Il
testo di Pastore è una sintetica disamina delle cause che hanno determinato la
distorta gestione dei flussi immigratori nel nostro paese e passa quindi in
rassegna tematiche complesse ognuna delle quali meriterebbe specifici
approfondimenti. Non è questo lo scopo del suo saggio che, finalizzato a
fornire un quadro d’insieme, si è dimostrato utile per inquadrare, in questo
nostro post, il contesto generale unitamente ad alcuni singoli aspetti di un
fenomeno epocale destinato a restare a lungo centrale
A differenza di
altri paesi europei il rapporto dell’Italia (che
ha piuttosto alle spalle un lunga storia di emigrazioni verso tutto il mondo) con fenomeni
immigratori è molto recente
inizia ad essere
percepito solo a fine anni Settanta (nel
1978 esce il primo rapporto Censis sul tema che indica in circa mezzo milione
il numero di lavoratori stranieri in Italia) ma è solo negli anni Ottanta che assume una qualche rilevanza, non
a caso nel 1986 viene approvata la prima legge sull’immigrazione, la legge
Foschi. La vera svolta arriva solo negli anni
Novanta, i flussi in entrata, quasi tutti irregolari si fanno
consistenti e la loro gestione si impone definitivamente come centrale
Oggi appare persino
difficile crederci ma, a partire dal primo decennio del secolo, l’Italia è
stata per qualche anno tra i paesi con il saldo migratorio più alto nel mondo (nel 2001 una apposita Commissione aveva calcolato in
3,5 milioni, pari al 6,2% della popolazione italiana, il numero dei futuri
residenti stranieri al 2017, anno in cui è stata invece sorpassata la soglia
dei cinque milioni, l’8,3% della popolazione italiana) il cui esito totale ,
dopo gli anni di contrazione imposta dalla pandemia, è giunto a sfiorare i sette milioni (contando il milione
abbondante che ha acquisito la cittadinanza, i 5 milioni con permesso
provvisorio di soggiorno o irregolari, ed anche quelli che sono tornati ai paesi d’origine o
sono passati in altri paesi). La ricaduta di questo complicato processo
può e deve esser valutata da diversi punti di osservazione, ma limitandoci al
solo aspetto economico il contributo complessivo alla crescita del PIL italiano
è stato molto consistente (la Banca d’Italia
ha stimato in 2,3 punti percentuali “puliti” quello del decennio 2001-2010 nel
quale, senza immigrazione, si sarebbe registrato un saldo negativo del 4,4. Nel
quinquennio 2011-2015 il lavoro di stranieri ha limitato il tracollo post crisi
2007/2008 all’1,9% invece del probabile 3%). Anche solo questi numeri
evidenziano l’impatto di un fenomeno che nell’arco di tre decenni ha quindi visto
arrivare nel nostro paese ben sette milioni di persone (di questi più di cinque, ad oggi, si sono fermati) e che avrebbe pertanto
richiesto adeguate politiche di controllo e gestione, ma trent’anni dopo ad uno
sguardo oggettivo appare evidente un dato di fatto: i grandi cambiamenti che l’immigrazione
ha sicuramente innescato in Italia non sono stati il frutto di scelte
consapevoli, ma di dinamiche spontanee oppure la conseguenza di scelte
strategiche UE (come il suo allargamento a Est). Con il risultato,
altrettanto evidente, che il discorso pubblico ha progressivamente declassato
l’immigrazione dall’essere uno snodo cruciale per un futuro possibile, all’essere
affrontata come una perenne emergenza, da alcuni strumentalmente giocata su
paure e timori determinati proprio dal non essere stata seriamente governata,
avendo come unico orizzonte politico quello di ritorni elettorali a breve.
Eppure, ancora restando ai soli numeri, l’Italia, così come gran parte
dell’Europa, dovrebbe, per proprio evidente tornaconto, avere tutt’altro approccio
perché (aspetto ormai tanto
risaputo quanto sempre sottovalutato) il suo quadro
economico e sociale ha di fronte, a brevissimo termine, snodi cruciali
determinati dal suo quadro demografico (la
nostra Parola del mese di Giugno 2024 è stata “demografia”
declinata proprio in relazione a questo aspetto).
