Il “Saggio” del mese
AGOSTO
2024
Come
già anticipato sarà il valore dell’ “uguaglianza”,
ed in particolare del preoccupante permanere del suo opposto "disuguaglianza”, il filo conduttore del nostro
prossimo programma 2024/2025. Analogamente al tema della scorsa stagione, “libertà”, l’ambizione è quella di affrontarlo
nelle sue diverse sfaccettature nell’attuale fase storica, ma al tempo stesso ben
consapevoli che, per meglio comprenderlo, è opportuno riflettere anche sulla
sua evoluzione storica e valoriale. Il saggio di questo mese si muove in questa
direzione analizzando l’attuale tecnologica versione
del capitalismo, vale a dire il contesto strutturale che determina l’entità
e le forme delle attuali disuguaglianze a partire da quella economica. E’ infatti
una riflessione che, all’insegna della convinzione che “quanto accade oggi è l’esito di una storia antica”, ricostruisce
l’evoluzione storica e culturale dei suoi valori fondanti proponendo una genealogia del presente e dei suoi antefatti
concettuali.
la cui
autrice è Emanuela Fornari (docente di Ontologia ed Ermeneutica
filosofica all'Università Roma Tre)
Oggetto
dell’analisi di Emanuela Fornari è quello che nello stesso titolo viene
definito “cybercapitalismo”, ossia la fase provvisoriamente conclusiva (la continua metamorfosi dei suoi modi di essere, delle
sue forme, è una evidente caratteristica del sistema capitalistico) del modo di concepire ed organizzare l’economia, la produzione
e l’intero sistema delle relazioni sociali nato in Occidente, in Europa, con
l’avvento, sulle ceneri del Rinascimento, di quella che si è autodefinita “Modernità”. Si tratta di un percorso storico
lungo tre secoli che ha visto il suo progressivo evolversi dalla “proprietà agraria” al “capitale immobiliare”, dalla “Rivoluzione
Industriale” agli attuali “movimenti globali del
capitale finanziario”, con la parallela metamorfosi dall’immaginario
della “ricchezza delle nazioni”, all’immane “produzione ed accumulo di merci”, ed infine
alla recente “smaterializzazione dell’economia”
trasvolata nell’eterea sfera della Rete. Lo scopo del saggio è quindi quello di
far emergere alcuni tratti dell’evoluzione delle logiche di fondo che hanno
ispirato e segnato questo spettacolare processo riducibile, in estrema sintesi,
a tre semplici formule: quella descritta da Karl Marx della merce-denaro-merce (M-D-M, produzione di Merci per realizzare Denaro da investire
nella produzione di nuove Merci), tipica delle
economie pre-capitalistiche a quella propria del capitalismo denaro-merce-denaro (D-M-D, investimento di Denaro nella produzione di Merci per
realizzare un di più di Denaro ad alimentare un continuo processo di accumulazione), ed infine
a quella dell’attuale economia globalizzata e finanziarizzata denaro-denaro (D-D,
dal Denaro direttamente ad altro
Denaro senza doverlo necessariamente ottenere con una produzione di merci), ma un denaro ormai codificato in valori bancari
mobili nel worldwide. Questa sintesi, per quanto estremizzata, pone al centro
dell’intera analisi portata avanti nel saggio il tema del “valore, ossia del surplus di profitto, del suo
ammontare, della sua distribuzione e della sua destinazione finale, unitamente
alla considerazione il concetto di valore non ingloba solamente quello delle
cose, delle merci, nel mercato capitalistico esso assorbe anche quello delle
persone. Emanuela Fornari rende esplicita questa considerazione (che ha una evidente relazione con il tema dell’uguaglianza)
citando un lungo passaggio del Capitale di Karl Marx (Libro
I, pag. 212) dedicato proprio a
riflettere sul rapporto tra diritti dell’uomo ed utile economico (valore/profitto) in
cui ironizza sull’idea che il libero mercato sia la piena realizzazione di tutti
i diritti dell’uomo, libertà ed uguaglianza ben compresi. Una constatazione che
Emanuela Fornari ritiene trovi piena conferma proprio nel cybercapitalismo,
ossia nella società in cui il capitale umano
di ogni individuo, al tempo di Marx composto unicamente dalla sua “forza lavoro”, si è ormai scomposto in più
componenti (certo ancora forza
lavoro, ma anche ad esempio ruolo di consumatore, fornitore di dati ed
esperienze di vita ai big data, sostenitore di idee e leader con i suoi like), a segnare il passaggio, tutt’altro che simbolico dal
concetto di “individuo”, (che etimologicamente
indica un soggetto che non è divisibile), a quello di “dividuo”, (neologismo recentemente introdotto proprio per definire
un soggetto scomponibile e ricomponibile a seconda delle esigenze).
