Il “Saggio” del mese
GENNAIO
2025
Sono diverse le
ragioni che ci hanno indotto a sceglierlo come Saggio del mese, innanzitutto
l’argomento trattato che bene si inserisce nei filoni di approfondimento che da
tempo seguiamo in questo nostro blog, ma un qualche peso l’hanno avuto
l’autore, che in breve tempo si è guadagnato una discreta fama come
intellettuale di punta, e l’interesse che questo testo sta conoscendo
globalmente fra addetti ai lavori ed anche nel grande pubblico
Sembra infatti, stante il notevole successo di vendita, che si stia replicando un nuovo caso editoriale simile a quello a suo tempo avuto da “Il capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty (economista francese di fama mondiale proprio grazie a questo testo uscito nel 2014 e sintetizzato in più “pillole” in questo nostro blog nel corso dei primi mesi del 2015) commercialmente rafforzato da una copertina ed un titolo pressochè simili. Non meno al centro dell’attenzione intellettuale e mediatica è da tempo, nonostante la giovanissima età, anche il suo autore
Saitò Kòhei (1987,
filosofo giapponese, professore associato presso l’Università di Tokio. Ancora
giovanissimo si è rapidamente guadagnato fama internazionale grazie ad alcuni
saggi di chiara ispirazione marxista in cui affronta temi economico/politici
alla base delle attuali disuguaglianze e del degrado ambientale. Nel 2018, a
soli trentun anni, è stato insignito del Deutscher Memorial Prize che premia le
migliori ricerche sul pensiero marxista e, non a caso, fa parte del gruppo di
curatori della riedizione completa delle opere di Marx)
La sua attenzione
verso l’analisi marxista guarda in particolare alle riflessioni dell’ultimo
Marx che, appena prima della sua scomparsa, stava completando l’analisi del “Capitale” con alcune considerazioni,
innovative rispetto al tradizionale canone marxista, sui limiti ambientali
della crescita esponenziale della produzione capitalistica e su quello che
definiva il “rapporto metabolico tra uomo e natura”.
Saitò Kohei (che a questo aspetto aveva già
dedicato un precedente saggio “La nature contre le Capital”, non stampato in
italiano, che si inseriva in un ampio filone di ricerche marxiste raggruppato
sotto il nome di “Materialismo
ecologico” nostra Parola del mese di Agosto 2022) riprende
questa riflessione collegandola ad una disanima dell’attuale emergenza
ambientale e climatica e degli evidenti limiti delle soluzioni finora messe in
campo.
Sulla base di queste
premesse non stupisce che Saitò Kòhei giunga ad individuare una possibile via
d’uscita in quello che definisce “comunismo della decrescita”.
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Capitolo 1 = Cambiamento climatico e modello di vita imperiale
Il
saggio prende avvio con una critica senza appello alle teorie economiche che, per
quanto mosse da sincere sensibilità ecologiche
(citando come caso
esemplare William Nordhaus economista statunitense, premio Nobel per l’economia
2018, uno dei padri dell’economia ambientale e famoso per la sua proposta di
una “carbon tax”,) non
offrono una visione autenticamente
alternativa mantenendo al loro centro il valore della crescita economica (è anche per questa ragione, oltre che
per la criminale sottovalutazione del problema da parte di governi e politica, che
a distanza di dieci anni gli obiettivi della Cop 21 di Parigi 2015, in cui le
idee di Nordhause furono molto influenti, sono stati globalmente tutti
disattesi).
Saitò
Kòhei è convinto che non sia più rinviabile un autentico “cambio di direzione”, una radicale messa in
discussione delle logiche del sistema capitalistico, le vere
responsabili dell’attuale stato di cose. La “grande accelerazione” (termine usato per definire l’impressionante
crescita dell’impatto umano sull’ambiente avvenuta a partire dalla metà del
secolo scorso) ha inciso positivamente (come
testimoniano le economie emergenti, Brics
in primis) sulla storica divaricazione tra Nord e Sud del mondo, ma
al tempo stesso ha imposto nell’intero
pianeta, sulla spinta dell’ideologia neoliberista, l’idea di crescita
esponenziale finalizzata al profitto, dando così compiuta forma globale a
quello che può davvero essere definito il capitalismo dell’Antropocene (l’attuale
fase geologica in cui le attività umane sono divenute la causa principale delle
dinamiche di trasformazione della Terra. Nostra
Parola del mese di Ottobre 2021).
Quella
che ormai appare la definitiva vittoria del mito capitalistico della crescita,
giunge al culmine di un processo secolare che ha visto il “Nord del mondo” sistematicamente depredare
il “Sud del
mondo”, imponendo quello che è stato definito un “modello di vita
imperiale”. Immanuel Wallerstein (1930/2019, economista e
sociologo statunitense) è stato uno dei più acuti osservatori
di questa relazione imperialista da lui sintetizzata nel concetto di “sistema mondo”,
intendendo con ciò un’unica sfera capitalistica con un “centro” (l’Occidente) e
una “periferia”
(il resto del mondo)
il cui rapporto è stato a lungo sbilanciato a favore del primo con uno “scambio ineguale”,
basato sullo sfruttamento della forza lavoro locale, sulla rapinosa sottrazione
di risorse, nonché sulla “esternalizzazione” di gran parte
dell’impatto ambientale.
