venerdì 15 novembre 2024

Il "Saggio" del mese - Novembre 2024

 

Il “Saggio” del mese

 NOVEMBRE 2024

…………. riprendiamo e, finalmente, concludiamo il lungo viaggio nella storia dell’umanità proposto da David Graeber e David Wengrow nel loro saggio ………..  


Parte terza – Capitoli 11 e 12

Nella quale Graeber e Wengrow “chiudono il cerchio” e traggono le “conclusioni” di quanto illustrato nei dieci Capitoli precedenti. Questa nostra sintesi, per quanto concisa (e concentrata soprattutto a recuperare le parti più direttamente connesse al tema della disuguaglianza, filo conduttore del programma 2024/2025 di CircolarMente) ha richiesto lo spazio di ben tre post, ma non è stato proprio possibile fare diversamente a fronte della impressionante mole di dati emersi dalle più recenti ricerche e scoperte archeo-antropologiche ed etnografiche che, accompagnata da commenti, considerazioni, annotazioni a margine, è stata raccolta e messa in ordine dai due autori nell’arco di ben dieci anni di lavoro. Questa caratteristica fa sì che siano davvero molte le suggestioni e gli spunti di riflessione offerte da questo saggio (del quale consigliamo quindi vivamente la lettura integrale)  che ha lo straordinario merito di saper inserire molti dei problemi del presente, a partire proprio da quello delle tante e pesanti disuguaglianze, in uno sguardo lungo che, partendo dall’ “alba di tutto”, aiuta a comprendere che nulla, proprio nulla, delle umane vicende è scritto e deciso una volta per tutte, che le nostre società ed i nostri modi di vivere per moltissimi versi sono lo sbocco sempre provvisorio del precedente lungo cammino sin qui fatto dall’umanità. Saperlo, averne contezza, può sicuramente essere di grande aiuto per capire e meglio attuare sue conferme o correzioni coerenti con i valori che si ritiene debbano ispirarle. E’ proprio questa l’indicazione più importante che fornisce questo monumentale lavoro: Graeber (da sempre in prima fila nei movimenti antisistema per la difesa dei diritti di tutti e purtroppo prematuramente scomparso)  e Wengrow ci dicono, nel raccontare vicende umane solo all’apparenza lontane, che la cultura, la conoscenza, il confronto di idee, sono alla base dell’intero cammino dell’umanità, e proprio per questo devono essere condivise e diffuse per meglio poter indirizzare i passi futuri.

Nel nostro piccolo è proprio ciò che si propone CircolarMente

11 – Chiudiamo il cerchio 

Nel secondo Capitolo abbiamo fatto la conoscenza dello statista-filosofo Kondiaronk, ambasciatore della nazione di nativi americani Wendat (altrimenti detti Osage) presso le corti europee del 1700. E si è visto come la sua presentazione in tali sedi dei modi di vivere di quelli che alcuni definivano “selvaggi” e altri “figli innocenti della natura” e le sue conseguenti critiche a quelli europei abbiano profondamente influenzato la cultura filosofica e politica del tempo, a partire dal nascente Illuminismo, aprendo così la strada a nuove riflessioni, fin lì mai così approfondite, sui valori della libertà, individuale e collettiva, e dell’uguaglianza. Ed è proprio in reazione a queste critiche che in quegli stessi anni si è definita una versione (eurocentrica) della storia dell’umanità basata sulla concezione di un suo sviluppo lineare mirato ad un costante progresso dei modi di vivere, delle relazioni sociali e delle forme del potere (che ha come suo naturale sbocco e ideale culmine il moderno Stato ed il sistema capitalistico di mercato). All’interno di questa visione due fenomeni storici, la Rivoluzione Agricola e la formazione delle città, sono considerati due momenti epocali di positiva svolta per condizioni materiali di esistenza e strutture sociali. Graeber e Wengrow, dopo aver sottoposto tale idea a critica radicale (basandola sulle più recenti evidenze fornite dalle ricerche archeo-antropologiche), chiudono il cerchio esaminando con analogo spirito critico l’intera concezione del progresso lineare delle forme di potere con la sua articolazione in una sequenza di stadi successivi ognuno dei quali rappresenta l’irreversibile superamento di quello precedente. Tale sequenza è così sintetizzabile:

Ø società di bande = quella tipica della lunghissima epoca dei cacciatori/raccoglitori (foraggiatori) fatta di piccoli gruppi nomadi senza ruoli politici formali, con una divisione minima del lavoro, con labili divisioni familiari, e quindi naturalmente ugualitaria

Ø tribù/clan = numericamente più folti delle bande e spesso ormai stanziali in quanto legati alla prima fase di avvento dell’agricoltura (in prevalenza orticoltura senza il ricorso a opere di irrigazione e ad attrezzature pesanti come gli aratri) con un primo accenno di mestieri e ruoli, ma ancora sostanzialmente ugualitaria, quantomeno tra individui che si riconoscono uniti da allargati legami familiari (i clan, che fra di loro consociati formano le tribù) che esprimono al loro interno capi con potere in prevalenza ancora formale.

Ø domini = l’evoluzione più strutturata delle tribù nella quale i legami parentali diventano la base per una gerarchia ormai definita. L’ormai affermata economia a base agricola è in grado di produrre significative eccedenze anche grazie al consolidamento della divisione del lavoro per mestieri. La principale funzione dei capi diventa proprio quella della redistribuzione delle eccedenze che premia con un di più (non di rado raccolto con la forza) la loro parentela (aristocrazia), i ruoli ritualistici ormai a tempo pieno (sciamani e sacerdoti) e alcuni mestieri (artigiani e commercianti)

Ø regni ed imperi antichi = l’agricoltura intensiva ed una organica organizzazione del lavoro, producono consistenti eccedenze che sostengono una ramificata struttura di potere, articolata in una strutturata amministrazione professionale, con al suo vertice un capo carismatico, attorniato da un’ aristocrazia con forti legami familiari, che mantiene in capo a sé il monopolio legale dell’uso della forza affidato ad una classe di guerrieri

Ø moderni Stati = la crescente combinazione di scienza, tecnica e tecnologie, consente un intenso sviluppo economico, mirato a logiche di profitto in un mercato totalizzante, che vede la progressiva affermazione di nuovi ceti produttivi e sociali, su cui poggia la nascita di una forma di potere basata sulla democratica rappresentanza politica