L’esposizione
di Emanuela Fornari si snoda attraverso il recupero delle riflessioni di
numerosi pensatori che hanno segnato il secolare dibattito attorno ai concetti
base del capitalismo, fra i quali: Karl Marx (1818/1883), Max Weber (1864/1920,
sociologo e filosofo tedesco), Karl Polanyi (1886/1924, storico e antropologo
statunitense di origine ungherese), Marcel Mauss (1872/1950, antropologo e
sociologo francese), Gilles Deleuze (1925/1995, filosofo francese), Jean
Baudrillard (1929/2007, sociologo e filosofo francese), Ariun Appadurai (1949,
antropologo statunitense di origine indiana). Il risultato del loro articolato
intreccio e confronto è un saggio quanto mai denso e complesso e di difficile
sintesi. Ci siamo limitati in questo nostro post a recuperare i passaggi che di
più e meglio ci sono sembrati in grado di fornire spunti di riflessione collegabili al tema dell’uguaglianza (in questo caso in particolare quella
economica)
Capitolo I – La giravolta del valore e
l’ipercapitalismo
Ed è mettendo a confronto due di questi pensatori che Emanuela Fornari mette a fuoco, attraverso la lente del “valore”, i cambiamenti che hanno progressivamente portato all’affermazione dell’attuale cybercapitalismo. Da una parte Karl Marx e la sua teoria del valore messa a punto analizzando attorno alla metà dell’Ottocento il capitalismo “classico”, fortemente basato sulla produzioni di “merci”, e dall’altra Jean Baudrillard che, negli ultimi decenni del Novecento, muove una critica al pensiero marxista giudicandolo ormai inadatto a spiegare adeguatamente le nuove logiche capitalistiche sempre più “immateriali”. Da una parte quindi la concezione che guarda alla concreta realtà delle merci e che, recuperando in senso critico la distinzione classica tra il loro “valore d’uso”, quello oggettivamente determinato dal suo utilizzo, ed il loro “valore di scambio”, quello soggettivamente definito dalle logiche di mercato, individua nella quantità di lavoro contenuto in essa (lavoro incorporato) la vera spiegazione del loro differente valore (lavoro come vera fonte della ricchezza). Dall’altra uno sguardo obbligato dall’evoluzione immateriale ormai intervenuta a tentare di cogliere e definire il di più che va oltre la merce in quanto tale, non a caso Baudrillard usa raramente il termine valore che deliberatamente sostituisce con il concetto di “simulacro” (fino al punto di definire l’intera società contemporanea come una “società di simulacri”) un termine scelto non a caso proprio per indicare il di più simbolico che determina un sistema di valori slegato dalla reale concretezza materiale. Baudrillard spiega con tre fattori il suo ricorso al concetto di simulacro, il primo dei quali doverosamente recupera il valore “naturale” delle cose, di tutte le cose, quello che “nasce dalla Terra”, un aspetto che, in un pianeta dalle risorse finite, conferisce a tutti i prodotti dell’uomo un precisa valenza di sostenibilità, ma è già nel secondo che emerge la distanza critica dalle idee di Marx: la razionalità dell’ordine capitalistico. Marx era profondamente convinto che il modo di produzione capitalistico poggiasse su precise basi razionali (su questo aspetto converge, come meglio si vedrà qui di seguito, anche Max Weber), in particolare per l’organizzazione della produzione e la collegata divisione sociale del lavoro, ma al tempo stesso aveva già intuito che nel suo profondo fosse non meno ispirato da una certa irrazionalità che collegava alla esasperata e frenetica ricerca del massimo profitto. Una tensione irrefrenabile che nel lungo periodo avrebbe inevitabilmente aperto delle crepe tra