giovedì 15 agosto 2024

Il "Saggio" del mese - Agosto 2024

 

Il “Saggio” del mese

 AGOSTO 2024

Come già anticipato sarà il valore dell’ “uguaglianza”, ed in particolare del preoccupante permanere del suo opposto "disuguaglianza”, il filo conduttore del nostro prossimo programma 2024/2025. Analogamente al tema della scorsa stagione, “libertà”, l’ambizione è quella di affrontarlo nelle sue diverse sfaccettature nell’attuale fase storica, ma al tempo stesso ben consapevoli che, per meglio comprenderlo, è opportuno riflettere anche sulla sua evoluzione storica e valoriale. Il saggio di questo mese si muove in questa direzione analizzando l’attuale tecnologica versione del capitalismo, vale a dire il contesto strutturale che determina l’entità e le forme delle attuali disuguaglianze a partire da quella economica. E’ infatti una riflessione che, all’insegna della convinzione che “quanto accade oggi è l’esito di una storia antica”, ricostruisce l’evoluzione storica e culturale dei suoi valori fondanti proponendo una genealogia del presente e dei suoi antefatti concettuali.

la cui autrice è Emanuela Fornari (docente di Ontologia ed Ermeneutica filosofica all'Università Roma Tre)

Oggetto dell’analisi di Emanuela Fornari è quello che nello stesso titolo viene definito “cybercapitalismo, ossia la fase provvisoriamente conclusiva (la continua metamorfosi dei suoi modi di essere, delle sue forme, è una evidente caratteristica del sistema capitalistico) del modo di concepire ed organizzare l’economia, la produzione e l’intero sistema delle relazioni sociali nato in Occidente, in Europa, con l’avvento, sulle ceneri del Rinascimento, di quella che si è autodefinita “Modernità”. Si tratta di un percorso storico lungo tre secoli che ha visto il suo progressivo evolversi dalla “proprietà agraria” al “capitale immobiliare”, dalla “Rivoluzione Industriale” agli attuali “movimenti globali del capitale finanziario”, con la parallela metamorfosi dall’immaginario della “ricchezza delle nazioni”, all’immane “produzione ed accumulo di merci”, ed infine alla recente “smaterializzazione dell’economia” trasvolata nell’eterea sfera della Rete. Lo scopo del saggio è quindi quello di far emergere alcuni tratti dell’evoluzione delle logiche di fondo che hanno ispirato e segnato questo spettacolare processo riducibile, in estrema sintesi, a tre semplici formule: quella descritta da Karl Marx della merce-denaro-merce (M-D-M, produzione di Merci per realizzare Denaro da investire nella produzione di nuove Merci), tipica delle economie pre-capitalistiche a quella propria del capitalismo denaro-merce-denaro (D-M-D, investimento di Denaro nella produzione di Merci per realizzare un di più di Denaro ad alimentare un continuo processo di accumulazione), ed infine a quella dell’attuale economia globalizzata e finanziarizzata denaro-denaro (D-D, dal Denaro direttamente ad altro Denaro senza doverlo necessariamente ottenere con una produzione di merci), ma un denaro ormai codificato in valori bancari mobili nel worldwide. Questa sintesi, per quanto estremizzata, pone al centro dell’intera analisi portata avanti nel saggio il tema del “valore, ossia del surplus di profitto, del suo ammontare, della sua distribuzione e della sua destinazione finale, unitamente alla considerazione il concetto di valore non ingloba solamente quello delle cose, delle merci, nel mercato capitalistico esso assorbe anche quello delle persone. Emanuela Fornari rende esplicita questa considerazione (che ha una evidente relazione con il tema dell’uguaglianza) citando un lungo passaggio del Capitale di Karl Marx (Libro I, pag. 212) dedicato proprio a riflettere sul rapporto tra diritti dell’uomo ed utile economico (valore/profitto) in cui ironizza sull’idea che il libero mercato sia la piena realizzazione di tutti i diritti dell’uomo, libertà ed uguaglianza ben compresi. Una constatazione che Emanuela Fornari ritiene trovi piena conferma proprio nel cybercapitalismo, ossia nella società in cui il capitale umano di ogni individuo, al tempo di Marx composto unicamente dalla sua “forza lavoro”, si è ormai scomposto in più componenti (certo ancora forza lavoro, ma anche ad esempio ruolo di consumatore, fornitore di dati ed esperienze di vita ai big data, sostenitore di idee e leader con i suoi like), a segnare il passaggio, tutt’altro che simbolico dal concetto di individuo”, (che etimologicamente indica un soggetto che non è divisibile), a quello di  “dividuo, (neologismo recentemente introdotto proprio per definire un soggetto scomponibile e ricomponibile a seconda delle esigenze).

L’esposizione di Emanuela Fornari si snoda attraverso il recupero delle riflessioni di numerosi pensatori che hanno segnato il secolare dibattito attorno ai concetti base del capitalismo, fra i quali: Karl Marx (1818/1883), Max Weber (1864/1920, sociologo e filosofo tedesco), Karl Polanyi (1886/1924, storico e antropologo statunitense di origine ungherese), Marcel Mauss (1872/1950, antropologo e sociologo francese), Gilles Deleuze (1925/1995, filosofo francese), Jean Baudrillard (1929/2007, sociologo e filosofo francese), Ariun Appadurai (1949, antropologo statunitense di origine indiana). Il risultato del loro articolato intreccio e confronto è un saggio quanto mai denso e complesso e di difficile sintesi. Ci siamo limitati in questo nostro post a recuperare i passaggi che di più e meglio ci sono sembrati in grado di fornire spunti di riflessione collegabili al tema dell’uguaglianza (in questo caso in particolare quella economica)