Si è cioè di fronte ad una meta-narrazione, ormai divenuta convinzione così radicata nel pensiero eurocentrico da essere vissuta (non di rado inconsapevolmente) come indiscussa evidenza storica capace di spiegare l’intero percorso di tutta l’umanità. (Non a caso l’eventuale presenza di forme di potere ancora non coincidenti con l’ideale stadio finale sono state viste come provvisorie situazioni di un ritardo inevitabilmente destinato ad essere colmato, magari con qualche “aiuto” esterno). Ma davvero, riannodando le fila di quanto è già stato fin qui visto dall’alba di tutto per agricoltura e città, anche l’evoluzione delle forme di potere era inevitabilmente destinata ad assumere come suo culmine finale quella degli Stati odierni con la loro particolare combinazione di sovranità territoriale, amministrazione statale fortemente organizzata, politiche competitive con l’esterno, strutturazione sociale gerarchica e disugualitaria,? Per rispondere a questa domanda Graeber e Wengrow riallargano lo sguardo, uscendo da una visione troppo eurocentrica, a quanto sembra emergere da evidenze che raccontano altre storie, altri percorsi, altri protagonisti e che, come per l’avvento dell’agricoltura e la nascita delle città, sembrano smentire tale inevitabilità. Chiamano innanzitutto in causa alcune stimolanti considerazioni sviluppate da James Scott (1936/2024, antropologo e politologo statunitense che, partendo dallo studio sul campo delle strategie di resistenza alla varie forme di dominio portate avanti per millenni dai contadini del sud est asiatico si è approfonditamente dedicato a studiare il ruolo degli Stati nella storia dell’umanità). La ricostruzione storica ad ampio raggio fatta da Scott mette in evidenza il ruolo (non a caso sottovalutato dalla storiografia classica) dei cosiddetti “barbari(popolazioni di ex foraggiatori, sospesi fra nomadismo e stanzialità, che per millenni hanno occupato una parte consistente del pianeta attorno alle relativamente piccole isole di governo dei primi regni, imperi, città Stato). Il tratto di base che accomuna la vasta platea di queste popolazioni “barbare” è consistita proprio nell’organizzato e consapevole rifiuto (espresso anche con violente incursioni, razzie e momentanee invasioni) dell’altrui tendenza alla costruzione di stabili organizzazioni statali (un altro straordinario esempio di schismogenesi culturale, nostra Parola del mese di Ottobre 2024 e più volte presente nella Parte seconda di questo Saggio del mese). La struttura gerarchica dei barbari era fortemente centrata attorno a figure carismatiche (Alarico, Attila, Gengis Khan, Tamerlano sono soltanto quelli più famosi), ma non è mai evoluta in forme consolidate e formalizzate e si è sempre accompagnata con una sostanziale gestione ugualitaria. Allo stesso modo si sono sempre rivelate provvisorie ed effimere le loro espansioni territoriali (ammoniti in tal senso dall’adagio mongolo: “si può conquistare un regno in groppa a un cavallo, ma per governarlo occorre poi smontare). Tutto ciò ha costituito, per molti secoli ed in vaste parti del mondo, una anomala forma di potere (difficilmente inseribile nella precedente sequenza) che è convissuta con altri più canonici percorsi di strutturazione del potere, in un costante alternarsi di fasi di rapporti relativamente pacifici ad altre di scontro aperto lungo un arco temporale molto ampio (da 5.000 anni fa, all’indomani della complessa transizione del neolitico, a circa 500 anni fa). Nel corso di questi millenni anche i più potenti regni ed imperi, come quello Romano, quelli degli dinastie cinesi Han e Ming (duemila anni fa il primo imperatore della dinastia Qin diede avvio alla costruzione della famosa Muraglia Cinese, completata poi nel periodo Ming, proprio per fronteggiare le invasioni barbariche degli Unni) non sono mai riusciti del tutto a incanalare sotto il loro controllo aree, anche molto vaste, le cui popolazioni hanno pertanto sempre mantenuto una loro indiscussa autonomia. Per dirla con un paradosso paradigmatico: ancora fino a cinquecento anni una elevata percentuale della popolazione mondiale (alla quale vanno aggiunte le parti del mondo in cui l’agricoltura non si è mai completamente imposta come ad esempio l’Australia o l’intero Nord America come qui di seguito si vedrà in dettaglio) è vissuta al di fuori di uno stabile raggio d’azione degli esattori di tasse di turno o aveva comunque a disposizione ampie possibilità di sfuggirgli. Questa situazione è stata ormai definitivamente superata, ma ciò è avvenuto in tempi molto recenti e sulla spinta di sconvolgimenti economici, sociali e culturali, che hanno una loro specifica origine e spiegazione e che quindi difficilmente possono essere considerati come la logica ed inevitabile evoluzione di un lineare ed universale progresso storico dell’umanità. Anche in questo caso (non diversamente da quanto visto in precedenza per i due “miti” della Rivoluzione Agricola e della nascita delle città) sembra emergere una strumentale sottovalutazione, che non di rado sconfina in una totale dimenticanza, di percorsi differenti, a segnare una preconcetta rigidità nell’eurocentrica concezione del percorso evolutivo umano. La ragione di questa evidente reticenza a confrontarsi con contrastanti valutazioni risiede, secondo Graeber e Wengrow, proprio nella difficoltà che la cultura occidentale ha nel concepire una storia dell’umanità che non sia teleologica, ossia che non abbia come sbocco inevitabile gli attuali assetti. Rende ancor più plausibile questa loro critica l’evidenza, che si aggiunge alla sottovalutazione dei “barbari”, di un ulteriore limite dell’idea di sviluppo lineare: avere come orizzonte di riferimento una parte limitata del mondo, sostanzialmente quella coincidente con l’Eurasia (Europa e Asia, con la parziale aggiunta di parte dell’Africa), tralasciando così tutta la vasta parte che, prima dell’epopea dei grandi viaggi transoceanici, non ha mai avuto contatti diretti con essa. Si tratta di un pezzo quanto mai rilevante di umanità che ha seguito autonome traiettorie storiche le quali possono quindi rappresentare un utilissimo raffronto per valutare, comparandola, la reale universalità delle concezioni storiche eurocentriche. Se già le vicende delle popolazioni del Centro e Sud America non sembrano poter rientrare nella sequenza in esame quelle dei popoli del Nord America nondimeno raccontano un’altra storia che merita di essere approfondita perché si è articolata lungo complessi passaggi che non si prestano ad essere inseriti nella canonica sequenza a salire: bande – clan/tribù – domini – Stati. Tutte le evidenze raccolte indicano infatti che, nei secoli precedenti l’arrivo dei colonizzatori europei, le loro società hanno sostanzialmente oscillato fra la formazione in bande e qualcosa che già possedeva alcune delle caratteristiche proprie di uno Stato (ossia tra i due opposti estremi della presunta scala dell’evoluzione sociale). Non solo, il Nord America di Kondiaronk, con le sue manifeste diversità rispetto all’Europa, si è rivelato essere il risultato culturale di una secolare complessa evoluzione maturata sulla base di precisi assunti politici autocoscienti che confliggono nettamente con l’ineluttabilità del progresso lineare delle forme di potere. L’anomalo, secondo i canoni eurocentrici, sviluppo di questa evoluzione era già intuibile nel consapevole rifiuto dei foraggiatori delle coste della California di adottare l’agricoltura come fonte principale di alimentazione (con tutte le conseguenti ricadute sulle loro forme di organizzazione sociale esaminate nel precedente Capitolo 5) piuttosto che nella straordinaria vicenda del mega-sito di Poverty Point (Capitolo 4), ma lo evidenziano soprattutto le complesse vicende storiche avvenute nella parte nordorientale, in un arco temporale che va da circa duemila anni fa al tempo di Kondiaronk.

