venerdì 15 marzo 2024

Il "Saggio" del mese - Marzo 2024

 

Il “Saggio” del mese

 MARZO 2024

La riflessione che il Saggio scelto per questo mese ci propone è attorno ad un tema, quello della “guerra”, drammaticamente ritornato sulla scena globale con una intensità ed un coinvolgimento che nel secondo dopoguerra sembrava ormai lecito non dover più vedere. Vero è che in tutti questi decenni non si sono mai interrotti conflitti qua e là nel mondo (ed anche qui nella nostra Europa, ex Jugoslavia anni Novanta), ma è purtroppo innegabile che con l’aggressione della Russia all’Ucraina si è fatto molto più forte il timore (accentuato poi dalla tragedia della Striscia di Gaza) che il mondo stia tornando a vedere nella guerra una “normale se non inevitabile” soluzione delle fisiologiche tensioni geopolitiche fino all’assurdità di contemplare come possibile lo scenario di un conflitto nucleare. Questo Saggio entra nel merito di questa svolta per cercare di capire quali ragioni, quali convenienze, stiano di fatto riportando indietro l’orologio della storia ri-consegnandoci una aggiornata idea di guerra

il cui autore è Fabio Armao

(attualmente professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo, Università e Politecnico, a Torino, dopo essere stato a lungo Docente di Sociologia presso l’Università di Torino. Autore di numerosi saggi, collabora a diverse riviste. Apprezzato relatore alla nostra conferenza di Marzo 2018 con titolo “Nuove forme di criminalità organizzata e di delinquenza giovanile”)

In questo saggio Armao prende in esame i fattori che sostengono l’affermarsi di una diversa idea di guerra tutti collegati alla più generale evoluzione del quadro globale economico, sociale, politico ed istituzionale avvenuta nel corso degli ultimi decenni. In questo quadro il ripresentarsi di conflitti armati ad alta intensità rappresenta solamente il punto più alto e tragico di un ricorso sistematico alla violenza organizzata che in diverse forme caratterizza ormai l’intera società globale

Prologo

Tutte le guerre, da sempre, offrono ad uno sguardo analitico alcune identiche caratteristiche (politiche di potenza, imperialismi e nazionalismi, interessi economici ed espansionismi), ma tutte allo stesso tempo possono essere davvero capite e spiegate solamente individuando i loro fattori specifici e le collegate dinamiche. Anche il conflitto russo-ucraino, l’avvenimento che meglio può sintetizzare l’attuale versione del concetto di guerra, non sfugge a questa regola e propone un inedito modello di relazioni tra politica e mercato, tra pubblico e privato, che come si vedrà è strettamente connesso al contesto di una globalizzazione pienamente realizzata. Due elementi di novità, fra i tanti che stanno emergendo e che verranno quindi esaminati, lo evidenziano: il primo consiste nel fatto che anche in campo bellico sono  sempre più le logiche del mercato neoliberista a dettare le regole, ricorrendo ad esempio anche a pratiche di subappalto a corporation private di funzioni un tempo rigidamente in capo allo Stato (logistica, addestramento delle truppe, intelligence, ruoli mercenari di combattimento, per non parlare della privatizzazione ormai totale dell’industria degli armamenti), il secondo nel dilagare di quelle che sono definite le “nuove guerre”, ossia conflitti che per lo più avvengono all’interno degli Stati per ridefinirne la collocazione all’interno di contrapposti interessi globali (la stessa guerra scatenata da Putin può essere fatta rientrare in questa categoria se si guarda alle storiche relazioni fra i due paesi e alla oggettiva incerta definizione dei confini che li separano). Si è quindi di fronte ad una significativa evoluzione, non adeguatamente compresa ed evidenziata, che non a caso si intreccia con il preoccupante accentuarsi della questione ambientale e climatica le cui concrete ricadute stanno inevitabilmente influendo sul sistema delle relazioni geopolitiche e sulle priorità in capo alle scelte politiche. Anche per questa ragione, oltre al dramma dei conflitti in sé, trovare un’alternativa alla guerra è ormai diventata una questione di vita o di morte per l’intera umanità

