Meloni

sostenuto dalla coalizione di centrodestra vincitrice delle elezioni del 2021 con il 43,79% dei voti espressi dal 63,91% degli aventi diritto al voto, e quindi in effetti votato dal 26,7% degli italiani. A sua volta Fratelli d’Italia, il partito capofila della coalizione, con il suo 25,99% di voti raccolti nella quota proporzionale è stato scelto dal 18,5%. Sono dati che confermano l’importanza di acquisire, andando oltre l’interesse di parte, il maggior consenso trasversale possibile, ripetendo cioè la straordinaria esperienza di unità nazionale che ha prodotto, con la nascita della Repubblica Italiana, l’attuale Costituzione del 22 Dicembre 1947

Il programma della coalizione di centrodestra prevedeva, al punto 3 del programma elettorale vittorioso alle elezioni del 2022, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che però, pochi mesi addietro, è stata invece mutata in una diversa proposta, quella dell’elezione diretta del Capo di Governo, del Premier. Si tratta, come si vedrà, di una idea perlomeno originale che, improntata ad una non meglio precisata idea di “democrazia diretta”, presenta al momento ancora così tanti aspetti incerti e confusi da avere, a partire dalle stesse forze politiche che la stanno promuovendo, il carattere di un cantiere in corso. Per quanto quindi ancora suscettibile di cambiamenti, e sulla base di quanto è sin qui dato di capire, l’idea di fondo che la sta ispirando è quella dell’introduzione di una forma di democrazia basata sul presidenzialismo, ossia “una particolare forma di governo, uno dei modi con cui, in una democrazia, avvengono la trasmissione e l’esercizio del potere distribuendolo fra i vari organi costituzionali”. ciò che caratterizza il presidenzialismo non è tanto la figura del Presidente in sé, ma l’insieme dei poteri che gli sono attribuiti nell’ambito dei rapporti con gli altri organi istituzionali. Si tratta cioè di una architettura del potere che può variare, anche di molto, in relazione alla diversa modulazione di diversi elementi quali ad esempio: la durata del mandato, il suo abbinamento a quello del Parlamento, l’età minima e massima previste per diventare Presidente, la divisione di poteri con gli altri organi. La nascita del presidenzialismo coincide di fatto con quella della stessa democrazia a fine Settecento e nel corso di questi secoli si è sostanzialmente articolato su tre modelli, il più rilevante dei quali è ancora oggi quello americano, il primo ad essere stato adottato. 

Capocrazia non è un testo specialistico di diritto costituzionale, non offre quindi una illustrazione analitica e dettagliata del complesso delle norme che regolano la struttura del potere, si limita, con taglio divulgativo, a presentare i tratti essenziali di questi tre modelli con la finalità precipua di meglio capire la loro eventuale adattabilità alla situazione italiana