Graeber e Wengrow dedicano ampio spazio alla ricostruzione dettagliata di questi avvenimenti, ci limitiamo qui, per ovvie ragioni, a evidenziarne il senso ultimo

Questo percorso evolutivo si è sostanzialmente articolato in tre fasi:

Ø la prima, ancora immersa nella lunga fase di uscita dallo stato di bande di foraggiatori puri, vede le popolazioni nordamericane distribuite negli immensi spazi del continente in piccoli gruppi organizzati nella classica forma di clan, stagionalmente stanziali o nomadi, con alcune prime forme di “agricoltura pigra(la stessa analizzata nel precedente Capitolo 6 per la Mezzaluna fertile), con forme gerarchiche molte elastiche a governare una convinta uguaglianza (queste caratteristiche sono sintetizzate nella cultura denominata Hopewell che racchiude un vasto sistema di scambi di prodotti, di tecniche, di pratiche cerimoniali, di importanti elementi culturali). Nonostante le potenzialità, ambientali, culturali e sociali, di sviluppo questa prima fase (che si è protratta da circa 8.000 anni fa a circa 1.500 anni fa) non ha conosciuto cambiamenti significativi a segnare una stabilità volutamente realizzata che, aspetto centrale, non ha mai conosciuto conflitti armati di una certa rilevanza

Ø la seconda, che si manifesta per alcuni secoli a partire da circa 1.500 anni fa, è al contrario caratterizzata da profonde mutazioni: l’agricoltura si estende e si specializza (la coltivazione di mais diventa prevalente), si accentua la stanzialità, la crescente produzione di eccedenze, dovuta anche a forme di lavoro più efficienti, consente il formarsi di gerarchie più definite, si innescano processi di urbanizzazione, e sorgono motivi di contrasto fra i diversi clan che portano anche a forti conflitti armati. L’insieme di questi elementi determina una rapida evoluzione gerarchica con il potere concentrato nelle mani di una violenta élite guerriera in cui si manifestano molti dei tratti di uno strutturato e dispotico centro di potere. Esattamente ciò che indicano i reperti di una città, Cahokia (collocabile nell’attuale Ohio e arrivata a contare più di diecimila abitanti) capitale di quello che per molti aspetti è definibile un classico “Stato cerealicolo” posto al centro di una costellazione di centri minori con analoghe caratteristiche. Il collante di questa forma di potere è rappresentato proprio dall’esercizio della forza sia verso l’esterno, per allargare e difendere il potere territoriale, sia verso l’interno per mantenere salda la gerarchia sociale.

Ø la terza = l’epopea di Cahokia è molto breve, solo tre secoli dopo la sua nascita, circa 1.200 anni fa, declina molto rapidamente fino ad essere in brevissimo tempo totalmente distrutta coinvolgendo nella sua scomparsa tutti i centri ad essa collegati. Una distruzione che non trova spiegazione in conflitti armati, ma solo in violenti sommovimenti interni che con la città hanno azzerato le sue gerarchie, la sua economia e la sua struttura sociale. I suoi abitanti, liberatasi dal giogo nobiliare, riprendono le forme tradizionali di sussistenza, si ri-disperdono nei vasti spazi americani e, memori di questa sconvolgente parentesi, elaborano una cultura sociale e politica libertaria (basata sulle tre fondamentali libertà di spostamento, di disubbidienza, di scelta delle forme del potere) e ugualitaria

E’ la cultura di Kondiaronk, che nelle sue conferenze in Europa poteva quindi parlare di elezione dei capi, di condivisione allargata dei saperi, di legami sociali decisi da tutte e tutti. Si chiude qui il cerchio, il caso del Nord America pare proprio scompaginare gli schemi evoluzionistici convenzionali per dimostrare quindi che c’è via di uscita dalla trappola dello Stato e che sono esistiti percorsi diversi dalla via a senso unico del progresso lineare.

12 – Conclusioni

Questo saggio ha preso avvio dalla considerazione che indagare in termini astratti l’origine della disuguaglianza rischia di trasformarsi nel mito di un preciso e specifico momento di rottura nella storia dell’umanità. Dall’insieme delle considerazioni fin qui svolte sembra invece evidente che altro non sia stata che una, fra le tante, delle possibili conseguenze del percorso evolutivo dell’umanità determinata da alcune scelte autocoscienti sui modi di strutturare le relazioni sociali, e che quindi può essere meglio compresa se si allarga lo sguardo a tutti gli aspetti che hanno concorso a formare questo percorso evolutivo, valutandoli nel loro concreto divenire senza preconcette chiavi di lettura. La disuguaglianza non è cioè una sorta di tratto distintivo dell’umanità, ma allora come oggi la conseguenza di specifici modi di concepire le relazioni sociali. Nel Capitolo 1 si è visto come una riflessione su di essa sia iniziata in Europa (nel periodo a cavallo tra 1600 e 1700 in concomitanza con le prime avvisaglie di profondi sconvolgimenti economici e sociali)  anche grazie alla scoperta ed al confronto con le culture indigene, fin lì mai nemmeno immaginate, reso possibile dall’espansione coloniale europea, che hanno influenzato, a sinistra, il nascente Illuminismo e, a destra, le correnti di pensiero più tradizionaliste,  le vere creatrici della teoria sociale moderna e della concezione della storia come processo lineare a crescere

Graeber e Wengrow tornano ad evidenziare come questo ingiustificato preconcetto culturale, dopo aver attraversato l’intera storia del moderno pensiero occidentale, continui ad emergere anche nelle sue attuali manifestazioni. Non ne è indenne la stessa antropologia che ancora per buona parte del Novecento ha studiato le società primitive in termini astorici, come immobili nel tempo, impedendo ogni ricostruzione evolutiva.  Non a caso Mircea Eliade (1907/1986, antropologo e storico delle religioni, rumeno) sosteneva che per le società tradizionali tutti gli eventi importanti erano già accaduti, tanto da essere eternamente vissuti come mitici archetipi.

