Il “Saggio” del mese
MARZO
2024
La riflessione che il Saggio scelto per questo mese ci propone è
attorno ad un tema, quello della “guerra”, drammaticamente ritornato sulla scena globale con una intensità
ed un coinvolgimento che nel secondo dopoguerra sembrava ormai lecito non dover
più vedere. Vero è che in tutti questi decenni non si sono mai interrotti
conflitti qua e là nel mondo (ed anche qui
nella nostra Europa, ex Jugoslavia anni Novanta), ma è purtroppo innegabile che con l’aggressione della Russia
all’Ucraina si è fatto molto più forte il timore (accentuato poi dalla tragedia della Striscia di Gaza) che il mondo stia tornando a vedere nella guerra una “normale se non inevitabile” soluzione delle fisiologiche tensioni geopolitiche fino
all’assurdità di contemplare come possibile lo scenario di un conflitto
nucleare. Questo Saggio entra nel merito di questa svolta per cercare di capire
quali ragioni, quali convenienze, stiano di fatto riportando indietro
l’orologio della storia ri-consegnandoci una aggiornata idea di guerra
il cui
autore è Fabio Armao
(attualmente professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo,
Università e Politecnico, a Torino, dopo essere stato a lungo Docente di
Sociologia presso l’Università di Torino. Autore di numerosi saggi, collabora a
diverse riviste. Apprezzato relatore alla nostra
conferenza di Marzo 2018 con titolo “Nuove forme di criminalità organizzata e
di delinquenza giovanile”)
In questo saggio Armao
prende in esame i fattori che sostengono l’affermarsi di una diversa idea di
guerra tutti collegati alla più generale evoluzione del quadro globale
economico, sociale, politico ed istituzionale avvenuta nel corso degli ultimi
decenni. In questo quadro il ripresentarsi di conflitti armati ad alta
intensità rappresenta solamente il punto più alto e tragico di un ricorso
sistematico alla violenza organizzata che in diverse forme caratterizza ormai
l’intera società globale
Prologo
Tutte le guerre, da sempre, offrono ad uno sguardo analitico alcune
identiche caratteristiche (politiche di potenza, imperialismi e nazionalismi, interessi
economici ed espansionismi), ma tutte allo stesso
tempo possono essere davvero capite e spiegate solamente individuando i loro
fattori specifici e le collegate dinamiche. Anche il conflitto russo-ucraino,
l’avvenimento che meglio può sintetizzare l’attuale versione del concetto di
guerra, non sfugge a questa regola e propone un inedito modello di relazioni tra politica e
mercato, tra pubblico e privato, che come si vedrà è strettamente
connesso al contesto di una globalizzazione pienamente realizzata. Due
elementi di novità, fra i tanti che stanno emergendo e che verranno quindi
esaminati, lo evidenziano: il primo consiste nel fatto che anche in campo bellico sono
sempre più le logiche del mercato
neoliberista a dettare le regole, ricorrendo
ad esempio anche a pratiche di subappalto a corporation private di funzioni un
tempo rigidamente in capo allo Stato (logistica, addestramento delle truppe, intelligence, ruoli
mercenari di combattimento, per non parlare della privatizzazione
ormai totale dell’industria degli armamenti), il secondo nel dilagare di quelle che sono definite le “nuove guerre”,
ossia conflitti
che per lo più avvengono all’interno degli Stati per ridefinirne la collocazione all’interno di
contrapposti interessi globali (la stessa guerra scatenata da Putin può essere fatta
rientrare in questa categoria se si guarda alle storiche relazioni fra i due
paesi e alla oggettiva incerta definizione dei confini che li separano). Si è quindi di fronte ad una significativa evoluzione, non
adeguatamente compresa ed evidenziata, che non a caso si intreccia con il preoccupante
accentuarsi della questione ambientale e climatica le cui concrete ricadute
stanno inevitabilmente influendo sul sistema delle relazioni geopolitiche e
sulle priorità in capo alle scelte politiche. Anche per questa ragione, oltre
al dramma dei conflitti in sé, trovare un’alternativa alla guerra è ormai diventata una
questione di vita o di morte per l’intera umanità