L’Istat
prevede che nell’arco di una generazione, da qui al 2050, la popolazione
italiana non smetterà di calare e di invecchiare, con il risultato che il
rapporto tra chi è in età di lavorare (dai 16 anni e i 65 anni) e chi non lo è
ancora o non lo è più (meno di 14 anni e più di 65) rischia seriamente di
passare dal “tre a due” del 2021 ad
un insostenibile “uno a uno”. In
questa prospettiva il saldo positivo dei flussi immigratori/emigratori
registrato sempre nel 2021 di 150.000 unità (già inadeguato per le immediate
esigenze) dovrebbe passare, per gli anni da qui al 2050, a ben 450.000 annui (livelli molto alti toccati solo nei primi anni
duemila) che, a quella data, porterebbero la popolazione immigrata a 17 milioni, un terzo dell’intera
popolazione. Un quadro da brividi pensando alla necessità di governarlo e a
come ciò sia stato fin qui fatto!
Si sta parlando di un contesto ormai
consolidato (che, oltretutto,
non potrà essere modificato più di tanto da politiche di rilancio della
natalità. Anche ammesso che siano davvero attuate e che si rivelino davvero efficaci,
il ritorno, comunque non così rilevante considerata l’attuale consistenza di
donne italiane in età fertile, non si avrà prima di una generazione) che giocoforza comporterà,
per un secondo ciclo di almeno trent’anni, l’adozione di politiche di sostegno
all’immigrazione straniera (oltre che di freno
all’emigrazione giovanile italiana), ma soprattutto una parallela gestione
della futura migramorfosi totalmente diversa da quella
messa in atto nei trent’anni alle nostre spalle. Il saggio di Ferruccio Pastore
passa quindi in rassegna alcuni dei fattori che di più hanno costituito un
comune sentire (non di rado
strumentalmente esasperato quando non artificialmente creato) che ha consentito
il concretizzarsi di miopi scelte politiche (molto
spesso di chiara impronta ideologica) incapaci di affrontare e gestire
razionalmente ed equamente quella avvenuta nel trentennio alle nostre spalle,
iniziando dalla sbandierata “paura” degli italiani nei
confronti degli stranieri. Si tratta di un atteggiamento collettivo (ancora inesistente nei primi anni Novanta in un paese
come l’Italia che aveva fin lì conosciuto, non senza complicazioni, solamente
movimenti immigratori interni) che si è progressivamente diffuso (anche se vissuto e declinato con diverse accentuazioni), fino a
rappresentare un innegabile dato sociale (molto
hanno inciso nell’immaginario collettivo alcune rappresentazioni mediatiche di
forte impatto quale, ad esempio, il famoso sbarco di ventimila immigrati
albanesi nel porto di Bari nel 1991), ma soprattutto mal regolato e distribuito
per tutto questo trentennio. Per questa evidente ragione è stato possibile che una situazione
di comprensibile iniziale diffidenza si sia poi progressivamente consolidata
(soprattutto negli strati sociali già del
loro meno culturalmente attrezzati ad affrontare processi di radicale cambiamento
di indubbio impatto)
in una
sorta di vera paura e preconcetto.