Questa sorta di presunzione trova una sua ulteriore spiegazione nel considerare la tecnologia, indiscutibile dote del progresso occidentale, metro per misurare l’intera evoluzione umana (da qui quindi la suddivisione del passato dell’umanità in base al materiale primario usato per ricavare utensili ed armi in età della pietra, del rame, del bronzo, del ferro). Non è meno riduttiva la parallela concezione che l’evoluzione umana sia proceduta per balzi  (ossia svolte rivoluzionarie come quelle agricola, urbana, prima seconda e terza industriale), che hanno sancito la definitiva fine di un’era e l’avvio di una completamente nuova, colpevolmente dimenticando che solo nell’età moderna una parte delle innovazioni, quelle frutto di individuali colpi di genio, hanno impresso autentiche accelerazioni, mentre da sempre esse sono state l’esito di un corpus collettivo di conoscenze accumulate nei secoli (si pensi ad esempio al peso della quotidiana osservazione femminile per la cosiddetta rivoluzione agricola. I “Giardini di Adone” del Capitolo 6). La scelta di descrivere la storia come una successione di brusche rivoluzioni tecnologiche equivale cioè alla negazione del ruolo di coscienti scelte collettive che, maturate su tempi lunghi, hanno deciso, sulla base di condivise filosofie di vita, quali innovazioni fossero davvero adatte. E ciò è valso non solo per la creatività tecnologica ma, ancora di più, per quella sociale (così come emerge, ad esempio, dalla ricostruzione dell’avvento della proprietà privata esaminata nel Capitolo 4, piuttosto che per le sconvolgenti scelte dei nativi americani viste nel precedente Capitolo 11). Il concetto/valore di libertà, prima ancora di quello dell’uguaglianza, è quello che più si presta per misurare questa differenza di approccio: mentre nella moderna cultura europea si è rivoluzionariamente imposto come ideale astratto o principio formale (libertà, uguaglianza, fratellanza), in altre culture molto più concretamente ha sempre indicato tre precise prerogative: la libertà di spostarsi, la libertà di disubbidire, la libera scelta di come organizzare la società (vedi Capitolo 2), con le prime due viste come indispensabile impalcatura per attuare anche la terza. Graeber e Wengrow hanno conseguentemente tentato di costruire una storia alternativa dell’evoluzione umana proprio cercando di capire come e perché queste tre fondamentali libertà siano venute meno a poco a poco fino ad essere definitivamente inglobate nella loro declinazione occidentale. Pur riconoscendo che allo stato attuale delle ricerche siano ancora tante le domande che non trovano adeguate risposte, alcune significative congetture hanno trovato importanti riscontri, quella che in antropologia trova i maggiori consensi pone l’accento sulla graduale divisione delle varie società umane in differenti aree culturali e sulla loro contrapposizione per schismogenesi tali da far divenire universalmente centrale il concetto/valore di “identità comunitaria”. E’ infatti attestata la notevole moltiplicazione di aree culturali, lungo tutti i primi millenni dell’era post glaciale (paleolitico superiore e neolitico) così come è certo che alcune di esse abbiano espresso, proprio per schismogenesi, nette e violente contrapposizioni, non di rado sfociate in vere e proprie guerre, e che proprio in questi passaggi traumatici siano rintracciabili parallele forme di evoluzione gerarchica. L’idea stessa di guerra .......

sulla cui origine ed evoluzione nelle vicende umane il dibattito è ancora molto aperto, in particolare sul suo poter essere una tendenza innata nella psiche umana, le ricerche comunque evidenziano, a testimoniare la concreta possibilità di diverse soluzioni per i contrasti, l’esistenza, lungo tutti questi stessi periodi, di altre modalità quali le sfide in particolari forme di gioco piuttosto che duelli fra singoli guerrieri. Quello che di certo emerge dagli studi archeologici e antropologici è che sempre e ovunque i periodi di guerra si sono alternati con altri di pace, molto più lunghi spesso di vari secoli

...... parrebbe quindi aver costituito, per essere efficacemente combattuta, un motivo per una più definita strutturazione gerarchica. Ciò porterebbe quindi a ritenere che, ben più dell’agricoltura e della nascita delle città, le differenze culturali, il loro antagonismo esasperato, la violenza innescata non altrimenti gestita se non con la guerra (aspetti che si sono manifestati ben prima della nascita di regni ed imperi), siano state la causa della rinuncia, più o meno consapevolmente attuata, delle tre libertà fondamentali. Si tratta di una visione, alternativa a quella mainstream, verso la quale non mancano obiezioni e perplessità, la più ostinata delle quali ha a che vedere (tema per più aspetti sempre sollevato) con le dimensioni delle società primordiali. Da più parti si sottolinea infatti che la nascita e l’evoluzione delle strutture della dominazione siano un passaggio obbligato allorquando le popolazioni, inurbate e non, abbiano raggiunto ordini di grandezza tali da renderle pressoché inevitabili: che esista cioè una corrispondenza tra il delinearsi di gerarchie e la crescita della complessità delle relazioni sociali (non a caso infatti la stessa parola complessità viene intesa come sinonimo di gerarchia, che a sua volta viene intesa come eufemismo per le catene di comando “statali). In altre parole è come se il fatto di vivere in una società numerosa implicasse la volontaria rinuncia alla libertà di disubbidire per sostituirla con meccanismi che puniscono coloro che non obbediscono. Anche in questo caso però ci troviamo di fronte ad una convinzione che si è autoalimentata, fino ad imporsi come certezza, ma che, allargando lo sguardo ad altri contesti,  non trova riscontro nel mondo naturale (nel quale non mancano esempi di sistemi complessi che non sono organizzati in modo verticistico), nelle stesse propensioni psicologiche umane (la rinuncia a spazi di libertà individuale non è mai scelta facile), ma soprattutto nelle concrete vicende storico sociali fin qui esaminate. Le quali infatti attestano che le stesse città sono spesso state esperimenti sociali su vasta scala, privi di gerarchie amministrative e autoritarie, e parallelamente che la formazione di regni, di aristocrazie guerriere o di altre forme di stratificazione sociale, si è già manifestata in comunità di dimensioni ridotte (ad esempio nelle “società eroiche” degli altopiani mesopotamici viste nei Capitoli 6 e 7). Ben più della complessità in quanto tale, un fattore determinante nell’innescarsi di strutturazioni gerarchiche sembra piuttosto essere consistito nella perdita, ovvero nella rinuncia, della prima fondamentale libertà, quella di spostarsi che può aver implicato anche la perdita/rinuncia della seconda, quella di disubbidire, condizionando così pure la terza, ossia la libera scelta dell’organizzazione della società. Graeber e Wengrow evidenziano infine un ulteriore aspetto che avvalora le perplessità sulla concatenazione certa fra complessità e gerarchia: troppo spesso le evidenze storiche che raccontano tutt’altri processi sono così sottostimate e trascurate da non aver neppure meritato una appropriata denominazione, non esiste ad esempio nella letteratura sociale un termine per definire le “città senza strutture di governo verticistiche”. Si è cioè ancora una volta di fronte ad un preconcetto culturale, con evidenti venature ideologiche, che impedisce di accettare e valorizzare reali processi storici alternativi. In un simile contesto analitico gli stessi termini “uguaglianza” e “disuguaglianza”, piuttosto che “città e società ugualitarie e disugualitarie”, rischiano di essere denominazioni vuote, incapaci, da sole, di raccontare le tante articolazioni di ciò che è concretamente successo nei cinquemila e più anni presi in esame. Anche perché, altro aspetto troppo sottovalutato dalle narrazioni mainstream, tutte le vicende storiche sono soggette alla concezione greca del tempo sintetizzata nel termine “kairos”, ossia il “momento giusto e opportuno”. E’ solo quando kairos entra in scena che processi di lungo periodo prendono una certa direzione, e ciò non perché siano intervenute improvvise ed impreviste svolte storiche, ma piuttosto perché si è giunti al culmine di una lunga maturazione e sedimentazione di idee e valori. Tutto quanto raccolto e presentato in questo saggio ha quindi soprattutto l’ambizione di innescare riflessioni sulla possibilità che le cose non siano sempre andate per come sono state sin qui raccontate, e cioè che non sono così certe le idee di un progresso lineare della storia, che la civiltà e la complessità siano inevitabilmente emerse a spese delle libertà umane, che la democrazia partecipativa possa esistere solo in piccole comunità ma non in una città o uno Stato,  che uguaglianza e disuguaglianza siano magicamente comparse a causa del verificarsi di determinati eventi e che non siano al contrario il risultato di vicende ben più complesse che potevano prendere, come in molti casi è davvero avvenuto, tutt’altra direzione.