***********************
Da sempre le guerre sono state delle scelte e non delle necessità, degli eventi pianificati per raggiungere obiettivi, più o meno legittimi e condivisibili, ritenuti non ottenibili con altri mezzi. Questo sintetico concetto storico di base ha però poi conosciuto nel corso del Novecento un evidente salto di qualità, reso possibile dal formidabile sviluppo tecnologico e produttivo avvenuto in particolare in Occidente. L’impressionante “potenza di fuoco” che via terra, via mare, via cielo, ha segnato i due sanguinosissimi conflitti mondiali è stata efficacemente sintetizzata dal giudizio storico con la riassuntiva definizione di “guerra industrializzata” intendendo con essa non solo l’utilizzo mirato del potenziale tecnologico, ma anche la collegata evoluzione delle stesse strategie belliche verso una loro versione “scientifico-produttiva”. La quale non ha inciso solo sugli avvenimenti avvenuti sui campi di battaglia, ma, proprio grazie al potenziale tecnologico industrializzato, ha progressivamente avuto un impatto diretto sulle popolazioni civili che, lungi dall’essere dei semplici “soggetti collaterali” come fin lì storicamente avvenuto, sono anch’esse divenute un preciso obiettivo strategico (le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki ne sono la più drammatica testimonianza). Il Novecento ha quindi inaugurato una nuova concezione della guerra sostanzialmente basata su due componenti: quello materiale degli apparati bellici e quello immateriale delle modalità di concepire le conseguenti strategie belliche, e soprattutto delle ragioni politiche ed ideologiche alla base del ricorso al conflitto, del collegato coinvolgimento, attivo e passivo, delle popolazioni coinvolte, del sistema di relazioni tra sfera delle decisioni politiche e quella degli interessi economici. La prima dimensione vede, in linea con le consolidate realtà tecnologiche e produttive, il permanere di una forte concentrazione dell’industria degli armamenti in pochi paesi, eredità consolidata dei conflitti novecenteschi e della successiva divisione nei due blocchi, quello occidentale in capo agli USA e quello orientale con capofila l’URSS con la successiva aggiunta della Cina
Per quanto concerne la
prima componente (che sta conoscendo una ulteriore impressionante accelerazione
tecnologica con non pochi aspetti a dir poco fantascientifici quali, a puro
titolo di esempio, il ricorso a “robot soldati”)
Armao fornisce alcuni dati che confermano il ruolo centrale dell’industria
bellica occidentale aggiornato dalle new entry di alcuni paesi di consolidata
potenza economica ed industriale: nel quinquennio 2017-2021 il 91,8% delle
esportazioni di armi belliche è stato in capo a 10 Stati soltanto, di cui ancora
ben il 68,2% da paesi del “fronte occidentale” (USA, Europa, Corea del Sud,
Israele, Turchia) ed il restante da quelli del “fronte orientale” (Russia,
Cina)
Questo quadro novecentesco ha poi trovato un suo nuovo e
diverso equilibrio globale con la svolta avvenuta con la fine del blocco
sovietico: i decenni successivi alla caduta del Muro hanno infatti visto il realizzarsi
dell’aspetto fondamentale per comprendere ragioni e forme della nuova idea di
guerra che si è concretizzata ai nostri giorni: l’inarrestabile globalizzazione neoliberista
che, senza più ostacoli da superare, ha imposto ovunque le sue
logiche di mercato, la sua sbilanciata visione del rapporto tra sfera pubblica
e sfera privata, una nuova gestione delle relazioni tra paesi ed aree del
mondo. Non rientra nelle finalità di questo saggio entrare nel merito delle
caratteristiche di questa autentica rivoluzione globale, interessa qui rilevare
che, inevitabilmente, la svolta neoliberista è stata capace di squilibrare
anche le classiche modalità di gestione della sicurezza globale, la
sfera entro la quale si definiscono e si concretizzano gli stessi eventuali
ricorsi alle guerre guerreggiate. Un dato aiuta a meglio comprendere perché
tutto ciò sia potuto succedere: a partire dagli ultimi decenni del secolo
scorso si è infatti via via consolidata una strettissima connessione tra le
istituzioni pubbliche che presiedono questa sfera ed il settore
pubblico/privato specializzato nella ricerca e nella produzione dei componenti,
sempre più di altissimo contenuto tecnologico, indispensabili per una ottimale gestione operativa dello scontro.