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Da sempre le guerre sono state delle scelte e non delle necessità, degli eventi pianificati per raggiungere obiettivi, più o meno legittimi e condivisibili, ritenuti non ottenibili con altri mezzi. Questo sintetico concetto storico di base ha però poi conosciuto nel corso del Novecento un evidente salto di qualità, reso possibile dal formidabile sviluppo tecnologico e produttivo avvenuto in particolare in Occidente. L’impressionante “potenza di fuoco” che via terra, via mare, via cielo, ha segnato i due sanguinosissimi conflitti mondiali è stata efficacemente sintetizzata dal giudizio storico con la riassuntiva definizione di “guerra industrializzata” intendendo con essa non solo l’utilizzo mirato del potenziale tecnologico, ma anche la collegata evoluzione delle stesse strategie belliche verso una loro versione “scientifico-produttiva”.  La quale non ha inciso solo sugli avvenimenti avvenuti sui campi di battaglia, ma, proprio grazie al potenziale tecnologico industrializzato, ha progressivamente avuto un impatto diretto sulle popolazioni civili che, lungi dall’essere dei semplici “soggetti collaterali” come fin lì storicamente avvenuto, sono anch’esse divenute un preciso obiettivo strategico (le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki ne sono la più drammatica testimonianza). Il Novecento ha quindi inaugurato una nuova concezione della guerra sostanzialmente basata su due componenti: quello materiale degli apparati bellici e quello immateriale delle modalità di concepire le conseguenti strategie belliche, e soprattutto delle ragioni politiche ed ideologiche alla base del ricorso al conflitto, del collegato coinvolgimento, attivo e passivo, delle popolazioni coinvolte, del sistema di relazioni tra sfera delle decisioni politiche e quella degli interessi economici. La prima dimensione vede, in linea con le consolidate realtà tecnologiche e produttive, il permanere di una forte concentrazione dell’industria degli armamenti in pochi paesi, eredità consolidata dei conflitti novecenteschi e della successiva divisione nei due blocchi, quello occidentale in capo agli USA e quello orientale con capofila l’URSS con la successiva aggiunta della Cina

Per quanto concerne la prima componente (che sta conoscendo una ulteriore impressionante accelerazione tecnologica con non pochi aspetti a dir poco fantascientifici quali, a puro titolo di esempio, il ricorso a “robot soldati”) Armao fornisce alcuni dati che confermano il ruolo centrale dell’industria bellica occidentale aggiornato dalle new entry di alcuni paesi di consolidata potenza economica ed industriale: nel quinquennio 2017-2021 il 91,8% delle esportazioni di armi belliche è stato in capo a 10 Stati soltanto, di cui ancora ben il 68,2% da paesi del “fronte occidentale” (USA, Europa, Corea del Sud, Israele, Turchia) ed il restante da quelli del “fronte orientale” (Russia, Cina)

Questo quadro novecentesco ha poi trovato un suo nuovo e diverso equilibrio globale con la svolta avvenuta con la fine del blocco sovietico: i decenni successivi alla caduta del Muro hanno infatti visto il realizzarsi dell’aspetto fondamentale per comprendere ragioni e forme della nuova idea di guerra che si è concretizzata ai nostri giorni: l’inarrestabile globalizzazione neoliberista che, senza più ostacoli da superare, ha imposto ovunque le sue logiche di mercato, la sua sbilanciata visione del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, una nuova gestione delle relazioni tra paesi ed aree del mondo. Non rientra nelle finalità di questo saggio entrare nel merito delle caratteristiche di questa autentica rivoluzione globale, interessa qui rilevare che, inevitabilmente, la svolta neoliberista è stata capace di squilibrare anche le classiche modalità di gestione della sicurezza globale, la sfera entro la quale si definiscono e si concretizzano gli stessi eventuali ricorsi alle guerre guerreggiate. Un dato aiuta a meglio comprendere perché tutto ciò sia potuto succedere: a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si è infatti via via consolidata una strettissima connessione tra le istituzioni pubbliche che presiedono questa sfera ed il settore pubblico/privato specializzato nella ricerca e nella produzione dei componenti, sempre più di altissimo contenuto tecnologico, indispensabili per una ottimale gestione operativa dello scontro. E’ questo ormai il terreno strategico sul quale i possibili conflitti, soprattutto quelli potenziali su scala ampia, vengono preventivamente decisi, ed ogni effettivo scontro armato è in gran misura determinato dall’arsenale e dai sistemi tecnologici concretamente posseduti

i quali vanno dal monitoraggio alla copertura informativa, dalla disponibilità e dall’efficientamento dei dispositivi alla gestione dei combattimenti veri e propri. Resta pur vero comunque che sul campo di battaglia, soprattutto quelli di ridotta scala locale, incidono ancora altri fattori, a partire da quello umano, la stessa guerra russo-ucraina (per quanto i costanti appelli ucraini per adeguate forniture militari confermino l’importanza di questo aspetto) così come gli scontri in corso nella striscia di Gaza, dimostrano che sono pur sempre combattenti in carne ed ossa che si misurano