L’Antropocene,
con gli effetti devastanti del cambiamento climatico ed ambientale che lo
caratterizzano, sta però rappresentando il culmine di questo processo, con
centro e periferia ormai unificati nella sua oggettiva insostenibilità, e sta
così imponendo l’urgente necessità di una vera svolta (magnificamente sintetizzata dal
celebre aforisma di Kenneth Boulding “chi crede ad una
crescita esponenziale infinita in un mondo dalle risorse finite o è un pazzo o
è un economista, o meglio ancora è tutte due”). Uno
sguardo obiettivo sull’attuale stato dell’economia capitalistica globale
evidenzia infatti quanto si siano ormai ristretti i margini fisici reali per continuare
a garantire i ritmi di crescita fin qui avvenuti nel sistema mondo (non per nulla negli ultimi decenni il
traino dello sviluppo economico è stato in gran misura assunto dall’economia immateriale e dei servizi).
In
questo nuovo quadro globale si è inoltre confermata la previsione di Marx
dell’insostenibilità sul lungo periodo della tendenza capitalistica (al tempo del solo Occidente) di
dirottare altrove le sue contraddizioni con specifici processi di traslazione
(il meccanismo di
trasferire altrove problemi e contraddizioni). A lungo hanno
svolto questo compito la traslazione tecnologica, l’idea di
superare i limiti fisici della produzione attraverso lo sviluppo tecnologico (esemplare in questo senso è la
capacità di resa dei suoli agricoli compromessa dall’iper-sfruttamento chimico,
non diversamente l’automazione spinta della produzione non può certo
“creare” nuove risorse fisiche, salvo
andare a prelevarle su pianeti esterni come in effetti qualcuno sta pensando di
fare),
la traslazione
spaziale, l’accentuazione esasperata del saccheggio delle varie
periferie del sistema mondo che ha fisiologici limiti invalicabili, la traslazione
temporale, la cinica follia di scaricare i problemi sulle
generazioni future all’insegna del “dopo di noi il diluvio” (espressione ironica testualmente usata
da Marx).
Tutte
queste traslazioni non possono più funzionare con la scomparsa della periferia
di un sistema mondo che, con la globalizzazione, condivide le stesse identiche
contraddizioni. Nell’era del “Capitale nell’Antropocene” è ormai tempo
di capire se ciò che sta vacillando, oltre la sua legittimità, non sia la
stessa intrinseca sostenibilità del sistema capitalistico. Anche perché, come
si vedrà nel prossimo Capitolo, piccoli aggiustamenti e miglioramenti graduali,
su cui poggiano molte speranze, non sembrano essere una soluzione adeguata.
Capitolo 2 = I limiti del modello keynesiano applicato al clima.
La proposta di cambiamento che sta raccogliendo le
maggiori attenzioni è quella del “Green New Deal” (un piano di importanti riforme
economiche e sociali accompagnate da massicci investimenti, inizialmente
proposto con visione globale nel 2007 dall’Unep, programma ambiente ONU, progressivamente
adottato, con passaggi graduali, negli USA nel 2012 e nel 2019 dalla UE).
La stessa scelta del nome indica chiaramente l’ambizione di replicare il mitico
New Deal (nuovo
corso/nuovo patto, adottato dal Presidente USA Roosevelt nel periodo 1933/1943
per sostenere l’economia americana dopo la Grande Depressione del 2029 e
costruito sulla base delle indicazioni dell’economista inglese Maynard Keynes) colorandolo
di Green
perché finalizzato a realizzare una transizione ecologica dell’economia.
Il Green New Deal, che ha inglobato gli indirizzi
specifici in materia di compatibilità ambientale proclamati dall’ONU definiti SDGs (Sustainable Development Goals, obiettivi di sviluppo sostenibile),
rappresenta di fatto l’ultimo baluardo a difesa della consueta conduzione del capitalismo (ancorchè non esente
da critiche e opposizioni di molti settori economici e politici perché giudicato
troppo stringente ed accelerato) proponendo una crescita sostenibile spinta dall’interazione tra innovazione tecnologica, investimenti in infrastrutture
sostenibili e aumentata efficienza nell’uso di tutte le risorse, quelle
energetiche in primis. L’intento appare encomiabile, ma la domanda di fondo
resta la stessa: il concetto di crescita (esponenziale), per quanto rimodulato in versione “green” è conciliabile con la finitezza
delle risorse e con la tenuta dell’intero sistema ambiente?
Rockstrom Johan (1965,
svedese, ecologo e ricercatore nel campo delle scienze della Terra) ha coniato
il principio dei “planetary boundaries” (limiti
planetari) ossia soglie, scientificamente determinate, che non dovrebbero
essere superate dalle attività umane perché oltre esse l’ambiente non è più in
grado di autoregolarsi. Da qui discendono i “tipping
points” (punti di criticità) nostra Parola del mese di Marzo 2021
Per
capirlo è utile valutare un concetto alla base del Green New Deal, quello del “decoupling (sdoppiamento) relativo e assoluto”, che indica la finalità di incidere sulla relazione attività umane/impatti ambientali separando (con
apposite nuove tecnologie) le loro rispettive evoluzioni per far
sì che la
curva della crescita continui a salire facendo al contempo tendere al basso quella
degli impatti. Il decoupling relativo si limita a realizzare, per ogni
specifica attività, un
tasso di crescita degli impatti comunque più basso di quello della crescita,
quello assoluto mira invece ad azzerarlo, lasciando così campo libero alla
crescita.
