giovedì 1 agosto 2024

La Parola del mese - Agosto 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

AGOSTO 2024

La Parola di questo Agosto 2024 è stata suggerita dalla lettura di un interessante testo (consigliato da Clara Politi, antropologa nonché nipote della nostra socia fondatrice Carla Toscano) che ha rafforzato il nostro interesse verso le chiavi di lettura di questi tormentati tempi offerte da una disciplina, l’antropologia culturale, incomprensibilmente ed ingiustamente, troppo a lungo rimasta ai margini del dibattito culturale. Il testo in questione ha titolo Torino. Un profilo etnografico”, a cura di Carlo Capello e Giovanni Semi pubblicato da Meltemi editore nella collana “Biblioteca–Antropologia” (coordinata da Andrea Staid, docente di antropologia culturale, il cui saggio “Essere natura” ha ispirato la nostra Parola del mese di Marzo 2023 “Natura vs cultura). Si tratta di una raccolta di riflessioni antropologiche, in particolare etnografiche, sulle profonde trasformazioni avvenute nel periodo a cavallo dei due secoli nel tessuto economico e sociale torinese basata su un presupposto consolidato delle scienze sociali: per osservare da vicino una struttura sociale ed i mutamenti che la riguardano occorre guardare, all’insegna de “il reale è relazionale”, all’insieme delle relazioni sociali che la contraddistinguono. Vale a dire che per risolvere l’enigma della dialettica tra struttura ed azione, con le loro reciproche influenze, occorre conoscere e valutare con la giusta attenzione il comportamento interattivo tra persone, oggetti e spazi (prezioso campo di osservazione ed analisi proprio dell’antropologia). All’interno di questa raccolta la nostra attenzione si è concentrata sul titolo del saggio iniziale che al nome di Torino affianca un aggettivo che ci è parso così azzeccato ed intrigante da divenire la Parola di questo mese

LIMINALE

Liminale = s.f. derivato dal latino limen (soglia, confine) indica un fenomeno, un processo, che è sulla soglia, che sta per attraversare una linea di confine. E’ particolarmente usato in psicologia e fisiologia per indicare uno stimolo o un fenomeno che possiede un’intensità sufficiente per essere coscientemente percepito (il suo contrario subliminale indica invece uno stimolo o un fenomeno non meno reali e comunque percepiti, ma non in grado di superare la soglia della percezione cosciente). E’ stato adottato nelle scienze sociali per indicare un processo in corso ancora nella fase di passaggio da uno stato preesistente ad uno compiutamente successivo. Sempre in questo ambito gli spazi liminali sono luoghi di transizione, di passaggio da una condizione sociale ed esistenziale ad un’altra

Nell’introduzione di questa raccolta di brevi saggi Carlo Capello (professore di discipline demo-etno-antropologiche presso la Facoltà di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino)

e Giovanni Semi (docente di Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale presso l’Università di Torino, saggista)

premettono le ragioni che l’hanno ispirata, le motivazioni che spiegano l’interdisciplinarietà dei testi raccolti attorno ad una visione di base antropologica/etnografica, e che cosa si debba quindi intendere per “etnografia di Torino”. Si tratta in effetti di un campo di indagine antropologica di norma più dedita ad indagare contesti culturali lontani, limitati nelle dimensioni e nella complessità, Torino al contrario è sicuramente una situazione complessa attraversata da diverse linee di faglia, da limen economici, sociali, di classe, di genere, di età, di etnia (è comunque pur vero che negli ultimi anni l’antropologia indaga con maggior attenzione gli aspetti propriamente urbani della vita sociale contemporanea). Un notevole contributo alla capacità di entrare in queste faglie è venuto dal fatto che tutti gli autori coinvolti nella ricerca vivono in Torino o comunque con essa mantengono uno stretto rapporto e ……  l’essere parte del proprio oggetto di studio rafforza la tendenza a prendere posizione, a esprimere la propria opinione politica ed etica, a costruire la propria immagine della città in quanto spazio morale oltre che geografico; implica, in altre parole, l’esigenza di un’etnografia pubblica e impegnata. Questa particolarità ha così implicato che lo sguardo etnografico si sia concentrato proprio sui confini tra gruppi e ceti più che su aree sociali e zone urbane delimitate, sui processi in corso più che sui loro esiti già avvenuti sulle persone, sui conflitti culturali più che sulle singole culture consolidate. Lo scopo ultimo è consistito nel costruire un’immagine di Torino nella sua interezza, nella sua totalità di componenti ed aspetti, un obiettivo tutt’altro che semplice per una disciplina, come l’antropologia/etnografia, che per definizione opera a livello micro partendo da realtà sociali, luoghi, gruppi particolari e circoscritti. Questo aspetto spiega la scelta di assemblare undici indagini su aspetti specifici a formare un mosaico che sovrappone, in un continuo crescendo, più fotografie della stessa realtà urbana colte da prospettive diverse. Ma perché Torino? perché non altre città non meno colpite dalle radicali trasformazioni che si sono innescate dagli anni Novanta in poi? Perché a partire da fine Ottocento e poi per tutto il Novecento Torino non è mai stata solamente una città, ma ha sempre costituito un “laboratorio”, un incubatore di tendenze con valenza generale. Prima come contenitore politico di aspirazioni democratiche, poi come punta massima delle lotte operaie di fabbrica, poi come emblema del boom industriale e della migrazione interna che l’ha portata ad essere la terza città meridionale più grande d’Italia, poi ancora simbolo lacerato della de-industrializzazione post-fordista, ed oggi infine come ipotesi di una diversa composizione di un tessuto produttivo più variegato, ma ancora in corso di costruzione. Quest’ultimo laboratorio, che raccoglie le diverse eredità precedenti, sta generando, inevitabilmente, tensioni sociali e culturali che incidono fortemente sui rapporti generazionali e sull’intero sistema delle relazioni personali. Un mutamento in corso d’opera che ha spiazzato molte delle certezze identitarie di prima, al punto che un profondo conoscitore della Torino sociale come Marco Revelli è giunto a confessare in un suo testo del 2016 di ….. perdersi nella nuova Torino, di non ritrovarcisi e di non riconoscerla più ….. Come è quindi più volte successo nella sua storia Torino è ritornata a fare i conti con una nuova trasformazione, con un nuovo confine da superare, ad essere cioè nuovamente liminale. Per meglio far comprendere che cosa ciò possa significare Carlo Capello in chiusura del suo saggio riprende una famosa annotazione di Antonio Gramsci (Quaderni dal carcere -3, nota 34, p. 311) che tutto dice: …. quando il vecchio non muore ed il nuovo non può nascere si verificano i fenomeni morbosi più svariati ……