Si tratta di un processo che ha progressivamente accompagnato tutte le guerre avvenute negli ultimi decenni a cavallo dei due secoli, a partire da quelle combattute sotto l’egida delle Nazioni Unite o della Nato (1991 Guerra del Golfo, 1992-1995 Somalia, 1999 Kosovo, 2001 Afghanistan, 2003 Irak, 2014 Stato Islamico Isis)  per passare anche a quelle classificate come “guerre civili(1992-1995 ex Jugoslavia, 1994 Ruanda, 1998-2003 Congo, dal 2011 e tuttora in corso in Libia, sempre 2011 e sempre tuttora in corso Siria, sono solo le più eclatanti in un elenco molto più lungo). Al di là delle loro caratteristiche specifiche, delle ragioni del loro innescarsi, sono tutti conflitti che bene testimoniano questo dato di fondo: da decenni la guerra nella sua definitiva versione neoliberista ha generato un’intera filiera globale ad alta redditività capace di coinvolgere tutte le sfere del capitalismo, da quella industriale della produzione di armi, a quella commerciale del traffico e della vendita (lecita ed illecita) di armi, dalla sfera ipertecnologica a quella finanziaria (e non va neppure dimenticata la consistenza di gruppi mercenari e di agenzie di contractors) che vede coinvolte le autocrazie di turno, ma non di meno le stesse democrazie. Si è in questo modo completata la trasformazione della guerra, avviata nei conflitti novecenteschi con la sua prima industrializzazione, in una “normale” componente del capitalismo globalizzato, in una delle voci, non meno pianificabile e gestibile, che contribuiscono ai suoi ricchi bilanci.  In questo nuovo quadro globale, ed in particolare nelle sue caratteristiche di fondo materiali ed immateriali, va collocata anche la guerra russo-ucraina, lo scontro armato decisamente più pericoloso per la pace nel mondo che, come tale, meglio aiuta a mettere a fuoco alcuni specifici aspetti che meritano di essere considerati. Emerge un primo dato: trent’anni dopo l’introduzione forzata ed accelerata delle logiche capitalistiche in un paese, l’ex URSS già del suo allo sbando totale, la sinergia fra un dispotico potere centrale ed un mercato oligarchico ha prodotto una società ibrida nella forma ma allineata nel macro dato dell’ingiustizia socioeconomica: nella Russia che invade l’Ucraina il 10% più ricco della popolazione detiene il 70% della ricchezza del paese, ossia lo stesso identico dato di USA e Cina. Questa sostanziale omogeneità strutturale viene spesso trascurata nelle analisi del conflitto che evidenziano molto di più l’aspetto neoimperialistico di Putin, la sua esaltazione del ritorno alla Grande Russia, ma fra i due aspetti esiste una evidente correlazione che capovolge questa riduttiva versione. Nel corso del Novecento le politiche belliche aggressive erano infatti basate sull’assunto ideologico, creato ed alimentato ad arte, del concetto di nazione, di patria, della sua grandezza e del suo diritto storico di “un posto al sole” , ed erano conseguentemente orientate ad incidere sui rapporti esterni, oggi, nella Russia di Putin (ma non solo perché non ne sono esenti altri insospettabili paesi, a partire dagli stessi USA piuttosto che  dalla Turchia di Erdogan), fare appello alla nazione, alla sua grandezza storica, ha assunto in misura prevalente una finalità interna: quella di dissimulare, di coprire, le evidenti storture socioeconomiche interne (come quella della disuguaglianza economica), è cioè divenuto una vera e propria arma di distrazione di massa.  Il che da subito richiama in causa un secondo aspetto: se anche la dimensione, “eccezionale” della guerra rientra, strumentalmente, nell’orbita ampia di “normali” logiche di profitto, è inevitabile che conseguentemente, proprio perché questo impongono queste logiche, si inneschino dinamiche, pressochè automatiche, di una costante corsa al rialzo competitivo (ben testimoniata dalla tendenza globale all’aumento della relativa quota dei bilanci statali). Il che significa, a guerra in atto, una continua corsa verso l’alto dello stesso scontro armato. In questo senso l’errore di calcolo di Putin non è consistito tanto nel sottovalutare la capacità di resistenza del popolo ucraino (che ha comunque fatto saltare la sua presuntuosa illusione di chiudere la vicenda in pochi giorni quasi senza colpo ferire), ma nel non aver adeguatamente previsto e considerato l’entità della reazione occidentale di sostegno all’aggredito visto che in ultima istanza sarebbe stata animata dalle sue stesse logiche di guerra. Emerge inoltre un terzo aspetto, più specifico, che richiama quanto già evidenziato in precedenza sul coinvolgimento nel conflitto della popolazione civile: la maggior parte dei bombardamenti russi più che a obiettivi militari mira sistematicamente a colpire infrastrutture civili (centrali elettriche, acquedotti, scuole, ospedali, centri commerciali, chiese) ed intere città. Anche in questo caso si è di fronte ad un perfezionamento di tendenze già emerse nel corso della novecentesca guerra industrializzata: la distruzione sistematica della polis, delle città, ossia del contenitore simbolico dell’intera struttura sociale, è da tempo divenuta una precisa strategia militare, dagli analisti definita con il termine “urbicidio