martedì 12 novembre 2024

Video della conferenza del 06 Novembre 2024 - Prof. Francesco Pallante

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali) ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della partecipata conferenza tenuta, Mercoledì 6 Novembre 2024 presso l’auditorium D.Bertotto, dal prof. Francesco Pallante (professore ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Torino) con titolo:

              Aumentare i poteri delle Regioni

 nel paese più disuguale d’Europa?

Per accedere al video cliccare qui

domenica 10 novembre 2024

Alberi e memoria, ma non solo ......

 

Cari amici di Circolarmente

Comunichiamo con piacere che lo scorso anno, seguendo gli stimoli proposti dall’ assessore alla cultura Paola Babbini e le suggestioni portate nel Circolo lettori di Avigliana da Cristina Converso, naturalista e scrittrice, un gruppo di aviglianesi ha dato vita con il coordinamento di ENRICA GALLO, che fa parte del nostro Direttivo, ad un progetto intitolato ALBERI E MEMORIA, MA NON SOLO… che ha avuto due momenti cardine.

In primis, un lavoro di gruppo in cui dalle memorie arboree si passava allo scambio di esperienze transitando fra proposte di lettura e giochi (5 incontri). 

In seconda battuta, si è invece dato vita ad un programma più impegnativo (9 incontri) coinvolgendo molte eccellenze aviglianesi: da Cristina Converso alla ceramista Giuliana Cusino che con Serena Zanardo ci ha introdotto nei miti greci di trasformazione e nell’antica sapienza druidica, a Laura Riviera, con cui abbiamo letto e recitato poesie e a Paola Ballesio, che ci ha condotto idealmente in Giappone per la festa della fioritura dei ciliegi e insieme alla quale abbiamo composto – un po’ alla buona, si capisce, alcuni haiku. Siamo poi entrati nel cerchio altrettanto magico dell’arte pittorica con il maestro Vinicio Perugia (che cosa vuol dire “vedere”) e con Valter Alovisio, scultore e grande esperto d’arte, con cui abbiamo ammirato una delle opere più famose di Gustav Klimt, “L’Albero della vita”. Per finire, niente di meglio che un laboratorio musical-arboreo con Lorella Perugia, presidente del Centro Goitre di Avigliana (che cosa vuol dire “ascoltare”)

Se desiderate vedere direttamente i lavori proposti, potete andare sul sito di Avigliana notizie attraverso questo link, e lì troverete, segnalate in rosso, entrambe le parti del progetto

https://avigliananotizie.it/alberi-e-memoria/

 

A nome del gruppo, Enrica Gallo, a cui è spettato il compito di mettere su carta e on line tutti questi doni !

gallo.enrica@virgilio.it Cell: 344 78 74 869

venerdì 1 novembre 2024

La Parola del mese - Novembre 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

NOVEMBRE 2024

Non compare nei dizionari, si tratta in effetti di un neologismo coniato appositamente per sintetizzare l’impatto di un fenomeno epocale, quello delle migrazioni verso l’Europa ed in particolare verso l’Italia, che molto ha a che vedere con il sistema delle disuguaglianze globali e interne, e la sua potenzialità di innescare una metamorfosi dell’intero sistema delle relazioni sociali che da tempo richiede di essere compresa e governata per valorizzarne le ricadute positive e per evitare (come sta ad esempio  succedendo in Germania) che diventi la principale causa scatenante pericolose svolte regressive. La Parola di questo mese indica quindi

MIGRAMORFOSI

Chi l’ha coniata è Ferruccio Pastore (1966, laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Torino, città dove risiede, è direttore del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione (Fieri), in precedenza vicedirettore del Centro Studi di Politica Internazionale (Cespi). Si occupa da tempo di questioni sociali e politiche legate alle migrazioni internazionali. Tra le sue pubblicazioni: “Dobbiamo temere le migrazioni?” Laterza, 2004)

che spiega la ragione di questa scelta terminologica in apertura del suo omonimo saggio

……… Nel rapporto con l’immigrazione siamo rimasti a metà del guado. Trent’anni fa era cominciata una metamorfosi, complessa e problematica, ma anche grandiosa e appassionante, una migramorfosi, la chiamerò così, che però si è poi arenata restando incompiuta. C’è una ragione precisa per cui voglio usare un neologismo. La parole con cui parliamo di immigrazione sono spesso logore, o sovraccariche di significati tendenziosi. In questo contesto, forse, una parola nuova può servire a rinnovare anche lo sguardo con cui guardiamo alle cose. Questa è la speranza: migramorfosi dunque …….

Il testo di Pastore è una sintetica disamina delle cause che hanno determinato la distorta gestione dei flussi immigratori nel nostro paese e passa quindi in rassegna tematiche complesse ognuna delle quali meriterebbe specifici approfondimenti. Non è questo lo scopo del suo saggio che, finalizzato a fornire un quadro d’insieme, si è dimostrato utile per inquadrare, in questo nostro post, il contesto generale unitamente ad alcuni singoli aspetti di un fenomeno epocale destinato a restare a lungo centrale

A differenza di altri paesi europei il rapporto dell’Italia (che ha piuttosto alle spalle un lunga storia di emigrazioni verso tutto il mondo) con fenomeni immigratori è molto recente

inizia ad essere percepito solo a fine anni Settanta (nel 1978 esce il primo rapporto Censis sul tema che indica in circa mezzo milione il numero di lavoratori stranieri in Italia) ma è solo negli anni Ottanta che assume una qualche rilevanza, non a caso nel 1986 viene approvata la prima legge sull’immigrazione, la legge Foschi. La vera svolta arriva solo negli anni Novanta, i flussi in entrata, quasi tutti irregolari si fanno consistenti e la loro gestione si impone definitivamente come centrale