Capitolo I – La giravolta del valore e l’ipercapitalismo

Ed è mettendo a confronto due di questi pensatori che Emanuela Fornari mette a fuoco, attraverso la lente del “valore”, i cambiamenti che hanno progressivamente portato all’affermazione dell’attuale cybercapitalismo. Da una parte Karl Marx e la sua teoria del valore messa a punto analizzando attorno alla metà dell’Ottocento il capitalismo “classico”, fortemente basato sulla produzioni di “merci”, e dall’altra Jean Baudrillard che, negli ultimi decenni del Novecento, muove una critica al pensiero marxista giudicandolo ormai inadatto a spiegare adeguatamente le nuove logiche capitalistiche sempre più “immateriali”. Da una parte quindi la concezione che guarda alla concreta realtà delle merci e che, recuperando in senso critico la distinzione classica tra il loro “valore d’uso”, quello oggettivamente determinato dal suo utilizzo, ed il loro “valore di scambio”, quello soggettivamente definito dalle logiche di mercato, individua nella quantità di lavoro contenuto in essa (lavoro incorporato) la vera spiegazione del loro differente valore (lavoro come vera fonte della ricchezza). Dall’altra uno sguardo obbligato dall’evoluzione immateriale ormai intervenuta a tentare di cogliere e definire il di più che va oltre la merce in quanto tale, non a caso Baudrillard usa raramente il termine valore che deliberatamente sostituisce con il concetto di “simulacro(fino al punto di definire l’intera società contemporanea come una “società di simulacri”) un termine scelto non a caso proprio per indicare il di più simbolico che determina un sistema di valori slegato dalla reale concretezza materiale. Baudrillard spiega con tre fattori il suo ricorso al concetto di simulacro, il primo dei quali doverosamente recupera il valore “naturale” delle cose, di tutte le cose, quello che “nasce dalla Terra”, un aspetto che, in un pianeta dalle risorse finite, conferisce a tutti i prodotti dell’uomo un precisa valenza di sostenibilità, ma è già nel secondo che emerge la distanza critica dalle idee di Marx: la razionalità dell’ordine capitalistico. Marx era profondamente convinto che il modo di produzione capitalistico poggiasse su precise basi razionali (su questo aspetto converge, come meglio si vedrà qui di seguito, anche Max Weber), in particolare per l’organizzazione della produzione e la collegata divisione sociale del lavoro, ma al tempo stesso aveva già intuito che nel suo profondo fosse non meno ispirato da una certa irrazionalità che collegava alla esasperata e frenetica ricerca del massimo profitto. Una tensione irrefrenabile che nel lungo periodo avrebbe inevitabilmente aperto delle crepe tra il concreto sviluppo della produzione e la sostenibilità dei collegati rapporti di produzione, ed è proprio in queste fessure, in queste contraddizioni, che a suo avviso si sarebbe innestato il processo di presa di coscienza rivoluzionaria (Weber è altrettanto persuaso della pulsione irrazionale del capitalismo tanto da definirla “genetica). Baudrillard, avendo già di fronte gli effetti del capitalismo postfordista ed i primi evidenti segnali di una trasformazione radicale della struttura socio-economica, compie un deciso passo in avanti, esattamente quello che lo porta a definire il suo secondo simulacro come: il realismo razionale del capitale portato al limite estremo della sua dissoluzione, vale a dire l’aver elevato a sistema compiuto e totale l’irrazionale creazione di valore, slegandolola completamente da quel rapporto fra valore d’uso e valore di scambio che aveva sorretto la logica unitaria della filosofia marxiana. Questa nuova dimensione strutturale del valore è talmente compenetrata nella logiche e nella concreta prassi del capitalismo attuale da essere per Baudrillard diventata un “valore a sé ed in sé”, così esasperato da essere davvero ed apertamente privo di una qualsiasi razionalità.  Si è di fronte da una parte alla motivazione di fondo che spiega la formula D-D illustrata in precedenza e dall’altra alla logica conseguenza del processo che nella società dei consumi ha visto evaporare valore d’uso e valore di scambio ed ha conferito a gran parte delle merci un valore simbolico di status sociale e di inclusione (si è obiettivamente anni luce oltre il pur corretto “feticismo delle merci” segnalato da Marx come caratteristica della produzione capitalistica classica). Completa questo quadro il terzo simulacro che per l’appunto deriva dal secondo, ed è ciò che Baudrillard definisce iperrealismo”, la condizione in cui il realismo delle merci e delle stesse relazioni sociali è stato talmente scavalcato da essersi ormai dissolto. La logica conseguenza di questa irrazionale  dissoluzione è una sostanziale “cancellazione della realtà”, l’umanità del cybercapitalismo è così immersa in un ordine di simulacri (come quelli perfettamente rappresentati nel famoso film “Matrix”, i cui protagonisti si muovono in un mondo che sembra reale, ma che è invece un mondo virtuale creato da una I.A. per tenere sotto controllo le persone) da essere ormai incapace di distinguere il reale dall’iperreale (Baudrillard definisce questo stato di cose “Il delitto perfetto”, omonimo titolo di un suo saggio, con sottotitolo “La televisione ha ucciso la realtà”, al tempo della sua pubblicazione, 1996, il mondo della Rete stava appena nascendo). Nella società dei simulacri gli stessi scambi tra persone, esattamente come quelli tra merci, perdono allora consistenza reale, diventano “scambi simbolici”, in cui quasi sempre non interviene più nulla di reale, di tangibile. Questo generale disancoraggio dalla realtà, questo iperrealismo diventa la condizione per una corrispondente forma di “iper-capitalismo” la quale, completamente persa di vista la razionalità produttivistica del capitalismo classico analizzato da Marx, acquisisce i caratteri del dominio fine a sé stesso, del controllo totale (Matrix torna in scena). E’ ovvia constatazione il decisivo apporto di tecnica e tecnologia a questa radicale trasformazione, al definitivo passaggio al cybercapitalismo, ma anche sul loro ruolo emerge una profonda diversità di veduta fra Baudrillard e Marx. La cui opinione del ruolo di tecnica e tecnologia era ambivalente, se da una parte (soprattutto nella fase finale di stesura del Capitale appena prima della sua scomparsa) aveva iniziato ad avvertire i rischi di un loro eccessivo sviluppo (così come quello, ancor più segnalato, di una sovrapproduzione di merci) dall’altra però era sua ribadita convinzione che “il conferimento di lavoro alle macchine” aveva un valore potenzialmente liberatorio. La crescita di quello da lui definito capitale fisso (l’investimento in macchine) rispetto al “capitale variabile” (il monte salari per pagare il lavoro umano) avrebbe consentito a quest’ultimo di sottrarsi dalla schiavitù del lavoro in una società post capitalista, al punto che si potrebbe leggere Marx come un apologeta della rivoluzione tecnologica. Baudrillard si colloca all’estremo opposto e accusa Marx per aver creduto all’innocenza delle macchine. L’introduzione progressiva delle quali determinerà a suo avviso “l’egemonia del lavoro morto sul lavoro vivo”, l’affermarsi di fredde logiche produttive ingovernabili e irreversibili con il lavoro umano, con l’uomo stesso posto sempre più ai margini e reso succube del cybercapitalismo. Per Baudrillard l’ipercapitalismo ha così trasformato l’uomo in una “desinenza inutile del capitale fisso”, una mera appendice della macchina. Non a caso cita la scomparsa della “fabbrica come paradigma della fine del lavoro confinato in un luogo e in un tempo definiti, mentre la tecnica e la tecnologia hanno fatto divenire fabbrica la società intera. Come commento finale di questo confronto Emanuela Fornari precisa che l’obiettivo di Baudrillard non è stato tanto quello di colpire Marx e la congruità della sua analisi, quanto piuttosto quello di far comprendere, dimostrando la loro inadeguatezza a spiegare il capitalismo odierno, che quello che si ha oggi di fronte, il cybercapitalismo, è una forma dell’economia, della produzione, della società intera, totalmente diverse da quelle a suo tempo studiate da Marx. Nelle quali la produzione di valore è ormai totalmente priva di corrispondenza ai bisogni “naturali” dell’uomo (così com’era nel capitalismo classico) ed in cui il consumo si è elevato a finalità fine a se stessa proprio grazie ad un sistema scientifico di induzione di bisogni innaturali.

