Il “Saggio” del mese
OTTOBRE 2024
………….
riprendiamo il lungo viaggio nella storia dell’umanità proposto da David
Graeber e David Wengrow nel loro saggio ………..
Parte seconda –
Capitoli 6-10
Nella Parte Prima (Capitoli 1 – 5) si è visto come Graeber e Wengrow critichino l’ipotesi (a lungo l’unica messa in campo ed ancora oggi da molti, spesso per pura pigrizia mentale, ritenuta valida) che l’avvento dell’agricoltura sia stato il fattore determinante per la nascita della civiltà umana ed al tempo stesso per il formarsi di società gerarchicamente più definite e socialmente più disugualitarie. Lo hanno fatto presentando le evidenze più significative raccolte dalla ricerca etnografica e archeologica negli ultimi decenni (in particolare quelle relative alla fase preistorica del Paleolitico superiore, da 50.000 anni fa a 10.000/12.000 anni fa ossia al momento in cui comunemente si ritiene si sia avviata la Rivoluzione Agricola) che evidenziano un percorso evolutivo di homo sapiens molto più complesso ed articolato di quanto finora supposto. Nei primi cinque Capitoli si è pertanto iniziato a confrontarci con i modi inaspettati e sorprendenti con i quali l’umanità ha interpretato nomadismo e stanzialità, libertà individuali e ruoli gerarchici, comunanza di beni e proprietà privata, ruoli sociali e di genere, spazi liberi e aree recintate. Graeber e Wengrow sono infatti convinti che in questa lunga fase, durata decine di migliaia di anni, siano già emerse manifestazioni culturali che hanno, non meno della celebrata Rivoluzione Agricola, inciso in modo rilevante sui presupposti evolutivi/storici alla base di concetti fondamentali quali libertà, uguaglianza/egualitarismo. Si è anche visto come in Europa il dibattito culturale attorno a tali temi abbia visto una decisiva svolta nel 1600/1700 in coincidenza, non casuale, con la scoperta ed il confronto con altre culture via via conosciute durante la tragica espansione coloniale europea. Straordinaria testimonianza di questo incontro/confronto è la vicenda del filosofo/statista Kondiaronk vividamente raccontata nel Capitolo 1. La Parte Prima della nostra sintesi si è chiusa con questo intendimento ….. al culmine di questo complesso ed illuminante viaggio nell’era paleolitica dei cacciatori/raccoglitori è tempo di concentrarci sull’avvento dell’agricoltura e di capire se davvero può essere assunta come una svolta “rivoluzionaria” per il percorso dell’umanità ….. Si riparte da qui.
N.B.
= I capitoli riassunti in questa Parte Seconda sono quelli che di più
contengono ragguagli dettagliati sulle evidenze messe in luce dalle ricerche
archeo-antropologiche. In alcune loro parti non sono quindi di scorrevole
lettura, che resta però utile per meglio comprendere le considerazioni finali del
saggio sintetizzate nella successiva Parte Terza
Tutto
è nato, secondo la classica vulgata, nella Mezzaluna fertile. Una definizione tutto
sommato recente essendo stata inventata, nel 1800, in occasione della
spartizione colonialista dell’attuale Medio Oriente per indicare una vasta area,
a forma di mezzaluna, compresa fra le sponde orientali del Mediterraneo, il
delta egiziano del Nilo e gli attuali Palestina, Israele, Libano, e le zone
collinari che segnano il confine tra Iran e Iraq, inglobando parti della Siria
e della Turchia. Oggi il nome Mezzaluna Fertile è usato solo più dagli storici
e dagli archeologi per indicare la regione in cui sarebbe nata l’agricoltura
In
questo senso sarebbe però più corretto suddividerla in due mezzelune: una detta
“degli
altopiani” (comprende le aree più collinari,
fatta di praterie ricche di selvaggina tagliate da valli fluviali) ed
una “dei bassopiani” (più boscosa ma con ampi spazi fluviali
aperti e molto fertili) indicata anche dall’altra storica definizione
di “terra dei fiumi” (ovvero Mesopotamia, dal
greco mesos = che sta in mezzo e potamos = fiume), i mitici Tigri ed Eufrate. Perlomeno così si
presentavano agli occhi dei cacciatori/raccoglitori che le abitavano
10.000/12.000 anni fa al termine dell’ultima grande era glaciale (Capitolo
2 della Parte Prima). E’ sicuramente questa una zona ed un tempo
in cui sono avvenute profonde trasformazioni nei loro modi di vivere
testimoniate da un complesso mosaico di villaggi, piccoli borghi, centri di
attività rituali e cerimoniali con imponenti edifici pubblici. In entrambe le
due mezzelune sono state rintracciate evidenze (anche se fra di loro
molto differenziate per intensità e tempistica) di
coltivazione di piante, di allevamento di bestiame ed anche concrete risultanze
di una evoluzione nelle forme di organizzazione delle comunità. L’idea che la coltivazione e l’allevamento non
abbiano significato solo cambiamenti nel ciclo alimentare, ma che siano la
diretta causa dei cambiamenti culturali e sociali è alla base del fenomeno
storico pomposamente definito come “rivoluzione agricola”. Per meglio
capire cosa questo termine possa concretamente intendere e soprattutto se
davvero sia appropriato il ricorso alla definizione di rivoluzione, occorre
entrare nel merito dell’aggettivo "agricola".