il concreto sviluppo della produzione e la sostenibilità dei collegati rapporti di produzione, ed è proprio in queste fessure, in queste contraddizioni, che a suo avviso si sarebbe innestato il processo di presa di coscienza rivoluzionaria (Weber è altrettanto persuaso della pulsione irrazionale del capitalismo tanto da definirla “genetica”). Baudrillard, avendo già di fronte gli effetti del capitalismo postfordista ed i primi evidenti segnali di una trasformazione radicale della struttura socio-economica, compie un deciso passo in avanti, esattamente quello che lo porta a definire il suo secondo simulacro come: il realismo razionale del capitale portato al limite estremo della sua dissoluzione, vale a dire l’aver elevato a sistema compiuto e totale l’irrazionale creazione di valore, slegandolola completamente da quel rapporto fra valore d’uso e valore di scambio che aveva sorretto la logica unitaria della filosofia marxiana. Questa nuova dimensione strutturale del valore è talmente compenetrata nella logiche e nella concreta prassi del capitalismo attuale da essere per Baudrillard diventata un “valore a sé ed in sé”, così esasperato da essere davvero ed apertamente privo di una qualsiasi razionalità. Si è di fronte da una parte alla motivazione di fondo che spiega la formula D-D illustrata in precedenza e dall’altra alla logica conseguenza del processo che nella società dei consumi ha visto evaporare valore d’uso e valore di scambio ed ha conferito a gran parte delle merci un valore simbolico di status sociale e di inclusione (si è obiettivamente anni luce oltre il pur corretto “feticismo delle merci” segnalato da Marx come caratteristica della produzione capitalistica classica). Completa questo quadro il terzo simulacro che per l’appunto deriva dal secondo, ed è ciò che Baudrillard definisce ”iperrealismo”, la condizione in cui il realismo delle merci e delle stesse relazioni sociali è stato talmente scavalcato da essersi ormai dissolto. La logica conseguenza di questa irrazionale dissoluzione è una sostanziale “cancellazione della realtà”, l’umanità del cybercapitalismo è così immersa in un ordine di simulacri (come quelli perfettamente rappresentati nel famoso film “Matrix”, i cui protagonisti si muovono in un mondo che sembra reale, ma che è invece un mondo virtuale creato da una I.A. per tenere sotto controllo le persone) da essere ormai incapace di distinguere il reale dall’iperreale (Baudrillard definisce questo stato di cose “Il delitto perfetto”, omonimo titolo di un suo saggio, con sottotitolo “La televisione ha ucciso la realtà”, al tempo della sua pubblicazione, 1996, il mondo della Rete stava appena nascendo). Nella società dei simulacri gli stessi scambi tra persone, esattamente come quelli tra merci, perdono allora consistenza reale, diventano “scambi simbolici”, in cui quasi sempre non interviene più nulla di reale, di tangibile. Questo generale disancoraggio dalla realtà, questo iperrealismo diventa la condizione per una corrispondente forma di “iper-capitalismo” la quale, completamente persa di vista la razionalità produttivistica del capitalismo classico analizzato da Marx, acquisisce i caratteri del dominio fine a sé stesso, del controllo totale (Matrix torna in scena). E’ ovvia constatazione il decisivo apporto di tecnica e tecnologia a questa radicale trasformazione, al definitivo passaggio al cybercapitalismo, ma anche sul loro ruolo emerge una profonda diversità di veduta fra Baudrillard e Marx. La cui opinione del ruolo di tecnica e tecnologia era ambivalente, se da una parte (soprattutto nella fase finale di stesura del Capitale