In
questo contesto che si è non poco accentuato, anche a causa di un quadro
internazionale segnato da terrorismo e guerre, si sono manifestati
atteggiamenti e comportamenti, individuali e collettivi, che è difficile non
definire apertamente “razzisti” (già nel lontano 1979 Nino Sergi, a lungo sindacalista e
figura importante del Terzo Settore, in una conferenza sull’immigrazione ebbe a
dire che “gli italiani si vantano di non essere razzisti ma forse è solo perché
non abbiamo ancora avuto occasione di metterci alla prova”). Lo testimoniano
dati che attestano la crescita ininterrotta di reati motivati da odio razziale
e xenofobia, ma soprattutto l’emergere diffuso di situazioni riconducibili a
forme di razzismo più subdole ma non meno evidenti ed impattanti. Si è però di
fronte, secondo Pastore, ad un fenomeno non adeguatamente rilevato e studiato
(sono disponibili solamente occasionali inchieste, una delle quali condotta a
livello europeo ha rilevato che il 37% delle persone originarie dell’Africa
subsahariana presenti in Italia denunciava di aver subito discriminazioni
razziali a fronte di un dato medio europeo del 27%) che rende oggettivamente
impossibile una fotografia realistica della situazione lasciando spazio a
fugaci e soggettive percezioni. Pastore chiude il Capitolo dedicato al tema
affermando che se la domanda è “Quanto sono razzisti gli italiani?” la risposta
rischia di essere “Di preciso non lo sappiamo, ma sembra proprio parecchio”
Eppure, evidenzia
Pastore sulla base della sua decennale esperienza, molto spesso chi ha più paura sono
proprio gli immigrati: sono però paure molto diverse, non sono
legate a psicologiche suggestioni, ma a “concrete situazioni di vita” (ad es. che il permesso di soggiorno non sia concesso o
rinnovato, di non ricevere la paga dopo aver lavorato, di subire violenze e
prevaricazioni).
Questa duplice ed incrociata paura, evidente prima testimonianza di una
incompiuta e distorta migramorfosi, ha innescato, e venendone vieppiù alimentata, non pochi pregiudizi a partire
dall’idea che “gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, specie ai giovani”
coniugata con, in una versione all’apparenza giustificativa, “fanno i lavori
che gli italiani non vogliono più fare”. Entrambe sono delle errate
semplificazioni. In un mercato del lavoro molto complesso che proprio in questo
trentennio ha conosciuto una radicale trasformazione, determinata dallo
sviluppo tecnologico, in effetti solo una percentuale davvero minima di
immigrati riesce a concorrere per lavori ad alto contenuto tecnologico (anche se non di rado sono in possesso dei requisiti di
formazione per farlo),
la concorrenza con i lavoratori italiani si gioca quindi quasi esclusivamente
sulle professioni molto faticose o totalizzanti (ad
es. lavori agricoli o di cura alla persona), oppure quelle che richiedono
preventivamente lunghi anni di formazione ed apprendistato molto sottopagati (ad es. lavori in edilizia o artigianali), quelle di norma
gestite con contratti a breve e occasionali, ovvero tutte quelle che hanno, con
le logiche e le regole di mercato
esistenti, livelli salariali molto bassi (se
non criminalmente scandalosi). E’ soprattutto questo fattore a giocare un
ruolo decisivo per la nascita e l’esistenza (in quella che storicamente è sempre stata definita “guerra fra poveri”) della vasta
platea di lavoratori immigrati, per evidenti ragioni molto più
disponibili, rispetto ai nativi, specie se giovani, ad accettarle. Si è quindi
di fronte non alla causa ma alla conseguenza della avvenuta trasformazione
strutturale del mercato del lavoro italiano
che ha emarginato i lavori di bassa qualità accentuando l’impressionante
crescita delle disuguaglianze avvenuta negli ultimi strati sociali. La
fragilità della condizione lavorativa degli immigrati è attestata anche dal
loro essere maggiormente esposti ai momenti di crisi e di contrazione del
lavoro. Ed anche in questo caso l’Italia presenta un quadro peggiore di quello
medio europeo, l’onda lunga della crisi sistemica del 2007/2008 ha infatti prodotto una
evidente caduta dei loro livelli di occupazione: nel 2021 il tasso
di occupazione dei lavoratori stranieri extra UE è sceso al 56,5%
dall’eccellente 59% del 2012 (a fronte di un dato
europeo fermo al 53%).