Vengono in soccorso le preziose indicazioni fornite da recenti ricerche di archeologia botanica (archeobotanica), che aiutano a capire cosa si debba intendere per domesticazione di piante e come questa sia concretamente avvenuta nella Mezzaluna fertile. Le prime piante ad essere state qui domesticate sono alcune varietà di cereali (soprattutto frumento ed orzo), le quali per evolvere da selvatiche a coltivate devono modificare la struttura della spiga (quella selvatica è fragile per consentire ai semi di spargersi naturalmente, quella coltivata diventa più rigida per consentire la conservazione dei semi fino al tempo della raccolta) una evoluzione biologica che si completa progressivamente per cicli di semina nell’arco di 200 anni).
E’ innanzitutto certo che l’interesse iniziale dei
foraggiatori mesopotamici verso i cereali non sia stato però per le loro spighe
e semi, ma per ottenere con la mietitura (taglio
degli steli) la paglia (utilissima per impastare mattoni, per fare stuoie, per coprire
tetti, per accendere fuochi, etc.). Un
interesse che di per sé non necessariamente implicava la loro coltivazione, ma
che, su tempi lunghi, ha sicuramente consentito una attenta osservazione del
ciclo vitale delle piante. Altrettanto certo è un secondo fatto: la
coltivazione dei foraggiatori della mezzaluna dei bassopiani non ha avuto la
caratteristica di una immediata e radicale svolta (non si è cioè compiuta nei 200 anni di cui
si è detto), ma con una
lentissima e frammentata progressione durata ben 3.000 anni (è sempre
l’archeobotanica a dirlo grazie allo studio della diffusione, nei terreni
dissodati per una semina efficace, della flora infestante che sempre
l’accompagna), testimoniata da reperti
che attestano, lungo tutto questo lunghissimo arco temporale la costante
alternanza di una attività agricola sempre più diffusa ed organizzata con quelle
tradizionali della caccia e della raccolta.
Graeber e Wengrow
definiscono questo altalenante rapporto con l’agricoltura con il nome di “Giardini di Adone” (ironicamente usato da Platone per
sorridere sul vezzo delle donne di Atene di coltivare in vasi piante per uso estetico di bellezza)
Una importante conferma in questo senso è recentemente venuta
dagli studi archeologici del sito di Catalhoyuk, che aiutano inoltre a
meglio capire perché l’agricoltura si sia principalmente affermata proprio nelle
zone pluviali dei bassopiani, ossia là dove i terreni (morbidi e già del loro fertili tali cioè da non richiedere
tutti i faticosi lavori di dissodamento, aratura, estirpazione) consentivano una forma “pigra di coltivazione”, in grado di fornire
un importante contributo alimentare, ma che lasciava ancora comodo spazio ai tradizionali
stili di vita.
Catalhoyuk, situata
nella pianura anatolica al margine esterno della mezzaluna dei bassipiani, è
considerata la città più antica del mondo (la sua costruzione inizia circa
9.000 anni fa) con le sue uniformi abitazioni unifamiliari (sono assenti
edifici grandi atti ad ospitare una qualche forma di autorità) che ospitavano ben
cinquemila abitanti. L’agricoltura era sicuramente la base dell’alimentazione, ma gli aspetti rituali,
tutti ancora mirati a celebrare il ruolo della caccia (non sono neppure emerse
tracce di domesticazione di animali) non le riconoscevano alcun ruolo
particolare. La città era collocata ai margini di una vasta area umida e
fluviale ed i campi coltivati, senza tecniche di predisposizione dei terreni, erano
individuati seguendo la stagionalità delle alluvioni.