*   il modello statunitense = gli USA (United States of America), sono,  com’è noto, uno Stato federale, attualmente composto da 50 Stati, che concede loro  ampi spazi di autogoverno. E’ ancora oggi l’immutata eredità delle scelte costituzionali operate dai Padri Fondatori a fine Settecento all’indomani dell’ottenuta indipendenza dal Regno Unito. La scelta del presidenzialismo, ossia di una forte figura al vertice della struttura del potere, si spiega proprio con le caratteristiche degli USA di allora: uno Stato neonato, privo di una sua consolidata organizzazione centrale, con una classe politica in gran misura ancora formata da personalità individuali, in impetuoso e continuo sviluppo. In tale situazione la figura di un Presidente, dotata di forti poteri, sembrò essere l’unica in grado di tenere insieme, nell’ambito di un attento bilanciamento dei poteri, efficienza e rapidità decisionale con rappresentatività elettorale. La Costituzione americana del 1787 prevede infatti che a capo del governo centrale stia un Presidente, dotato di forti poteri (fra gli altri, a puro titolo esemplificativo,  è titolare di tutte le funzioni esecutive del governo federale stabilendo le direttive di politica interna ed estera, nomina tutti i ministri e affida tutti i più rilevanti incarichi istituzionali, è Comandante in capo delle Forze Armate) la cui elezione (con un mandato, rinnovabile una seconda volta, di quattro anni) avviene in forma indiretta [ogni Stato elegge con criterio maggioritario (chi vince prende tutti i delegati ad ognuno di essi assegnati), dei rappresentanti, i “grandi elettori”, che in una seconda votazione eleggono Presidente e Vice-Presidente]. Il sistema elettorale americano, anch’esso figlio di scelte settecentesche maturate quindi ben prima dell’avvento delle masse sulla scena politica, non favorisce più di tanto l’affluenza elettorale (per votare il cittadino deve fare espressa domanda di iscrizione alle liste elettorali) da sempre quindi tutt’altro che alta, questo aspetto combinato con le modalità di assegnazione dei grandi elettori ha da sempre implicato che il Presidente eletto non sia automaticamente l’espressione della maggioranza dei votanti (esempio recente è quello del 2016 quando Hillary Clinton ottenne ben 3 milioni di voti in più di Donald Trump che però, avendo conquistato la maggioranza dei delegati, vinse le elezioni). Il bilanciamento del poteri presidenziali è assicurato da due organi: la Corte Suprema (la corrispondente della nostra Corte Costituzionale, che  è però composta da nove membri nominati a vita la cui scelta, all’atto delle loro dimissioni, compete allo stesso Presidente di turno, un aspetto che sbilancia notevolmente la sua obiettività) chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dei provvedimenti presidenziali e ad esercitare un forte controllo (tramite la nomina di “commissioni d’indagine”) ed il Congresso (il nostro Parlamento) formato dalla Camera dei Deputati e dal Senato a cui compete, oltre alla legislazione ordinaria, la fondamentale approvazione del bilancio di Stato senza la quale il Presidente perde ogni risorsa spendibile fatta salva la sola gestione ordinaria delle spese. Un ulteriore bilanciamento è dato dallo sfalsamento dei turni elettorali, il Congresso viene eletto a metà mandato presidenziale (elezioni di mid-term) ed è quindi possibile che il Presidente, se non ha ben governato, non veda confermata la maggioranza che l’ha sostenuto. Va inoltre detto che in aggiunta a questi bilanciamenti istituzionali il potere giudiziario americano è molto forte (non esiste ad esempio la nostra “immunità parlamentare”) e molto autonomo (i giudici dei singoli Stati sono eletti dai cittadini) tanto da giustificare la formula che definisce il sistema americano “government of judges(governo dei giudici). In questo quadro normativo, rimasto sostanzialmente immutato per tutti questi secoli, la storia realmente avvenuta racconta di un Presidente a lungo non più di tanto vero centro del funzionamento del sistema (salvo temporanei passaggi come ad esempio la presidenza di Abraham Lincoln) essendo all’atto concreto sempre stato l’espressione prima dei notabili e poi dei partiti che ne garantivano l’elezione. E’ solo con la grave crisi del 1929 e la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che si crea un più diretto rapporto tra Presidente eletto ed elettorato tale da porlo in condizione di prevalere sugli stessi partiti (di conseguenza da lì in poi sempre più appiattiti su di esso) e di avviare un aggiustamento della reale struttura di potere ad oggi riducibile ad un insieme di cerchi concentrici: al centro l’Executive Office, un gabinetto formato dal Presidente e dai suoi più stretti collaboratori, a cui segue un secondo cerchio costituito dai dipartimenti (quindici, assimilabili ai nostri ministeri) con al suo esterno un terzo cerchio composto da numerose autorità indipendenti con funzioni normative e di vigilanza. Una sorta di sistema solare che ha effettivamente al suo centro il Presidente. Il presidenzialismo americano esprime quindi un sistema indiscutibilmente democratico (grazie ai previsti contrappesi) in grado al contempo di esprimere un efficiente decisionismo presidenzialista (Congresso permettendo). Ma è al tempo stesso evidente che si tratta di un modello che, per le sue caratteristiche originarie, per le condizioni economiche, sociali e culturali del paese, per il forte ruolo dei singoli Stati, appare difficilmente esportabile, così com’è, in altri paesi con differenti storia, cultura, struttura. Emerge pertanto un primo aspetto di cui tenere conto: nelle faccende costituzionali conta il testo, ma ben di più il contesto che lo determina e lo interpreta

