La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
GENNAIO
2025
Dopo che per diverse elezioni il “partito del non voto” è risultato essere
quello di maggioranza relativa, nelle ultime tornate elettorali sembra essere ormai
evoluto a quello di maggioranza assoluta. Succede in Italia, ma non
diversamente in molte democrazie rappresentative soprattutto occidentali. In
questi paesi, ad economia di mercato, una possibile spiegazione di questo
fenomeno è solitamente consistita nel richiamare la logica di “domanda/offerta”:
a fronte di un’offerta politica/partitica percepita come inadeguata si è cioè reso
inevitabile il crollo della collegata domanda, ossia il voto. E’ una
spiegazione per alcuni versi condivisibile, ma non più sufficiente da sola a
spiegare una tendenza così accentuata e consolidata da rappresentare un aspetto
ormai costitutivo dell’attuale democrazia rappresentativa. Sembra quindi
necessario indagare più in profondità le possibili ragioni che spiegano la
Parola di questo mese ……
ASTENSIONISMO
astensionismo, derivato da astensione (sul modello del francese
abstentionnisme) = L’astenersi di proposito, per ostentazione di indifferenza o di
protesta, dal partecipare alla vita politica o da un determinato atto politico (votazioni, riunioni, e similari)
– Vocabolario Treccani on line
Per farlo è utile capire come le scienze
sociali abbiano affrontato questo tema, considerato che sui media, per non dire
nel dibattito politico, l’attenzione, di norma basata solo su analisi dei
flussi elettorali, non va mai molto oltre la constatazione del suo crescente
peso restando centrale la valutazione delle dinamiche del voto espresso. Un
saggio di recente pubblicazione offre invece una interessante sintesi del
dibattito culturale attorno a ciò che è richiamato nel suo titolo…..
la cui autrice è Rossana Sampugnaro (Docente
di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università di Catania)
l’astensionismo è una possibilità nelle mani dell’elettore per esprimere un suo
orientamento nei confronti del sistema politico e dei partiti: disappunto,
protesta, ostilità o sfiducia nei confronti dei principali attori, ma anche
giudizi sulla scarsa efficacia dell’azione politica e sulla inutilità delle
assemblee rappresentative…
l
saggio della Sampugnaro inizia presentando nell’introduzione questa definizione
di astensionismo che,
riassumendo un giudizio mediamente condiviso da tutti gli studi sul tema, già
offre una significativa indicazione là dove, in aggiunta alle problematiche
dell’attuale rapporto fra elettori e sistema dei partiti, chiama esplicitamente
in causa: la
scarsa efficacia dell’azione politica e la percepita inutilità delle assemblee
rappresentative.
All’interno
di questa comune definizione emergono però differenze davvero significative fra
i modi con cui l’astensionismo è stato a
lungo interpretato in Europa rispetto agli USA, dove, a differenza del vecchio
continente, l’interesse verso di esso è sempre stato decisamente minore. Un
atteggiamento che trova spiegazione nella consolidata certezza della solidità
storica della democrazia statunitense che per i due secoli e più della sua
esistenza non ha mai conosciuto particolari crisi.
Le
sue particolari forme di funzionamento, non prevedono l’esistenza di un “obbligo al voto” (la volontà di votare dei cittadini
che possiedono i requisiti per farlo deve essere, di volta in volta, espressa
con una specifica richiesta di iscrizione ai registri elettorali),
in un simile contesto la partecipazione al voto (sempre
altalenante e mai arrivato alle percentuali europee) non ha mai
rappresentato un particolare campanello d’allarme, al contrario lo è
stato, paradossalmente, un alto livello di partecipazione perché percepito come
una sorta di manifestazione di sfiducia verso il garantito buon funzionamento
delle istituzioni (non
a caso i due grandi partiti americani hanno le caratteristiche di “partiti elettorali” che si attivano solo in
occasione di competizioni, ma che non possiedono strutture permanenti di
mobilitazione e di attivismo politico storicamente giudicate non necessarie
proprio per la certezza del buon funzionamento della democrazia così come
concepita dai Padri Fondatori).
Di
tutt’altro segno è il tradizionale approccio europeo al tema che risente di un
percorso storico diametralmente opposto, nel quale la conquista e la difesa
della democrazia dalle ripetute deviazioni autoritarie sono sempre state
sostenute dall’attiva partecipazione, elettorale e non, dei cittadini. In
questo quadro l’eccesso di astensionismo poteva assumere i caratteri di una emergenza
democratica proprio perché possibile indicatore di una
pericolosa caduta di sensibilità democratica.
Di
recente questi due distinti approcci stanno però conoscendo una comune nuova
attenzione verso l’astensionismo sollecitata
dai profondi cambiamenti avvenuti a livello globale nel quadro geopolitico,
nelle relazioni sociali e nella cultura politica. Prima di entrare nel merito
di questa nuova sensibilità al tema e prima di analizzare gli oggettivi trend
della partecipazione al voto nel mondo occidentale ed in particolare in Italia la
Sampugnaro presenta una interessante panoramica dei differenziati comportamenti elettorali
che confluiscono nella generica definizione di astensionismo, che bene evidenzia quanto siano riduttive
se non fuorvianti le sue generiche interpretazioni.
