Il “Saggio” del mese
NOVEMBRE 2024
………….
riprendiamo e, finalmente, concludiamo il lungo viaggio nella storia
dell’umanità proposto da David Graeber e David Wengrow nel loro saggio ………..
Parte terza –
Capitoli 11 e 12
Nella quale Graeber e Wengrow “chiudono il cerchio” e traggono le “conclusioni” di quanto illustrato nei dieci Capitoli precedenti. Questa nostra sintesi, per quanto concisa (e concentrata soprattutto a recuperare le parti più direttamente connesse al tema della disuguaglianza, filo conduttore del programma 2024/2025 di CircolarMente) ha richiesto lo spazio di ben tre post, ma non è stato proprio possibile fare diversamente a fronte della impressionante mole di dati emersi dalle più recenti ricerche e scoperte archeo-antropologiche ed etnografiche che, accompagnata da commenti, considerazioni, annotazioni a margine, è stata raccolta e messa in ordine dai due autori nell’arco di ben dieci anni di lavoro. Questa caratteristica fa sì che siano davvero molte le suggestioni e gli spunti di riflessione offerte da questo saggio (del quale consigliamo quindi vivamente la lettura integrale) che ha lo straordinario merito di saper inserire molti dei problemi del presente, a partire proprio da quello delle tante e pesanti disuguaglianze, in uno sguardo lungo che, partendo dall’ “alba di tutto”, aiuta a comprendere che nulla, proprio nulla, delle umane vicende è scritto e deciso una volta per tutte, che le nostre società ed i nostri modi di vivere per moltissimi versi sono lo sbocco sempre provvisorio del precedente lungo cammino sin qui fatto dall’umanità. Saperlo, averne contezza, può sicuramente essere di grande aiuto per capire e meglio attuare sue conferme o correzioni coerenti con i valori che si ritiene debbano ispirarle. E’ proprio questa l’indicazione più importante che fornisce questo monumentale lavoro: Graeber (da sempre in prima fila nei movimenti antisistema per la difesa dei diritti di tutti e purtroppo prematuramente scomparso) e Wengrow ci dicono, nel raccontare vicende umane solo all’apparenza lontane, che la cultura, la conoscenza, il confronto di idee, sono alla base dell’intero cammino dell’umanità, e proprio per questo devono essere condivise e diffuse per meglio poter indirizzare i passi futuri.
Nel nostro piccolo è proprio ciò che si propone CircolarMente
11 – Chiudiamo il
cerchio
Nel secondo Capitolo abbiamo fatto la
conoscenza dello statista-filosofo Kondiaronk, ambasciatore della nazione
di nativi americani Wendat (altrimenti detti Osage)
presso le corti europee del 1700. E si è visto come la sua presentazione in
tali sedi dei modi di vivere di quelli che alcuni definivano “selvaggi”
e altri “figli innocenti della natura” e le sue conseguenti critiche a
quelli europei abbiano profondamente influenzato la cultura filosofica e
politica del tempo, a partire dal nascente Illuminismo, aprendo così la strada
a nuove riflessioni, fin lì mai così approfondite, sui valori della libertà,
individuale e collettiva, e dell’uguaglianza. Ed è proprio in reazione a queste
critiche che in quegli stessi anni si è definita una versione (eurocentrica)
della storia dell’umanità basata sulla concezione di un suo sviluppo lineare mirato ad un
costante progresso dei modi di vivere, delle relazioni sociali e delle forme
del potere (che ha come suo naturale sbocco e
ideale culmine il moderno Stato ed il sistema capitalistico di mercato). All’interno
di questa visione due fenomeni storici, la Rivoluzione Agricola e la formazione
delle città, sono considerati due momenti epocali di positiva svolta per condizioni
materiali di esistenza e strutture sociali. Graeber e Wengrow, dopo
aver sottoposto tale idea a critica radicale (basandola sulle più
recenti evidenze fornite dalle ricerche archeo-antropologiche), chiudono il
cerchio esaminando con analogo
spirito critico l’intera concezione del progresso lineare delle forme di potere
con la sua articolazione in una sequenza di stadi successivi ognuno dei quali
rappresenta l’irreversibile superamento di quello precedente. Tale sequenza è così
sintetizzabile:
Ø società di bande = quella tipica della lunghissima epoca dei
cacciatori/raccoglitori (foraggiatori)
fatta di piccoli gruppi nomadi senza ruoli politici formali, con una divisione
minima del lavoro, con labili divisioni familiari, e quindi naturalmente ugualitaria
Ø tribù/clan = numericamente più folti delle bande e
spesso ormai stanziali in quanto legati alla prima fase di avvento
dell’agricoltura (in prevalenza orticoltura senza il
ricorso a opere di irrigazione e ad attrezzature pesanti come gli aratri) con
un primo accenno di mestieri e ruoli, ma ancora sostanzialmente ugualitaria,
quantomeno tra individui che si riconoscono uniti da allargati legami familiari
(i
clan, che fra di loro consociati formano le tribù) che
esprimono al loro interno capi con potere in prevalenza ancora formale.