*   il modello francese = Prende forma due secoli dopo, nel 1958, quando il Generale De Gaulle, l’eroe della guerra di liberazione dall’occupazione nazista, venne richiamato al governo per far uscire la Francia dalla gravissima crisi algerina (la lotta di liberazione della ex colonia e la reazione, al limite del colpo di stato, di una parte dell’esercito francese). De Gaulle accettò l’incarico a fronte di una modifica costituzionale espressamene richiesta proprio per avere un ampio margine di comando (preparata in tempi molti brevi e senza dibattito parlamentare, ma sancita da un plebiscito che l’approvò con l’80% dei voti) che di fatto pose fine alla centralità del Parlamento rafforzando di molto i poteri del Governo e del Presidente e dando così avvio alla V Repubblica francese. Una svolta radicale che trovò la sua giustificazione, ed il necessario consenso elettorale, nella urgente necessità di mettere fine all’incapacità del “regime dei partiti” di gestire una crisi drammatica e che vide il suo compimento, quattro anni dopo nel 1962, quando un secondo referendum sancì anche la collegata elezione diretta del Presidente della Repubblica. Per quanto questa soluzione costituzionale (adottata da altri paesi nel mondo, in Europa lo ha fatto ad esempio il Portogallo) sia passata alla storia con il nome di “semipresidenzialismo” a conti fatti rappresenta al contrario un “super-presidenzialismo”, il Presidente francese ha infatti molti più poteri del collega americano, può ad esempio sciogliere a sua discrezione il Parlamento, può approvare leggi senza il voto parlamentare (come fatto da Macron con la contestata legge sulle pensioni del marzo 2023) ovvero può convocare referendum per far approvare le sue scelte se contrastate dal Parlamento, ed in più nomina direttamente il Primo Ministro che può, a sua discrezione, sfiduciare. Oltretutto, diversamente dagli USA, la sua elezione, grazie ad una terza riforma costituzionale, avvenuta nel 2000, coincide con quella del Parlamento e ciò, nel caso di duplice vittoria elettorale, rafforza vieppiù i suoi margini di manovra. Si è in sostanza di fronte ad un quadro costituzionale decisamente sbilanciato, eppure la storia attesta che non c’è stata, fin qui, alcuna svolta autoritaria come per molti versi sarebbe anche lecito immaginare. La spiegazione consiste, a giudizio concorde di storici e costituzionalisti, nel fortissimo legame che il popolo francese, con l’intera sua classe politica, ha con la democrazia nata con la Rivoluzione Francese di fine Settecento. Consiste in questo aspetto una seconda rilevante indicazione ….. la democrazia può vestirsi con varie forme di governo, ma per sopravvivere ha bisogno di un popolo che la sostenga, che le voglia bene ….

*   il brevetto israeliano = è forse il modello di presidenzialismo che di più offre spunti di riflessione per il caso italiano. Innanzitutto perché introduce una variante, del tutto coerente con la visione di un Presidente eletto direttamente dal popolo, anche se in questo caso chi viene scelto dal voto popolare non è il Presidente della Repubblica, ma il Capo del Governo, il Premier (da qui il termine di “premierato”). Nulla cambia in effetti: passando alla situazione italiana il vero titolo formale di quello che la vulgata chiama Primo Ministro è “Presidente del Consiglio dei Ministri”. Tornando all’esperienza israeliana, l’unica finora ad aver sperimentato l’elezione diretta del Capo del Governo, va constatato che si è trattato di una svolta costituzionale (anche se Israele non ha un vero e proprio testo costituzionale, che è di fatto composto da più distinte “Leggi fondamentali”) avvenuta nel 1992 (ispirata dall’allora primo Ministro Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995 da un estremista di destra proprio per il suo ruolo riformatore). La necessità di un rafforzamento dell’esecutivo era determinata dall’esistenza di una legge elettorale fortemente proporzionale (ancora oggi basta l’1,5% dei voti per entrare nella Knesset, il Parlamento israeliano) giustificata dalle stesse caratteristiche di nascita dello Stato d’Israele. Inevitabile che tale frantumazione del quadro politico producesse una ingestibile instabilità politica determinata da governi quasi sempre nati da fragili coalizioni post voto (un aspetto ancora oggi presente).  Il presidenzialismo israeliano (premierato) venne quindi adottato con la finalità di assegnare ad un Premier forti poteri in grado quindi di stabilizzare l’azione governativa. Consegnava quindi al Primo Ministro il fondamentale potere di sciogliere la Knesset, di essere di fatto il regista unico della formazione del governo e delle sue politiche, restando però sempre vincolato ad essere formalmente nominato anche da un voto di fiducia da parte della Knesset.  Questo aspetto ha implicato il mantenimento, stante la frammentazione parlamentare, di complicate trattative per la formazione di maggioranze parlamentari nelle quali anche i piccoli partiti mantenevano un forte potere di ricatto (Benjamin Netanyahu, il primo premier eletto nel 1996 con questo sistema, subì nel corso dell’unica legislatura basata sulla elezione diretta del Premier ben 63 voti di sfiducia!). Nel 2001, cinque anni dopo la svolta costituzionale del 1996, a fronte del totale insuccesso dell’esperienza concreta la Knesset ha abolito il sistema dell’elezione diretta del Presidente del Governo. Il percorso tormentato di questo terzo modello presidenzialista, nato e morto per ragioni strettamente connesse alla particolare situazione partitica israeliana, offre un ulteriore terzo decisivo elemento di riflessione: l’architettura costituzionale è sempre e ovunque una costruzione così complessa e fragile da subordinare l’introduzione di elementi di modifica per quanto parziali alla conservazione dell’equilibrio complessivo del quadro costituzionale