appena prima della sua scomparsa) aveva iniziato ad avvertire i rischi di un loro eccessivo sviluppo (così come quello, ancor più segnalato, di una sovrapproduzione di merci) dall’altra però era sua ribadita convinzione che “il conferimento di lavoro alle macchine” aveva un valore potenzialmente liberatorio. La crescita di quello da lui definito “capitale fisso” (l’investimento in macchine) rispetto al “capitale variabile” (il monte salari per pagare il lavoro umano) avrebbe consentito a quest’ultimo di sottrarsi dalla schiavitù del lavoro in una società post capitalista, al punto che si potrebbe leggere Marx come un apologeta della rivoluzione tecnologica. Baudrillard si colloca all’estremo opposto e accusa Marx per aver creduto all’innocenza delle macchine. L’introduzione progressiva delle quali determinerà a suo avviso “l’egemonia del lavoro morto sul lavoro vivo”, l’affermarsi di fredde logiche produttive ingovernabili e irreversibili con il lavoro umano, con l’uomo stesso posto sempre più ai margini e reso succube del cybercapitalismo. Per Baudrillard l’ipercapitalismo ha così trasformato l’uomo in una “desinenza inutile del capitale fisso”, una mera appendice della macchina. Non a caso cita la scomparsa della “fabbrica” come paradigma della fine del lavoro confinato in un luogo e in un tempo definiti, mentre la tecnica e la tecnologia hanno fatto divenire fabbrica la società intera. Come commento finale di questo confronto Emanuela Fornari precisa che l’obiettivo di Baudrillard non è stato tanto quello di colpire Marx e la congruità della sua analisi, quanto piuttosto quello di far comprendere, dimostrando la loro inadeguatezza a spiegare il capitalismo odierno, che quello che si ha oggi di fronte, il cybercapitalismo, è una forma dell’economia, della produzione, della società intera, totalmente diverse da quelle a suo tempo studiate da Marx. Nelle quali la produzione di valore è ormai totalmente priva di corrispondenza ai bisogni “naturali” dell’uomo (così com’era nel capitalismo classico) ed in cui il consumo si è elevato a finalità fine a se stessa proprio grazie ad un sistema scientifico di induzione di bisogni innaturali.
Prima
di entrare nel secondo Capitolo, non a caso intitolato “Innaturalità dell’economia”,
c’è spazio per una considerazione a margine che “tenta” di collegare quanto sin
qui riportato al tema della disuguaglianza (economica). L’analisi delle forme
del cybercapitalismo, già di per sé interessante, fornisce inoltre indicazioni
utili a capire come anche la ricerca di una maggiore uguaglianza, non limitata
alla sola leva della “redistribuzione” a valle, debba essere calibrata rispetto
a questo contesto. Vale a dire che ogni prospettiva di incidere, a monte, sulle
cause strutturali che determinano le attuali impressionanti disuguaglianze deve
saper individuare i meccanismi nevralgici sui quali poter poi intervenire con
efficacia. Quanto sembra emergere dall’analisi di Emanuela Fornari è
l’esistenza di una logica di dominio economico e sociale che non è più
riducibile a quello classico del “padrone del vapore” del capitalismo di Marx.
Il quadro si è fatto molto più complesso a partire, ad esempio, dal fatto che
la globalizzazione ha imposto ovunque le medesime logiche rendendo impraticabili,
con la rete rigida delle interconnessioni, soluzioni a livello di singolo
paese. Quello che però pare avere una relazione più diretta e stringente con il
tema dell’uguaglianza (economica) è il fatto che nella “società dei bisogni innaturali” il valore stesso dell’uguaglianza
deve essere rimodulato: oggi in cosa esso davvero potrebbe consistere?