Ø domini =
l’evoluzione più strutturata delle tribù nella quale i legami parentali
diventano la base per una gerarchia ormai definita. L’ormai affermata economia
a base agricola è in grado di produrre significative eccedenze anche grazie al
consolidamento della divisione del lavoro per mestieri. La principale funzione
dei capi diventa proprio quella della redistribuzione delle eccedenze che premia
con un di più (non di rado raccolto con la forza) la
loro parentela (aristocrazia), i
ruoli ritualistici ormai a tempo pieno (sciamani e sacerdoti) e
alcuni mestieri (artigiani e commercianti)
Ø regni ed imperi
antichi = l’agricoltura intensiva ed una organica organizzazione
del lavoro, producono consistenti eccedenze che sostengono una ramificata
struttura di potere, articolata in una strutturata amministrazione
professionale, con al suo vertice un capo carismatico, attorniato da un’
aristocrazia con forti legami familiari, che mantiene in capo a sé il monopolio
legale dell’uso della forza affidato ad una classe di guerrieri
Ø moderni Stati = la crescente
combinazione di scienza, tecnica e tecnologie, consente un intenso sviluppo
economico, mirato a logiche di profitto in un mercato totalizzante, che vede la
progressiva affermazione di nuovi ceti produttivi e sociali, su cui poggia la
nascita di una forma di potere basata sulla democratica rappresentanza politica
Si
è cioè di fronte ad una meta-narrazione,
ormai divenuta convinzione così radicata nel pensiero eurocentrico da
essere vissuta (non di rado inconsapevolmente) come
indiscussa evidenza storica capace di spiegare l’intero percorso di tutta
l’umanità. (Non a caso l’eventuale presenza di forme di potere
ancora non coincidenti con l’ideale stadio finale sono state viste come
provvisorie situazioni di un ritardo inevitabilmente destinato ad essere
colmato, magari con qualche “aiuto” esterno). Ma
davvero, riannodando le fila di quanto è già stato fin qui visto dall’alba di tutto per agricoltura e
città, anche l’evoluzione delle forme di potere era inevitabilmente destinata
ad assumere come suo culmine finale quella degli Stati odierni con la loro particolare combinazione
di sovranità territoriale, amministrazione statale fortemente organizzata,
politiche competitive con l’esterno, strutturazione sociale gerarchica e
disugualitaria,? Per rispondere a questa domanda Graeber e Wengrow riallargano
lo sguardo, uscendo da una visione troppo eurocentrica, a quanto sembra
emergere da evidenze che raccontano altre storie, altri percorsi, altri
protagonisti e che, come per l’avvento dell’agricoltura e la nascita delle
città, sembrano smentire tale inevitabilità. Chiamano innanzitutto in causa
alcune stimolanti considerazioni sviluppate da James Scott (1936/2024, antropologo e politologo
statunitense che, partendo dallo studio sul campo delle strategie di resistenza
alla varie forme di dominio portate avanti per millenni dai contadini del sud
est asiatico si è approfonditamente dedicato a studiare il ruolo degli Stati
nella storia dell’umanità). La ricostruzione storica ad ampio
raggio fatta da Scott mette in evidenza il ruolo (non a caso sottovalutato
dalla storiografia classica) dei cosiddetti “barbari”
(popolazioni
di ex foraggiatori, sospesi fra nomadismo e stanzialità, che per millenni hanno
occupato una parte consistente del pianeta attorno alle relativamente piccole
isole di governo dei primi regni, imperi, città Stato).