Le ragioni che spiegano questa contrazione consistono nel fatto che i lavoratori
stranieri sono maggiormente concentrati nei settori produttivi più colpiti
dalla crisi (in particolare
manifattura e costruzioni) e nella prevalenza di contratti di lavoro temporanei ed
atipici. La perdita di posizioni di lavoro si è ovviamente tradotta in un
considerevole aumento della povertà: nel 2021 l’Istat ha certificato che la percentuale
delle famiglie di soli stranieri (anche
quando in possesso di contratti di lavoro) considerata sotto la soglia di povertà è
arrivata a toccare la soglia del 30%, a fronte del 5,7% di famiglie di soli
italiani.
Una fotografia impietosa della quale però ben poco fanno cenno i media, molto
più solleciti ad enfatizzare altri aspetti della realtà immigratoria nel nostro
paese. Ma forse il pregiudizio più difficile da smontare, anch’esso figlio
della distorta gestione della migramorfosi,
consiste nel ritenere che “gli immigrati sono tutti dei delinquenti”.
All’interno di un quadro generale che, smentendo un luogo comune, vede l’Italia
come uno dei paesi meno violenti d’Europa (ad
esempio si contano 0,48 omicidi ogni 100.000 abitanti contro una media europea
del 0,89),
i dati ufficiali (provenienti da
diverse fonti: Istat, Ministero Interni, Ministero Giustizia, Censis) attestano effettivamente
una rilevante maggiore incidenza percentuale
(sul totale dei reati commessi) di quelli in
capo a stranieri (regolari e irregolari): mediamente nell’ultimo decennio
sono stati denunciati per un reato 5,1 stranieri su 100 mentre gli italiani
sono stati 1,14 su 100 (è proprio su questa
evidenza statistica che giocano le strumentali campagne politiche e mediatiche
anti-immigratorie).
Per meglio comprendere il quadro reale della situazione sarebbe però necessario
scomporre questo dato generale per tipologia di reato (ad esempio è dato incontrovertibile che per il reato di
spaccio il concorso degli stranieri in termini numerici e percentuali è
altissimo, mentre per quello di omicidio si scende a numeri e percentuali
decisamente più bassi), ma soprattutto è importante rilevare che in Italia si
sta registrando negli ultimi anni una costante generale riduzione dei reati
commessi che è dovuta in gran misura al forte e costante
abbassamento proprio del tasso di criminalità degli stranieri. Una tendenza
consolidata che fornisce due importanti indicazioni: in primo luogo che esiste
una forte correlazione tra la
complessità di inserimento in un società diversa da quella di
provenienza e la
possibilità di adottare comportamenti illegali (altro aspetto comunque ancora non adeguatamente
studiato) ed in secondo luogo che questi comportamenti tendono fisiologicamente a
decrescere e a normalizzarsi parallelamente alla stabilizzazione esistenziale.
Detto in altri termini:
la
mancata integrazione e la collegata emarginazione spiegano in moltissimi casi
l’inevitabile caduta nei circuiti delinquenziali (non di rado inoltre
pilotata e sfruttata da associazioni mafiose italiane ed anche straniere). Un dato
particolare, quello degli incidenti sul lavoro, evidenzia poi un aspetto che
collega lavoro e situazioni di illegalità: la statistica di infortuni sul
lavoro dell’Inail certifica che quelli riguardanti cittadini
stranieri rappresentano circa il 15% del totale, ossia tre volte tanto la loro
incidenza sul totale della popolazione (un
dato che vale anche per quelli con esito mortale). Pastore prende
infine in esame un terzo preconcetto che attraversa tutti quelli sin qui presi
in esame, sintetizzato da una frase all’apparenza sin troppo generica, ma non
per questo meno impattante: gli stranieri sono troppo diversi da noi, hanno
altri modi di vivere. Entrano in gioco in questa affermazione molti
aspetti di vario genere (che ovviamente
richiederebbero specifici approfondimenti): da quelli di maggiore rilevanza,
come quello religioso, ad altri più ordinari come l’alimentazione e