Un aspetto fondamentale di
questa “agricoltura pluviale” è consistito, stante
la naturale rotazione dei terreni pigramente coltivati, nella mancanza di
recinzioni e di misurazione dei terreni, in
accordo quindi con la tradizionale gestione comunitaria dei beni primari
propria dei foraggiatori. Il progressivo passaggio dalle tradizionali attività
di caccia e raccolta (le economie a rendimento immediato del Capitolo 4 della Parte Prima) ad un ruolo centrale di quella agricola (economie a rendimento
ritardato) è avvenuto con un processo di lunghissimo e alternante adattamento tale da
non giustificare la definizione di “rivoluzione”, ma soprattutto tale da
non essere in grado, da solo, di spiegare la parallela evoluzione della struttura
delle relazioni sociali. Sono infatti occorsi altrettanti millenni prima che la possibilità, offerta dall’agricoltura e dal parallelo allevamento, di produrre delle eccedenze, (il cui ruolo è stato esaminato nel precedente Capitolo 4) creasse le condizioni per concentrazioni inique di
ricchezza. Le moderne ricerche archeologiche (non
solo nell’area mesopotamica) hanno
pertanto reso difficilmente
sostenibile la consolidata tesi che l’agricoltura sia stata, di per sé, causa ed
origine delle gerarchie sociali, della proprietà privata, delle disuguaglianze (fra l’altro già
presenti, come si è visto nella Parte Prima, in alcune vicende della complessa
(prei)storia dei cacciatori/raccoglitori). Essa deve necessariamente
essere stata accompagnata da altri processi, altri fenomeni. Una conferma in questo senso è rintracciabile nella stessa
Mesopotamia, in particolare nei differenti percorsi evolutivi avvenuti nei
bassopiani e negli altopiani sempre nel periodo in esame. La conversione alle
pratiche agricole delle popolazioni di foraggiatori degli altopiani (sicuramente meno aiutata dai differenti contesti ambientali) è proceduta in modo
molto più rallentato lasciando spazio (per
probabile schismogenesi, non dissimile da quella delle popolazioni californiane esaminata
nel precedente Capitolo 5, verso la contrapposta cultura ugualitaria dei
bassopiani) alla propensione a sviluppare strutture
gerarchiche legate alla pratica della caccia e a connessi comportamenti
violenti e bellicosi (ritualizzati in
modo evidente nelle sepolture e nell’esposizione dei trofei di caccia e di
guerra). E’ sugli altopiani che sono
rintracciabili le radici dei successivi storici regni ed imperi che imporranno,
con la forza, il loro controllo sulle popolazioni dei bassopiani (e sulle loro eccedenze agricole) instaurando così, con un processo parallelo, ma non
coincidente con quello di avvento dell’agricoltura, la nascita di società gerarchiche
e disugualitarie.
Emerge inoltre in questo
quadro storico una collegata evidente contrapposizione di genere: l’attitudine
violenta e gerarchica delle popolazioni di cacciatori degli altopiani ha
evidenti caratteristiche “maschili”, mentre quella del progressivo approccio delle
popolazioni dei bassopiani all’agricoltura, evoluto grazie al meticoloso studio
della flora delle foraggiatrici (testimoniato ad esempio da molti reperti del
sito di Catalhoyuk) presenta indubbie caratteristiche “femminili”. Appare quindi del
tutto fuori luogo l’ironica critica di Platone ai “Giardini di Adone”. Purtroppo
una più attenta ricostruzione del ruolo delle donne è ancora tutta da
elaborare, troppo a lungo anche la ricerca antropologica e archeologica sono
state prevalentemente competenza di uomini che hanno, inevitabilmente, operato
con un approccio “maschile”.
7 – L’ecologia della
libertà
La
Mezzaluna fertile è sicuramente l’area archeologica più accuratamente studiata e
ciò ha reso possibile questa ricostruzione del percorso effettivamente seguito
dagli “agricoltori riluttanti” mesopotamici. Analoghe considerazioni
possono essere desunte dalle altre aree del mondo in cui, all’incirca nello
stesso arco temporale, sono state acquisite evidenze dell’avvio di domesticazione
di piante ed animali?
(Scusandoci
per la sua scarsa qualità, la seguente cartina indica quelle più significative.