Ferma restando l’importanza delle indicazioni fornite da questi tre modelli di presidenzialismo è doveroso riconoscere che il tema del rafforzamento del potere esecutivo, anche con il ricorso all’elezione diretta del suo Capo, è da tempo presente nel dibattito in campo accademico e politico. Nel primo è stata rilevante la convinzione teorica, determinata dal frequente continuo valzer di Primi Ministri nel corso della stessa legislatura, del giurista Serio Galeotti (1922-2000) sulla necessità di abbinare, con due votazioni simultanee, l’elezione del Presidente del Consiglio e del Parlamento, creando così le condizioni per cui  se cade il primo decade anche il secondo. A cavallo dei due campi si colloca la stagione referendaria (1991-1993, che in particolare introduce l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle allora Province ) promossa da Mario Segni che ha, introducendo il sistema maggioritario, avviato la cosiddetta “seconda Repubblica(per quanto paradossalmente sempre retta dalla Costituzione della Prima). Segni è stato il principale ispiratore dell’idea politica (che al tempo raccolse consensi trasversali) di un legame più stretto tra Premier ed elettori, sintetizzata nello slogan del “Sindaco d’Italia(ancora nel 2022 l’hanno sostenuta Azione ed Italia Viva). E’ però oggettivamente, una soluzione istituzionale sgrammaticata perché un conto è governare un paese, una città, persino una Regione, tutt’altro quello di guidare un governo nazionale. L’insieme di queste esperienze suona come ulteriore richiamo a quanto dedotto dalla vicenda israeliana: le istituzioni sono un sistema di vasi comunicanti, non è possibile alterare la fisionomia di un organo senza produrre effetti su tutti gli altri.

In questo senso non si può non rilevare che l’esperienza di Sindaci e Presidenti di Regione (la cui elezione diretta è stata introdotta, sulla scia di quella dei Sindaci, nel 1999) resi più forti grazie alla loro elezione diretta ha inevitabilmente sminuito il ruolo dei Consigli Comunali e Regionali.

Sono questi i principali presupposti su cui basare la valutazione della proposta in itinere di presidenzialismo portata avanti dalla Ministra per le Riforme Istituzionali Alberti Casellati. Che ha, come si è già evidenziato, visto una prima clamorosa svolta con il passaggio dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica a quella del Premier

a giudizio di molti ciò è avvenuto per evitare che l’adozione di un presidenzialismo all’americana o alla francese implicasse l’uscita dal Colle di Sergio Mattarella, passaggio molto impopolare. Meglio passare alla soluzione israeliana per quanto malandata e già terminata, certo che, se così fosse, diventa lecito dubitare della consistenza teorica dell’intero impianto riformista.

Ciò premesso e sempre tenendo in conto che si è di fronte ad un cantiere in corso con possibili ripensamenti e aggiustamenti, anche sostanziali per quanto è stato dato di conoscere finora, lascia intendere una proposta, contenuta nel disegno di legge approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 Novembre 2023, di fatto una sorta di miscela tra l’idea del “Sindaco d’Italia” e quella del Premierato israeliano, articolata su:

*    elezione diretta, ogni cinque anni, del Premier (al momento è incerta la dirimente collegata attribuzione di un premio di maggioranza alla coalizione/partito che lo sostiene)

*   adozione di una norma anti-ribaltone, (già modificata rispetto alle prime ipotesi) in base alla quale il premier può dimissionarsi (a fronte della manifesta perdita della maggioranza parlamentare) venendo però sostituito da altro membro della stessa maggioranza che l’ha sostenuto. Ove ciò non avvenisse si andrebbe a nuove elezioni.