Prima di entrare nel secondo Capitolo, non a caso intitolato “Innaturalità dell’economia”, c’è spazio per una considerazione a margine che “tenta” di collegare quanto sin qui riportato al tema della disuguaglianza (economica). L’analisi delle forme del cybercapitalismo, già di per sé interessante,  fornisce inoltre indicazioni utili a capire come anche la ricerca di una maggiore uguaglianza, non limitata alla sola leva della “redistribuzione” a valle, debba essere calibrata rispetto a questo contesto. Vale a dire che ogni prospettiva di incidere, a monte, sulle cause strutturali che determinano le attuali impressionanti disuguaglianze deve saper individuare i meccanismi nevralgici sui quali poter poi intervenire con efficacia. Quanto sembra emergere dall’analisi di Emanuela Fornari è l’esistenza di una logica di dominio economico e sociale che non è più riducibile a quello classico del “padrone del vapore” del capitalismo di Marx. Il quadro si è fatto molto più complesso a partire, ad esempio, dal fatto che la globalizzazione ha imposto ovunque le medesime logiche rendendo impraticabili, con la rete rigida delle interconnessioni, soluzioni a livello di singolo paese. Quello che però pare avere una relazione più diretta e stringente con il tema dell’uguaglianza (economica) è il fatto che nella “società dei bisogni innaturali” il valore stesso dell’uguaglianza deve essere rimodulato: oggi in cosa esso davvero potrebbe consistere?

Capitolo II – Innaturalità dell’economia

Il secondo capitolo, pur richiamando l’affermazione che chiude il primo, cambia registro, entra in scena una disciplina, l’antropologia, capace di guardare al cybercapitalismo da un’ottica differente ed integrativa, e lo fa partendo dal libro di Marcel Mauss “Saggio sul dono“. Osservando la pratica del dono in società cosiddette tribali o arcaiche Mauss ha tratto la convinzione che esso ha comunemente rappresentato un “fatto sociale totale” capace di coinvolgere non tanto singoli individui, ma interi gruppi e comunità (clan, famiglie, tribù), articolandosi, di norma, lungo tre assi: il collegamento con situazioni di antagonismo - un sistema di obbligazioni -  una forza iscritta nelle cose donate – sviluppati in tre specifici atti: il donare - il ricevere - il ricambiare. Il risultato che si realizza al termine completo di questo ciclo è l’istituzione di un legame sociale, del tutto privo di una ricaduta economica, che costantemente si alimenta e si rafforza con la sua costante ripetizione. Il movimento del dono disegna cioè un cerchio che istituisce la società unificando in un reciproco vincolo il gruppo, che abbatte i confini che separano i suoi diversi componenti e che neutralizza le ragioni dei possibili conflitti. Attraverso la cosa donata, che non è mai valutata per il suo valore d’uso, il gruppo fa dono di una parte di sé, quella che aspira alla comunanza, che si lega a tale oggetto con una forza simbolica tale da indurre chi lo riceve a ricambiarlo con la stessa intensità. Si è, a ben vedere, di fronte ad un processo di valorizzazione delle cose totalmente diverso da quelli che nel capitolo precedente si sono visti in Marx (formazione del valore della merce sulla base del lavoro in essa incorporato) ed in Baudrillard (valorizzazione dell’oggetto come simulacro), ma non meno capace, seppure su tutt’altre basi, di divenire il presupposto fondamentale per la costituzione di un intero ordine sociale. Interviene poi secondo Mauss un secondo non meno importante aspetto: nella pratica arcaica del dono (che in gran parte della stessa Europa è comunque durata per non pochi secoli quantomeno fino all’adozione estesa del diritto romano imposta con l’espansione del dominio di Roma antica) l’intera sua circolarità (dono e controdono) non assume mai il carattere di un accordo preliminare in qualche modo siglato e formalizzato, non ha cioè carattere contrattuale. La reciprocità che si instaura fra chi, alternativamente e ripetutamente, dona e chi riceve, non si risolve cioè in un contratto, ma trasferisce la tensione antagonista, che pur permane sotto traccia, in una sorta di competizione per il prestigio che, attraverso il valore simbolico attribuito alla cosa donata, stabilisce comunque una gerarchia all’interno del gruppo, della società. Quello che nella logica sociale del dono, scontata la sua non-replicabilità negli attuali contesti sociali, è più importante cogliere sono due elementi che possono fornire utili spunti di riflessione. Innanzitutto il fatto che la pratica del dono prende avvio dalla consapevolezza che le comunità sono sempre e comunque caratterizzate dalla presenza di tensioni, conflitti, pulsioni, passionalità, a segnare una fondamentale irrazionalità del sociale, che deve però essere in qualche modo posta sotto controllo per evitare la loro stessa dissoluzione. Acquisita questa consapevolezza la pratica del dono dimostra che da questa irrazionalità è possibile uscire se non si seguono logiche di appropriazione, se cioè le cose non vengono caricate di una valenza, in primis il valore economico, che di fatto non può che accentuare le ragioni di conflitto. La scelta diversa e alternativa, che costituisce l’aspetto più significativo della pratica del dono, è quella di seguire logiche di prestigio in cui il valore delle cose perde la sua materialità per assumere un dimensione simbolica così forte da annullare il conflitto stesso trasferendolo su un altro piano: il dono è a tutti gli effetti un conflitto simbolico che non cancella le irriducibili rivalità, ma le trasferisce su un piano di pacificazione reso possibile proprio dal disinteresse verso le cose in sé (in alcune culture arcaiche la competizione per il prestigio, per questo tipo di prestigio, viene giocata sulla disponibilità alla rinunzia, attuata persino con la distruzione dei beni).