Si tenga conto che 10.000/12.000 anni fa la popolazione mondiale contava cinque
milioni di persone)
(le aree scure sono documentate
archeologicamente, quelle chiare sono dedotte biogeograficamente)
Le condizioni
ambientali adatte per un avvento dell’agricoltura si sono realizzate, per
l’intero pianeta, solamente alla fine della Grande Era Glaciale (10.000/12.000
anni fa, all’inizio dell’attuale era geologica dell’Olocene) che, durata più di
100.000 anni, ha avuto in precedenza intervalli relativamente miti però troppo
brevi per consentirlo, ogni eventuale tentativo, di cui non è comunque rimasta
traccia, è stato inevitabilmente destinato all’’insuccesso
Si parla di aree (definite “nucleari”, in quanto nuclei incubatori di successivi sviluppi su scala ampia) in cui dal frumento, orzo, ovini, bovini e suini, del Medio Oriente, si passa a riso, soia e suini in Cina, a patata, quinoa e lama sulle Ande peruviane, a mais e avocado nel Centro America. Si tratta in totale di quindici/venti centri di domesticazione i cui reperti attestano un passaggio all’agricoltura non meno lento e frammentato di quello mesopotamico, ma al contrario evidenziano solo in una parte di essi una successiva correlata formazione di forti poteri centrali (vale la pena di ricordare che la nascita di una forte gerarchia sociale si era già registrata in altre aree del pianeta, come nella California esaminata nel precedente Capitolo 5, ben prima dell’avvento dell’agricoltura e per tutt’altre ragioni). Come definire allora, a fronte di questo quadro globale così variegato, un possibile tratto comune che possa spiegare al tempo stesso “gradualità” e “mancata automatica connessione” con nuove strutture sociali? L’idea di Graeber e Wengrow, rafforzata dalle concrete testimonianze raccolte, è quella che anche in questo caso ci si trovi di fronte ad una “pigra coltivazione” simile a quella dei bassipiani mesopotamici, una stupefacente forma di “agricoltura per gioco” che ovunque nel mondo ha visto, in lentissima e spesso reversibile progressione, forme elastiche di coltivazione ed allevamento affiancare le tradizionali attività di caccia e raccolta. E’ quella che, a loro avviso, si è così configurata come una sorta di “ecologia della libertà”, un modo libero di vivere che si è modulato, per millenni, come adattamento a specifici contesti ambientali all’insegna di un’autentica cultura della biodiversità. E stata ad esempio la scelta:
dei
foraggiatori africani che nella valle del Nilo (in un periodo che va
da 6.000 ad 8.000 anni fa, come derivazione per contagio dal Medio Oriente) iniziano
a praticare coltivazione ed allevamento, ma saranno poi solo quelli del
delta
che (all’incirca
5.000 anni fa) consolideranno il passaggio ad una compiuta
agricoltura (dando poi vita, successivamente,
alla progressiva integrazione politica che darà origine al regno dell’antico
Egitto) mentre in tutto il resto del lungo corso del Nilo l’agricoltura
resterà una appendice di minor rilievo della pastorizia nomade di popolazioni che
non si raggrupperanno mai in Stati stabili.
dei
cacciatori/raccoglitori che, lungo la direttrice progressiva di insediamenti
umani di isola in isola, resteranno pienamente tali in Australia piuttosto che
più simili, nell’asse che va da Taiwan alle Filippine, ai coltivatori cinesi di
riso, mentre nella vasta area della cultura Lapita (una cultura
considerata omogenea per la comunanza di decorazioni su ceramica che comprende
molte isole melanesiane e polinesiane, in particolare la Nuova Caledonia) che
adotteranno loro forme di coltivazione, ma senza mai dare origine ad insediamenti consolidati
pur essendo divenuti “agricoltori seri”.
al
contrario nel centro America l’avvento di coltivazione ed allevamento
stabili ha poi dato origine (ma sempre su tempi molto lunghi) a
rigidi sistemi di potere gerarchico.
il
caso della regione amazzonica (nella sua parte di bassopiani in
cui sono state rinvenute tracce evidenti di pratiche agricole a partire da
inizio Olocene) è invece particolare, considerato che nelle
aree interessate l’avvento
dell’agricoltura,
sempre modulato su un sorta di “dentro–fuori”, ha creato civiltà
anche complesse (nella giungla amazzonica sono state
trovate tracce significative di città, terrazzamenti, monumenti, strade
lastricate, risalenti a millenni indietro ormai in stato di totale abbandono) ma mai
sufficientemente consolidate tant’è che l’intera Amazzonia è tornata ad essere
l’habitat di sparute tribù ad economia mista.
Persino più
paradigmatico è il caso dell’Europa. Qui le sole tracce,
risalenti a partire da 7.500 anni fa, di popolazioni di foraggiatori che hanno
avviato una conversione agricola, sono state trovate nelle pianure a cavallo
fra Austria e Germania. In un arco di tempo di circa tremila anni (fino
a 4.500 anni fa) l’avvento dell’agricoltura ha visto una
prima fase di grande sviluppo, con il sorgere di grandi raggruppamenti urbani (i
mega-siti su cui si tornerà a breve) con alcune evidenti tracce
di disparità di status sociale, seguita però da una fase finale di autentico
tracollo (la sola spiegazione emersa - supportata dal
ritrovamento di insediamenti, difesi da trincee e fortificazioni, distrutti in
modo violento con lo sterminio o la cattura, specie delle donne, dell’intera
popolazione - consiste nel contrasto perdente con irriducibili popolazioni
confinanti di foraggiatori “puri” del tutto simili a quelli della California
del Nord del Capitolo 5 della Parte Prima).
A questa fotografia, che ridimensiona senza appello il termine di “rivoluzionario” per l’avvento dell’agricoltura, occorre però aggiungere l’esame dell’altro fattore non meno decisivo, secondo la classica vulgata, per l’avvento di consolidate strutture sociali: la nascita delle città.