Il breve saggio di Carlo Capello - dal quale abbiamo estratto solamente le parti che ci sono parse essere più direttamente collegabili alla Parola del mese e più adatte a testimoniare uno sguardo antropologico /etnografico – è del 2016. Le riflessioni che propone sono il frutto dei lunghi colloqui che l’autore ha tenuto con diverse decine di donne e uomini, giovani ed anziani, al tempo disoccupati. A distanza di otto anni il quadro della disoccupazione torinese e le ricadute sui soggetti che ne sono coinvolti non ci sembra che siano più di tanto mutati

 Torino liminale. Riflessioni antropologiche su post-fordismo e disoccupazione

di Carlo Capello

Non v’è dubbio che l’antropologia urbana sia destinata ad avere, a breve, uno sviluppo assai significativo, lo impone la globale tendenza all’inurbamento (nella nostra Parola del mese di Novembre 2022, “Megalopoli”, si evidenziava che nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in contesti fortemente urbanizzati. Attualmente già ci vive il 55%). Quale contributo questa disciplina può allora dare alla comprensione delle dinamiche urbane, comprese quelle che qui interessano di Torino? Nel suo ambito è convinzione sempre più diffusa e consolidata che i concetti antropologici “classici”, seppure coniati per realtà non capitalistiche e non moderne, possano comunque fornire una feconda rappresentazione là dove riescano a dare vita a “metafore concettuali” in grado di sintetizzare l’humus sociale e culturale che caratterizza un determinato contesto urbano. Nel caso specifico torinese viene in soccorso quella della “liminalità, di norma in antropologia usato per indicare la condizione di sospensione che interviene nel corso di una transizione da un ruolo sociale ad un altro, da una fase esistenziale ad un’altra (ad es. dall’età giovanile a quella adulta). La tesi di questo saggio consiste proprio nel ritenere che Torino sia entrata in una condizione liminale e che molta parte della sua attuale caratteristica di fondo trovi senso in questa prospettiva. Nell’approccio antropologico di Capello questa principale chiave di lettura viene completata con la scelta di partire, per dare ad essa senso e completamento, dalle tante e variegate situazioni di marginalità  legate alla disoccupazione post fordista, tenendo però in debito conto che nel contesto torinese la marginalità deve essere intesa in senso ampio, non essendo solo esclusione lavorativa e solitudine sociale, ma in quanto tale come perfetto  sinonimo di passaggio, di soglia (le persone che Capello ha incontrato nella sua indagine sono marginali, perchè escluse da lavoro o messe ai suoi margini, ma allo stesso tempo assolutamente “normali” rispetto ai parametri che definivano la loro precedente posizione sociale). Capello riconosce comunque che il mondo della disoccupazione non è facile da studiare dal punto di vista etnografico, i disoccupati infatti non rappresentano un gruppo omogeneo, compatto (salvo per periodi di tempo limitati in occasione di lotte contro licenziamenti di gruppo), ma di fatto costituiscono un mondo a sé in gran misura fatto di percorsi individuali e di rari ed estemporanei momenti di incontro (ad esempio presso i Centri per l’Impiego, ex Uffici di Collocamento). Eppure, anche se con andamento storico altalenante, la disoccupazione investe una fetta tutt’altro che trascurabile della popolazione (il tasso di disoccupazione italiano da anni si aggira attorno al 10/12%, e nella realtà torinese spesso è salito ben oltre). In sintesi analizzare questo spaccato della società dal punto di vista antropologico/etnografico significa allora, andando oltre la mera statistica numerica e la semplice osservazione sociologica, individuare la particolare dimensione umana e relazionale che emerge da questa condizione di liminalità. Il primo elemento che emerge con chiarezza è la grande sofferenza psicologica che sempre e comunque colpisce i soggetti coinvolti con una intensità che di molto aggrava le inevitabili problematiche di concreta sopravvivenza economica. Sono infatti molti i disoccupati che devono ricorrere a farmaci (e agli apprezzati servizi di ascolto psicologico purtroppo non ovunque presenti) per mantenere viva la forza di volontà per affrontare il disagio, le tensioni che ricadono sull’ambito familiare e relazionale. La liminalità del disoccupato standard non è mai vissuta come una fase, per quanto complicata, di maturazione, di crescita, ma sempre come una sorta di pesante caduta in una inaspettata e pericolosa situazione esistenziale. Le pillole tuttavia, per quanto utili  se non indispensabili, non possono essere la risposta ad una situazione che il singolo soggetto inevitabilmente è portato a vivere come una specie di patologia individuale quando è a tutti gli effetti un fenomeno collettivo in quanto portato strutturale di una diseguaglianza di opportunità socioeconomiche  che, nello specifico torinese, da tempo si sta manifestando  nell’ambito di generali processi di trasformazione della forza lavoro nella fase postindustriale e