E’ questo ormai il terreno strategico sul quale i possibili conflitti,
soprattutto quelli potenziali su scala ampia, vengono preventivamente decisi, ed
ogni effettivo scontro armato è in gran misura determinato dall’arsenale e dai
sistemi tecnologici concretamente posseduti
i quali vanno dal
monitoraggio alla copertura informativa, dalla disponibilità e dall’efficientamento
dei dispositivi alla gestione dei combattimenti veri e propri. Resta pur vero
comunque che sul campo di battaglia, soprattutto quelli di ridotta scala
locale, incidono ancora altri fattori, a partire da quello umano, la stessa
guerra russo-ucraina (per quanto i costanti appelli ucraini per adeguate
forniture militari confermino l’importanza di questo aspetto) così come gli
scontri in corso nella striscia di Gaza, dimostrano che sono pur sempre
combattenti in carne ed ossa che si misurano
Si tratta di un processo che ha progressivamente accompagnato
tutte le guerre avvenute negli ultimi decenni a cavallo dei due secoli, a
partire da quelle combattute sotto l’egida delle Nazioni Unite o della Nato (1991 Guerra del
Golfo, 1992-1995 Somalia, 1999 Kosovo, 2001 Afghanistan, 2003 Irak, 2014 Stato
Islamico Isis) per passare anche a quelle classificate come
“guerre
civili” (1992-1995 ex Jugoslavia, 1994 Ruanda, 1998-2003 Congo, dal
2011 e tuttora in corso in Libia, sempre 2011 e sempre tuttora in corso Siria, sono
solo le più eclatanti in un elenco molto più lungo). Al di là delle loro caratteristiche specifiche, delle
ragioni del loro innescarsi, sono tutti conflitti che bene testimoniano questo
dato di fondo: da
decenni la guerra nella sua definitiva versione neoliberista ha generato
un’intera filiera globale ad alta redditività capace di coinvolgere tutte le
sfere del capitalismo, da quella industriale della produzione di armi, a quella
commerciale del traffico e della vendita (lecita ed illecita) di armi, dalla
sfera ipertecnologica a quella finanziaria
(e non va neppure dimenticata la consistenza di gruppi mercenari
e di agenzie di contractors) che vede
coinvolte le autocrazie di turno, ma non di meno le stesse democrazie. Si
è in questo modo completata la trasformazione della guerra, avviata nei
conflitti novecenteschi con la sua prima industrializzazione, in una “normale”
componente del capitalismo globalizzato, in una delle voci, non meno pianificabile
e gestibile, che contribuiscono ai suoi ricchi bilanci. In questo nuovo quadro globale, ed in
particolare nelle sue caratteristiche di fondo materiali ed immateriali, va
collocata anche la guerra russo-ucraina, lo scontro armato decisamente più
pericoloso per la pace nel mondo che, come tale, meglio aiuta a mettere a fuoco
alcuni specifici aspetti che meritano di essere considerati. Emerge un primo
dato: trent’anni dopo l’introduzione forzata ed accelerata delle logiche
capitalistiche in un paese, l’ex URSS già del suo allo sbando totale, la
sinergia fra un dispotico potere centrale ed un mercato oligarchico ha prodotto
una società ibrida nella forma ma allineata nel macro dato dell’ingiustizia
socioeconomica:
nella Russia che invade l’Ucraina il 10% più ricco della popolazione detiene il
70% della ricchezza del paese, ossia lo stesso identico dato di USA
e Cina. Questa sostanziale omogeneità strutturale viene spesso trascurata nelle
analisi del conflitto che evidenziano molto di più l’aspetto neoimperialistico