l’abbigliamento, uno però meglio di altri la giustifica ed al tempo stesso ne smaschera
l’ipocrisia: il rapporto di genere tra uomo e donna. Inizialmente, i flussi
immigratori sono stati differenziati, a seconda del paese di provenienza e
della tipologia di utilizzo lavorativo o erano prevalentemente maschi o al
contrario solo femmine, la situazione si è poi progressivamente normalizzata
soprattutto grazie ai ricongiungimenti familiari creando così un contesto in
cui le differenti concezioni dei rapporti di genere, soprattutto islamiche, si
sono rivelate più evidenti tanto da divenire occasione di strumentale utilizzo
da parte del vasto fronte anti-immigrazioni. Nel 2017 la sociologa Sara Farris
ha coniato un vocabolo “femonazionalismo” per indicare il
richiamo di argomenti femministi in chiave nazionalista e xenofoba, in nome
della difesa dei valori occidentali di libertà ed uguaglianza, come a dire che pratiche illiberali verso gli
stranieri sono giustificate perchè finalizzate alla difesa del liberalismo
europeo. Se sono innegabili differenze e se sono legittime critiche verso
concezioni che sono effettivamente distanti da quelle consolidate della cultura
occidentale sarebbe però doveroso riconoscere che non mancano comunque, anche nel
retaggio culturale e nei concreti modi di vivere italiani, discriminazioni
verso le donne (ed in generale
verso le diversità di orientamento sessuale), ma soprattutto che (lo attestano diverse indagini sociologiche sul tema) su tempi
ragionevoli si innescano confortanti cambiamenti progressivi soprattutto là
dove si realizza un equo inserimento. Anche in questo caso quindi
molte delle problematiche sono una conseguenza della mancata corretta gestione
della migramorfosi, appare
inoltre evidente che marcare ossessivamente, e strumentalmente, le differenze
spesso ottiene solamente l’effetto contrario di una chiusura identitaria
conservativa. L’insieme delle considerazioni fin qui sviluppate da Pastore trova
il suo logico compimento nella disamina del concetto/valore di “integrazione”,
vale a dire la finalità corretta che avrebbe dovuto ispirare l’intera migramorfosi
Il
concetto di integrazione è comunque da sempre oggetto di discussioni e
controversie. Nato nel campo delle scienze sociali nella seconda metà
dell’Ottocento, con riferimento ampio all’inclusione di strati sociali ai
margini della società, è stato fin da subito inteso e declinato in modi
diversi, fra gli altri: per Max Weber (1864/1920, sociologo e filosofo tedesco)
è un valore generale da affidare alla burocrazia statale, per Emile Durkheim
(1858/1917, sociologo e filosofo francese) è una forma di solidarietà da
praticare in modo diffuso nel mondo del lavoro, per Talcott Parson (1902/1979,
sociologo statunitense) è una finalità da affidare all’associazionismo, per
Humphrey Marshall (1893/1981, sociologo statunitense) è una conseguenza della
realizzazione dei diritti di cittadinanza
Facilmente
confondibile e sostituibile con concetti solo in apparenza simili quali:
inclusione, incorporazione, convivenza, parificazione, resta comunque un concetto che richiede
di essere sempre precisato. Parlano di integrazione anche a destra,
ma per limitarla ai soli soggetti nativi, ai cittadini della nazione, ma neanche
tanto paradossalmente è criticato da sinistra quando inteso come un eccesso di
obbligo per gli immigrati di adattamento ed accettazione dei valori e dei modi
di vivere della società che dovrebbe integrarli. Il rischio, evidente, è sempre
quello di una discussione sterile perché giocata su un piano ideologico, per
Pastore la via di uscita è allora quella di tradurlo in un concetto sintetico
che definisca, nella concreta estensione e applicazione di diritti, un livello
minimo di convergenza su
condizioni di vita materiali e di promozione di spazi istituzionalizzati di
dialogo costante tra le diverse culture. Si tratta cioè di fissare dei parametri