di tecnologizzazione della produzione. Emerge inoltre con evidenza che il disagio liminale del disoccupato non è determinato soltanto dalle pur impattanti difficoltà economiche (in qualche misura attutite, quando possibile, dalla rete di relazioni familiari allargate e dal prezioso supporto delle associazioni di volontariato) ma anche, se non soprattutto, dall’aver perso, con il lavoro, l’insieme delle funzioni esistenziali e relazionali collegate al possesso di una occupazione lavorativa: l’organizzazione e la gestione del tempo, delle giornate, la riduzione delle esperienze di vita e dei contatti sociali, la perdita del proprio capitale simbolico, la cancellazione di uno status sociale che molto contribuiva a definire la loro intera identità personale. Dal punto di vista antropologico il disoccupato tipo diventa in breve una persona che sente di “non appartenere a nessun luogo”, che sembra costantemente “sospeso tra mondi diversi, bloccato sulla soglia di due stati o identità”, quella data dal lavoro perso e quella imposta da un futuro occupazionale e sociale incerto, è in sintesi “la rappresentazione esemplare di una esistenza resa priva di direzione”. Da qui disagio, disorientamento, senso di inutilità, sfiducia, sofferenza psicologica, l’esatto opposto degli stati d’animo che di norma segnano lo stato liminale che, come nei classici casi antropologici, segna il passaggio verso un nuovo positivo. Tutto ciò si accentua vieppiù nei soggetti non più giovani, e quindi ancor più a rischio di ricollocamento lavorativo, per i quali, a maggior ragione, il possesso di una identità lavorativa ha rappresentato una fondamentale costante esistenziale e la sua perdita un’autentica fine del mondo. Il disoccupato, specie se non più giovane, è quindi portato a parlare di sé quasi esclusivamente in termini negativi, molto spesso accentuati, specie nei soggetti maschili,  anche dalla perdita del “ruolo di genere” e , aspetto tutt’altro che trascurabile nella società attuali, della possibilità di accedere alle “pratiche di consumo” che molto incidono nel determinare il proprio status sociale (anche queste ricadute accentuano la tendenza ad isolarsi, a diminuire, se non rompere, le relazioni sociali se proprio non indispensabili, fino ad evolvere in un’autentica  “invisibilità sociale” ). Tutto questo concorre a comporre, ad articolare, una dimensione liminale che, dal punto di vista antropologico, è come già anticipato lontanissima dai classici “riti di passaggio” che in molte culture segnano una “normale” transizione esistenziale. Capello precisa bene al riguardo che in questi riti di passaggio il soggetto coinvolto acquista provvisoriamente lo status di una “non-persona” sospesa in una situazione ambigua, indefinita, segnata dall’essere “un non più e un non ancora(l’analogia in ogni caso non si riferisce al passaggio in sé, ma all’essere allo stesso modo immersi in una fase liminale). Questo accostamento è stato ritenuto sotto molti punti di vista da alcuni antropologi urbani una forzatura inducendoli a coniare in alternativa il termine di “liminoide” per indicare, proprio con riferimento al caso specifico del disoccupato, uno stato sociale che “assomiglia al liminale senza essere identico ad esso(altri studiosi preferiscono usare il concetto di “immobilità esistenziale”). In questo sorta di limbo, senza orizzonti certi, pesa moltissimo, a completare il quadro antropologico/etnografico, il sentimento dell’incomprensione, il sentirsi non compresi dagli altri, familiari ed amici inclusi, incapaci di capire, giudicando dal di fuori, “come sia possibile restare bloccati in questo limbo liminale”. Ancora una volta infatti interviene, anche da parte di chi è esistenzialmente vicino al disoccupato, la inconsapevole tendenza a leggere la sua vicenda di emarginazione dal lavoro come una situazione problematica individuale e non una delle possibili situazioni determinate da cause strutturali che dovrebbero in teoria attivare, nei limiti del possibile, una solidarietà più sociale, più politica. In generale comunque, e a maggior ragione nella rete di relazioni personali meno vicine, … delle persone senza lavoro si sa e si vuole sapere ben poco, ridotte a numeri e statistiche, le loro esperienze soggettive rimangono nascoste ed invisibili …. Eppure il fenomeno della disoccupazione, da sempre una componente fisiologica del modo di produrre capitalistico, sta conoscendo nell’economia post-fordista e neoliberista un potente aggravamento. Il passaggio da un’economia industriale ad una in gran prevalenza basata su servizi e finanza non comporta solo lo spostamento fisico di manodopera da un settore ad un altro, peraltro nella migliore delle ipotesi quasi sempre limitata ai lavoratori più giovani, ma la inevitabile esclusione dei lavoratori più difficili da ricollocare. Torino rappresenta un caso esemplare in questo senso, la fase di uscita dalla sua caratteristica fortemente manifatturiera, oltretutto quasi esclusivamente basata sull’automotive, non si è di certo ancora completata.