di Putin, la sua esaltazione del ritorno alla Grande Russia, ma fra i due
aspetti esiste una evidente correlazione
che capovolge questa riduttiva versione. Nel corso del Novecento le
politiche belliche aggressive erano infatti basate sull’assunto ideologico,
creato ed alimentato ad arte, del concetto di nazione, di patria, della sua
grandezza e del suo diritto storico di “un posto al sole” , ed erano conseguentemente orientate ad
incidere sui rapporti esterni, oggi, nella Russia di Putin (ma non solo perché
non ne sono esenti altri insospettabili paesi, a partire dagli stessi USA piuttosto che dalla Turchia di Erdogan), fare appello alla nazione, alla sua grandezza storica, ha assunto in
misura prevalente una finalità interna: quella di dissimulare, di
coprire, le evidenti storture socioeconomiche interne (come quella della
disuguaglianza economica), è cioè divenuto una
vera e propria arma
di distrazione di massa. Il
che da subito richiama in causa un secondo aspetto: se anche la dimensione, “eccezionale”
della guerra rientra, strumentalmente, nell’orbita ampia di “normali”
logiche di profitto, è inevitabile che conseguentemente, proprio perché questo
impongono queste logiche, si inneschino dinamiche, pressochè automatiche, di
una costante corsa al rialzo competitivo (ben testimoniata dalla tendenza globale all’aumento della
relativa quota dei bilanci statali). Il che
significa, a guerra in atto, una continua corsa verso l’alto dello stesso
scontro armato. In questo senso l’errore di calcolo di Putin non è consistito
tanto nel sottovalutare la capacità di resistenza del popolo ucraino (che ha comunque fatto
saltare la sua presuntuosa illusione di chiudere la vicenda in pochi giorni
quasi senza colpo ferire), ma nel non aver adeguatamente
previsto e considerato l’entità della reazione occidentale di sostegno
all’aggredito visto che in ultima istanza sarebbe stata animata dalle sue stesse
logiche di guerra. Emerge inoltre un terzo aspetto, più specifico, che richiama
quanto già evidenziato in precedenza sul coinvolgimento nel conflitto della
popolazione civile: la maggior parte dei bombardamenti russi più che a
obiettivi militari mira sistematicamente a colpire infrastrutture civili (centrali elettriche,
acquedotti, scuole, ospedali, centri commerciali, chiese) ed intere città. Anche in questo caso si è di fronte ad un
perfezionamento di tendenze già emerse nel corso della novecentesca guerra
industrializzata: la distruzione sistematica della polis, delle città, ossia
del contenitore simbolico dell’intera struttura sociale, è da tempo divenuta
una precisa strategia militare, dagli analisti definita con il termine “urbicidio”
la distruzione
sistematica di città, iniziata nella seconda guerra mondiale con i
bombardamenti a tappeto delle città tedesche (Dresda docet) e con le atomiche
americane sul Giappone, è infatti divenuta una prassi abituale in tutti gli
ultimi conflitti, si pensi ad esempio a Mosul e Falluja nella guerra in Iraq, a
Raqqa in Siria, Tripoli e Tobruk in Libia, Sana’a in Yemen, Sarajevo nell’ex
Jugoslavia. Per quanto rappresenti un conflitto per alcuni versi a sé stante è
poi impossibile non citare quanto sta succedendo nella striscia di Gaza
La rabbia putiniana verso il popolo ucraino colpevole di aver
osato disubbidirgli ha quindi come dichiarato obiettivo la deliberata
distruzione di ogni spazio sociale e mira a fare dell’Ucraina, o meglio della