Nelle culture arcaiche studiate da Mauss il termine “mana” di solito viene usato per indicare il “prestigio”, ma da lì, per estensione logica, definisce anche la “persona”, non intesa però come singolo individuo, ma come appartenenza ad un gruppo, ad un clan, ad una famiglia. Il termine “persona” è molto usato anche da Hobbes che però, ad ulteriore conferma di quanto sopra, trova il suo completamento nel rapporto con “l’autorità” del potere. Il termine “persona” sarà, in continuità con questa riflessione, la “Parola del mese” del prossimo Settembre 2024

E tutto ciò si realizza senza il ricorso a formali contratti, il garante dell’accordo è infatti individuato, anche qui simbolicamente, al dono stesso. Appare evidente la lontananza dalla concezione di “contratto sociale” di Thomas Hobbes (1588/1679, filosofo inglese) che non diversamente parte dalla consapevolezza della inevitabile conflittualità sociale (“La guerra di tutti contro tutti” è la sua famosa affermazione) per poi diversamente risolverla affidando la pacificazione all’attivazione di un accordo formale (il contratto sociale) il cui rispetto è affidato al potere dello Stato (al tempo quello regale), l’unico titolato all’uso della forza.

Non a caso Emanuela Fornari introduce questo raffronto con Hobbes per evidenziare che la concezione hobbesiana della società, delle sue istituzioni e del loro ruolo, è di fatto storicamente divenuta quella vincente, tanto da divenire quella su cui si è costruita la diffusa cornice statuale che ha successivamente consentito la nascita del capitalismo, rispetto a quella al tempo alternativa di Jean Jacques Rousseau (1712/1778 filosofo francese) che pensava ad un “patto sociale” fondato sull’adesione a base volontaria

Detto in precedenza del significato che Mauss ha rinvenuto nel dono e nella sua pratica Emanuela Fornari, per riprendere il filo del collegamento con il tema del valore (e quindi indirettamente anche dell’uguaglianza), ribadisce che la forza che dà vita al ciclo del dono e che vincola le due parti a superare tramite di esso divisioni e contrasti consiste proprio nel potere che entrambe le parti attribuiscono alla cosa donata, un potere che, è bene sottolinearlo, è del tutto slegato dal suo essere un oggetto, un bene (i Maori chiamano questo potere “hau” che letteralmente significa “anima”). La dimensione del dono in questa sua accezione simbolica è talmente contrapposta a qualsiasi valutazione razionale del valore di quello che da bene viene con essa trasformato in merce da impedire la nascita di una economia di mercato. Questo è ciò che a lungo è storicamente avvenuto in buona parte del mondo, mentre, aspetto tutt’altro che secondario, un salto simile poteva avvenire (questa è l’idea di Max Weber)solo in Occidente”, vale a dire nella cultura che, non a caso, si è progressivamente fondata sulla superiorità del pensiero razionale e sull'idea di contratto sociale posto in capo allo Stato

Riprendendo il filo dei collegamenti con il tema dell’uguaglianza anche le osservazioni antropologiche di Mauss da una parte rafforzano la necessità, già evidenziata, di collegarla meglio e più a fondo alla dimensione dei bisogni e dell’utilità e dall’altra la collocano storicamente soprattutto nell’alveo dei fondamenti della moderna cultura occidentale

Capitolo III – Cybercapitalismo ed economia del debito

Al di là dell’interesse in sè la riflessione attorno al valore sociale del dono ritorna utile, rientrando nel vivo dell’attuale cybercapitalismo, se valutato in rapporto al suo esatto opposto, al binomio “credito/debito”. Anche in questo caso Emanuela Fornari parte da una suggestione cinematografica, il film Cosmopolis del 2014 (tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Don DeLillo, è la storia, di fatto tutta composta da dialoghi, di un giovane rampante miliardario che, a bordo di una enorme limousine, tira le fila dei suoi traffici finanziari e intanto riflette a voce alta sulle loro logiche) per poi appoggiarsi al saggio “La fabbrica dell’uomo indebitato” di Maurizio Lazzarato (filosofo e sociologo italiano, autore di diversi saggi fra i quali spicca “Il governo delle disuguaglianze”) che ragiona su questo binomio richiamando riflessioni che spaziano da Walter Benjamin (1892/1940, filosofo e critico letterario tedesco) a Max Weber e a Nietzsche (1844/1900, filosofo e filologo tedesco, che nel suo testo “Genealogia della morale” ricorda che in tedesco la parola “schuld” indica sia il “debito” che la “colpa”). In questo suo saggio Lazzarato esplora le conseguenze sull’intero sistema delle relazioni sociali e sugli stessi percorsi esistenziali individuali determinate dall’avvento di quella che viene tecnicamente definita “l’economia del debito”, una delle caratteristiche più rilevanti del cybercapitalismo. Con questo termine si designa la particolare forma di finanziarizzazione dell’intera economia (altro elemento fondante del cybercapitalismo) che, esplosa a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, poggia su due pilastri distinti ma intrecciati: il debito pubblico come fondamentale leva di sostegno all’economia ed il debito privato come strumento per accedere, così sostenendolo, al consumo. La storica crisi dei subprime esplosa nel 2007/2008 (proprio a causa dei sistemi finanziari di gestione dell’economia del debito, in particolare quello della sua “cartolarizzazione” ossia la cessione dei crediti sul mercato finanziario) è stata l’occasione per l’opinione pubblica mondiale di prendere atto, avendone pagato i pesanti costi, del definitivo e dominante avvento dell’economia del debito.