la distruzione sistematica di città, iniziata nella seconda guerra mondiale con i bombardamenti a tappeto delle città tedesche (Dresda docet) e con le atomiche americane sul Giappone, è infatti divenuta una prassi abituale in tutti gli ultimi conflitti, si pensi ad esempio a Mosul e Falluja nella guerra in Iraq, a Raqqa in Siria, Tripoli e Tobruk in Libia, Sana’a in Yemen, Sarajevo nell’ex Jugoslavia. Per quanto rappresenti un conflitto per alcuni versi a sé stante è poi impossibile non citare quanto sta succedendo nella striscia di Gaza

La rabbia putiniana verso il popolo ucraino colpevole di aver osato disubbidirgli ha quindi come dichiarato obiettivo la deliberata distruzione di ogni spazio sociale e mira a fare dell’Ucraina, o meglio della parte che non gli sarà mai possibile conquistare, autentica terra bruciata. Rappresenta il culmine di una cinica logica distruttiva che nella nuova idea di guerra non prevede più la delimitazione dei luoghi di battaglia, la distinzione fra uomini in divisa e normali cittadini. Ma sarebbe un grave errore ridurre queste logiche alla spietata irrazionalità dell’autocrate di turno, la necessità urgente di capirle, e quindi di superarle, chiama in causa (vedi elenco precedente) come colpevole protagonista il mondo intero, a partire dalle stesse democrazie occidentali che, guarda caso, ancora non hanno fatto pienamente i conti con l’eredità storica delle loro conquiste coloniali piuttosto che dell’interessato sostegno a sanguinose dittature in Asia, Africa e Sud America. Chiamare quindi anch’esse a rispondere implica, inevitabilmente, interrogarle sulla loro reale democraticità ben consapevoli che la democrazia, pressochè ovunque, già del suo non sta passando un buon momento. Lo attestano, in aggiunta alla crisi del sistema dei partiti e alla diffusa disaffezione elettorale, i dati relativi alle effettive forme istituzionali: il numero delle liberal-democrazie è ormai tornato ai valori del 1989 ospitando solo il 13% della popolazione mondiale, il resto vive in autocrazie ancora elettorali o dichiaratamente tali (Democracy Report 2022). Secondo Armao il dato più sconfortante che emerge consiste soprattutto nella innegabile degenerazione autoritaria che in esse è stata indotta dalle stesse logiche globalizzate di mercato già protagoniste della negativa evoluzione di cui si è testè detto. Siamo cioè di fronte, anche per questo aspetto, all’indiscutibile esito di un processo di mutazione nei rapporti tra capitalismo e Stato, iniziato negli ultimi decenni del secolo scorso (a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods che regolavano rigidamente modi e confini del sistema finanziario internazionale), che ha fatto piazza pulita dei meccanismi di regolazione politica del mercato instaurando un sistema, globale, di gran lunga più flessibile fatto di meccanismi ed attori che si muovono indipendentemente dalle forme giuridiche e istituzionali dei singoli Stati. L’aver ridotto la politica a servizievole ancella di logiche di profitto spacciate come neutra scienza economica, l’unica possibile per l’ideologia del mercato autoregolato, ha inevitabilmente abbassato di molto l’asticella della vera democraticità. Questa constatazione offre lo spunto per approfondire alcuni aspetti del rapporto fra interessi economici, scelte politiche, funzionamento dei sistemi democratici, gestione della sfera della sicurezza, che hanno una evidente ricaduta anche sulla propensione e gestione di potenziali conflitti armati, e più in generale sul bilanciamento tra legalità ed illegalità. Il primo dato da cui prendere le mosse consiste nella constatazione dell’innegabile esistenza di un vero e proprio doppio capitalismo, uno in qualche modo ancora legato alla sfera delle decisioni politiche ed uno che, in parte comunque tollerato se non addirittura  legalizzato, è da queste molto più slegato. Si tratta di quello, tecnicamente definito “economia informale(la versione 2.0 della tradizionale economia sommersa) che la World Bank, nel 2022, ha stimato valere per circa un terzo del PIL mondiale con punte del 70% nelle economie in via di sviluppo.