8 – Città immaginarie
“Le città iniziano
nella mente” così scriveva in “Masse e potere” Elias Canetti (1905/1994, scrittore e
saggista bulgaro). Può sembrare uno dei suoi paradossali aforismi, ma è invece una acuta
constatazione: per homo sapiens, nomade in piccoli gruppi per centinaia di
migliaia di anni, costruirsi una vita in un luogo
stabile e ristretto ha richiesto una straordinario sforzo di immaginazione, stabilmente avvenuto non prima di
circa 6.000/6.500 anni fa (quindi almeno 1.000/2.000 anni dopo
l’avvento compiuto dell’agricoltura). Anche in questo caso gli studi
archeologici indicano un percorso complesso ed articolato che, non solo
temporalmente, smentisce la tesi “classica” di uno stretto rapporto
tra città e Stati, gerarchie di potere, disuguaglianze sociali (ed anche la stessa idea
che la dimensione urbana abbia favorito le relazioni sociali. Al contrario la
natura nomade dei foraggiatori offriva molte più occasioni per variegati
incontri di quelli consentiti dagli spazi ristretti della parte di città
abitata). Quel che appare certa è semmai la nuova dimensione culturale legata
all’inurbamento, il sentirsi “cittadini” ha fatto sì che i
foraggiatori nomadi abbiano iniziato a percepirsi come “popolo
di una città”, un sentire collettivo che in qualche modo ha reso ogni città, le prime
comprese, una esperienza a sé stante. Le ricerche archeologiche (unica testimonianza su
cui basarsi prima della scrittura) evidenziano che gli inurbamenti
umani davvero degni della definizione di città non sono comparsi (come la vulgata storica
ha a lungo sostenuto) nella Mezzaluna fertile, ma in Centro America: le capitali precolombiane
Teotihuacan e Tenochtitlan (analizzate in dettaglio qui di seguito) in tempi
decisamente brevi sono arrivate a contare qualcosa come centomila abitanti! Una
evidenza che rafforza la convinzione ormai consolidata che sono
stati molto vari e diversificati i fattori che hanno inciso sul sorgere delle
città tanto da far escludere l’ipotesi di essere unicamente una conseguenza
dell’avvento dell’agricoltura. In molti casi è stato ad esempio decisivo l’impatto di fattori ecologici ed ambientali (in Centro America la
concentrazione urbana è stata pressochè imposta da disastri naturali quali
violente eruzioni vulcaniche, e più in generale hanno inciso i possenti
assestamenti idrogeologici della primissima tormentata fase post glaciale, in
particolare fiumi, dapprima imponenti e imprevedibili poi a corso più regolare
a creare, come in Mesopotamia, adatte pianure alluvionali ed un livello dei
mari sempre più stabile tale da consentire il formarsi di grandi delta come
quello del Nilo). Non meno determinante è stato poi il diversificato quadro dei collanti
sociali influenzato da processi come il prevalere di un gruppo sociale piuttosto
che il permanere di irrisolti contrasti. Impossibile ricostruire nel
dettaglio tale varietà di situazioni Graeber e Wengrow si limitano (seppure dedicando a ciò molte pagine qui riassunte a grandi linee) ad un panoramica
globale dei percorsi di formazione delle prime vere grandi città iniziando da
un particolare ed incompiuto inurbamento: i mega-siti delle
grandi pianure dell’est Europa.
Qui, in una vasta regione a cavallo fra Ucraina, Moldavia e Bulgaria (i centri più famosi sono quelli di Tal’janhey, Maidamets’ke, Nebelivka ed il circuito dei siti delle culture Cucuteni-Tripillia) circa seimila anni fa (quindi prima delle maggior parte delle città mesopotamiche) sono sorti insediamenti molto estesi e molto abitati (i più grandi contavano 15.000/20.000 abitanti) creati da foraggiatori ancora fedeli ai tradizionali modi di sostentamento (con alcune limitate forme di proto-agricoltura). La caratteristica comune consiste nella loro struttura urbana (di forma circolare ad anelli concentrici con elementi di suddivisione a delimitare piccoli quartieri) composta da case uniformi (costruzioni rettangolari di cinque metri per dieci) e del tutto priva di edifici collegabili a forme di governo o di culto (salvo la presenza di stanze più grandi che lasciano intuire un loro utilizzo assembleare). Ciò che colpisce (sono a tutti gli effetti delle proto-città) è la loro organizzazione molto accurata e complessa a fronte dei semplici stili di vita di cacciatori/raccoglitori, e l’immaginazione (vedi Canetti) di un inurbamento ispirato a conservare una struttura di relazioni sociali altamente ugualitaria seppure ritarata su ampia scala (sono stati rintracciati reperti che indicano costanti pratiche di sostegno reciproco e di collaborazione). Un secondo aspetto rende questa vicenda ancor più interessante: i mega-siti europei sono stati abitati per circa ottocento anni per poi essere (circa 5.000 anni fa) via via abbandonati a testimoniare che l’inurbamento, perlomeno nella sua fase inziale, è quindi stato, come la stessa agricoltura, una scelta reversibile.