Ambedue richiedono ingenti risorse che il
Green New Deal si propone di coprire con mirati investimenti pubblici e
indirizzando/normando quelli privati. Non mancano problemi (a partire dalle tempistiche, ad esempio fermare il
riscaldamento globale a 1,5°C appare ormai obiettivo impossibile) e
dubbi (il decoupling assoluto appare
di difficile realizzazione considerato che ogni singola attività sempre ne trascina
con sé altre correlate, creando così un complesso quadro su cui agire), il
più importante resta comunque quello di capire se la logica della crescita possa davvero conciliarsi
con i vincoli del decoupling (Saitò Kòhei usa il termine di “trappola della produttività”). Alcuni
aspetti di merito aiutano a meglio capire:
il decoupling va valutato su scala globale: al momento quello relativo ai
consumi energetici, rapportato al PIL, vede un certo miglioramento nei paesi
OCSE, mentre nelle economie emergenti il saldo resta fortemente negativo. Lo
stesso vale per le emissioni di CO2 per le quali ancora negli ultimi
anni il decoupling relativo non è di fatto esistito e quello assoluto,
ipotizzato per il 2050, appare sempre più inverosimile;
il decoupling relativo delle emissioni di CO2 dei paesi OCSE (per quanto migliorato come dato netto) non appare così
positivo se si
valuta la sua impronta complessiva di carbonio, ossia considerando anche tutte le
attività (di reperimento/estrazione
materie prime, trasporto e smaltimento) che lo compongono, ma che avvengono in altre parti del
mondo;
una considerazione che vale anche per le auto elettriche, una delle attività simbolo della
possibilità di raggiungere un decoupling assoluto.
l’economia capitalistica fin dalla
rivoluzione industriale è fisiologicamente connessa allo sfruttamento intensivo dei combustibili fossili la cui offerta (ancora molto concorrenziale sul piano
dei costi) resta tuttora notevolmente attrattiva (e
spesso incentivata da mirate politiche)
fattore negativo che vale anche per il consumo complessivo delle altre
risorse (aspetto sottovalutato rispetto a
quello dei combustibili fossili):
l’indice di consumo delle risorse naturali (Mf) rapportato al PIL globale indica un ricarico costante di recoupling, l’esatto opposto del decoupling (nel 1970 il consumo complessivo di
risorse era pari a 26,7 miliardi di tonnellate, nel 2017 è arrivato a superare
i 100 miliardi, nel 2050 è previsto a 180 miliardi);
a fronte di queste evidenti
problematiche sono previste in soccorso (dallo
stesso IPCC, l’organo dell’ONU che monitora il cambiamento climatico) tecniche di “cattura della CO2”
(CCS Carbon Capture
Storage) per
immagazzinarla sotto terra o nei mari. Il dibattito attorno alla loro fattibilità,
validità, sostenibilità ed efficacia è quanto mai acceso, al momento comunque
non hanno una incidenza adeguata alle dimensioni del problema;
allo stesso modo non sembra avere
un’incidenza consistente la stesso processo di presunta “dematerializzazione
dell’economia” (il mondo vario dei servizi e della
Rete). Al suo
crescente valore economico non corrisponde
infatti una collegata effettiva contrazione degli impatti ambientali (è
spaventosamente alto il consumo energetico e di risorse fisiche per computer e
server ed è grave l’impatto ecologico di turismo e attività di svago).
Sembra quindi lecito il dubbio che Green
New Deal e decoupling,, se resta ferma la centralità della
crescita economica (se
l’economia mondiale mantenesse il tasso di crescita del 3% annuale, quello giudicato
ottimale, in 25 anni il PIL mondiale raddoppierebbe), possano essere una soluzione realmente adeguata neppure per raggiungere,
nelle tempistiche previste, gli obiettivi della COP21 di Parigi. E
sullo sfondo restano protagoniste le logiche che li ispirano
Capitolo 3 = La scommessa della decrescita nel sistema capitalistico
Le maggiori
perplessità sulla capacità del Green New Deal e del decoupling di incidere efficacemente
sull’emergenza climatica e ambientale non sono infatti di ordine “tecnico” ma
derivano dalla constatazione che la crescita economica, che resta la loro vera
ispiratrice, è in quanto tale alternativa ad una reale inversione di tendenza. La domanda
cruciale che l’umanità deve porsi è chiara: stanti i limiti ecologici imposti
dal pianeta Terra fino a che livello di sviluppo economico è possibile ottenere
una giusta prosperità per tutto il genere umano?
In
un mondo in cui miliardi di persone, giustamente, premono per uscire da
condizioni di arretratezza e altri miliardi non sono, per certi versi comprensibilmente,
così disponibili a rinunciare al loro benessere, la risposta non può, oggettivamente,
rimanere quella di continuare a perseguire un modello di sviluppo centrato
sulla crescita economica. I limiti del pianeta, semplicemente, non lo consentono. La
conclusione logica di questa concatenazione porta a ritenere urgente l’idea
alternativa di una “economia a carattere costante”, ossia una consapevole
“decrescita
economica” ispirata da vera equità sociale.