Accanto alla classica produzione di beni e servizi rientra nell’economia informale una serie alquanto varia e sofisticata di agenzie, specie di intermediazione creditizia (con gran utilizzo delle criptovalute), che completano un ciclo finanziario e produttivo che non si fa certo scrupolo di sfruttare al meglio paradisi fiscali e centri offshore

Si parla cioè di un autentico convitato di pietra sulla scena politica e decisionale globale. Sono cifre che rendono bene l’idea di quanto valga quest’area dell’economia globale che viaggia parallela a quella ufficiale sfuggendo però, in modo intenzionale e sistematico, al controllo politico e giuridico che, oltre ad essere inevitabilmente una ghiotta opportunità per le attività in capo a gruppi criminali, contribuisce non poco ad alimentare le diseguaglianze economiche allargando la forbice dei redditi all’interno dei singoli paesi e, a livello globale, la differenza fra Nord e Sud del mondo. Per meglio comprendere il collegamento che l’esistenza consolidata ed ormai globalmente strutturata di questo secondo capitalismo ha con la sfera della sicurezza è inoltre necessario evidenziare quello che altrettanto organicamente esso ha sviluppato con la politica. La potenza di fuoco, termine in questo caso quanto mai appropriato, che essa è in grado di mettere in campo per consolidare i propri margini d’azione e di profitto non poteva non investire una politica già del suo prona alle logiche neoliberiste, appiattita sul governo del presente e finalizzata alla mera raccolta di consensi elettorali. Nell’epoca del neoliberismo globalizzato e del conseguente scavalcamento del potere locale e nazionale non stupisce più di tanto che ciò sia avvenuto  proprio nel momento in cui processi di profonda innovazione, come quello appena evidenziato, avrebbero al contrario richiesto una politica forte in grado di conoscerli e governarli. Si è invece assistito ad una progressiva mercificazione della politica ridotta ad un insieme di brand che si fronteggiano nel mercato dei voti (e quindi con partiti leggeri sempre più ridotti a comitati elettorali, con il ruolo preminente di leader mediatici, con l’uso massiccio di una pubblicità ben diversa dalla classica propaganda, con l’adozione di messaggi politici semplificati se non ridotti ad una raccolta di slogan). Un recente fenomeno testimonia il perverso intreccio tra sfera politica e degli affari: quello delle cosiddette revolving doors (porte girevoli), ossia politici, anche di altissimo livello, che con assoluta indifferenza lasciano la politica per subito assumere prestigiosi incarichi in imprese che molto dipendono da commesse pubbliche

non si tratta della pur impattante attività di lobbysmo sempre più presente negli ambienti politici di buona parte del mondo, ma della spudorata cinica formalizzazione degli interessati intrecci fra pubblico e privato. Due esempi fra i tanti: Gerhard Schröder dopo essere stato Cancelliere (Primo Ministro) della Germania dal 1998 al 2005 ha ricoperto, anche grazie all’amicizia intima con Putin, posizioni di grande rilievo in aziende energetiche russe. Ancor più esemplare è la vicenda di Dick Cheney, Segretario alla difesa del presidente George Bush padre dal 1989 al 1993, gli anni della prima Guerra del Golfo, che subito dopo diventa Amministratore Delegato della Halliburton, una multinazionale americana del settore energetico che possiede anche una compagnia militare, per poi tornare in politica come Vice Presidente USA con George Bush figlio dal 2001 al 2009, gli anni della seconda Guerra del Golfo, con, guarda caso, appalti multimiliardari alla sua ex azienda