Impossibile per ora entrare più di tanto nel merito di un testo in corso di definizione, e d’altronde i tempi della sua approvazione saranno così lunghi da consentire a tutti una giusta disamina della stesura definitiva, Ainis si limita pertanto ad indicare i passaggi più dirimenti:

*   il ruolo del Capo dello Stato nel nuovo quadro istituzionale

*   i poteri conferiti al Premier eletto direttamente dal popolo

*   il rispetto della sentenza della Corte Costituzionale n° 1146 del1988 che dichiara che “le leggi di revisione costituzionale non possono offendere i principi supremi della Carta”

*   la gestione del referendum approvativo (che sicuramente si terrà) sperando che sappia entrare correttamente nel merito formulando i quesiti su cui esprimersi nel modo più chiaro possibile onde evitare storture strumentali

Come ulteriore contributo alla personale formazione di un giudizio di merito indica quelli che ritiene siano gli elementi su cui si fonda la disamina dei vizi e delle virtù del Presidenzialismo, vale a dire la sua relazione/incidenza su:

*   stabilità del quadro istituzionale = nel contesto di una democrazia parlamentare di norma l’unico organo che non ha un orizzonte temporale definito è l’esecutivo, può infatti durare l’intera durata legislativa, ma può anche terminare e mutare ben prima e più volte (l’Italia ne è un desolante esempio, basti pensare alla tornata 2018-2022 che ha visto succedersi un governo giallo-verde, uno opposto giallo-rosso, ed uno tecnico di terzietà), in relazione al mutare delle maggioranze parlamentari. In questo senso il Presidenzialismo dovrebbe teoricamente garantire, sulla base del mandato popolare, la copertura dell’intera durata legislativa, ma è pur altrettanto vero che la stabilità, di per sé stessa, non può essere un valore così dirimente (le dittature vantano una grande, ma negativa, stabilità), e comunque non può essere determinata dalla sola continuità delle persone elette, semmai quello che dovrebbe essere stabile, per produrre ricadute positive sull’azione del governo, è l’indirizzo politico degli obiettivi di lungo periodo. I critici del Presidenzialismo evidenziano che il suo tratto saliente non consiste tanto nella potenziale stabilità, ma nel rischio, opposto, di eccessiva rigidità, la virtù di un buon sistema di governo è infatti quella di una virtuosa flessibilità, ossia la capacità di rimodularsi in relazione al mutare del contesto socio-economico si cui è chiamato ad intervenire

*   l’efficienza governativa = è una diretta conseguenza della stabilità ulteriormente garantita dal fatto che con il Presidenzialismo il programma da realizzare non è frutto delle trattative post voto fra le forze che in Parlamento sono chiamate a sostenere il Capo eletto, tutto ciò dovrebbe essere già avvenuto in precedenza con la scelta di indicare il Presidente/Premier e di formare, attorno al suo nome, una coalizione. Un dubbio, non solo ipotetico, nasce dal sempre possibile guastarsi del rapporto tra Premier e coalizione

*   la sovranità popolare = “Appartiene al popolo” recita il primo Articolo delle Costituzione Italiana, così come molte altre nel mondo. Il Presidenzialismo, soprattutto se rafforzato dal congiunto doppio voto di Presidente/Premier e del Parlamento, dovrebbe rispettare due volte questa indicazione. Il diavolo potrebbe però nascondersi nel dettaglio, che tale in effetti non è, della reale coerenza politica fra questi due voti

*   il sistema delle garanzie = in tutte le democrazie si basa sulla separazione dei poteri. In particolare vale, in aggiunta a quello ineliminabile della piena autonomia del potere giudiziario, quella tra potere legislativo (leggasi Parlamento) e potere esecutivo (leggasi Governo). Il Presidenzialismo che prevede due organi elettivi (Presidente/Premier e Parlamento) di pari dignità in quanto a legittimazione data loro dal voto popolare dovrebbe essere un rafforzamento del sistema delle garanzie. Molto dipende da come le norme regolano il rapporto tra i due poteri: chi prevale dove, quando e come