parte che non gli sarà mai possibile conquistare, autentica terra bruciata. Rappresenta
il culmine di una cinica logica distruttiva che nella nuova idea di guerra non prevede
più la delimitazione dei luoghi di battaglia, la distinzione fra uomini in
divisa e normali cittadini. Ma sarebbe un grave errore ridurre queste logiche alla
spietata irrazionalità dell’autocrate di turno, la necessità urgente
di capirle, e quindi di superarle, chiama in causa (vedi elenco precedente)
come colpevole protagonista il mondo intero, a partire dalle stesse democrazie
occidentali che, guarda caso, ancora non hanno fatto pienamente i conti con l’eredità
storica delle loro conquiste coloniali piuttosto che dell’interessato sostegno
a sanguinose dittature in Asia, Africa e Sud America. Chiamare quindi anch’esse
a rispondere implica, inevitabilmente, interrogarle sulla loro reale
democraticità ben consapevoli che la democrazia, pressochè ovunque, già del suo
non sta passando un buon momento. Lo attestano, in aggiunta alla crisi del
sistema dei partiti e alla diffusa disaffezione elettorale, i dati relativi
alle effettive forme istituzionali: il numero delle liberal-democrazie è ormai tornato ai
valori del 1989 ospitando solo il 13% della popolazione mondiale, il resto vive
in autocrazie ancora elettorali o dichiaratamente tali (Democracy Report
2022). Secondo Armao il dato più
sconfortante che emerge consiste soprattutto nella innegabile degenerazione
autoritaria che in esse è stata indotta dalle stesse logiche globalizzate di
mercato già protagoniste della negativa evoluzione di cui si è testè detto.
Siamo cioè di fronte, anche per questo aspetto, all’indiscutibile esito di un
processo di mutazione nei rapporti tra capitalismo e Stato, iniziato negli
ultimi decenni del secolo scorso (a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods che
regolavano rigidamente modi e confini del sistema finanziario internazionale), che ha fatto piazza pulita dei meccanismi di regolazione
politica del mercato instaurando un sistema, globale, di gran lunga più
flessibile fatto di meccanismi ed attori che si muovono indipendentemente dalle
forme giuridiche e istituzionali dei singoli Stati. L’aver ridotto la politica
a servizievole ancella di logiche di profitto spacciate come neutra scienza
economica, l’unica possibile per l’ideologia del mercato autoregolato, ha
inevitabilmente abbassato di molto l’asticella della vera democraticità. Questa
constatazione offre lo spunto per approfondire alcuni aspetti del rapporto fra
interessi economici, scelte politiche, funzionamento dei sistemi democratici,
gestione della sfera della sicurezza, che hanno una evidente ricaduta anche sulla
propensione e gestione di potenziali conflitti armati, e più in generale sul
bilanciamento tra legalità ed illegalità. Il primo dato da cui prendere le
mosse consiste nella constatazione dell’innegabile esistenza di un vero e
proprio doppio
capitalismo, uno in qualche modo ancora legato alla sfera delle
decisioni politiche ed uno che, in parte comunque tollerato se non addirittura legalizzato, è da queste molto
più slegato. Si tratta di quello, tecnicamente definito “economia informale” (la versione 2.0 della
tradizionale economia sommersa) che la World
Bank, nel 2022, ha stimato valere per circa un terzo del PIL mondiale con punte
del 70% nelle economie in via di sviluppo.