Il tratto di base che accomuna la vasta platea di queste popolazioni “barbare”
è consistita proprio nell’organizzato e consapevole rifiuto (espresso
anche con violente incursioni, razzie e momentanee invasioni) dell’altrui
tendenza alla costruzione di stabili organizzazioni statali (un
altro straordinario esempio di schismogenesi
culturale, nostra Parola del mese di Ottobre 2024 e più volte presente nella
Parte seconda di questo Saggio del mese). La
struttura gerarchica dei barbari era fortemente centrata attorno a figure carismatiche
(Alarico, Attila, Gengis Khan, Tamerlano sono soltanto quelli più famosi),
ma non è mai evoluta in forme consolidate e formalizzate e si è sempre accompagnata
con una sostanziale gestione ugualitaria. Allo stesso modo si sono sempre
rivelate provvisorie ed effimere le loro espansioni territoriali (ammoniti
in tal senso dall’adagio mongolo: “si può
conquistare un regno in groppa a un cavallo, ma per governarlo occorre poi
smontare”). Tutto ciò ha costituito, per molti secoli
ed in vaste parti del mondo, una anomala forma di potere (difficilmente
inseribile nella precedente sequenza) che è convissuta con altri
più canonici percorsi di strutturazione del potere, in un costante alternarsi di
fasi di rapporti relativamente pacifici ad altre di scontro aperto lungo un
arco temporale molto ampio (da 5.000 anni
fa, all’indomani della complessa transizione del neolitico, a circa 500 anni
fa).
Nel corso di questi millenni anche i più potenti regni ed imperi, come quello
Romano, quelli degli dinastie cinesi Han e Ming (duemila anni fa il
primo imperatore della dinastia Qin diede avvio alla costruzione della famosa Muraglia Cinese, completata poi nel periodo
Ming, proprio per fronteggiare le invasioni barbariche degli Unni) non sono mai
riusciti del tutto a incanalare sotto il loro controllo aree, anche molto vaste,
le cui popolazioni hanno pertanto sempre mantenuto una loro indiscussa autonomia.
Per dirla con un paradosso paradigmatico: ancora fino a cinquecento anni una elevata
percentuale della popolazione mondiale (alla
quale vanno aggiunte le parti del mondo in cui l’agricoltura non si è mai
completamente imposta come ad esempio l’Australia o l’intero Nord America come qui
di seguito si vedrà in dettaglio) è vissuta al di fuori di uno stabile
raggio d’azione degli esattori di tasse di turno o aveva comunque a
disposizione ampie possibilità di sfuggirgli. Questa situazione è stata
ormai definitivamente superata, ma ciò è avvenuto in tempi molto recenti e sulla
spinta di sconvolgimenti economici, sociali e culturali, che hanno una loro
specifica origine e spiegazione e che quindi difficilmente possono essere
considerati come la logica ed inevitabile evoluzione di un lineare ed
universale progresso storico dell’umanità. Anche in questo caso (non
diversamente da quanto visto in precedenza per i due “miti” della Rivoluzione Agricola e della nascita delle città)
sembra emergere una strumentale sottovalutazione, che non di rado sconfina in
una totale dimenticanza, di percorsi differenti, a segnare una preconcetta rigidità
nell’eurocentrica concezione del percorso evolutivo umano. La ragione di questa
evidente reticenza a confrontarsi con contrastanti valutazioni risiede, secondo
Graeber e Wengrow, proprio nella difficoltà che la cultura occidentale ha nel
concepire una storia dell’umanità che non sia teleologica, ossia che non abbia
come sbocco inevitabile gli attuali assetti. Rende ancor più
plausibile questa loro critica l’evidenza, che si aggiunge alla sottovalutazione
dei “barbari”, di un ulteriore limite dell’idea di sviluppo lineare:
avere
come orizzonte di riferimento una parte limitata del mondo, sostanzialmente
quella coincidente con l’Eurasia (Europa e Asia, con la parziale
aggiunta di parte dell’Africa), tralasciando così tutta
la vasta parte che, prima dell’epopea dei grandi viaggi transoceanici, non ha
mai avuto contatti diretti con essa. Si tratta di un pezzo quanto mai rilevante
di umanità che ha seguito autonome traiettorie storiche le quali possono quindi
rappresentare un utilissimo raffronto per valutare, comparandola, la reale
universalità delle concezioni storiche eurocentriche. Se già le vicende delle
popolazioni del Centro e Sud America non sembrano poter rientrare nella
sequenza in esame
quelle dei popoli del Nord America nondimeno raccontano un’altra storia
che merita di essere approfondita perché si è articolata lungo complessi
passaggi che non si prestano ad essere inseriti nella canonica sequenza a
salire: bande – clan/tribù – domini – Stati. Tutte le evidenze raccolte
indicano infatti che, nei secoli precedenti l’arrivo dei colonizzatori europei,
le loro
società hanno sostanzialmente oscillato fra la formazione in bande e
qualcosa che già possedeva alcune delle caratteristiche proprie di uno Stato (ossia
tra i due opposti estremi della presunta scala dell’evoluzione sociale).