Non deve quindi stupire che la “proprietà di capitale”, evoluta nella forma di “rendita”, sia divenuta centrale nella struttura delle disuguaglianze (la spaventosa ricchezza concentrata nelle mani dell’1% della popolazione mondiale è in grandissima misura costituita proprio da rendite finanziarie)

Secondo Lazzarato in questa nuova sfera economica si è così realizzata una nuova forma di sfruttamento, quella del rapporto creditore/debitore, capace di incidere sull’intera dimensione temporale dell’esistenza. (Emanuela Fornari, citando Lazzarato, richiama come esempio paradigmatico quello dei neo laureati statunitensi che, se non hanno alle spalle una famiglia benestante o se non hanno goduto di adeguate borse di studio, di norma si affacciano sul mercato del lavoro già gravati da onerosi debiti contratti per pagarsi il percorso di studi). Vale a dire che se il classico sfruttamento della forza lavoro aveva dei contrattabili limiti temporali (le ore di lavoro) questa nuova forma incide sull’intero ciclo temporale della vita (del debitore). Nell’economia del consumo, cresciuta a dismisura con l’esplosione dei prodotti tecnologici, il ricorso al debito, nella sue varie articolazioni e forme, è ormai divenuta la modalità standard di pagamento (in non pochi casi, si pensi ad esempio al mercato dell’auto, la finanziarizzazione dell’acquisto viene persino imposta di default), rendendo le vite dei soggetti indebitati una alternanza incessante tra insolvenza e solvibilità (il requisito inaggirabile che il sistema creditizio accerta per concedere ulteriore credito). Uno stato di cose che si è determinato, tutt’altro che casualmente, nella fase neo-liberista del capitalismo mondiale, ossia quella che pur muovendosi all’insegna della massima libertà individuale di fatto ha realizzato, anche con lo strumento del debito, un controllo totale della vita individuale e quindi collettiva. (si tenga poi conto che la spada di Damocle del debito colpisce su scala globale anche le piccole attività produttive e commerciali, in particolare, ad esempio, quelle agricole dei paesi poveri ma nondimeno degli stessi USA, provocandone una altissima percentuale di fallimenti). La relazione, a senso unico, tra creditore (il sistema capitalistico finanziario) e debitore (la stragrande maggioranza degli individui) ha in questo modo assunto la forma di un autentico dominio di massa spietatamente esercitato da parte di chi tira le fila del cybercapitalismo neoliberista. E tutto ciò avviene in modo così esteso e trasversale da aver affiancato se non travalicato le classiche relazioni di classe, essere dalla parte debole di tale binomio scavalca infatti ogni distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi, pensionati e beneficiari di sussidi, così come gli stessi conflitti tra generazioni.

Emerge un ulteriore spunto di riflessione attorno al tema dell’uguaglianza, l’economia del debito, se riconosciuta come fattore davvero in grado di incidere sul quadro delle relazioni socioeconomiche, sembra avere un impatto rilevante sul sistema delle disuguaglianze aggiungendo un aspetto finora non tenuto in adeguata considerazione

La finanza intesa come potere/dominio si è persino sostituita ai meccanismi della sovranità statale detentrice del potere coercitivo invadendo la quotidianità esistenziale ben più dello Stato hobbesiano. Dal punto di vista antropologico, ma anche politico, l’uomo indebitato è anche l’uomo del controllo, uno stato esistenziale da cui è difficilissimo uscire, oltretutto aggravato dal senso di colpa installato dall’ideologia neoliberista che considera il debito come il risultato della colpa di essere fallito nel suo ruolo di uomo imprenditore di sé stesso (torna qui il precedente richiamo a Nietzsche sul doppio significato di debito e colpa della parola tedesca schuld). Ma se davvero esistono condizioni oggettive tali da far ritenere che l’economia del debito stia costituendo un nuovo archetipo di relazioni sociali diventa possibile affermare che società ed economia sono sempre di più costituite da una asimmetria di potenza, quella del creditore e quella del debitore, difficilissime da affrontare ed ancor di più da risolvere. L’era neoliberista globalizzata in cui il capitale è divenuto capace di autoalimentarsi a dismisura è il quadro socioeconomico totalmente nuovo che si è storicamente creato al culmine del lungo percorso segnato dalla teoria del dono (Mauss) prima, dal valore reificato nella merce (Marx) poi, ed anche oltre il valore assurto a simulacro (Baudrillard). Il giovane miliardario del film Cosmopolis nella sua limousine riflette sulla sua ricchezza del tutto incurante dei violenti disordini che stanno avvenendo nelle strade. La perderà non a causa di questi, ma per non aver saputo districarsi nelle logiche del mercato. Tutto ciò mentre su uno dei grattacieli appare la scritta “The spectre of capitalism is haunting” (Lo spettro del capitalismo sta perseguitando/infestando)

Capitolo IV – Crisi dei mercati e crollo del linguaggio performativo

Il tema della finanziarizzazione dell’economia, ed in particolare del mercato dei derivati (uno titolo di borsa il cui valore “deriva” dalle fluttuazioni di un altro strumento finanziario - azioni, indici finanziari, valute, tassi d'interesse o anche materie prime – sulle quali si “scommette”) resta centrale anche in quest’ultimo capitolo del saggio, ma viene affrontato da un originale punto di osservazione, ancora una volta di carattere antropologico. Eleonora Fornari richiama infatti le tesi di Ariun Appadurai, che a lungo ha studiato il mondo delle Borse mondiali, che evidenziano una stretta relazione tra transazioni finanziarie ed espressioni linguistiche, partendo dalla convinzione, antropologica, che il linguaggio possieda il potere di produrre realtà. La sua tesi è infatti quella che l’economia finanziaria, nelle forme linguistiche con cui si esprime, sia di fatto un ancestrale richiamo al sacro, al magico, al fantastico, che esula dalla dimensione razionale degli “interessi” per entrare in quella delle “passioni”, riunificandole in quelle che definisce “passioni interessate(una tesi che guarda per l’appunto soprattutto al mondo dei derivati che oggettivamente sono una azzardata scommessa sul futuro). Tanto la lettura che di questo mondo dava Weber era fondata sull’esaltazione della sua razionalità persino etica tanto quella di Appadurai evidenzia la sua ritualità espressa linguisticamente con autentiche formule magiche. I titoli di borsa, e soprattutto i derivati che sono una scommessa legata ad un’altra scommessa sottostante, sono infatti l’esatto opposto della razionalità economica che dovrebbe rifuggire dall’eccesso di rischio. Ma questa intrusione dell’irrazionale persino magico in quel ciclo del valore che si è visto essersi sintetizzato nella formula D-D, denaro che produce denaro, alla base del cybercapitalismo evidenzia la sua intrinseca fragilità, la sua insostenibilità. Appadurai riafferma questa sua interpretazione rifacendosi proprio al pensiero di Weber, che a suo avviso ha dato origine a due tradizioni: quella del calcolo razionale e quella di un conseguente laicismo economico. Ciò è però avvenuto solo nella cultura occidentale, mentre altre tradizioni, quella indiana e quella mussulmana in primis (un bel terzo dell’umanità), hanno conservato anche in campo economico un forte rapporto con la dimensione religiosa. La proposta di Appadurai è quella di fondere queste tradizioni per far nascere un’etica dell’agire razionale consapevole, in senso weberiano, della sua insopprimibile contingenza e contestualità (non vale ovunque allo stesso modo). E suffraga questa proposta con un richiamo al concetto di “spirito(geist in tedesco, quello che Weber presenta nel suo famoso testo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) per declinarlo però come un’etica capace di governare l’agire individuale e a ricaduta quello collettivo. Una possibile soluzione per uscire dall’irrazionalità, iniqua e creatrice di ulteriori disuguaglianze, della formula D-D per avviare l’umanità, sempre più composta dai “dividui” di cui si è detto, verso una nuova istituzione immaginaria della società