Accanto alla classica
produzione di beni e servizi rientra nell’economia informale una serie alquanto
varia e sofisticata di agenzie, specie di intermediazione creditizia (con gran
utilizzo delle criptovalute), che completano un ciclo finanziario e produttivo
che non si fa certo scrupolo di sfruttare al meglio paradisi fiscali e centri
offshore
Si parla cioè di un autentico convitato di pietra sulla scena
politica e decisionale globale. Sono cifre che rendono bene l’idea di quanto valga
quest’area dell’economia globale che viaggia parallela a quella ufficiale
sfuggendo però, in modo intenzionale e sistematico, al controllo politico e
giuridico che, oltre ad essere inevitabilmente
una ghiotta opportunità per le attività in capo a gruppi criminali,
contribuisce non poco ad alimentare le diseguaglianze economiche allargando la
forbice dei redditi all’interno dei singoli paesi e, a livello globale, la
differenza fra Nord e Sud del mondo. Per meglio comprendere il collegamento che
l’esistenza consolidata ed ormai globalmente strutturata di questo secondo
capitalismo ha con la sfera della sicurezza è inoltre necessario evidenziare quello che
altrettanto organicamente esso ha sviluppato con la politica. La
potenza di fuoco, termine in questo caso quanto mai appropriato, che essa è in
grado di mettere in campo per consolidare i propri margini d’azione e di
profitto non poteva non investire una politica già del suo prona alle logiche neoliberiste,
appiattita sul governo del presente e finalizzata alla mera raccolta di consensi
elettorali. Nell’epoca del neoliberismo globalizzato e del conseguente
scavalcamento del potere locale e nazionale non stupisce più di tanto che ciò
sia avvenuto proprio nel momento in cui
processi di profonda innovazione, come quello appena evidenziato, avrebbero al
contrario richiesto una politica forte in grado di conoscerli e governarli. Si è invece
assistito ad una progressiva mercificazione della politica ridotta ad un
insieme di brand che si fronteggiano nel mercato dei voti (e quindi con partiti
leggeri sempre più ridotti a comitati elettorali, con il ruolo preminente di
leader mediatici, con l’uso massiccio di una pubblicità ben diversa dalla classica
propaganda, con l’adozione di messaggi politici semplificati se non ridotti ad
una raccolta di slogan). Un recente fenomeno
testimonia il perverso intreccio tra sfera politica e degli affari: quello
delle cosiddette revolving
doors (porte girevoli), ossia
politici, anche di altissimo livello, che con assoluta indifferenza lasciano la
politica per subito assumere prestigiosi incarichi in imprese che molto
dipendono da commesse pubbliche
non si tratta della
pur impattante attività di lobbysmo sempre più presente negli ambienti politici
di buona parte del mondo, ma della spudorata cinica
formalizzazione degli interessati intrecci fra pubblico e privato. Due
esempi fra i tanti: Gerhard Schröder dopo essere stato Cancelliere (Primo
Ministro) della Germania dal 1998 al 2005 ha ricoperto, anche grazie
all’amicizia intima con Putin, posizioni
di grande rilievo in aziende energetiche russe. Ancor più esemplare è la
vicenda di Dick Cheney, Segretario alla difesa del presidente George Bush padre
dal 1989 al 1993, gli anni della prima Guerra del Golfo, che subito dopo
diventa Amministratore Delegato della Halliburton, una multinazionale americana
del settore energetico che possiede anche una compagnia militare, per poi
tornare in politica come Vice Presidente USA con George Bush figlio dal 2001 al
2009, gli anni della seconda Guerra del Golfo, con, guarda caso, appalti
multimiliardari alla sua ex azienda
Dall’intreccio
fra tutti questi processi (qui
percorsi molto sinteticamente) che hanno caratterizzato
la ristrutturazione dell’economia e della società globale emerge un quadro
complessivo composto da una sommatoria di interessi economici (nella loro forma di doppio capitalismo) in grado di
incidere in modo rilevante su tutti comparti della sfera decisionale politica
ed istituzionale, compreso quello della guerra. Ciò avviene in
duplice modo: sia condizionando le scelte strategiche che determinano gli
intrecci geopolitici, sia orientandole verso sbocchi in grado di assicurare