Saitò
Kohei, introduce una sorta di schema in cui estremizza quattro possibili
soluzioni che coniugano l’andamento delle disuguaglianze con quello delle forme
di potere: Fascismo climatico = nessun cambiamento, crescita spinta, anche i danni
climatici e ambientali sono occasioni per affari e profitti, potere che
protegge i ricchi, grande disuguaglianza e moltissimi profughi ambientali – Stato selvaggio =
la fase culmine del fascismo climatico, scontro tra l’1% dei ricchi e il 99%
degli altri, situazione incontrollabile, crollo degli Stati, ritorno allo “stato di natura” della guerra di tutti contro
tutti – Maoismo climatico =
rafforzamento dispotico del potere per prevenire il crollo sociale, rinuncia al
libero mercato e alla democrazia, forte egualitarismo ma imposto dall’alto – X = il tentativo consapevole di rifuggire dai
tre scenari precedenti, autodeterminazione democratica, assistenza reciproca
all’insegna di una società equa e sostenibile. Ovviamente il futuro a cui
mirare.
Per intraprendere un
percorso verso X occorre partire dalla consapevolezza che l’applicazione del modello keynesiano al clima non è
sufficiente perché di fatto continua
a privilegiare la crescita economica e perché non ne coglie la stringente connessione
con le logiche del mercato capitalistico. L’insopprimibile ricerca del massimo profitto, l’elemento essenza del capitalismo, è la principale causa della devastazione ambientale e
della disuguaglianza globale, il legame tra questi due aspetti è infatti così
indissolubile da rendere evidente che non si può realizzare una vera svolta
ecologica se non si affronta alla radice la causa delle disuguaglianze.
Il percorso verso X e verso una piena sostenibilità, non può quindi che puntare ad una realizzata uguaglianza globale e diffusa,
nella consapevolezza che capitalismo e decrescita sono due termini
incompatibili.
Saitò
Kòhei rafforza questo passaggio riprendendo le critiche, che condivide, mosse
da Slavoj Zizek (1949, filosofo e politologo sloveno) alle posizioni di Joseph
Stiglitz (1943, economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 2001) che,
sostenendo il Green New Deal, propugnano la visione di un “giusto capitalismo” capace di scalzare
l’attuale “falso capitalismo”. Zizek è
convinto al contrario che la storia del capitalismo dimostri ampiamente che la
sua essenza è irriformabile.
Occorre quindi muoversi verso
una svolta radicale delle forme del potere economico e politico, unitamente ad
un cambiamento degli insostenibili stili di vita connessi all’idea di crescita
esponenziale. Quest’ultimo passaggio rappresenta senza dubbio una svolta
complicata, non è infatti per nulla facile raccogliere il consenso necessario
per un’idea che implica una qualche rinuncia a situazioni consolidate di
benessere consumistico (per
quanto gli indicatori statistici del “livello di
felicità” dimostrino che consumo non è per nulla sinonimo di vita
felice).
Lo stesso termine “decrescita”,
fin qui declinato come una sorta di “dignitosa povertà”, non sembra fatto per
raccogliere consensi nelle generazioni più anziane, protagoniste di un
progresso faticosamente conquistato, così come in buona parte di quelle più
giovani portate a darla per scontata, per naturale (anche
se non mancano movimenti di massa delle generazioni Millenials, nati fra il
1980 ed il 1996, e Z, nati fra il 1997 ed il 2012, attenti alle tematiche
ambientali e sociali e già del loro sostenitori di un cambiamento in questo
senso).
Incide
inoltre la scarsa credibilità dell’idea di decrescita nata negli anni Settanta portata
avanti in particolare da Andrè Gorz, 1923/2007 filosofo
francese fondatore dell’ecologia politica, e da Serge Latouche, 1940 economista e filosofo francese) troppo
concentrata sugli eccessi consumistici, ma priva di una visione più politica e
più attenta al problema della giustizia sociale
Una
prima precisazione di conseguenza si impone: la decrescita alla quale si deve
puntare non è tanto “la riduzione di qualche punto di PIL”, non
si limita ad una visione quantitativa dell’’andamento dell’economia, ma guardando
al vero benessere delle persone, è il passaggio dalla quantità, cioè la crescita, alla
qualità, cioè lo sviluppo. Punta cioè ad essere un piano di vasta
portata che, nel rispetto dei planetary boundaries, vira verso un modello di
economia capace di offrire vero agio a tutta l’umanità riducendo la
disuguaglianza e arricchendo le relazioni sociali. Ma, coerentemente con quanto
fin qui detto, questa idea di decrescita non è realizzabile in una economia capitalistica,
l’ipotesi X chiama in causa un altro termine non meno scomodo “comunismo”,
ridando giusta voce al pensiero che meglio lo ha tratteggiato: quello di Marx. Prepariamoci
dunque a destarlo dal suo lungo sonno.
Capitolo 4 = Marx nell’Antropocene
Comunismo, ben più di
decrescita, è termine che da sempre suscita reazioni quanto mai controverse,
così come quello stesso di marxismo.
Almeno per quest’ultimo si sta però registrando un certo ritorno di interesse
legato alla riscoperta di aspetti del pensiero di Karl Marx a lungo
sottovalutati: da una parte quelli della sua prima produzione filosofica (il giovane Marx) e dall’altra quelli
dell’ultima fase, incompiuta, di completamento della sua opera più importante:
il “Capitale” (l’ultimo Marx).