precisi che lo riferiscano e lo delimitino ad un livello civilmente tollerabile
di disuguaglianza tra componenti
della stessa comunità diversi per provenienza geografica, per stili di vita,
per profili culturali. La migramorfosi non
potrà mai essere adeguatamente compresa e gestita senza questa idea minima di
integrazione, proprio ciò che non è per nulla avvenuto lungo tutto il suo primo
trentennio di esistenza. Ritornando alla concreta situazione italiana alcuni
segnali incoraggianti in tal senso non erano mancati: la Legge 40 del 1998,
nota come “Legge Turco-Napolitano”, aveva istituito, all’insegna del “conoscere per
deliberare” (espressione coniata
da Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica 1948/1955) una apposita
Commissione per le politiche di integrazione. Modellata su esempi stranieri (Francia e Germania) aveva composizione mista (con funzionari ed esperti esterni) con lo scopo di
fornire indicazioni al Governo in carica sulla base di attente e approfondite
analisi del problema. Tre anni dopo il Centrodestra rivince le elezioni (non a caso anche grazie alla strumentale campagna
contro l’immigrazione straniera) e l’anno successivo emana la famosa “Legge Bossi-Fini”
che ancora regolamenta la materia. Ovviamente quella Commissione (per quanto mai formalmente soppressa) ha smesso di lavorare
e nessun governo successivo (compresi quelli di
centrosinistra e tecnici) l’ha mai rilanciata. Non stupisce quindi che negli
ultimi due decenni (complice anche la crisi
globale del 2007/2008 che ha decisamente contratto il fabbisogno di nuova
immigrazione per esigenze produttive) i decreti di programmazione dei flussi, strumento chiave
di una politica migratoria non meramente difensiva, si sono limitati
a pigre fotocopie annuali di indirizzi approssimativi e minimalisti. Appare
evidente che, in mancanza di oggettivi e condivisi elementi di conoscenza e
valutazione, il dibattito fra pur legittime diverse ide in materia di
immigrazione rimane bloccato su sterili termini ideologici ed in contesto
simile, così com’è concretamente successo nel nostro paese, il concetto di integrazione
rischia di restare una affermazione priva di reali orizzonti. Un
importante banco di prova in questo senso è rappresentato dalla scuola, dalla
formazione dei futuri cittadini italiani, dal loro crescere insieme come
compagni di banco (molto in questa
direzione è già avvenuto ed il riconoscimento dello ius scholae, in attesa
della ridefinizione totale del concetto/valore di cittadinanza, rappresenta un
ovvio e doveroso compimento). Pastore affronta infine un aspetto della migramorfosi che si collega
strettamente alla nostra scelta di usarla come “Parola del mese”: molte
questioni possono trovare più facilmente soluzione quando si trovano le parole
giuste per definirle: in questo senso è, a suo avviso, tempo di dismettere
l’uso del termine “extracomunitario”. Non è più
giustificato dalla storia, la “comunità europea”, ossia l’ambito
politico-geografico che implicava i ruoli di comunitario ed extracomunitario,
non esiste più dal 2009 quando è stata assorbita dall’Unione Europea. Implica
una preventiva riduttività perché cancella le profonde differenze che esistono
tra immigrati di provenienze ed estrazioni diverse accumunandoli in senso
negativo “dal
non essere qualcosa”. Accentua l’estraneità cristallizzandola nella
mancata appartenenza ad una comunità umana. Dopo decenni di strumentale
utilizzo ha ormai acquisito un’automatica valenza negativa. Sintetizza infine preconcetti
stereotipati. E’ tempo di eliminarlo e sostituirlo con altro, spazio allora ad
una fantasia positiva che punti al finale riconoscimento dell’essere semplicemente
uomo e donna del mondo, per intanto il termine migrante, che pure trascina con
sè parte di queste negatività, quantomeno ci ricorda una realtà, quella di una
migrazione epocale frutto dei molti errori in gran misura commessi proprio
dall’Occidente, che a lungo non sarà possibile eludere.