Non
solo, il Nord America di Kondiaronk, con le sue manifeste diversità rispetto
all’Europa, si è rivelato essere il risultato culturale di una secolare complessa
evoluzione maturata sulla base di precisi assunti politici autocoscienti che confliggono
nettamente con l’ineluttabilità del progresso lineare delle forme di potere.
L’anomalo, secondo i canoni eurocentrici, sviluppo di questa evoluzione era già
intuibile nel consapevole rifiuto dei foraggiatori delle coste della California
di adottare l’agricoltura come fonte principale di alimentazione (con tutte le conseguenti
ricadute sulle loro forme di organizzazione sociale esaminate nel precedente
Capitolo 5)
piuttosto che nella straordinaria vicenda del mega-sito di Poverty Point (Capitolo 4), ma lo evidenziano soprattutto
le complesse vicende storiche avvenute nella parte nordorientale, in un arco
temporale che va da circa duemila anni fa al tempo di Kondiaronk.
Graeber e Wengrow dedicano
ampio spazio alla ricostruzione dettagliata di questi avvenimenti, ci limitiamo
qui, per ovvie ragioni, a evidenziarne il senso ultimo
Questo percorso evolutivo
si è sostanzialmente articolato in tre fasi:
Ø la prima, ancora immersa nella
lunga fase di uscita dallo stato di bande di foraggiatori puri, vede le
popolazioni nordamericane distribuite negli immensi spazi del continente in
piccoli gruppi organizzati nella classica forma di clan, stagionalmente
stanziali o nomadi, con alcune prime forme di “agricoltura pigra” (la stessa analizzata nel precedente Capitolo 6 per la Mezzaluna
fertile),
con forme gerarchiche molte elastiche a governare una convinta uguaglianza (queste caratteristiche
sono sintetizzate nella cultura denominata Hopewell che racchiude un vasto sistema di scambi di prodotti, di tecniche,
di pratiche cerimoniali, di importanti elementi culturali). Nonostante le
potenzialità, ambientali, culturali e sociali, di sviluppo questa prima fase (che si è protratta da
circa 8.000 anni fa a circa 1.500 anni fa) non ha conosciuto cambiamenti significativi
a segnare una stabilità volutamente realizzata che, aspetto centrale, non ha
mai conosciuto conflitti armati di una certa rilevanza
Ø la seconda, che si manifesta per
alcuni secoli a partire da circa 1.500 anni fa, è al contrario caratterizzata
da profonde mutazioni: l’agricoltura si estende e si specializza (la coltivazione di mais
diventa prevalente),
si accentua la stanzialità, la crescente produzione di eccedenze, dovuta anche
a forme di lavoro più efficienti, consente il formarsi di gerarchie più
definite, si innescano processi di urbanizzazione, e sorgono motivi di
contrasto fra i diversi clan che portano anche a forti conflitti armati. L’insieme
di questi elementi determina una rapida evoluzione gerarchica con il potere
concentrato nelle mani di una violenta élite guerriera in cui si manifestano
molti dei tratti di uno strutturato e dispotico centro di potere. Esattamente
ciò che indicano i reperti di una città, Cahokia (collocabile nell’attuale
Ohio e arrivata a contare più di diecimila abitanti) capitale di quello che
per molti aspetti è definibile un classico “Stato cerealicolo” posto al centro di una costellazione di centri minori con
analoghe caratteristiche. Il collante di questa forma di potere è rappresentato
proprio dall’esercizio della forza sia verso l’esterno, per allargare e
difendere il potere territoriale, sia verso l’interno per mantenere salda la gerarchia
sociale.