Invece in Mesopotamia, all’esatto contrario, è evidente il connubio strettissimo
fra nascita e sviluppo delle città con l’affermarsi di mature gerarchie di
potere e sociali
ma, così come per
l’agricoltura, è fondamentale la loro tempistica temporale: le prime città
mesopotamiche sono datate tra 6.000 e 5.000 anni fa, circa due millenni dopo il
completo avvento dell’agricoltura, le prime tombe reali (quelle della città sumera di Ur) risalgono
invece a circa 2.500/3.000 anni fa, perlomeno altri due millenni dopo; sono
intervalli temporali così dilatati da rendere improbabile la tesi di un concatenamento
automatico tra agricoltura-città-potere gerarchico (e relativa struttura di disuguaglianze). Le primissime città mesopotamiche non
presentano infatti tracce inequivocabili di poteri regali e là dove iniziano a
comparire reperti archeologici questi indicano la contemporanea
esistenza di forme di potere popolare, assembleare. La loro struttura prevedeva di norma l’esistenza di una parte monumentale,
spesso sopraelevata, che per
una lunga fase ha avuto quasi esclusivamente valenza sacrale, solo in momenti
successivi è stata affiancata da elementi che riconducono a sede di potere
regale. Esemplare in questo senso è la
città, prima sumera e poi babilonese, di Uruk, sorta circa 6.000 anni fa ed arrivata ad
avere 50.000 abitanti, che, cresciuta attorno ad una acropoli con un tempio
dedicato ad una dea e con molte testimonianze di una gestione assembleare, solo
più di mille dopo presenta, affiancato al tempio, un palazzo reale. La mancanza di evidenze di una concatenata relazione tra
agricoltura-città-potere gerarchico chiama in causa altri fattori, in
particolare l’affermarsi di gerarchie guerresche che si impongono con la
forza delle armi iniziando così a modulare inurbamento e potere.
Si tratta di qualcosa di
più di una mera ipotesi, una indicazione simile, anche se strutturata in modo
originale, viene da due città sorte nella valle dell’Indo (nell’attuale Pakistan) mille anni dopo
all’incirca 5.000 anni fa: Mohenjo e Harappa (entrambe di circa quarantamila abitanti).
Qui l’immaginazione citata da Canetti ha infatti
assunto una particolare forma: i reperti che indicano l’esistenza di ricchezza
privata sono nella parta bassa della città, mentre in quella alta si sono
concentrati edifici riservati ad una particolare funzione pubblica: la purezza e la
pulizia dei corpi, il cuore pulsante dell’acropoli cittadina, è dato dalla presenza di
un monumentale bagno pubblico. Si è cioè di fronte ad una evidente
anticipazione dell’importanza di un valore, quello della purezza e
dell’incontaminazione, sul quale verrà poi codificata la concezione sanscrita
del sistema delle caste ordinate in senso decrescente dalla più pura alla meno pura. Per tutto il
tempo della loro esistenza, entrambe le città verranno progressivamente
abbandonate, per essere sostituite da insediamenti più piccoli ma molto più
gerarchizzati, in Mahenjo e Harappa, come in altri insediamenti della valle
dell’Indo, non sono rintracciabili evidenze della presenza di poteri regali
collegabili all’avvento dell’agricoltura sostituita dal valore spirituale della
purezza.
Persino più rivoluzionaria è l’immaginazione alla base delle città cinesi.
Le tracce delle prime
delle quali (risalenti anche queste
a più di cinquemila anni fa) sono state rinvenute ai confini fra
Cina e Mongolia (in una zona
quindi esterna alla Grande Muraglia) e sono tutte inizialmente
caratterizzate da una forte vocazione guerresca con tanto di fortificazioni,
muri di cinta e da una rigida struttura gerarchica basata su guerrieri (esemplari di questo stato di cose sono le
città di Shimao e di Taosì). Mille anni dopo però tutto
cambia all’improvviso: i reperti ritrovati indicano il verificarsi di una
autentica rivoluzione, con le mura delle città abbattute, i quartieri delle
élite guerresche invasi da abitazioni di cittadini comuni, le cui tombe
prendono spazio nei cimiteri dei guerrieri, a segnare una sovversione sociale “dal basso” che durerà per almeno tre secoli.
Una sorta di contro-storia che trova conferma dall’altra parte del Pacifico
9 – Nascosta in bella
vista
(Graeber
e Wengrow in questo capitolo sviluppano una dettagliata e affascinante
ricostruzione degli intrecci fra le culture maya, atzeca e delle altre
popolazioni mesoamericane, per ragioni di spazio qui non sintetizzate per
concentrarci sul cuore del problema).