Capitolo II – Innaturalità
dell’economia
Il secondo capitolo, pur richiamando l’affermazione che chiude il primo, cambia registro, entra in scena una disciplina, l’antropologia, capace di guardare al cybercapitalismo da un’ottica differente ed integrativa, e lo fa partendo dal libro di Marcel Mauss “Saggio sul dono“. Osservando la pratica del dono in società cosiddette tribali o arcaiche Mauss ha tratto la convinzione che esso ha comunemente rappresentato un “fatto sociale totale” capace di coinvolgere non tanto singoli individui, ma interi gruppi e comunità (clan, famiglie, tribù), articolandosi, di norma, lungo tre assi: il collegamento con situazioni di antagonismo - un sistema di obbligazioni - una forza iscritta nelle cose donate – sviluppati in tre specifici atti: il donare - il ricevere - il ricambiare. Il risultato che si realizza al termine completo di questo ciclo è l’istituzione di un legame sociale, del tutto privo di una ricaduta economica, che costantemente si alimenta e si rafforza con la sua costante ripetizione. Il movimento del dono disegna cioè un cerchio che istituisce la società unificando in un reciproco vincolo il gruppo, che abbatte i confini che separano i suoi diversi componenti e che neutralizza le ragioni dei possibili conflitti. Attraverso la cosa donata, che non è mai valutata per il suo valore d’uso, il gruppo fa dono di una parte di sé, quella che aspira alla comunanza, che si lega a tale oggetto con una forza simbolica tale da indurre chi lo riceve a ricambiarlo con la stessa intensità. Si è, a ben vedere, di fronte ad un processo di valorizzazione delle cose totalmente diverso da quelli che nel capitolo precedente si sono visti in Marx (formazione del valore della merce sulla base del lavoro in essa incorporato) ed in Baudrillard (valorizzazione dell’oggetto come simulacro), ma non meno capace, seppure su tutt’altre basi, di divenire il presupposto fondamentale per la costituzione di un intero ordine sociale. Interviene poi secondo Mauss un secondo non meno importante aspetto: nella pratica arcaica del dono (che in gran parte della stessa Europa è comunque durata per non pochi secoli quantomeno fino all’adozione estesa del diritto romano imposta con l’espansione del dominio di Roma antica) l’intera sua circolarità (dono e controdono) non assume mai il carattere di un accordo preliminare in qualche modo siglato e formalizzato, non ha cioè carattere contrattuale. La reciprocità che si instaura fra chi, alternativamente e ripetutamente, dona e chi riceve, non si risolve cioè in un contratto, ma trasferisce la tensione antagonista, che pur permane sotto traccia, in una sorta di competizione per il prestigio che, attraverso il valore simbolico attribuito alla cosa donata, stabilisce comunque una gerarchia all’interno del gruppo, della società. Quello che nella logica sociale del dono, scontata la sua non-replicabilità negli attuali contesti sociali, è più importante cogliere sono due elementi che possono fornire utili spunti di riflessione. Innanzitutto il fatto che la pratica del dono prende avvio dalla consapevolezza che le comunità sono sempre e comunque caratterizzate dalla presenza di tensioni, conflitti, pulsioni, passionalità, a segnare una fondamentale irrazionalità del sociale, che deve però essere in qualche modo posta sotto controllo per evitare la loro stessa dissoluzione. Acquisita questa consapevolezza la pratica del dono dimostra che da questa irrazionalità è possibile uscire se non si seguono logiche di appropriazione, se cioè le cose non vengono caricate di una valenza, in primis il valore economico, che di fatto non può che accentuare le ragioni di conflitto. La scelta diversa e alternativa, che costituisce l’aspetto più significativo della pratica del dono, è quella di seguire logiche di prestigio in cui il valore delle cose perde la sua materialità per assumere un dimensione simbolica così forte da annullare il conflitto stesso trasferendolo su un altro piano: il dono è a tutti gli effetti un conflitto simbolico che non cancella le irriducibili rivalità, ma le trasferisce su un piano di pacificazione reso possibile proprio dal disinteresse verso le cose in sé (in alcune culture arcaiche la competizione per il prestigio, per questo tipo di prestigio, viene giocata sulla disponibilità alla rinunzia, attuata persino con la distruzione dei beni).
Nelle
culture arcaiche studiate da Mauss il termine “mana”
di solito viene usato per indicare il “prestigio”,
ma da lì, per estensione logica, definisce anche la “persona”,
non intesa però come singolo individuo, ma come appartenenza ad un gruppo, ad
un clan, ad una famiglia. Il termine “persona” è molto usato anche da Hobbes
che però, ad ulteriore conferma di quanto sopra, trova il suo completamento nel
rapporto con “l’autorità” del potere.
E tutto ciò si realizza senza il ricorso a
formali contratti, il garante dell’accordo è infatti individuato, anche qui simbolicamente,
al dono stesso. Appare evidente la lontananza dalla concezione di “contratto sociale”
di Thomas Hobbes (1588/1679, filosofo
inglese)
che non diversamente parte dalla consapevolezza della inevitabile conflittualità
sociale (“La
guerra di tutti contro tutti” è la sua famosa affermazione) per poi diversamente
risolverla affidando la pacificazione all’attivazione di un accordo formale (il contratto sociale) il cui rispetto è affidato al potere
dello Stato (al tempo quello
regale), l’unico
titolato all’uso della forza.