L’attenzione di Saitò Kòhei è rivolta soprattutto a questi ultimi ed in
particolare a quelli che sembrano emergere dall’impressionante mole di appunti (accumulati in quindici
anni di studi di vario genere) propedeutica alla stesura del secondo e terzo libro del Capitale (opera prevista da Marx in cinque libri) mai organicamente
terminati (dati alle stampe dopo la sua morte con
una edizione curata, con errate soggettive interpretazioni, da Friedrich Engels). E’ ferma convinzione di Saitò Kòhei che
dalla lettura di questi appunti emerga un Marx inedito, capace di operare un radicale
ribaltamento di diversi presupposti del primo libro del Capitale (che non poco hanno consolidato la sua immagine di sostenitore di
una visione “progressista della storia” alla base del suo “materialismo storico” per la quale la
modernizzazione apportata dal capitalismo con il suo aumento della produzione
avrebbe creato le condizioni materiali per una futura società,
socialista/comunista).
La svolta che Marx stava
preparando (sulla base di questi appunti ora
sistematicamente raccolti a formare ben 32 volumi della nuova edizione delle opere complete di Marx
che consterà di 100 volumi) poggia su due innovativi presupposti: il “primato della produzione” e l’ “eurocentrismo” fra di loro connessi dal
concetto di “beni comuni”.
Il primato della produzione, ossia l’idea del ruolo determinante del predominio delle attività umane sulla
natura, è già
ben presente, ma in tutt’altra accezione, nel Primo Libro del Capitale e nello
stesso “Manifesto
del Partito Comunista”
(1848).
Un ruolo importante, nell’allontanamento di Marx dalla sua iniziale idea,
l’hanno avuto i suoi studi (ben presenti negli appunti) delle opere di Justus von Liebig (1803/1873, chimico tedesco) in cui si critica “l’agricoltura di sovra-sfruttamento”.
Marx, colpito da tale
critica, mette a fuoco l’idea del “ricambio organico tra uomo e natura (metabolismo)” per definire l’equilibrio
che dovrebbe sussistere tra le attività umane (dopo che l’uomo, unico
animale a farlo, abbandonata la fase della raccolta e caccia, ha iniziato ad
incidere sulla natura tramite “il lavoro”) e le ricadute che ne
derivano sull’ambiente. Con l’avvento del Capitale, che in cima a tutto mette l’incremento dei
profitti, tale equilibrio è saltato, l’introduzione nel “lavoro” delle tecnologie industriali ha infatti
accentuato a dismisura lo sfruttamento dell’uomo stesso ed anche della natura,
così creando una frattura insanabile nel
ricambio organico. In questo solco, che già da solo segna una netta cesura
rispetto alla sua precedente esaltazione della produzione (la crescita!) come liberatrice
dell’uomo, si sono poi aggiunte ulteriori riflessioni (negli appunti compaiono studi approfonditi di geologia, botanica,
chimica, mineralogia)
collegabili alle ricerche di Karl Fraas (1810/1875, agronomo e
botanico tedesco),
fra le prime ad aver evidenziato lo stretto collegamento fra sfruttamento umano
delle risorse naturali, variazioni climatiche e inaridimento dei suoli.
Marx, su queste basi,
riprende il concetto di traslazione spaziale (vedi Capitolo I), ossia lo sfruttamento
delle risorse della periferia del mondo e accentua la critica alle logiche del sistema
capitalistico capace di espandere globalmente la frattura insanabile del
ricambio organico. E’ il suo addio definitivo al primato della produzione che fa vacillare al
contempo la sua stessa visione progressista della storia che non può certo
esservi là dove si compromettono le condizioni naturali dell’esistenza,
imponendo così un ripensamento radicale della stessa idea di materialismo storico. Non solo, l’abbinamento
tra traslazione spaziale e frattura insanabile tra uomo e natura svuota, nel
pensiero dell’ultimo Marx, la visione eurocentrica che vedeva, all’interno del
progresso lineare della storia: l’Europa traino del mondo intero. Le sue precedenti
posizioni nei riguardi del colonialismo non erano prive di contraddizioni, alla
condanna degli eccessi colonialistici si era comunque accompagnata la
convinzione che l’espansione del capitalismo al mondo intero avrebbe fornito,
all’intera umanità, pari condizioni per la realizzazione di una futura migliore
società.
Tutto ciò viene vanificato
e superato dal dramma della rottura del ricambio organico. Emerge poi dagli
appunti una ulteriore feconda novità: la (ri)scoperta delle antiche comunità rurali germaniche che, già celebrate da
Fraas, erano state ancor più valorizzate da un altro pensatore approfonditamente
studiato da Marx: Georg Ludwig von Maurer (1790/1872, tedesco storico
del diritto).
Dai cui studi emerge la lunga storia di comunità che hanno praticato
un’agricoltura basata sulla proprietà comunitaria delle terre (con marginali spazi di proprietà privata), sulla ripartizione ugualitaria
del raccolto e dei frutti dell’allevamento e sulla straordinaria attenzione alla sostenibilità
delle colture praticate (la cui storia è stata
ricostruita da von Maurer a partire dall’ultimo secolo a.C., ma i cui antefatti
si collocano perfettamente nelle vicende raccontate nell’ “Alba di tutto” di David Graeber e David Wengrow, nostro recente Saggio del
mese).