 



giovedì 1 agosto 2024

La Parola del mese - Agosto 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

AGOSTO 2024

La Parola di questo Agosto 2024 è stata suggerita dalla lettura di un interessante testo (consigliato da Clara Politi, antropologa nonché nipote della nostra socia fondatrice Carla Toscano) che ha rafforzato il nostro interesse verso le chiavi di lettura di questi tormentati tempi offerte da una disciplina, l’antropologia culturale, incomprensibilmente ed ingiustamente, troppo a lungo rimasta ai margini del dibattito culturale. Il testo in questione ha titolo Torino. Un profilo etnografico”, a cura di Carlo Capello e Giovanni Semi pubblicato da Meltemi editore nella collana “Biblioteca–Antropologia” (coordinata da Andrea Staid, docente di antropologia culturale, il cui saggio “Essere natura” ha ispirato la nostra Parola del mese di Marzo 2023 “Natura vs cultura). Si tratta di una raccolta di riflessioni antropologiche, in particolare etnografiche, sulle profonde trasformazioni avvenute nel periodo a cavallo dei due secoli nel tessuto economico e sociale torinese basata su un presupposto consolidato delle scienze sociali: per osservare da vicino una struttura sociale ed i mutamenti che la riguardano occorre guardare, all’insegna de “il reale è relazionale”, all’insieme delle relazioni sociali che la contraddistinguono. Vale a dire che per risolvere l’enigma della dialettica tra struttura ed azione, con le loro reciproche influenze, occorre conoscere e valutare con la giusta attenzione il comportamento interattivo tra persone, oggetti e spazi (prezioso campo di osservazione ed analisi proprio dell’antropologia). All’interno di questa raccolta la nostra attenzione si è concentrata sul titolo del saggio iniziale che al nome di Torino affianca un aggettivo che ci è parso così azzeccato ed intrigante da divenire la Parola di questo mese

LIMINALE

Liminale = s.f. derivato dal latino limen (soglia, confine) indica un fenomeno, un processo, che è sulla soglia, che sta per attraversare una linea di confine. E’ particolarmente usato in psicologia e fisiologia per indicare uno stimolo o un fenomeno che possiede un’intensità sufficiente per essere coscientemente percepito (il suo contrario subliminale indica invece uno stimolo o un fenomeno non meno reali e comunque percepiti, ma non in grado di superare la soglia della percezione cosciente). E’ stato adottato nelle scienze sociali per indicare un processo in corso ancora nella fase di passaggio da uno stato preesistente ad uno compiutamente successivo. Sempre in questo ambito gli spazi liminali sono luoghi di transizione, di passaggio da una condizione sociale ed esistenziale ad un’altra

Nell’introduzione di questa raccolta di brevi saggi Carlo Capello (professore di discipline demo-etno-antropologiche presso la Facoltà di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino)

e Giovanni Semi (docente di Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale presso l’Università di Torino, saggista)

premettono le ragioni che l’hanno ispirata, le motivazioni che spiegano l’interdisciplinarietà dei testi raccolti attorno ad una visione di base antropologica/etnografica, e che cosa si debba quindi intendere per “etnografia di Torino”. Si tratta in effetti di un campo di indagine antropologica di norma più dedita ad indagare contesti culturali lontani, limitati nelle dimensioni e nella complessità, Torino al contrario è sicuramente una situazione complessa attraversata da diverse linee di faglia, da limen economici, sociali, di classe, di genere, di età, di etnia (è comunque pur vero che negli ultimi anni l’antropologia indaga con maggior attenzione gli aspetti propriamente urbani della vita sociale contemporanea). Un notevole contributo alla capacità di entrare in queste faglie è venuto dal fatto che tutti gli autori coinvolti nella ricerca vivono in Torino o comunque con essa mantengono uno stretto rapporto e ……  l’essere parte del proprio oggetto di studio rafforza la tendenza a prendere posizione, a esprimere la propria opinione politica ed etica, a costruire la propria immagine della città in quanto spazio morale oltre che geografico; implica, in altre parole, l’esigenza di un’etnografia pubblica e impegnata. Questa particolarità ha così implicato che lo sguardo etnografico si sia concentrato proprio sui confini tra gruppi e ceti più che su aree sociali e zone urbane delimitate, sui processi in corso più che sui loro esiti già avvenuti sulle persone, sui conflitti culturali più che sulle singole culture consolidate. Lo scopo ultimo è consistito nel costruire un’immagine di Torino nella sua interezza, nella sua totalità di componenti ed aspetti, un obiettivo tutt’altro che semplice per una disciplina, come l’antropologia/etnografia, che per definizione opera a livello micro partendo da realtà sociali, luoghi, gruppi particolari e circoscritti. Questo aspetto spiega la scelta di assemblare undici indagini su aspetti specifici a formare un mosaico che sovrappone, in un continuo crescendo, più fotografie della stessa realtà urbana colte da prospettive diverse. Ma perché Torino? perché non altre città non meno colpite dalle radicali trasformazioni che si sono innescate dagli anni Novanta in poi? Perché a partire da fine Ottocento e poi per tutto il Novecento Torino non è mai stata solamente una città, ma ha sempre costituito un “laboratorio”, un incubatore di tendenze con valenza generale. Prima come contenitore politico di aspirazioni democratiche, poi come punta massima delle lotte operaie di fabbrica, poi come emblema del boom industriale e della migrazione interna che l’ha portata ad essere la terza città meridionale più grande d’Italia, poi ancora simbolo lacerato della de-industrializzazione post-fordista, ed oggi infine come ipotesi di una diversa composizione di un tessuto produttivo più variegato, ma ancora in corso di costruzione. Quest’ultimo laboratorio, che raccoglie le diverse eredità precedenti, sta generando, inevitabilmente, tensioni sociali e culturali che incidono fortemente sui rapporti generazionali e sull’intero sistema delle relazioni personali. Un mutamento in corso d’opera che ha spiazzato molte delle certezze identitarie di prima, al punto che un profondo conoscitore della Torino sociale come Marco Revelli è giunto a confessare in un suo testo del 2016 di ….. perdersi nella nuova Torino, di non ritrovarcisi e di non riconoscerla più ….. Come è quindi più volte successo nella sua storia Torino è ritornata a fare i conti con una nuova trasformazione, con un nuovo confine da superare, ad essere cioè nuovamente liminale. Per meglio far comprendere che cosa ciò possa significare Carlo Capello in chiusura del suo saggio riprende una famosa annotazione di Antonio Gramsci (Quaderni dal carcere -3, nota 34, p. 311) che tutto dice: …. quando il vecchio non muore ed il nuovo non può nascere si verificano i fenomeni morbosi più svariati ……