*   il sistema dei controlli = discende da quello precedente delle garanzie e, con il Presidenzialismo, dovrebbe avere un importante rafforzamento soprattutto se viene garantito che il controllo parlamentare sull’attività dell’esecutivo non metta a repentaglio l’esistenza stessa del controllore. Fuor di metafora è ciò che succede nei Comuni in Italia: il Consiglio Comunale può rimuovere Sindaco e Giunta con una mozione di sfiducia, ma a questo punto decade anch’esso. Potrebbe allora essere reale il rischio (ben conoscendo la scarsa voglia di andare a casa della classe politica) che per sopravvivere (meglio tirare a campare che tirare le cuoia) venga a decadere il controllo stesso

*   la responsabilità = la vera essenza della democrazia rappresentativa che consegna ai governati la possibilità di decidere (ed il giorno del giudizio è quello delle elezioni sull’azione dei governanti in quanto “responsabili” del loro agire. La maggior virtù del Presidenzialismo consiste proprio nel fatto che, con l’elezione del Presidente/Premier, l’individuazione delle responsabilità è automatica. Una virtù che rischia però di essere macchiata dal possibile rimpallarsi tra Presidente/Premier e maggioranza parlamentare di sostegno, e comunque di impallidirsi nell’eventuale secondo mandato

*   la modernità = se e vero che, come si è visto, il Presidenzialismo compie ormai ben più di due secoli, è però altrettanto vero (ed è un prezioso indicatore dell’attuale preoccupante stato di salute della democrazia) che negli ultimi cinquant’anni quasi tutte le nuove democrazie sorte nel mondo sono imperniate su un Presidenzialismo spesso dotato di forti poteri …. è un vento forte quello che sta soffiando e, a quanto pare, spazza via ogni resistenza per quanto fondata questa possa essere ……..

Ainis articola nei successivi capitoli una ricostruzione dei conflitti politici già avvenuti nel corso dei quasi ottant’anni di vita della Repubblica Italiana attorno al tema del rafforzamento dell’esecutivo ed una valutazione “tecnica” delle riforme costituzionali già intervenute e di quelle fallite o bocciate in sede di referendum. In coerenza con la nostra premessa non sono qui sintetizzati, per quanto di indubbio interesse, perché non immediatamente connessi alla finalità di questa Parola del mese

Nella parte finale del saggio ritorna prepotentemente sulla scena il termine che ha dato spunto a questa riflessione: capocrazia. L’intera discussione sul Presidenzialismo, ed in particolare sulla sua versione di Premierato, non può non tenere conto di un decisivo dato di fatto: ben prima che una versione formale di Presidenzialismo sia attuata anche in Italia si è, da tempo, chiamati a fare i conti con un evidente “Presidenzialismo di fatto”, una innegabile concentrazione di potere verso l’alto che ormai da decenni caratterizza il concreto gioco politico italiano. Una riforma presidenzialista può essere anche tacita, inespressa, informale, ed ha per l’appunto come nome: capocrazia. All’interno di un più generale, e più complesso, riaffacciarsi della figura dell’ “uomo (donna) solo al comando(fenomeno che, coerente completamento dell’individualismo neoliberista, richiederebbe una dettagliata analisi a sé stante) Ainis, da costituzionalista, concentra la sua attenzione sui passaggi che, nella recente storia politica e istituzionale, di più testimoniano questa evoluzione. A partire dalla incongruenza nominalistica che vede nascere negli anni Novanta quella che è ormai passata alla storia come “Seconda Repubblica”, per quanto ancora si reggesse sulla Costituzione della “Prima Repubblica(anomalia che verrebbe sanata solo con la nascita di una “Terza Repubblica”, ad esempio quella determinata proprio dalla  riforma presidenzialistica se davvero attuata, questo  è imposto da un minimo di coerenza nominalistica, non a caso in Francia dove la costituzione è stata variata cinque volte sono arrivati alla “Quinta Repubblica”). Ma al di là dei termini distorti appare evidente che sono profonde le differenze fra i contesti politici delle due Repubbliche italiane: nella Prima i voti degli italiani erano espressi guardando ai partiti, certo i loro leader potevano aggiungere un certo richiamo, ma i manifesti elettorali riportavano solo simboli e nomi di partiti. Nella Seconda il simbolo, quasi sempre modificato, migra sul fondo e viene coperto dal nome del leader, che spesso diventa il nome stesso del partito ormai reso ad esso subalterno

…. a puro titolo di memoria storica, perché quelli attuali ancora troneggiano, vanno ricordate ad esempio le liste: Segni, Pannella, Dini, Di Pietro, Bonino ….