Oggi appare persino difficile crederci ma, a partire dal primo decennio del secolo, l’Italia è stata per qualche anno tra i paesi con il saldo migratorio più alto nel mondo (nel 2001 una apposita Commissione aveva calcolato in 3,5 milioni, pari al 6,2% della popolazione italiana, il numero dei futuri residenti stranieri al 2017, anno in cui è stata invece sorpassata la soglia dei cinque milioni, l’8,3% della popolazione italiana) il cui esito totale , dopo gli anni di contrazione imposta dalla pandemia, è giunto a sfiorare i sette milioni (contando il milione abbondante che ha acquisito la cittadinanza, i 5 milioni con permesso provvisorio di soggiorno o irregolari, ed anche  quelli che sono tornati ai paesi d’origine o sono passati in altri paesi). La ricaduta di questo complicato processo può e deve esser valutata da diversi punti di osservazione, ma limitandoci al solo aspetto economico il contributo complessivo alla crescita del PIL italiano è stato molto consistente (la Banca d’Italia ha stimato in 2,3 punti percentuali “puliti” quello del decennio 2001-2010 nel quale, senza immigrazione, si sarebbe registrato un saldo negativo del 4,4. Nel quinquennio 2011-2015 il lavoro di stranieri ha limitato il tracollo post crisi 2007/2008 all’1,9% invece del probabile 3%). Anche solo questi numeri evidenziano l’impatto di un fenomeno che nell’arco di tre decenni ha quindi visto arrivare nel nostro paese ben sette milioni di persone (di questi più di cinque, ad oggi, si sono fermati) e che avrebbe pertanto richiesto adeguate politiche di controllo e gestione, ma trent’anni dopo ad uno sguardo oggettivo appare evidente un dato di fatto: i grandi cambiamenti che l’immigrazione ha sicuramente innescato in Italia non sono stati il frutto di scelte consapevoli, ma di dinamiche spontanee oppure la conseguenza di scelte strategiche UE (come il suo allargamento a Est). Con il risultato, altrettanto evidente, che il discorso pubblico ha progressivamente declassato l’immigrazione dall’essere uno snodo cruciale per un futuro possibile, all’essere affrontata come una perenne emergenza, da alcuni strumentalmente giocata su paure e timori determinati proprio dal non essere stata seriamente governata, avendo come unico orizzonte politico quello di ritorni elettorali a breve. Eppure, ancora restando ai soli numeri, l’Italia, così come gran parte dell’Europa, dovrebbe, per proprio evidente tornaconto, avere tutt’altro approccio perché (aspetto ormai tanto risaputo quanto sempre sottovalutato) il suo quadro economico e sociale ha di fronte, a brevissimo termine, snodi cruciali determinati dal suo quadro demografico (la nostra Parola del mese di Giugno 2024 è stata “demografia” declinata proprio in relazione a questo aspetto).

L’Istat prevede che nell’arco di una generazione, da qui al 2050, la popolazione italiana non smetterà di calare e di invecchiare, con il risultato che il rapporto tra chi è in età di lavorare (dai 16 anni e i 65 anni) e chi non lo è ancora o non lo è più (meno di 14 anni e più di 65) rischia seriamente di passare dal “tre a due” del 2021 ad un insostenibile “uno a uno”. In questa prospettiva il saldo positivo dei flussi immigratori/emigratori registrato sempre nel 2021 di 150.000 unità (già inadeguato per le immediate esigenze) dovrebbe passare, per gli anni da qui al 2050, a ben 450.000 annui (livelli molto alti toccati solo nei primi anni duemila) che, a quella data, porterebbero la popolazione immigrata a 17 milioni, un terzo dell’intera popolazione. Un quadro da brividi pensando alla necessità di governarlo e a come ciò sia stato fin qui fatto!

Si sta parlando di un contesto ormai consolidato (che, oltretutto, non potrà essere modificato più di tanto da politiche di rilancio della natalità. Anche ammesso che siano davvero attuate e che si rivelino davvero efficaci, il ritorno, comunque non così rilevante considerata l’attuale consistenza di donne italiane in età fertile, non si avrà prima di una generazione) che giocoforza comporterà, per un secondo ciclo di almeno trent’anni, l’adozione di politiche di sostegno all’immigrazione straniera (oltre che di freno all’emigrazione giovanile italiana), ma soprattutto una parallela gestione della futura migramorfosi  totalmente diversa da quella messa in atto nei trent’anni alle nostre spalle. Il saggio di Ferruccio Pastore passa quindi in rassegna alcuni dei fattori che di più hanno costituito un comune sentire (non di rado strumentalmente esasperato quando non artificialmente creato) che ha consentito il concretizzarsi di miopi scelte politiche (molto spesso di chiara impronta ideologica) incapaci di affrontare e gestire razionalmente ed equamente quella avvenuta nel trentennio alle nostre spalle, iniziando dalla sbandierata “paura” degli italiani nei confronti degli stranieri. Si tratta di un atteggiamento collettivo (ancora inesistente nei primi anni Novanta in un paese come l’Italia che aveva fin lì conosciuto, non senza complicazioni, solamente movimenti immigratori interni) che si è progressivamente diffuso (anche se vissuto e declinato con diverse accentuazioni), fino a rappresentare un innegabile dato sociale (molto hanno inciso nell’immaginario collettivo alcune rappresentazioni mediatiche di forte impatto quale, ad esempio, il famoso sbarco di ventimila immigrati albanesi nel porto di Bari nel 1991), ma soprattutto mal regolato e distribuito per tutto questo trentennio. Per questa evidente ragione è stato possibile che una situazione di comprensibile iniziale diffidenza si sia poi progressivamente consolidata (soprattutto negli strati sociali già del loro meno culturalmente attrezzati ad affrontare processi di radicale cambiamento di indubbio impatto) in una sorta di vera paura e preconcetto.

In questo contesto che si è non poco accentuato, anche a causa di un quadro internazionale segnato da terrorismo e guerre, si sono manifestati atteggiamenti e comportamenti, individuali e collettivi, che è difficile non definire apertamente  “razzisti” (già nel lontano 1979 Nino Sergi, a lungo sindacalista e figura importante del Terzo Settore, in una conferenza sull’immigrazione ebbe a dire che “gli italiani si vantano di non essere razzisti ma forse è solo perché non abbiamo ancora avuto occasione di metterci alla prova”). Lo testimoniano dati che attestano la crescita ininterrotta di reati motivati da odio razziale e xenofobia, ma soprattutto l’emergere diffuso di situazioni riconducibili a forme di razzismo più subdole ma non meno evidenti ed impattanti. Si è però di fronte, secondo Pastore, ad un fenomeno non adeguatamente rilevato e studiato (sono disponibili solamente occasionali inchieste, una delle quali condotta a livello europeo ha rilevato che il 37% delle persone originarie dell’Africa subsahariana presenti in Italia denunciava di aver subito discriminazioni razziali a fronte di un dato medio europeo del 27%) che rende oggettivamente impossibile una fotografia realistica della situazione lasciando spazio a fugaci e soggettive percezioni. Pastore chiude il Capitolo dedicato al tema affermando che se la domanda è “Quanto sono razzisti gli italiani?” la risposta rischia di essere “Di preciso non lo sappiamo, ma sembra proprio parecchio”