Il breve saggio di Carlo Capello - dal quale abbiamo estratto solamente le parti che ci sono parse essere più direttamente collegabili alla Parola del mese e più adatte a testimoniare uno sguardo antropologico /etnografico – è del 2016. Le riflessioni che propone sono il frutto dei lunghi colloqui che l’autore ha tenuto con diverse decine di donne e uomini, giovani ed anziani, al tempo disoccupati. A distanza di otto anni il quadro della disoccupazione torinese e le ricadute sui soggetti che ne sono coinvolti non ci sembra che siano più di tanto mutati

 Torino liminale. Riflessioni antropologiche su post-fordismo e disoccupazione

di Carlo Capello

Non v’è dubbio che l’antropologia urbana sia destinata ad avere, a breve, uno sviluppo assai significativo, lo impone la globale tendenza all’inurbamento (nella nostra Parola del mese di Novembre 2022, “Megalopoli”, si evidenziava che nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in contesti fortemente urbanizzati. Attualmente già ci vive il 55%). Quale contributo questa disciplina può allora dare alla comprensione delle dinamiche urbane, comprese quelle che qui interessano di Torino? Nel suo ambito è convinzione sempre più diffusa e consolidata che i concetti antropologici “classici”, seppure coniati per realtà non capitalistiche e non moderne, possano comunque fornire una feconda rappresentazione là dove riescano a dare vita a “metafore concettuali” in grado di sintetizzare l’humus sociale e culturale che caratterizza un determinato contesto urbano. Nel caso specifico torinese viene in soccorso quella della “liminalità, di norma in antropologia usato per indicare la condizione di sospensione che interviene nel corso di una transizione da un ruolo sociale ad un altro, da una fase esistenziale ad un’altra (ad es. dall’età giovanile a quella adulta). La tesi di questo saggio consiste proprio nel ritenere che Torino sia entrata in una condizione liminale e che molta parte della sua attuale caratteristica di fondo trovi senso in questa prospettiva. Nell’approccio antropologico di Capello questa principale chiave di lettura viene completata con la scelta di partire, per dare ad essa senso e completamento, dalle tante e variegate situazioni di marginalità  legate alla disoccupazione post fordista, tenendo però in debito conto che nel contesto torinese la marginalità deve essere intesa in senso ampio, non essendo solo esclusione lavorativa e solitudine sociale, ma in quanto tale come perfetto  sinonimo di passaggio, di soglia (le persone che Capello ha incontrato nella sua indagine sono marginali, perchè escluse da lavoro o messe ai suoi margini, ma allo stesso tempo assolutamente “normali” rispetto ai parametri che definivano la loro precedente posizione sociale). Capello riconosce comunque che il mondo della disoccupazione non è facile da studiare dal punto di vista etnografico, i disoccupati infatti non rappresentano un gruppo omogeneo, compatto (salvo per periodi di tempo limitati in occasione di lotte contro licenziamenti di gruppo), ma di fatto costituiscono un mondo a sé in gran misura fatto di percorsi individuali e di rari ed estemporanei momenti di incontro (ad esempio presso i Centri per l’Impiego, ex Uffici di Collocamento). Eppure, anche se con andamento storico altalenante, la disoccupazione investe una fetta tutt’altro che trascurabile della popolazione (il tasso di disoccupazione italiano da anni si aggira attorno al 10/12%, e nella realtà torinese spesso è salito ben oltre). In sintesi analizzare questo spaccato della società dal punto di vista antropologico/etnografico significa allora, andando oltre la mera statistica numerica e la semplice osservazione sociologica, individuare la particolare dimensione umana e relazionale che emerge da questa condizione di liminalità. Il primo elemento che emerge con chiarezza è la grande sofferenza psicologica che sempre e comunque colpisce i soggetti coinvolti con una intensità che di molto aggrava le inevitabili problematiche di concreta sopravvivenza economica. Sono infatti molti i disoccupati che devono ricorrere a farmaci (e agli apprezzati servizi di ascolto psicologico purtroppo non ovunque presenti) per mantenere viva la forza di volontà per affrontare il disagio, le tensioni che ricadono sull’ambito familiare e relazionale. La liminalità del disoccupato standard non è mai vissuta come una fase, per quanto complicata, di maturazione, di crescita, ma sempre come una sorta di pesante caduta in una inaspettata e pericolosa situazione esistenziale. Le pillole tuttavia, per quanto utili  se non indispensabili, non possono essere la risposta ad una situazione che il singolo soggetto inevitabilmente è portato a vivere come una specie di patologia individuale quando è a tutti gli effetti un fenomeno collettivo in quanto portato strutturale di una diseguaglianza di opportunità socioeconomiche  che, nello specifico torinese, da tempo si sta manifestando  nell’ambito di generali processi di trasformazione della forza lavoro nella fase postindustriale e di tecnologizzazione della produzione. Emerge inoltre con evidenza che il disagio liminale del disoccupato non è determinato soltanto dalle pur impattanti difficoltà economiche (in qualche misura attutite, quando possibile, dalla rete di relazioni familiari allargate e dal prezioso supporto delle associazioni di volontariato) ma anche, se non soprattutto, dall’aver perso, con il lavoro, l’insieme delle funzioni esistenziali e relazionali collegate al possesso di una occupazione lavorativa: l’organizzazione e la gestione del tempo, delle giornate, la riduzione delle esperienze di vita e dei contatti sociali, la perdita del proprio capitale simbolico, la cancellazione di uno status sociale che molto contribuiva a definire la loro intera identità personale. Dal punto di vista antropologico il disoccupato tipo diventa in breve una persona che sente di “non appartenere a nessun luogo”, che sembra costantemente “sospeso tra mondi diversi, bloccato sulla soglia di due stati o identità”, quella data dal lavoro perso e quella imposta da un futuro occupazionale e sociale incerto, è in sintesi “la rappresentazione esemplare di una esistenza resa priva di direzione”. Da qui disagio, disorientamento, senso di inutilità, sfiducia, sofferenza psicologica, l’esatto opposto degli stati d’animo che di norma segnano lo stato liminale che, come nei classici casi antropologici, segna il passaggio verso un nuovo positivo. Tutto ciò si accentua vieppiù nei soggetti non più giovani, e quindi ancor più a rischio di ricollocamento lavorativo, per i quali, a maggior ragione, il possesso di una identità lavorativa ha rappresentato una fondamentale costante esistenziale e la sua perdita un’autentica fine del mondo. Il disoccupato, specie se non più giovane, è quindi portato a parlare di sé quasi esclusivamente in termini negativi, molto spesso accentuati, specie nei soggetti maschili,  anche dalla perdita del “ruolo di genere” e , aspetto tutt’altro che trascurabile nella società attuali, della possibilità di accedere alle “pratiche di consumo” che molto incidono nel determinare il proprio status sociale (anche queste ricadute accentuano la tendenza ad isolarsi, a diminuire, se non rompere, le relazioni sociali se proprio non indispensabili, fino ad evolvere in un’autentica  “invisibilità sociale” ). Tutto questo concorre a comporre, ad articolare, una dimensione liminale che, dal punto di vista antropologico, è come già anticipato lontanissima dai classici “riti di passaggio” che in molte culture segnano una “normale” transizione esistenziale. Capello precisa bene al riguardo che in questi riti di passaggio il soggetto coinvolto acquista provvisoriamente lo status di una “non-persona” sospesa in una situazione ambigua, indefinita, segnata dall’essere “un non più e un non ancora(l’analogia in ogni caso non si riferisce al passaggio in sé, ma all’essere allo stesso modo immersi in una fase liminale). Questo accostamento è stato ritenuto sotto molti punti di vista da alcuni antropologi urbani una forzatura inducendoli a coniare in alternativa il termine di “liminoide” per indicare, proprio con riferimento al caso specifico del disoccupato, uno stato sociale che “assomiglia al liminale senza essere identico ad esso(altri studiosi preferiscono usare il concetto di “immobilità esistenziale”). In questo sorta di limbo, senza orizzonti certi, pesa moltissimo, a completare il quadro antropologico/etnografico, il sentimento dell’incomprensione, il sentirsi non compresi dagli altri, familiari ed amici inclusi, incapaci di capire, giudicando dal di fuori, “come sia possibile restare bloccati in questo limbo liminale”. Ancora una volta infatti interviene, anche da parte di chi è esistenzialmente vicino al disoccupato, la inconsapevole tendenza a leggere la sua vicenda di emarginazione dal lavoro come una situazione problematica individuale e non una delle possibili situazioni determinate da cause strutturali che dovrebbero in teoria attivare, nei limiti del possibile, una solidarietà più sociale, più politica. In generale comunque, e a maggior ragione nella rete di relazioni personali meno vicine, … delle persone senza lavoro si sa e si vuole sapere ben poco, ridotte a numeri e statistiche, le loro esperienze soggettive rimangono nascoste ed invisibili …. Eppure il fenomeno della disoccupazione, da sempre una componente fisiologica del modo di produrre capitalistico, sta conoscendo nell’economia post-fordista e neoliberista un potente aggravamento. Il passaggio da un’economia industriale ad una in gran prevalenza basata su servizi e finanza non comporta solo lo spostamento fisico di manodopera da un settore ad un altro, peraltro nella migliore delle ipotesi quasi sempre limitata ai lavoratori più giovani, ma la inevitabile esclusione dei lavoratori più difficili da ricollocare. Torino rappresenta un caso esemplare in questo senso, la fase di uscita dalla sua caratteristica fortemente manifatturiera, oltretutto quasi esclusivamente basata sull’automotive, non si è di certo ancora completata.