concreti ritorni economici. Vale a dire che ai giorni nostri una guerra
(quella che ha assunto le
caratteristiche dell’ulteriore evoluzione della novecentesca guerra industriale) può innescarsi
perché gli equilibri geopolitici possono essere visti non più congeniali per
determinate strategie e può avere un determinato sviluppo, più o meno
accentuato, in relazione agli interessi economici in gioco. Questo
nulla toglie all’incidenza di altri fattori (ad
esempio nazionalismi esasperati, eredità di tensioni storiche, contrasti di
ordine religioso) che possono sicuramente accentuare, sino ad esserne vero detonatore, processi già solidamente avviati del loro. Si tratta di una
evoluzione, spesso sotto traccia, che ha di fatto sconvolto anche un
presupposto basilare sul quale a lungo si è fondata la gestione dei motivi di
conflitto: la
presenza di una o più potenze egemoni in grado di determinare la stabilità
dell’intero sistema internazionale. La realtà storica degli ultimi
decenni dimostra l’esatto contrario: se
è vero che (con la sola
eccezione dello scontro aperto tra truppe americane e cinesi nel corso della
guerra di Corea del 1950-1953) non si sono registrati
conflitti armati con il coinvolgimento diretto delle tre grandi potenze (USA, URSS/Russia, Cina),
non è meno vero che, soprattutto dalla fine del bipolarismo, sono state le
stesse grandi potenze ad alimentare i più rilevanti, per quanto periferici,
conflitti. Sembra davvero un azzardo definire “stabilità” un quadro di questo
genere caratterizzato dal costante strumentale scavalcamento del concetto di “sovranità
nazionale”. Paradossalmente l’elemento che in qualche modo potrebbe
concorrere a contenere i rischi di guerre consiste proprio nel dilagante totalitarismo (diffuso sottoprodotto non casuale
della globalizzazione neoliberista che, a differenza di quello novecentesco più
concentrato in specifici Stati, si disperde ormai in tutte le aree del pianeta), alle
autocrazie locali sono infatti imposti spazi limitati per esasperare le
ragioni di tensione con altri Stati. Il capitalismo globalizzato poggia così
tanto su una totale libertà di movimento, di ininterrotta circolazione di merci, persone
e soprattutto dati, che non tollera fastidiosi elementi di disturbo
(come quelli avvenuti nel
2022 in Kazakistan diventato il più importante centro al mondo per le
movimentazioni, legali e non, di criptovalute grazie all’installazione,
incentivata dalle politiche governative locali, di un numero impressionante di
potentissimi server). Partecipare allo stesso globalizzato
sistema capitalistico (nelle
sue due versioni), che come si è fin qui detto costituisce il quadro
d’insieme che sostiene l’attuale idea di guerra, può, a fronte di evidenti
ragioni di tornaconto, rendere più complicato il ricorso alla guerra, sempre che questa
non si dimostri una soluzione in qualche modo conveniente per tutti gli attori
coinvolti e per le loro, a ben vedere, comuni logiche.
Resta comunque significativo il peso
dell’irrazionalità competitiva da sempre insita nelle logiche capitalistiche. Molte
delle attuali guerre sono ancora troppo spesso il frutto di scelte tanto
irrazionali quanto criminali compiute da Stati guidati da leader autocratici in
delirio di onnipotenza (spesso sostenuti da clan, anche mafiosi, che agiscono nella
sfera del secondo capitalismo) che sfruttano le opportunità offerte da un
mercato globale che offre tutto ciò che serve per un conflitto armato
….. Se il delicato equilibrio tra Stato e mercato viene meno e un capitalismo
senza regole detta legge, a rischio è, con eguaglianza e democrazia, la stessa
pace ….
Analisi abbastanza interessante. Ma si tratta pur sempre di interessi economici non alimentati certo dal cittadino che acquista, ma *direttamente* dagli stati e dai governi. I quali, così come alimentano tali interessi, potrebbero invece scegliere al contrario di non alimentarli. Quindi, faccio un po' fatica a parlare di "capitalismo", che in teoria è quello che viene dal basso e dall'iniziativa economica del cittadino comune che intraprende un'attività e che incontra una domanda, altrettanto dal basso, da altri cittadini. Saluti Marco C.
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