Eppure, evidenzia Pastore sulla base della sua decennale esperienza, molto spesso chi ha più paura sono proprio gli immigrati: sono però paure molto diverse, non sono legate a psicologiche suggestioni, ma a “concrete situazioni di vita(ad es. che il permesso di soggiorno non sia concesso o rinnovato, di non ricevere la paga dopo aver lavorato, di subire violenze e prevaricazioni). Questa duplice ed incrociata paura, evidente prima testimonianza di una incompiuta e distorta migramorfosi, ha innescato, e venendone vieppiù alimentata, non pochi pregiudizi a partire dall’idea che “gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, specie ai giovani” coniugata con, in una versione all’apparenza giustificativa, “fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare”. Entrambe sono delle errate semplificazioni. In un mercato del lavoro molto complesso che proprio in questo trentennio ha conosciuto una radicale trasformazione, determinata dallo sviluppo tecnologico, in effetti solo una percentuale davvero minima di immigrati riesce a concorrere per lavori ad alto contenuto tecnologico (anche se non di rado sono in possesso dei requisiti di formazione per farlo), la concorrenza con i lavoratori italiani si gioca quindi quasi esclusivamente sulle professioni molto faticose o totalizzanti (ad es. lavori agricoli o di cura alla persona), oppure quelle che richiedono preventivamente lunghi anni di formazione ed apprendistato molto sottopagati (ad es. lavori in edilizia o artigianali), quelle di norma gestite con contratti a breve e occasionali, ovvero tutte quelle che hanno, con le  logiche e le regole di mercato esistenti, livelli salariali molto bassi (se non criminalmente scandalosi). E’ soprattutto questo fattore a giocare un ruolo decisivo per la nascita e l’esistenza (in quella che storicamente è sempre stata definita “guerra fra poveri”) della vasta platea di lavoratori immigrati, per evidenti ragioni molto più disponibili, rispetto ai nativi, specie se giovani, ad accettarle. Si è quindi di fronte non alla causa ma alla conseguenza della avvenuta trasformazione strutturale del mercato del lavoro italiano che ha emarginato i lavori di bassa qualità accentuando l’impressionante crescita delle disuguaglianze avvenuta negli ultimi strati sociali. La fragilità della condizione lavorativa degli immigrati è attestata anche dal loro essere maggiormente esposti ai momenti di crisi e di contrazione del lavoro. Ed anche in questo caso l’Italia presenta un quadro peggiore di quello medio europeo, l’onda lunga della crisi sistemica del 2007/2008 ha infatti prodotto una evidente caduta dei loro livelli di occupazione: nel 2021 il tasso di occupazione dei lavoratori stranieri extra UE è sceso al 56,5% dall’eccellente 59% del 2012 (a fronte di un dato europeo fermo al 53%). Le ragioni che spiegano questa contrazione consistono nel fatto che i lavoratori stranieri sono maggiormente concentrati nei settori produttivi più colpiti dalla crisi (in particolare manifattura e costruzioni) e nella prevalenza di contratti di lavoro temporanei ed atipici. La perdita di posizioni di lavoro si è ovviamente tradotta in un considerevole aumento della povertà: nel 2021 l’Istat ha certificato che la percentuale delle famiglie di soli stranieri (anche quando in possesso di contratti di lavoro) considerata sotto la soglia di povertà è arrivata a toccare la soglia del 30%, a fronte del 5,7% di famiglie di soli italiani. Una fotografia impietosa della quale però ben poco fanno cenno i media, molto più solleciti ad enfatizzare altri aspetti della realtà immigratoria nel nostro paese. Ma forse il pregiudizio più difficile da smontare, anch’esso figlio della distorta gestione della migramorfosi, consiste nel ritenere che “gli immigrati sono tutti dei delinquenti”. All’interno di un quadro generale che, smentendo un luogo comune, vede l’Italia come uno dei paesi meno violenti d’Europa (ad esempio si contano 0,48 omicidi ogni 100.000 abitanti contro una media europea del 0,89), i dati ufficiali (provenienti da diverse fonti: Istat, Ministero Interni, Ministero Giustizia, Censis) attestano effettivamente una rilevante maggiore incidenza percentuale (sul totale dei reati commessi) di quelli in capo a stranieri (regolari e irregolari): mediamente nell’ultimo decennio sono stati denunciati per un reato 5,1 stranieri su 100 mentre gli italiani sono stati 1,14 su 100 (è proprio su questa evidenza statistica che giocano le strumentali campagne politiche e mediatiche anti-immigratorie). Per meglio comprendere il quadro reale della situazione sarebbe però necessario scomporre questo dato generale per tipologia di reato (ad esempio è dato incontrovertibile che per il reato di spaccio il concorso degli stranieri in termini numerici e percentuali è altissimo, mentre per quello di omicidio si scende a numeri e percentuali decisamente più bassi), ma soprattutto è importante rilevare che in Italia si sta registrando negli ultimi anni una costante generale riduzione dei reati commessi che è dovuta in gran misura  al forte e costante abbassamento proprio del tasso di criminalità degli stranieri. Una tendenza consolidata che fornisce due importanti indicazioni: in primo luogo che esiste una forte correlazione tra la complessità di inserimento in un società diversa da quella di provenienza e la possibilità di adottare comportamenti illegali (altro aspetto comunque ancora non adeguatamente studiato) ed in secondo luogo che questi comportamenti tendono fisiologicamente a decrescere e a normalizzarsi parallelamente alla stabilizzazione esistenziale. Detto in altri termini: la mancata integrazione e la collegata emarginazione spiegano in moltissimi casi l’inevitabile caduta nei circuiti delinquenziali (non di rado inoltre pilotata e sfruttata da associazioni mafiose italiane ed anche straniere). Un dato particolare, quello degli incidenti sul lavoro, evidenzia poi un aspetto che collega lavoro e situazioni di illegalità: la statistica di infortuni sul lavoro dell’Inail certifica che quelli riguardanti cittadini stranieri rappresentano circa il 15% del totale, ossia tre volte tanto la loro incidenza sul totale della popolazione (un dato che vale anche per quelli con esito mortale). Pastore prende infine in esame un terzo preconcetto che attraversa tutti quelli sin qui presi in esame, sintetizzato da una frase all’apparenza sin troppo generica, ma non per questo meno impattante: gli stranieri sono troppo diversi da noi, hanno altri modi di vivere. Entrano in gioco in questa affermazione molti aspetti di vario genere (che ovviamente richiederebbero specifici approfondimenti): da quelli di maggiore rilevanza, come quello religioso, ad altri più ordinari come l’alimentazione e l’abbigliamento, uno però meglio di altri la giustifica ed al tempo stesso ne smaschera l’ipocrisia: il rapporto di genere tra uomo e donna. Inizialmente, i flussi immigratori sono stati differenziati, a seconda del paese di provenienza e della tipologia di utilizzo lavorativo o erano prevalentemente maschi o al contrario solo femmine, la situazione si è poi progressivamente normalizzata soprattutto grazie ai ricongiungimenti familiari creando così un contesto in cui le differenti concezioni dei rapporti di genere, soprattutto islamiche, si sono rivelate più evidenti tanto da divenire occasione di strumentale utilizzo da parte del vasto fronte anti-immigrazioni. Nel 2017 la sociologa Sara Farris ha coniato un vocabolo “femonazionalismo” per indicare il richiamo di argomenti femministi in chiave nazionalista e xenofoba, in nome della difesa dei valori occidentali di libertà ed uguaglianza,  come a dire che pratiche illiberali verso gli stranieri sono giustificate perchè finalizzate alla difesa del liberalismo europeo. Se sono innegabili differenze e se sono legittime critiche verso concezioni che sono effettivamente distanti da quelle consolidate della cultura occidentale sarebbe però doveroso riconoscere che non mancano comunque, anche nel retaggio culturale e nei concreti modi di vivere italiani, discriminazioni verso le donne (ed in generale verso le diversità di orientamento sessuale), ma soprattutto che (lo attestano diverse indagini sociologiche sul tema) su tempi ragionevoli si innescano confortanti cambiamenti progressivi soprattutto là dove si realizza un equo inserimento. Anche in questo caso quindi molte delle problematiche sono una conseguenza della mancata corretta gestione della migramorfosi, appare inoltre evidente che marcare ossessivamente, e strumentalmente, le differenze spesso ottiene solamente l’effetto contrario di una chiusura identitaria conservativa. L’insieme delle considerazioni fin qui sviluppate da Pastore trova il suo logico compimento nella disamina del concetto/valore di “integrazione”, vale a dire la finalità corretta che avrebbe dovuto ispirare l’intera migramorfosi