Ø la terza = l’epopea di Cahokia è
molto breve, solo tre secoli dopo la sua nascita, circa 1.200 anni fa, declina
molto rapidamente fino ad essere in brevissimo tempo totalmente distrutta
coinvolgendo nella sua scomparsa tutti i centri ad essa collegati. Una
distruzione che non trova spiegazione in conflitti armati, ma solo in violenti
sommovimenti interni che con la città hanno azzerato le sue gerarchie, la sua
economia e la sua struttura sociale. I suoi abitanti, liberatasi dal giogo nobiliare, riprendono le forme
tradizionali di sussistenza, si ri-disperdono nei vasti spazi americani e, memori di questa
sconvolgente parentesi, elaborano una cultura sociale e politica libertaria (basata sulle tre
fondamentali libertà di spostamento, di disubbidienza, di scelta delle forme
del potere) e ugualitaria
E’ la cultura di
Kondiaronk, che nelle sue conferenze in Europa poteva quindi parlare di
elezione dei capi, di condivisione allargata dei saperi, di legami sociali
decisi da tutte e tutti. Si chiude qui il cerchio, il caso del Nord America pare proprio scompaginare gli schemi
evoluzionistici convenzionali per dimostrare quindi che c’è via di uscita dalla
trappola dello Stato e che sono esistiti percorsi diversi dalla via a senso unico del progresso lineare.
12 – Conclusioni
Questo saggio ha preso
avvio dalla considerazione che indagare in termini astratti l’origine della
disuguaglianza rischia di trasformarsi nel mito di un preciso e specifico
momento di rottura nella storia dell’umanità. Dall’insieme delle considerazioni
fin qui svolte sembra invece evidente che altro non sia stata che una, fra le
tante, delle possibili conseguenze del percorso evolutivo dell’umanità determinata
da alcune scelte autocoscienti sui modi di strutturare le relazioni sociali, e che quindi può essere meglio
compresa se si allarga lo sguardo a tutti gli aspetti che hanno concorso a
formare questo percorso evolutivo, valutandoli nel loro concreto divenire senza
preconcette chiavi di lettura. La disuguaglianza non è cioè una sorta di
tratto distintivo dell’umanità, ma allora come oggi la conseguenza di specifici
modi di concepire le relazioni sociali. Nel Capitolo 1 si è visto come una riflessione
su di essa sia iniziata in Europa (nel periodo a cavallo tra 1600 e 1700 in concomitanza con le
prime avvisaglie di profondi sconvolgimenti economici e sociali) anche grazie alla scoperta ed al confronto
con le culture indigene, fin lì mai nemmeno immaginate, reso possibile dall’espansione
coloniale europea, che hanno influenzato, a sinistra, il nascente Illuminismo e, a destra, le correnti di pensiero
più tradizionaliste, le vere creatrici
della teoria sociale moderna e della concezione della storia come processo
lineare a crescere
Graeber e Wengrow
tornano ad evidenziare come questo ingiustificato preconcetto culturale, dopo
aver attraversato l’intera storia del moderno pensiero occidentale, continui ad
emergere anche nelle sue attuali manifestazioni. Non ne è indenne la stessa
antropologia che ancora per buona parte del Novecento ha studiato le società
primitive in termini astorici, come immobili nel tempo, impedendo ogni
ricostruzione evolutiva. Non a caso
Mircea Eliade (1907/1986, antropologo e storico delle religioni, rumeno)
sosteneva che per le società tradizionali tutti gli eventi importanti erano già
accaduti, tanto da essere eternamente vissuti come mitici archetipi.