Non a caso Emanuela Fornari introduce questo raffronto con Hobbes per evidenziare che la concezione hobbesiana della società, delle sue istituzioni e del loro ruolo, è di fatto storicamente divenuta quella vincente, tanto da divenire quella su cui si è costruita la diffusa cornice statuale che ha successivamente consentito la nascita del capitalismo, rispetto a quella al tempo alternativa di Jean Jacques Rousseau (1712/1778 filosofo francese) che pensava ad un “patto sociale” fondato sull’adesione a base volontaria
Detto in precedenza del significato che Mauss ha rinvenuto nel dono e nella sua pratica Emanuela Fornari, per riprendere il filo del collegamento con il tema del valore (e quindi indirettamente anche dell’uguaglianza), ribadisce che la forza che dà vita al ciclo del dono e che vincola le due parti a superare tramite di esso divisioni e contrasti consiste proprio nel potere che entrambe le parti attribuiscono alla cosa donata, un potere che, è bene sottolinearlo, è del tutto slegato dal suo essere un oggetto, un bene (i Maori chiamano questo potere “hau” che letteralmente significa “anima”). La dimensione del dono in questa sua accezione simbolica è talmente contrapposta a qualsiasi valutazione razionale del valore di quello che da bene viene con essa trasformato in merce da impedire la nascita di una economia di mercato. Questo è ciò che a lungo è storicamente avvenuto in buona parte del mondo, mentre, aspetto tutt’altro che secondario, un salto simile poteva avvenire (questa è l’idea di Max Weber) “solo in Occidente”, vale a dire nella cultura che, non a caso, si è progressivamente fondata sulla superiorità del pensiero razionale e sull'idea di contratto sociale posto in capo allo Stato
Riprendendo
il filo dei collegamenti con il tema dell’uguaglianza anche
le osservazioni antropologiche di Mauss da una parte rafforzano la necessità,
già evidenziata, di collegarla meglio e più a fondo alla dimensione dei bisogni e dell’utilità e dall’altra la collocano
storicamente soprattutto nell’alveo dei fondamenti della moderna cultura
occidentale
Capitolo III – Cybercapitalismo
ed economia del debito
Al di là dell’interesse in sè la riflessione
attorno al valore sociale del dono ritorna utile, rientrando nel vivo dell’attuale
cybercapitalismo, se valutato in rapporto al suo esatto opposto, al binomio “credito/debito”.
Anche in questo caso Emanuela Fornari parte da una suggestione cinematografica,
il film Cosmopolis
del 2014 (tratto dall’omonimo
romanzo dello scrittore statunitense Don DeLillo, è la storia, di fatto tutta
composta da dialoghi, di un giovane rampante miliardario che, a bordo di una
enorme limousine, tira le fila dei suoi traffici finanziari e intanto riflette
a voce alta sulle loro logiche) per poi appoggiarsi al saggio “La fabbrica dell’uomo
indebitato” di Maurizio Lazzarato (filosofo
e sociologo italiano, autore di diversi saggi fra i quali spicca “Il governo delle disuguaglianze”) che ragiona su
questo binomio richiamando riflessioni che spaziano da Walter Benjamin (1892/1940, filosofo e critico letterario tedesco) a Max Weber e a
Nietzsche (1844/1900, filosofo e filologo
tedesco,
che nel suo testo “Genealogia
della morale” ricorda che in tedesco la parola “schuld”
indica sia il “debito” che la “colpa”). In questo suo saggio Lazzarato esplora le
conseguenze sull’intero sistema delle relazioni sociali e sugli stessi percorsi
esistenziali individuali determinate dall’avvento di quella che viene
tecnicamente definita “l’economia del debito”, una delle
caratteristiche più rilevanti del cybercapitalismo. Con questo termine si
designa la particolare forma di finanziarizzazione dell’intera economia (altro elemento fondante del cybercapitalismo) che, esplosa a
partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, poggia su due pilastri distinti
ma intrecciati: il
debito pubblico come fondamentale leva di sostegno all’economia ed il debito
privato come strumento per accedere, così sostenendolo, al consumo. La storica
crisi dei subprime esplosa nel 2007/2008 (proprio
a causa dei sistemi finanziari di gestione dell’economia del debito, in
particolare quello della sua “cartolarizzazione”
ossia la cessione dei crediti sul mercato finanziario) è stata l’occasione
per l’opinione pubblica mondiale di prendere atto, avendone pagato i pesanti
costi, del definitivo e dominante avvento dell’economia del debito.