Il concetto di integrazione è comunque da sempre oggetto di discussioni e controversie. Nato nel campo delle scienze sociali nella seconda metà dell’Ottocento, con riferimento ampio all’inclusione di strati sociali ai margini della società, è stato fin da subito inteso e declinato in modi diversi, fra gli altri: per Max Weber (1864/1920, sociologo e filosofo tedesco) è un valore generale da affidare alla burocrazia statale, per Emile Durkheim (1858/1917, sociologo e filosofo francese) è una forma di solidarietà da praticare in modo diffuso nel mondo del lavoro, per Talcott Parson (1902/1979, sociologo statunitense) è una finalità da affidare all’associazionismo, per Humphrey Marshall (1893/1981, sociologo statunitense) è una conseguenza della realizzazione dei diritti di cittadinanza

Facilmente confondibile e sostituibile con concetti solo in apparenza simili quali: inclusione, incorporazione, convivenza, parificazione, resta comunque un concetto che richiede di essere sempre precisato. Parlano di integrazione anche a destra, ma per limitarla ai soli soggetti nativi, ai cittadini della nazione, ma neanche tanto paradossalmente è criticato da sinistra quando inteso come un eccesso di obbligo per gli immigrati di adattamento ed accettazione dei valori e dei modi di vivere della società che dovrebbe integrarli. Il rischio, evidente, è sempre quello di una discussione sterile perché giocata su un piano ideologico, per Pastore la via di uscita è allora quella di tradurlo in un concetto sintetico che definisca, nella concreta estensione e applicazione di diritti, un livello minimo di convergenza su condizioni di vita materiali e di promozione di spazi istituzionalizzati di dialogo costante tra le diverse culture. Si tratta cioè di fissare dei parametri precisi che lo riferiscano e lo delimitino ad un livello civilmente tollerabile di disuguaglianza tra componenti della stessa comunità diversi per provenienza geografica, per stili di vita, per profili culturali. La migramorfosi non potrà mai essere adeguatamente compresa e gestita senza questa idea minima di integrazione, proprio ciò che non è per nulla avvenuto lungo tutto il suo primo trentennio di esistenza. Ritornando alla concreta situazione italiana alcuni segnali incoraggianti in tal senso non erano mancati: la Legge 40 del 1998, nota come “Legge Turco-Napolitano”, aveva istituito, all’insegna del “conoscere per deliberare” (espressione coniata da Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica 1948/1955) una apposita Commissione per le politiche di integrazione. Modellata su esempi stranieri (Francia e Germania) aveva composizione mista (con funzionari ed esperti esterni) con lo scopo di fornire indicazioni al Governo in carica sulla base di attente e approfondite analisi del problema. Tre anni dopo il Centrodestra rivince le elezioni (non a caso anche grazie alla strumentale campagna contro l’immigrazione straniera) e l’anno successivo emana la famosa “Legge Bossi-Fini” che ancora regolamenta la materia. Ovviamente quella Commissione (per quanto mai formalmente soppressa) ha smesso di lavorare e nessun governo successivo (compresi quelli di centrosinistra e tecnici) l’ha mai rilanciata. Non stupisce quindi che negli ultimi due decenni (complice anche la crisi globale del 2007/2008 che ha decisamente contratto il fabbisogno di nuova immigrazione per esigenze produttive) i decreti di programmazione dei flussi, strumento chiave di una politica migratoria non meramente difensiva, si sono limitati a pigre fotocopie annuali di indirizzi approssimativi e minimalisti. Appare evidente che, in mancanza di oggettivi e condivisi elementi di conoscenza e valutazione, il dibattito fra pur legittime diverse ide in materia di immigrazione rimane bloccato su sterili termini ideologici ed in contesto simile, così com’è concretamente successo nel nostro paese, il concetto di integrazione rischia di restare una affermazione priva di reali orizzonti. Un importante banco di prova in questo senso è rappresentato dalla scuola, dalla formazione dei futuri cittadini italiani, dal loro crescere insieme come compagni di banco (molto in questa direzione è già avvenuto ed il riconoscimento dello ius scholae, in attesa della ridefinizione totale del concetto/valore di cittadinanza, rappresenta un ovvio e doveroso compimento). Pastore affronta infine un aspetto della migramorfosi che si collega strettamente alla nostra scelta di usarla come “Parola del mese”: molte questioni possono trovare più facilmente soluzione quando si trovano le parole giuste per definirle: in questo senso è, a suo avviso, tempo di dismettere l’uso del termine “extracomunitario”. Non è più giustificato dalla storia, la “comunità europea”, ossia l’ambito politico-geografico che implicava i ruoli di comunitario ed extracomunitario, non esiste più dal 2009 quando è stata assorbita dall’Unione Europea. Implica una preventiva riduttività perché cancella le profonde differenze che esistono tra immigrati di provenienze ed estrazioni diverse accumunandoli in senso negativo “dal non essere qualcosa”. Accentua l’estraneità cristallizzandola nella mancata appartenenza ad una comunità umana. Dopo decenni di strumentale utilizzo ha ormai acquisito un’automatica valenza negativa. Sintetizza infine preconcetti stereotipati. E’ tempo di eliminarlo e sostituirlo con altro, spazio allora ad una fantasia positiva che punti al finale riconoscimento dell’essere semplicemente uomo e donna del mondo, per intanto il termine migrante, che pure trascina con sè parte di queste negatività, quantomeno ci ricorda una realtà, quella di una migrazione epocale frutto dei molti errori in gran misura commessi proprio dall’Occidente, che a lungo non sarà possibile eludere.