Sono questi i principali
antefatti sui quali Marx ha avviato una approfondita riflessione sul rapporto
tra “uguaglianza
sociale” e
“sostenibilità
ambientale”. Una
riflessione che lo porta a vedere nella tematica dei “beni comuni”, della gestione comune della
Terra,
una nuova concezione di comunismo (che prevedeva la gestione
collettiva non solo dei mezzi di produzione, ma anche della Terra stessa) e della via per
costruirlo, aggiuntiva ed in parte sostitutiva di quella precedente della transizione
dal capitalismo maturo. Una posizione che è confermata in uno dei suoi ultimi
documenti (del 1881, Marx morirà due anni dopo senza
aver più prodotto rilevanti tracce scritte): “la lettera a Zasulic” (giudicato da Saitò Kòhei il suo vero testamento politico) in cui (rispondendo al quesito postogli da Vera Zasulic, attivista
rivoluzionaria russa, sulla validità delle comuni agricole russe, chiamate “mir”, strutturate come le
comunità rurali germaniche) sostiene che tali esperienze erano fondamentali, al punto da consentire un passaggio diretto
al comunismo “senza passare dalle forche caudine di una fase capitalistica” (ed evidenziando il loro merito di non essere, diversamente dalla produzione
capitalistica, un momento di frattura del rapporto uomo-natura).
Secondo Saitò Kòhei emerge
davvero un’idea
diversa di comunismo,
in cui equità sociale e sostenibilità sono strettamente connesse, in cui
l’economia non deve proseguire la folle corsa capitalistica alla
sovrapproduzione restando al contrario stazionaria e ciclica, in cui anche di
fronte alla possibilità di lavorare e produrre di più si sceglieva di non
farlo. Il
comunismo dell’ultimo Marx, in altre parole, è un’economia equa e sostenibile
che non punta più alla crescita, è anzi il comunismo
della decrescita.
Capitolo 5 = Accelerazionismo: una fuga dalla realtà
Saitò
Kòhei si limita qui ad anticipare il tema della dicotomia “scarsità-abbondanza” affrontato a fondo nel
successivo Capitolo VI. Lo fa criticando i sostenitori (come Aaron Bastani,
1984, autore del saggio “A fully automated luxury communism”, “Un comunismo di
lusso completamente automatizzato”) dell’ “accelerazionismo”,
l’idea cioè di una crescita economica sostenibile perché affidata ad una innovazione
tecnologica spinta capace di liberare l’uomo dal lavoro.
E’ convinzione diffusa che
il comunismo (soprattutto se si guarda
alle sue fallimentari esperienze concrete) si associ alla scarsità ed il capitalismo
all’abbondanza, e guardando alla mole di merci offerte sul mercato è opinione
difficilmente contestabile.
La realtà è però più complessa se esaminata allargando lo
sguardo all’intera umanità che, accanto all’ingordigia consumistica della parte
ricca del mondo, vede un’altra sua parte, molto rilevante, ai limiti della
sopravvivenza. E lo è ancor più da un punto di vista concettuale. Anche in
questo caso un contributo importante per una migliore comprensione viene
dall’analisi marxista del capitalismo, che ha individuato nel meccanismo della
“accumulazione
originaria” la
sua nascita e formazione.
Con questa denominazione
Marx ha indicato il processo di espropriazione dei beni comuni (terreni, boschi e foreste, corsi d’acqua) ed il loro trasferimento
in mani private attuato (a partire
dall’Inghilterra
con la prassi delle “enclosures”, “recinzioni”, che
impedirono ai contadini la gestione in comune delle terre coltivate, le common lands, obbligandoli al trasferimento forzato verso le città a formare
la massa di salariati per le nascenti industrie) dalla borghesia
capitalistica del 1600/1700. Si parla di un fenomeno di impressionanti dimensioni
con il quale il capitalismo si è sviluppato impoverendo la vita delle persone
ed imponendo una evidente “scarsità”
(che obbligava da una parte a vendere la propria forza lavoro e
dall’altra a reperire sul mercato le merci per vivere). Vale a dire che il
Capitale, successivamente evoluto, nella sua forma di capitalismo consumistico,
a dispensatore di “abbondanza”
(sempre più artificiale), è divenuto tale grazie all’imposizione forzata di una nuova
forma di scarsità.
Si
è cioè di fronte ad una contraddizione, chiamata “paradosso di Lauderdale” (dal nome di James Maitland conte di
Lauderdale, 1759/1839, economista britannico autore del saggio “Ricerche sulla
natura ed origine della pubblica ricchezza”) per indicare che l’aumento delle ricchezza privata sempre comporta una riduzione della prosperità pubblica
Il meccanismo attraverso
il quale l’interesse privato, nell’attuale capitalismo consumistico, realizza
il suoi profitti è in effetti organicamente connesso alla costante creazione di
scarsità, in gran misura artificiale, per incentivare il ricorso al mercato. Nella
concezione marxista questo contraddittorio incrocio tra “scarsità e abbondanza” si collega alla
distinzione che Marx fa tra “valore d’uso”
(quello insito nelle caratteristiche della merce) e “valore di scambio” (quello attribuito alla merce dal mercato), la cui realizzazione
richiede l’annullamento del primo (un meccanismo ancora più
perverso se la merce è un “bene comune” per definizione, come l’acqua).