Non deve quindi stupire che la “proprietà di capitale”, evoluta nella forma di “rendita”, sia divenuta centrale nella struttura delle disuguaglianze (la spaventosa ricchezza concentrata nelle mani dell’1% della popolazione mondiale è in grandissima misura costituita proprio da rendite finanziarie)
Secondo Lazzarato in questa nuova sfera
economica si è così realizzata una nuova forma di sfruttamento, quella del rapporto
creditore/debitore, capace di incidere sull’intera dimensione
temporale dell’esistenza. (Emanuela Fornari,
citando Lazzarato, richiama come esempio paradigmatico quello dei neo laureati
statunitensi che, se non hanno alle spalle una famiglia benestante o se non
hanno goduto di adeguate borse di studio, di norma si affacciano sul mercato del
lavoro già gravati da onerosi debiti contratti per pagarsi il percorso di
studi).
Vale a dire che se il classico sfruttamento della forza lavoro aveva dei
contrattabili limiti temporali (le ore di lavoro) questa nuova forma
incide sull’intero ciclo temporale della vita (del debitore). Nell’economia del
consumo, cresciuta a dismisura con l’esplosione dei prodotti tecnologici, il
ricorso al debito, nella sue varie articolazioni e forme, è ormai divenuta la
modalità standard di pagamento (in non pochi casi,
si pensi ad esempio al mercato dell’auto, la finanziarizzazione dell’acquisto
viene persino imposta di default), rendendo le vite dei soggetti indebitati
una alternanza
incessante tra insolvenza e solvibilità (il requisito inaggirabile che il sistema creditizio
accerta per concedere ulteriore credito). Uno stato di cose che si è determinato,
tutt’altro che casualmente, nella fase neo-liberista del capitalismo mondiale,
ossia quella che pur muovendosi all’insegna della massima libertà individuale
di fatto ha realizzato, anche con lo strumento del debito, un controllo totale
della vita individuale e quindi collettiva. (si
tenga poi conto che la spada di Damocle del debito colpisce su scala globale
anche le piccole attività produttive e commerciali, in particolare, ad esempio, quelle
agricole dei paesi poveri ma nondimeno degli stessi USA,
provocandone una altissima percentuale di fallimenti). La relazione, a
senso unico, tra creditore (il sistema
capitalistico finanziario) e debitore (la stragrande
maggioranza degli individui) ha in questo modo assunto la forma di un
autentico dominio di massa spietatamente esercitato da parte di chi tira le
fila del cybercapitalismo neoliberista. E tutto ciò avviene in modo così esteso
e trasversale da aver affiancato se non travalicato le classiche relazioni di
classe, essere dalla parte debole di tale binomio scavalca infatti ogni
distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e
inattivi, pensionati e beneficiari di sussidi, così come gli stessi conflitti
tra generazioni.