Intorno al 1.150 d.C. (quindi
meno di mille anni fa. L’evidente salto temporale rispetto alle città fin qui
esaminate dei foraggiatori europei, mesopotamici, indiani e cinesi, ormai
convertiti all’agricoltura, è spiegabile con l’isolamento geografico delle
popolazioni delle Americhe che ha impedito la “diffusione culturale” esaminata
nel Capitolo 5 della Parte Prima) il popolo mesa-americano
dei mexica (foraggiatori/agricoltori)
migra verso sud dove fonda la città di Tenochticlan, copiando la pianta di
un’altra città Teotihuacan dando così avvio alla civiltà azteca (distrutta
da Cortes quattro secoli dopo). Teotihuacan non è solo la
più grande delle prime città (è arrivata ad
avere 100.000 abitanti), ma
è anche stata la sede di un esperimento sociale di straordinaria rilevanza, del
tutto anomalo rispetto al contesto mesa-americano del tempo ed in particolare
della dominante cultura maya (una popolazione di foraggiatori, le
cui prime tracce risalgono a circa 4.000 anni fa, che, progressivamente
convertiti all’agricoltura, prevalentemente mais, costruiscono le prime città
all’incirca 2.500 anni fa. La cultura Maya collassa definitivamente alla fine
dell’anno mille per una serie di concause fra cui eventi tellurici,
modificazioni del clima, epidemie, guerre civili). Dalla sua nascita (avvenuta
all’incirca 2.200 anni fa) Teotihuacan si sviluppa come le altre
città meso-americane nella forma di una città-stato governata da una
aristocrazia guerriera, assumendo la classica struttura con un centro monumentale
(in
cui spiccano le famose piramidi della Luna e del Sole, il tempio del serpente
piumato e l’imponente Viale dei Morti) circondato dai lussuosi palazzi
reali e nobiliari, rispettando quindi la canonica regola di sviluppo post
avvento agricoltura. Ma, all’incirca 1.700 anni fa (verso il 200/300 d.C.) interviene un
mutamento improvviso e radicale: l’abbellimento delle piramidi si
ferma, il tempio del serpente piumato, sede dei sacrifici umani, viene dato
alla fiamme ed i quartieri esclusivi sono progressivamente trasformati in uniformi
appartamenti di qualità per l’intera popolazione. Viene infatti
costruita una successione ordinata di una sorta di condomìni con alloggi
personalizzati dotati di spazi comuni per rituali e riunioni nelle quali (così
attestano i reperti archeologici) si realizza un diffuso
alto tenore di vita. E’ tuttora impossibile ricostruire con esattezza quali
sommovimenti abbiano prodotto un tale cambiamento, ma non sono stati
rintracciati segni evidenti di atti violenti. Quel che appare molto probabile (evidenziato
anche dall’arte murale di quel periodo, priva di raffigurazioni di personaggi che
emergano, tutti gli individui sono raffigurati delle stesse dimensioni) è
la creazione di una struttura urbana coerente con un gestione
ugualitaria del potere e della ricchezza della comunità. Non devono
però essere mancate tensioni, sia interne che esterne, tant’è che, circa
trecento anni dopo, il tessuto sociale inizia a sgretolarsi e la città viene
progressivamente abbandonata. Qualche traccia di questa straordinaria
esperienza deve però essere rimasta nella cultura del tempo se ben quasi mille
anni dopo, nella prima metà del 1.500, Hernàn Cortès riesce a portare a termine
la sua feroce conquista dell’impero azteco anche grazie all’alleanza con la città-stato
indigena di Tlaxala che, priva di un potere regale e retta da un
consiglio popolare, decide di appoggiarlo (mettendogli a
disposizione ventimila guerrieri) per contrastare il regno
di Montezuma (a
supporto testimoniale sono ormai disponibili scritti). La
struttura urbana di Tlaxala ricalca esattamente quella di Teotihuacan: non ci
sono palazzi reali e signorili, monumenti, ma quartieri ben ordinati con
abitazioni uniformi, con ampi spazi collettivi, e di ottimo decoro. Anche
nell’America Centrale quindi, come in tutte le altre aree esaminate, non sono
emerse testimonianze che confortino la tesi classica dell’automatica
concatenazione tra avvento agricoltura, nascita città, formazione di stabili
strutture gerarchiche e di potere, relazioni sociali disuguali. La preistoria
prima e la storia poi, se lette con più attenzione, raccontano un processo
evolutivo molto più complesso, articolato, contraddittorio, all’interno del
quale tutte le scelte compiute dall’umanità si rivelano frutto di una deliberata evoluzione
culturale altrettanto complessa. In questo quadro devono essere
allora collocati nascita e sviluppo di un altro elemento centrale: ciò che definiamo Stato.