La deindustrializzazione che ormai da decenni ha interessato e impoverito l’economia torinese non sembra essersi fermata. Al contrario, venendo ai giorni nostri, è lecito temere che la crescente tecnologizzazione delle attività produttive abbinata alla trasformazione strutturale che il settore auto subirà con il passaggio all’auto elettrica si rivelino una ulteriore spinta a trasformazioni che inevitabilmente comporteranno nuovi picchi di disoccupazione più o meno diffusa e prolungata ……. le opportunità di lavoro per la classe operaia sono sempre più rare e, in ogni caso, differenti rispetto al passato; non del tutto scomparse, ma certamente più labili ed effimere …….

Se si può affermare che, all’interno dell’attuale epoca neoliberista, l’intera condizione lavorativa è segnata dall’incertezza perché di fatto la logica alla base dell’intera struttura economica e produttiva è fatta di precarietà e continua accelerata trasformazione i disoccupati si rivelano il simbolo vivente, semplicemente più eclatante, di una generale liminalità che interessa, va da sé con diversi gradi di intensità, l’intera realtà sociale. E’ quindi Torino tutta ad essere da tempo divenuta liminale, bloccata com’è in una identità sempre meno industriale, ma al tempo stesso neppure terziaria o turistica

è quanto sosteneva in suo saggio già nel 2011 Giuseppe Berta, apprezzato storico dell’economia italiana purtroppo recentemente scomparso, fra l’altro ribadito in qualità di relatore alla nostra conferenza del 19 Maggio 2017 con titolo non a caso individuato in “Le trasformazioni del tessuto industriale ed economico nel torinese e nella Valle di Susa

Il che trova correlazione nelle forme di vita e nelle strutture di sentimento quotidiane, in larga misura ancora segnate dai modi diffusi di pensare della precedente organizzazione fordista (nella rappresentazione collettiva Torino resta spesso ancora percepita come la città della fabbrica, la città-fabbrica, per quanto tale da tempo non sia più) che continua ad essere visivamente presente seppure nella crescente forma di rovine industriali, la spettrale rappresentazione della sua liminalità.  Carlo Capello chiude questa sua riflessione etnografica richiamando due avvenimenti simbolici di evidente carattere antropologico: Novembre 2003 le esequie pubbliche di Gianni Agnelli, un autentico addio rituale alla grande industria e alla collegata organizzazione sociale – Inverno 2006 le Olimpiadi Invernali, lo sforzo illusorio di uscire dalla condizione liminoide con una sorta di grande festa di riaggregazione.  Peccato però, ed è questa la riflessione ancora da farsi quasi vent’anni dopo, che i rituali da soli non bastano essendo di fatto formule magiche utili al più ad esprimere desideri e speranze, la Torino liminale, con il suo immutato ethos di incertezza, rischia seriamente di divenire una condizione strutturale