Questa sorta di
presunzione trova una sua ulteriore spiegazione nel considerare la tecnologia, indiscutibile dote del progresso occidentale, metro per misurare l’intera evoluzione umana (da qui quindi la suddivisione del passato dell’umanità in base al
materiale primario usato per ricavare utensili ed armi in età della pietra, del
rame, del bronzo, del ferro). Non è meno riduttiva la parallela concezione che l’evoluzione
umana sia proceduta per balzi (ossia svolte
rivoluzionarie come quelle agricola, urbana, prima seconda e terza industriale), che hanno sancito la
definitiva fine di un’era e l’avvio di una completamente nuova, colpevolmente dimenticando
che solo nell’età moderna una parte delle innovazioni, quelle frutto di
individuali colpi di genio, hanno impresso autentiche accelerazioni, mentre da sempre
esse sono state l’esito di un corpus collettivo di conoscenze accumulate nei secoli (si pensi ad esempio al
peso della quotidiana osservazione femminile per la cosiddetta rivoluzione
agricola. I “Giardini di Adone” del Capitolo 6). La scelta di descrivere la
storia come una successione di brusche rivoluzioni tecnologiche equivale cioè alla
negazione del ruolo di coscienti scelte collettive che, maturate su tempi
lunghi, hanno
deciso, sulla base di condivise filosofie di vita, quali innovazioni fossero
davvero adatte. E ciò è valso non solo per la creatività tecnologica ma, ancora di più,
per quella sociale (così come emerge, ad esempio, dalla
ricostruzione dell’avvento della proprietà privata esaminata nel Capitolo 4,
piuttosto che per le sconvolgenti scelte dei nativi americani viste nel
precedente Capitolo 11). Il concetto/valore di libertà, prima
ancora di quello dell’uguaglianza, è quello che più si presta per misurare
questa differenza di approccio: mentre nella moderna cultura europea si è
rivoluzionariamente imposto come ideale astratto o principio formale (libertà, uguaglianza, fratellanza), in
altre culture molto più concretamente ha sempre indicato tre precise
prerogative: la libertà di spostarsi, la libertà di disubbidire, la libera scelta di
come organizzare la società (vedi Capitolo 2),
con le prime due viste come indispensabile impalcatura per attuare anche la
terza. Graeber e Wengrow hanno conseguentemente tentato di costruire una storia
alternativa dell’evoluzione umana proprio cercando di capire come e perché queste tre
fondamentali libertà siano venute meno a poco a poco fino ad essere
definitivamente inglobate nella loro declinazione occidentale. Pur
riconoscendo che allo stato attuale delle ricerche siano ancora tante le
domande che non trovano adeguate risposte, alcune significative congetture hanno
trovato importanti riscontri, quella che in antropologia trova i maggiori
consensi pone l’accento sulla graduale divisione delle varie società umane in
differenti aree culturali e sulla loro contrapposizione per schismogenesi tali
da far divenire universalmente centrale il concetto/valore di “identità comunitaria”.
E’ infatti attestata la notevole moltiplicazione di aree culturali, lungo tutti i primi
millenni dell’era post glaciale (paleolitico superiore e neolitico) così
come è certo che alcune di esse abbiano espresso, proprio per schismogenesi, nette
e violente contrapposizioni, non di rado sfociate in vere e proprie guerre, e
che proprio in questi passaggi traumatici siano rintracciabili parallele forme di
evoluzione gerarchica. L’idea stessa di guerra .......
sulla cui origine ed
evoluzione nelle vicende umane il dibattito è ancora molto aperto, in
particolare sul suo poter essere una tendenza innata nella psiche umana, le
ricerche comunque evidenziano, a testimoniare la concreta possibilità di
diverse soluzioni per i contrasti, l’esistenza, lungo tutti questi stessi
periodi, di altre modalità quali le sfide in particolari forme di gioco
piuttosto che duelli fra singoli guerrieri. Quello che di certo emerge dagli
studi archeologici e antropologici è che sempre e ovunque i periodi di guerra
si sono alternati con altri di pace, molto più lunghi spesso di vari secoli
...... parrebbe
quindi aver costituito, per essere efficacemente combattuta, un motivo per
una più definita strutturazione gerarchica. Ciò porterebbe quindi a ritenere
che, ben più dell’agricoltura e della nascita delle città, le
differenze culturali, il loro antagonismo esasperato, la violenza innescata non
altrimenti gestita se non con la guerra (aspetti che si sono
manifestati ben prima della nascita di regni ed imperi),
siano state la causa della rinuncia, più o meno consapevolmente attuata, delle