Dall’intreccio fra tutti questi processi (qui percorsi molto sinteticamente) che hanno caratterizzato la ristrutturazione dell’economia e della società globale emerge un quadro complessivo composto da una sommatoria di interessi economici (nella loro forma di doppio capitalismo) in grado di incidere in modo rilevante su tutti comparti della sfera decisionale politica ed istituzionale, compreso quello della guerra. Ciò avviene in duplice modo: sia condizionando le scelte strategiche che determinano gli intrecci geopolitici, sia orientandole verso sbocchi in grado di assicurare concreti ritorni economici. Vale a dire che ai giorni nostri una guerra (quella che ha assunto le caratteristiche dell’ulteriore evoluzione della novecentesca guerra industriale) può innescarsi perché gli equilibri geopolitici possono essere visti non più congeniali per determinate strategie e può avere un determinato sviluppo, più o meno accentuato, in relazione agli interessi economici in gioco. Questo nulla toglie all’incidenza di altri fattori (ad esempio nazionalismi esasperati, eredità di tensioni storiche, contrasti di ordine religioso) che possono sicuramente accentuare, sino ad esserne vero detonatore, processi già solidamente avviati del loro. Si tratta di una evoluzione, spesso sotto traccia, che ha di fatto sconvolto anche un presupposto basilare sul quale a lungo si è fondata la gestione dei motivi di conflitto: la presenza di una o più potenze egemoni in grado di determinare la stabilità dell’intero sistema internazionale. La realtà storica degli ultimi decenni  dimostra l’esatto contrario: se è vero che (con la sola eccezione dello scontro aperto tra truppe americane e cinesi nel corso della guerra di Corea del 1950-1953) non si sono registrati conflitti armati con il coinvolgimento diretto delle tre grandi potenze (USA, URSS/Russia, Cina), non è meno vero che, soprattutto dalla fine del bipolarismo, sono state le stesse grandi potenze ad alimentare i più rilevanti, per quanto periferici, conflitti. Sembra davvero un azzardo definire “stabilità” un quadro di questo genere caratterizzato dal costante strumentale scavalcamento del concetto di “sovranità nazionale”. Paradossalmente l’elemento che in qualche modo potrebbe concorrere a contenere i rischi di guerre consiste proprio nel dilagante totalitarismo (diffuso sottoprodotto non casuale della globalizzazione neoliberista che, a differenza di quello novecentesco più concentrato in specifici Stati, si disperde ormai in tutte le aree del pianeta), alle autocrazie locali sono infatti imposti spazi limitati per esasperare le ragioni di tensione con altri Stati. Il capitalismo globalizzato poggia così tanto su una totale libertà di movimento, di ininterrotta circolazione di merci, persone e soprattutto dati, che non tollera fastidiosi elementi di disturbo (come quelli avvenuti nel 2022 in Kazakistan diventato il più importante centro al mondo per le movimentazioni, legali e non, di criptovalute grazie all’installazione, incentivata dalle politiche governative locali, di un numero impressionante di potentissimi server). Partecipare allo stesso globalizzato sistema capitalistico (nelle sue due versioni), che come si è fin qui detto costituisce il quadro d’insieme che sostiene l’attuale idea di guerra, può, a fronte di evidenti ragioni di tornaconto, rendere più complicato il ricorso alla guerra, sempre che questa non si dimostri una soluzione in qualche modo conveniente per tutti gli attori coinvolti e per le loro, a ben vedere, comuni logiche.

Resta comunque significativo il peso dell’irrazionalità competitiva da sempre insita nelle logiche capitalistiche. Molte delle attuali guerre sono ancora troppo spesso il frutto di scelte tanto irrazionali quanto criminali compiute da Stati guidati da leader autocratici in delirio di onnipotenza (spesso sostenuti da clan, anche mafiosi, che agiscono nella sfera del secondo capitalismo) che sfruttano le opportunità offerte da un mercato globale che offre tutto ciò che serve per un conflitto armato

….. Se il delicato equilibrio tra Stato e mercato viene meno e un capitalismo senza regole detta legge, a rischio è, con eguaglianza e democrazia, la stessa pace ….



1 commento:

  1. Analisi abbastanza interessante. Ma si tratta pur sempre di interessi economici non alimentati certo dal cittadino che acquista, ma *direttamente* dagli stati e dai governi. I quali, così come alimentano tali interessi, potrebbero invece scegliere al contrario di non alimentarli. Quindi, faccio un po' fatica a parlare di "capitalismo", che in teoria è quello che viene dal basso e dall'iniziativa economica del cittadino comune che intraprende un'attività e che incontra una domanda, altrettanto dal basso, da altri cittadini. Saluti Marco C.

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