Una evoluzione che viene sancita dalla terminologia usata nella Legge Elettorale del 2005, dove il termine “Capo” è introdotto in modo esplicito ( …… Capo della forza politica, unico Capo della coalizione ….,  recuperando così un termine in precedenza usato soltanto nella mussoliniana Legge 2263 del 1925) per definire “Capo del Governo” quello che fin lì era il Presidente del Consiglio. Va poi constatato che anche i partiti/movimenti che hanno conservato il riferimento esclusivo a simbolo e nome della lista non sono, nella pratica concreta seppure con diversa accentuazione, sfuggiti a questa metamorfosi del rapporto fra vertice e base.

il Movimento 5 Stelle convoca nel 2017 primarie online per eleggere il suo “Capo politico”, espressione ripetuta per 17 volte nei 7 articoli del regolamento di voto, il Partito Democratico ha da sempre una consolidata storia di forte concentrazione di potere nella figura del suo Segretario che, oltre ad essere automaticamente candidato premier, esprime la linea, gestisce il simbolo, decide le liste elettorali. Altri ancora, come Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno ipocritamente mascherato la fortissima concentrazione del potere nella figura del loro Capo, ancora definendolo Presidente

La capocrazia italiana non si esprime solo sulla scena nazionale, ma si accentua persino in quella locale e regionale. Come già evidenziato in precedenza l’elezione diretta dei Sindaci (Legge 81 del 1993) e dei Presidenti di Regione (Legge Costituzionale 1 del 1999) ha affidato loro ampi poteri che hanno sminuito di molto l’azione dei Consigli Comunali e dei Consigli Regionali, ma hanno, in perniciosa aggiunta, innescato anche una situazione di disordine normativo dovuta al conflitto di competenze fra questi tre livelli di capocrazia. La vicenda pandemica ne è stata la testimonianza più significativa con la giungla di provvedimenti, emessi da Governo, Regioni e Comuni (un quadro che rischia di essere ulteriormente aggravato dall’ipotesi di “autonomia differenziata” messa in campo, a giudizio di molti, come compensazione a quella del Premierato finalizzata al mantenimento di equilibri interni all’attuale governo). Si è in questo modo, dando formale riconoscimento all’accentramento dei poteri nella figura del Capo di turno, creato un sistema diffuso di poteri “presidenzialisti” che giustifica ampiamente il ricorso alla parola “capocrazia”. Va inoltre evidenziato che la figura del Premier/Primo Ministro ha già conosciuto in questi stessi decenni, ben prima di ogni proposta di riforma presidenzialista, un rafforzamento di poteri tale da giustificare la constatazione di un “presidenzialismo di fatto”. Si è trattato di un processo, avvenuto con il sempre più accentuato ricorso a Decreti Legge, a Decreti Delegati, a DPCM (Decreto Presidente Consiglio Ministri, diventati famosi proprio durante la pandemia), il cui utilizzo l’attuale Costituzione prevede limitato a casi eccezionali ed urgenti. Di fatto il Parlamento si è in questo modo svuotato del suo potere legislativo riducendosi a semplice organo confermativo visto anche il sempre più frequente ricorso al “voto di fiducia(il Governo lo richiede per far approvare un Decreto, la cui mancata approvazione lo farebbe automaticamente decadere). Si è giunti in questo modo ad un sostanziale svuotamento dell’indicazione costituzionale che, a tutt’oggi, prescrive e norma una forma di “governo parlamentare”. Il percorso di approvazione della riforma costituzionale che mira all’introduzione del premierato potrebbe allora rappresentare, positivamente, l’occasione per riflettere su quanto è già avvenuto in modo strisciante e, valutando le concrete ricadute già provocate dalla “capocrazia” che si è così realizzata, meglio indirizzarla verso una scelta ragionata

……un mutamento tacito che si è consumato goccia a goccia, senza revisioni formali del documento costituzionale, con una lente azione corrosiva di comportamenti illegittimi legittimati dall’uso ripetuto …. il Presidenzialismo di fatto subentrato alla centralità del Parlamento ne è la prova più evidente, anche se non l’unica …… e forse è già troppo tardi per metterci rimedio …… dopotutto il vero argomento che sostiene la riforma è proprio questo: l’esigenza di riallineare la Costituzione scritta a quella materiale, al modo in cui viene oggi applicata …..


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