10 – Perché lo Stato non
ha origini
La
considerazione di apertura di questo saggio, “la ricerca dell’origine della
disuguaglianza è un esercizio errato e quindi inutile”, vale anche per
la “ricerca delle origini dello Stato” (un termine peraltro di
recente conio e tutto interno alla moderna cultura europea, che di fatto si
limita ad usarlo per qualunque società grande e complessa purchè collegabile ad
un potere territorialmente delimitato). Purtroppo la sostanziale
vaghezza di questa definizione è stata fin qui usata anche come chiave di
lettura principale per interpretare e valutare ciò che è successo nel lontano
passato (con una rilevante
aggiunta: i concreti processi storici di formazione degli Stati sono
interpretati come una ordinata successione temporale, fatta quindi
di periodi “pre” “intermedi” e “post”, che ha lo Stato come inevitabile e
logico esito finale. Si pensi ad esempio all’intera storia dell’antico Egitto
nella versione europea, con la sua artificiale suddivisione in più periodi) e
ciò ha di fatto significato che avvenimenti di molte migliaia di anni fa (allorquando
nemmeno esisteva la parola “Stato”) siano stati troppo spesso
forzatamente interpretati. Mentre ciò che è realmente successo all’alba di
tutto, se letto senza preconcetti, testimonia che gli Stati del
tempo sono in effetti una amalgama di più elementi fra di loro quasi sempre
combinati casualmente ed in modo diversificato per ogni singolo contesto.
Graeber e Wengrow, per poter quindi utilizzare il termine “Stato” con una
qualche ragione, ritengono che ciò possa valere là dove e quando si è
realizzata la presenza in contemporanea di tre elementi di base: l’esclusività
dell’uso della forza per gestire i conflitti e l’ordine sociale – il controllo
delle informazioni utili a governare affidato ad un apparato burocratico – l’esistenza
di un carisma in capo al potere di turno tale da spiegare il riconoscimento della
sua autorità. Adottando questa chiave di lettura una qualche
originaria comparsa di forme di potere statale è iniziata a delinearsi quando
alcune funzioni di governo – ad esempio quella militare, amministrativa,
giudiziaria – sono state affidate ad “esperti” a tempo pieno, una
organizzazione resa possibile, se ci si riferisce alle comunità stanziali di ex
foraggiatori, dalla disponibilità di “eccedenze” nella produzione agricola
capace di “liberare” alcuni dal lavoro
manuale (l’esordio della divisione del lavoro in
categorie), un fenomeno indubitabilmente avvenuto ma a lungo utilizzato, aspetto tutt’altro
che secondario, anche per il sostentamento
di scultori, poeti e astronomi.
non solo: in quasi
nessuna delle “città-Stato” che qui di seguito saranno sinteticamente citate
sono esistiti “esperti a tempo pieno”, non lo
erano ad esempio i giudici, i sacerdoti e neppure i guerrieri. Esistono poi
consistenti indizi che ancora dopo la loro nascita, (come ad esempio in Egitto), persino la presenza sul territorio del potere regale ha mantenuto un carattere
di stagionalità
Allo
stato attuale delle ricerche la ricostruzione dei reali meccanismi di relazione
tra potere e masse non consente neppure di essere adeguatamente precisi nella
ricostruzione delle reali dinamiche nella quotidiana vita sociale e ciò rende ulteriormente
difficile la raccolta di dati di fatto che suffraghino l’esistenza di ciò che
si intende per “Stato”
nel campo delle attuali
scienze sociali si è rafforzata la
cautela nell’analizzare la reale presenza dello Stato nel vivo della società
sulla base della crescente convinzione che “lo
Stato non è la realtà che si nasconde dietro la maschera della pratica sociale
e politica, è esso stesso una maschera che di fatto impedisce di vedere tali
pratiche per ciò che davvero sono”. Tutto questo dovrebbe a maggior ragione valere quando si parla di origine
dello Stato
E’
quindi oggettivamente impossibile far coincidere ciò che fin qui si è descritto
come nascita della “civiltà” con il concetto di “Stato”
(per
quanto meglio rimodulato), è al contrario più probabile che siano state fin
dall’origine due unità distinte essendo complesse amalgami di elementi che
hanno origini e sviluppi molto differenziati.
Queste considerazioni poggiano
su una preliminare accurata ricostruzione (impossibile da riportare in questa
sintesi) delle vicende storiche che hanno avuto come protagoniste le cosiddette
“città-Stato”, ossia le prime città nella
storia dell’umanità divenute un autentico centro di potere capace di governare
anche su circostanti territori più o meno vasti. Le vicende storiche
ricostruite riguardano in particolare: Tenochtitlan
(Impero Azteco), Cuzco (Impero
Inca), Chavin de Huantar (Impero Chavin che in Perù ha preceduto quello
degli Inca), Anyang (dinastia Shang in Cina),
Uruk e Ur (Impero Sumero/Babilonese),
raffrontandole con quelle di regni/imperi persino più grandi, come quello
egizio e maya, ma che non sono nati attorno ad una specifica città-Stato
Si chiude qui la seconda parte della nostra sintesi dell’Alba di
tutto, la prossima terza ed ultima parte, Capitoli 11 e 12, conterrà le
considerazioni finali e la conclusione