Conseguentemente per Marx
l’accumulazione originaria non indica solamente la “preistoria del comunismo” proprio perché la creazione di scarsità, condizione necessaria per la realizzazione del
valore di scambio, è la vera essenza della logica capitalistica. Al punto che persino la
distruzione e lo spreco di beni diventano pratiche utili, tant’è che lo stesso
cambiamento climatico e degrado dell’ambiente sono diventati altre opportunità
di profitto. Quando concerne i beni
artificiali di consumo la scarsità si manifesta con una sua particolare
declinazione: la scarsità di denaro, di risorse finanziarie, la quale si presta,
attraverso la pratica diffusa del “debito” (mutui, prestiti, finanziamenti, anticipi) a divenire un’altra
rilevante fonte di profitti. In questo contesto di dittatura del valore di
scambio quello d’uso perde così tanta rilevanza da divenire di fatto oggetto di negazione, vale a dire di non
esistenza.
E’ questa la ragione che
porta Marx a definire il comunismo la “negazione della negazione”, perché mira a riconsiderare i beni, in relazione al loro reale valore
di utilizzo ricreando così, in opposizione alla scarsità artificiale, una
nuova, più equa e più sostenibile, abbondanza.
Questo
recupero da parte di Saitò Kòhei delle idee marxiste si muove, ovviamente, su
un piano di obiettivi ideali che traduce in alcune concrete proposte di massima
(approfondite successivamente) fra le quali: la
riappropriazione sotto controllo pubblico di tutti i beni comuni a partire da quelli che di più sono connessi
all’impatto ambientale (ad esempio acqua, elettricità, fonti energetiche
rinnovabili), l’introduzione di forme di gestione
cooperativa della produzione industriale, agricola e dei servizi (esperienze concrete in tal senso già esistono in
diversi paesi, in Italia sono già attive cooperative che hanno assunto, con
successo, la gestione di aziende a rischio chiusura)
Il recupero del valore
d’uso e di una vera abbondanza (definita dall’antropologo
Jason Hickel “abbondanza radicale”) rappresenta l’esatto
opposto, se valutato dal punto di vista quantitativo, del perverso mito della
crescita del PIL perché la sua vera finalità è quella della creazione non di ricchezza ma di
prosperità.
Questo fattore rappresenta un altro fondamentale aspetto del concetto di comunismo della decrescita (lontanissima dall’essere, se così interpretata, come “una dignitosa povertà per proteggere
l’ambiente”).
Saitò
Kòhei recupera, per sgombrare il campo dagli equivoci che le esperienze
storiche hanno creato sul rapporto fra comunismo e libertà, un altro passaggio
rilevante del pensiero marxista. Marx distingue fra “regno della necessità” (i bisogni primari dell’uomo) e “regno della libertà” (tutto ciò che aggiunge
bellezza e felicità alla vita umana: arte, cultura, relazioni, attività
fisiche). Una espansione del secondo regno è indispensabile e rappresenta la “libertà buona” di scelta di ogni individuo, ma
essa non può avvenire a scapito del diritto di tutti di avere risolto il “regno della necessità”, se così fosse
diventerebbe una “cattiva libertà”. L’attuale
contesto dell’umanità e del suo impatto sull’ambiente impone che la “libertà
buona” sia anche una cosciente “autoregolamentazione”
Capitolo 7 = Il comunismo della decrescita salverà il mondo
E’ quindi evidente che lo
scenario X coincide con il comunismo della decrescita. Decrescita perché se non si esce, in modo equo e compatibile,
dall’insostenibile azzardo della crescita infinita non esiste alternativa al
disastro ambientale, comunismo perché se non si ritorna alla proprietà
collettiva dei beni comuni e non si restituisce ai prodotti umani il loro vero
valore d’uso le logiche capitalistiche renderanno nulle ed inefficaci ogni
correzione di rotta.
Saitò
Kòhei, per rafforzare questa sua affermazione, evidenzia che lo stesso Thomas
Piketty, dopo essersi limitato nel suo famoso testo “Il Capitale nel XXI
secolo” a proporre politiche redistributive (tramite severe azioni fiscali) è
passato a posizioni molto più radicali parlando apertamente di “superamento del capitalismo” e di “socialismo partecipativo”, senza però aderire
alla decrescita
Un corretto sinonimo del
comunismo della decrescita può consistere proprio nell’idea di “socialismo partecipativo” che segna inoltre una chiara
distanza dal comunismo di stampo sovietico che consegnava al “partito”, e a dittatoriali logiche di controllo politico,
il potere di decidere sulla gestione della società. La radicale diversità dal
comunismo sovietico si misura anche nella modalità di realizzazione di una vera
svolta che non ha più nessun senso immaginare come un nuovo “assalto al Palazzo d’Inverno” (l’atto che segnò la conquista del potere da parte dei
bolscevichi),
ma che non può che essere, nell’attuale contesto globale, il compimento di un
percorso di crescente partecipazione attorno ad un primo fondamentale passaggio:
la promozione
dell’autogestione/cogestione della produzione rivoluzionando
l’ambito del lavoro, dell’attività che fissa il rapporto tra uomo e natura.