Emerge
un ulteriore spunto di riflessione attorno al tema dell’uguaglianza, l’economia
del debito, se riconosciuta come fattore davvero in grado di incidere sul
quadro delle relazioni socioeconomiche, sembra avere un impatto rilevante sul
sistema delle disuguaglianze aggiungendo un aspetto finora non tenuto in
adeguata considerazione
La finanza intesa come potere/dominio si è
persino sostituita ai meccanismi della sovranità statale detentrice del potere
coercitivo invadendo la quotidianità esistenziale ben più dello Stato
hobbesiano. Dal punto di vista antropologico, ma anche politico, l’uomo indebitato è anche l’uomo del controllo, uno stato
esistenziale da cui è difficilissimo uscire, oltretutto aggravato dal senso di
colpa installato dall’ideologia neoliberista che considera il debito come il risultato della colpa di
essere fallito nel suo ruolo di uomo imprenditore di sé stesso (torna qui il precedente richiamo a Nietzsche sul doppio
significato di debito e colpa della parola tedesca schuld). Ma se davvero
esistono condizioni oggettive tali da far ritenere che l’economia del debito
stia costituendo un nuovo archetipo di relazioni sociali diventa possibile
affermare che società ed economia sono sempre di più costituite da una
asimmetria di potenza, quella del creditore e quella del debitore,
difficilissime da affrontare ed ancor di più da risolvere. L’era neoliberista
globalizzata in cui il capitale è divenuto capace di autoalimentarsi a
dismisura è il quadro socioeconomico totalmente nuovo che si è storicamente
creato al culmine del lungo percorso segnato dalla teoria del dono (Mauss) prima, dal valore reificato nella merce (Marx) poi, ed anche oltre il valore assurto a
simulacro (Baudrillard). Il giovane
miliardario del film Cosmopolis nella sua limousine riflette sulla sua
ricchezza del tutto incurante dei violenti disordini che stanno avvenendo nelle
strade. La perderà non a causa di questi, ma per non aver saputo districarsi
nelle logiche del mercato. Tutto ciò mentre su uno dei grattacieli appare la
scritta “The
spectre of capitalism is haunting” (Lo
spettro del capitalismo sta perseguitando/infestando)
Capitolo IV – Crisi dei
mercati e crollo del linguaggio performativo
Il tema della finanziarizzazione
dell’economia, ed in particolare del mercato dei derivati (uno titolo di borsa il cui valore “deriva” dalle
fluttuazioni di un altro strumento finanziario - azioni, indici finanziari, valute, tassi d'interesse o anche
materie prime – sulle quali si “scommette”) resta centrale
anche in quest’ultimo capitolo del saggio, ma viene affrontato da un originale
punto di osservazione, ancora una volta di carattere antropologico. Eleonora
Fornari richiama infatti le tesi di Ariun Appadurai, che a lungo ha studiato il
mondo delle Borse mondiali, che evidenziano una stretta relazione tra transazioni
finanziarie ed espressioni linguistiche, partendo dalla convinzione,
antropologica, che il linguaggio possieda il potere di produrre realtà. La sua tesi
è infatti quella che l’economia finanziaria, nelle forme linguistiche con cui
si esprime, sia di fatto un ancestrale richiamo al sacro, al magico, al fantastico,
che esula dalla dimensione razionale degli “interessi” per entrare in quella delle “passioni”,
riunificandole in quelle che definisce “passioni interessate” (una tesi che guarda per l’appunto soprattutto al mondo
dei derivati che oggettivamente sono una azzardata
scommessa sul futuro). Tanto la lettura che di questo mondo dava
Weber era fondata sull’esaltazione della sua razionalità persino etica tanto
quella di Appadurai evidenzia la sua ritualità espressa linguisticamente con
autentiche formule magiche. I titoli di borsa, e soprattutto i derivati che
sono una scommessa legata ad un’altra scommessa sottostante, sono infatti
l’esatto opposto della razionalità economica che dovrebbe rifuggire
dall’eccesso di rischio. Ma questa intrusione dell’irrazionale persino magico
in quel ciclo del valore che si è visto essersi sintetizzato nella formula D-D,
denaro che produce denaro, alla base del cybercapitalismo evidenzia la sua intrinseca fragilità, la sua
insostenibilità. Appadurai riafferma questa sua interpretazione
rifacendosi proprio al pensiero di Weber, che a suo avviso ha dato origine a due
tradizioni: quella del calcolo razionale
e quella di un conseguente laicismo economico. Ciò è però avvenuto
solo nella cultura occidentale, mentre altre tradizioni, quella indiana e quella mussulmana in primis (un bel terzo
dell’umanità),
hanno conservato anche in campo economico un forte rapporto con la dimensione religiosa.
La proposta di Appadurai è quella di fondere queste tradizioni per far nascere un’etica dell’agire
razionale consapevole, in senso weberiano, della sua insopprimibile
contingenza e contestualità (non vale ovunque
allo stesso modo).
E suffraga questa proposta con un richiamo al concetto di “spirito” (geist in
tedesco, quello che Weber presenta nel suo famoso testo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) per declinarlo però
come un’etica capace di governare l’agire individuale e a ricaduta quello
collettivo. Una possibile soluzione per uscire dall’irrazionalità, iniqua e
creatrice di ulteriori disuguaglianze, della formula D-D per avviare l’umanità,
sempre più composta dai “dividui” di cui si è detto, verso una nuova istituzione
immaginaria della società