tre libertà fondamentali. Si tratta di una visione, alternativa a quella
mainstream, verso la quale non mancano obiezioni e perplessità, la più ostinata
delle quali ha a che vedere (tema per più aspetti sempre sollevato)
con le dimensioni delle società primordiali. Da più parti si sottolinea infatti
che la nascita e l’evoluzione delle strutture della dominazione siano un
passaggio obbligato allorquando le popolazioni, inurbate e non, abbiano
raggiunto ordini di grandezza tali da renderle pressoché inevitabili: che esista cioè
una corrispondenza tra il delinearsi di gerarchie e la crescita della
complessità delle relazioni sociali (non a caso infatti la
stessa parola complessità viene intesa come sinonimo di gerarchia, che a sua
volta viene intesa come eufemismo per le
catene di comando “statali”). In altre parole è come se
il fatto di vivere in una società numerosa implicasse la volontaria rinuncia
alla libertà di disubbidire per sostituirla con meccanismi che puniscono coloro
che non obbediscono. Anche in questo caso però ci troviamo di fronte ad una
convinzione che si è autoalimentata, fino ad imporsi come certezza, ma che, allargando lo sguardo ad altri contesti, non
trova riscontro nel mondo naturale (nel quale non mancano esempi di
sistemi complessi che non sono organizzati in modo verticistico),
nelle stesse propensioni psicologiche umane (la rinuncia a spazi di
libertà individuale non è mai scelta facile), ma soprattutto nelle
concrete vicende storico sociali fin qui esaminate. Le quali infatti attestano che le
stesse città sono spesso state esperimenti sociali su vasta scala, privi di
gerarchie amministrative e autoritarie, e parallelamente che la formazione di
regni, di aristocrazie guerriere o di altre forme di stratificazione sociale,
si è già manifestata in comunità di dimensioni ridotte (ad
esempio nelle “società eroiche” degli altopiani mesopotamici viste nei Capitoli
6 e 7). Ben più della complessità in quanto tale, un fattore
determinante nell’innescarsi di strutturazioni gerarchiche sembra piuttosto
essere consistito nella perdita, ovvero nella rinuncia, della prima fondamentale libertà,
quella di spostarsi che può aver implicato anche la perdita/rinuncia
della seconda, quella di disubbidire, condizionando
così pure la terza, ossia la libera scelta dell’organizzazione della
società. Graeber e Wengrow evidenziano infine un ulteriore aspetto che avvalora
le perplessità sulla concatenazione certa fra complessità e gerarchia: troppo
spesso le evidenze storiche che raccontano tutt’altri processi sono così
sottostimate e trascurate da non aver neppure meritato una appropriata
denominazione, non esiste ad esempio nella letteratura sociale un
termine per definire le “città senza strutture di governo verticistiche”.
Si è cioè ancora una volta di fronte ad un preconcetto culturale, con evidenti
venature ideologiche, che impedisce di accettare e valorizzare reali processi
storici alternativi. In un simile contesto analitico gli stessi termini “uguaglianza”
e “disuguaglianza”,
piuttosto che “città e società ugualitarie e disugualitarie”, rischiano di essere
denominazioni vuote, incapaci, da sole, di raccontare le tante articolazioni di
ciò che è concretamente successo nei cinquemila e più anni presi in esame.
Anche perché, altro aspetto troppo sottovalutato dalle narrazioni mainstream,
tutte le vicende storiche sono soggette alla concezione greca del tempo sintetizzata
nel termine “kairos”, ossia il “momento giusto e opportuno”. E’ solo quando
kairos entra in scena che processi di lungo periodo prendono una certa
direzione, e ciò non perché siano intervenute improvvise ed impreviste svolte storiche,
ma piuttosto perché si è giunti al culmine di una lunga maturazione e
sedimentazione di idee e valori. Tutto quanto raccolto e presentato in questo
saggio ha quindi soprattutto l’ambizione di innescare riflessioni sulla
possibilità che le cose non siano sempre andate per come sono state sin qui
raccontate, e cioè che non sono così certe le idee di un progresso
lineare della storia, che la civiltà e la complessità siano inevitabilmente
emerse a spese delle libertà umane, che la democrazia partecipativa possa
esistere solo in piccole comunità ma non in una città o uno Stato, che uguaglianza
e disuguaglianza siano magicamente comparse a causa del verificarsi di
determinati eventi e che non siano al contrario il risultato di vicende ben più
complesse che potevano prendere, come in molti casi è davvero avvenuto,
tutt’altra direzione.
Nessun commento:
Posta un commento