Anche per l’ultimo Marx la
trasformazione del ciclo di distribuzione e consumo, e persino la soppressione della
proprietà privata non erano aspetti decisivi, il cuore della questione
consisteva nella trasformazione del lavoro e della produzione ossia la
concretizzazione di un’idea, non più sostenibile, di rapporto fra uomo e
natura. Già non mancano significative esperienze in questo senso, si tratta di
valorizzarle e di estenderle, di trasformarle da scelte difensive a consapevoli
conquiste che
generano comunità e movimenti sociali, senza i quali nessun vero cambiamento è possibile. Per Saitò
Kòhei è ipotizzabile un percorso articolato su cinque punti: “passaggio ad una economia basata sul
valore d’uso”,
“riduzione
dell’orario di lavoro”,
“abolizione della
divisione standardizzata del lavoro”, “democratizzazione del processo produttivo” e “importanza dei lavori essenziali”, tutti obiettivi che, in aggiunta al loro rilevante valore
specifico, prefigurano un’economia sostenibile ed un consapevole rallentamento
della crescita. Sono cioè concreti traguardi di un percorso, democratico e
partecipato, verso il comunismo della decrescita.
Il
passaggio ad una economia basata sul valore d’uso è l’obiettivo che tutto
lega. La dittatura del valore di scambio
trascina infatti con sé la ricerca spasmodica dell’aumento di produzione, la
sua ottimizzazione tecnologica ed il suo concentrarsi sulle merci che, al di là
della loro reale utilità, di più danno margini di profitto. Minore e migliore
produzione rende possibili riduzione degli orari di lavoro, risparmio
energetico (con abbattimento del coefficiente Eroei che misura il ritorno
energetico dell’investimento), diversa gestione dei carichi di lavoro, pratiche
di gestione democratica dell’attività, adozione di tecnologie aperte (quelle
non escludenti e di patrimonio comune), il superamento delle produzioni “ad
alto contenuto di lavoro” (bullshit jobs, lavori disumani) e valorizzazione di
quelli che contribuiscono al benessere dell’individuo e delle relazioni sociali
Molte esperienze sparse
nel mondo si stanno già muovendo in questa direzione e manifestano la crescente
consapevolezza della necessità di un ripensamento radicale dei modi di vivere.
L’espressione “buen vivir”,
(vivere bene), introdotta come
finalità di fondo nella Costituzione dell’Ecuador nel 2008 e poi adottata come
slogan di riferimento da molti movimenti di sinistra, bene sintetizza, con la
saggezza delle culture native, questa positiva tensione. Non meno significativa
è la scelta del Bhutan di sostituire il capitalistico indicatore del “PIL, Prodotto Interno Lordo” con quello del “GDH, Gross Domestic Happiness, felicità interna lorda”. Sono alcune delle
confortanti gemme che già si stanno formando nel mondo.
Saitò Kohei, consapevole
di aver proposto una riflessione che, per quanto attenta al procedere concreto
dei fenomeni sociali, si muove, guardando alle cause ultime ed alle idealità di
fondo, su un piano soprattutto teorico chiude questo suo saggio con la
confortante panoramica, esaminata con l’ottica dell’ultimo Marx, di altre
esperienze che già si stanno muovendo nelle direzioni indicate.
E’ soprattutto nelle città che, a suo avviso, occorre guardare perché sono al tempo
stesso gli ambiti umani che più contribuiscono ai gas serra (valgono il 70% del totale di emissioni di CO2), che più condizionano,
per le loro necessità, l’intero pianeta ma che al tempo stesso, proprio per la
crescente consapevolezza di tutto ciò, stanno esprimendo iniziative di grande interesse. A partire da Barcellona (capofila del movimento internazionale “Fearless Cities” , città
senza paura) la prima città ad aver formalmente dichiarato,
nel Gennaio 2020, uno “stato di emergenza climatica” (atto finale di un
decennale percorso di elaborazione collettiva che ha raccolto in duecentoquaranta
concreti obiettivi la finalità di combattere con adeguate scelte amministrative
di lungo respiro il cambiamento climatico ed ambientale. Un forte contributo a
tale esperienza è venuto dal tradizionale movimento cooperativistico catalano) inteso come primo passo
per una “giustizia
climatica”,
un obiettivo che tiene insieme obiettivi ambientali e climatici con obiettivi
sociali di sostegno alle parti povere della popolazione, quelle più colpite dai
cambiamenti di clima e ambiente, esprimendo così finalità più ambiziose della “crescita economica verde”.
Attorno all’esperienza di Barcellona e al movimento
Fearless Cities sono confluite adesioni anche da Africa, America Latina e Asia
che mettono in comune esperienze amministrative e sociali (fra le altre quelle del movimento internazionale di contadini “Via Campesina”, nato in Messico e famoso per lo slogan “Globalizzare la lotta per globalizzare la
speranza”, e quello Safsc, movimento sudafricano
per la sovranità alimentare, tutte esperienze che, disilluse dal capitalismo e
dal mito della crescita infinita, si muovono esattamente nell’ambito della
gestione collettiva dei beni comuni).
Alla base di questi
fermenti si possono cogliere “fiducia e solidarietà”, ossia i sentimenti indispensabili per cementare in un percorso
concreto “teoria e
prassi”,
il connubio che Marx, il primo come l’ultimo, riteneva la sola leva capace di
rivoluzionare il mondo.