La deindustrializzazione che ormai da decenni ha interessato e impoverito l’economia torinese non sembra essersi fermata. Al contrario, venendo ai giorni nostri, è lecito temere che la crescente tecnologizzazione delle attività produttive abbinata alla trasformazione strutturale che il settore auto subirà con il passaggio all’auto elettrica si rivelino una ulteriore spinta a trasformazioni che inevitabilmente comporteranno nuovi picchi di disoccupazione più o meno diffusa e prolungata ……. le opportunità di lavoro per la classe operaia sono sempre più rare e, in ogni caso, differenti rispetto al passato; non del tutto scomparse, ma certamente più labili ed effimere …….

Se si può affermare che, all’interno dell’attuale epoca neoliberista, l’intera condizione lavorativa è segnata dall’incertezza perché di fatto la logica alla base dell’intera struttura economica e produttiva è fatta di precarietà e continua accelerata trasformazione i disoccupati si rivelano il simbolo vivente, semplicemente più eclatante, di una generale liminalità che interessa, va da sé con diversi gradi di intensità, l’intera realtà sociale. E’ quindi Torino tutta ad essere da tempo divenuta liminale, bloccata com’è in una identità sempre meno industriale, ma al tempo stesso neppure terziaria o turistica

è quanto sosteneva in suo saggio già nel 2011 Giuseppe Berta, apprezzato storico dell’economia italiana purtroppo recentemente scomparso, fra l’altro ribadito in qualità di relatore alla nostra conferenza del 19 Maggio 2017 con titolo non a caso individuato in “Le trasformazioni del tessuto industriale ed economico nel torinese e nella Valle di Susa

Il che trova correlazione nelle forme di vita e nelle strutture di sentimento quotidiane, in larga misura ancora segnate dai modi diffusi di pensare della precedente organizzazione fordista (nella rappresentazione collettiva Torino resta spesso ancora percepita come la città della fabbrica, la città-fabbrica, per quanto tale da tempo non sia più) che continua ad essere visivamente presente seppure nella crescente forma di rovine industriali, la spettrale rappresentazione della sua liminalità.  Carlo Capello chiude questa sua riflessione etnografica richiamando due avvenimenti simbolici di evidente carattere antropologico: Novembre 2003 le esequie pubbliche di Gianni Agnelli, un autentico addio rituale alla grande industria e alla collegata organizzazione sociale – Inverno 2006 le Olimpiadi Invernali, lo sforzo illusorio di uscire dalla condizione liminoide con una sorta di grande festa di riaggregazione.  Peccato però, ed è questa la riflessione ancora da farsi quasi vent’anni dopo, che i rituali da soli non bastano essendo di fatto formule magiche utili al più ad esprimere desideri e speranze, la Torino liminale, con il suo immutato ethos di incertezza, rischia seriamente di divenire una condizione strutturale


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