Con questo termine ci si riferisce
genericamente a coloro che, pur avendone diritto, rinunciano ad esprimere il
loro voto, ma è bene ricordare che il titolo di elettore viene assegnato in
modi differenti da paese a paese. Negli USA, come visto in precedenza, è
prevista una adesione volontaria voto per voto, in Italia, ed in buona parte
dei paesi occidentali (seppure con differenti modalità e gradazioni) lo si
diventa automaticamente al compimento dell’età minima prevista. Un secondo
aspetto, solo in apparenza “tecnico”, consiste nei diversi modi di classificare
i “non voto”, in alcuni paesi formano il loro totale tutti i voti non
chiaramente espressi astenuti inclusi, in altri, Italia compresa, lo sono solo
gli elettori che non si sono presentati alle urne, le schede bianche o nulle
sono conteggiate a parte
Una
prima categoria di astensionisti, definita “astensionismo
assoluto
o cronico”, comprende gli elettori che, per variegate ragioni,
mantengono nel tempo un ostinato e preconcetto rifiuto all’esercizio del voto,
all’estremo opposto si trovano gli “elettori assidui”, ossia coloro che,
magari con motivazioni altrettanto variegate, comunque si recano alle urne.
Fra
questi due estremi esiste la “terra di mezzo”
dell’“elettorato
fluttuante o intermittente”, vale a dire elettori che decidono di
volta in volta, esprimendo così tendenze mutevoli, se votare o no. E’ la fascia di
elettorato sulla quale più si concentra l’attenzione delle scienze sociali per tentare di individuare quali fattori siano
intervenuti per orientare al voto o al non voto e di cogliere il manifestarsi
di processi di consolidamento in un senso o nell’altro.
Di
conseguenza la mutevolezza di comportamento elettorale di questa decisiva ampia
fascia viene tecnicamente suddivisa in una “componente congiunturale”, aventi diritto
al voto che ogni volta decidono il da farsi, ed in una “componente consolidata”, composta
da coloro che stanno progressivamente confermando la loro scelta (ad esempio quella di partecipare a
certe elezioni, perché considerate davvero importanti, ma non ad altre).
La prima componente pratica un “astensionismo fluttuante”,
la seconda un “astensionismo selettivo”.
Le motivazioni di primo impatto che di
più sembrano incidere sui comportamenti elettorali della “terra di mezzo”,
quella che di fatto determina l’evoluzione, positiva o negativa, dell’astensionismo,
sono individuate dagli studi scientifici sul tema in:
Ø caratteristiche e trasformazioni del
sistema partitico di riferimento
Ø frequenza di appuntamenti elettorali
Ø cambiamento delle modalità di voto
Ø incidenza mediatica dei sondaggi
pre-voto (con esito scontato o più o meno incerto)
Ø bassa o nulla probabilità di successo
del candidato e del partito preferito
Ø volontà di esprimere proteste o
rivendicazioni diversamente non accolte
Sono
alcuni dei fattori esterni che possono predisporre ad una scelta astensionistica,
ma perché questa abbia davvero luogo deve intervenire una scelta consapevole,
una precisa volontà in tal senso, che gli studi sul tema definiscono “astensionismo volontario”, che a sua volta può
avere una connotazione “passiva”, se determinato quasi
esclusivamente da basso livello di informazione e di interesse verso la
politica, piuttosto che “attiva”, se mosso da una scelta ragionata
e motivata da fattori precisi.
Di
norma la prima denota una combinazione di marginalità sociale ed un eccesso di
individualismo asociale tali da generare una sorta di persistente “apatia”,
una “motivazione
fredda”, la seconda invece si spiega con il prevalere di sentimenti
di rabbia e delusione innescati da una percepita “alienazione” verso il quadro
politico ed istituzionale, e quindi una “motivazione calda”.
Emerge
in sintesi un quadro concettuale che evidenzia quanto possa essere complessa l’individuazione
e l’analisi dei comportamenti elettorali che indistintamente sono fatti
rientrare nel concetto di astensionismo, i cui dati
statistici devono quindi essere, per essere meglio compresi, adeguatamente
scomposti.
Fatta
salva questa avvertenza, il quadro statistico globale (che in questa sintesi limitiamo ai
dati essenziali delle elezioni politiche generali ma il saggio ne contiene
molti altri) evidenzia una interessante convergenza fra
le aree continentali:
Va da sé che in questo grafico sono
assemblate situazioni nazionali molto differenziate fra loro (ad esempio il
dato europeo mette insieme democrazie consolidate e paesi fino al 1989/1990
sotto il blocco sovietico) e che gli scostamenti possono essere spiegati da specifici
fattori
E’ evidente nel periodo in esame un comune trend di disaffezione al voto che ha portato le democrazie rappresentative dell’intero pianeta a misurarsi con percentuali di astensionismo pressochè simili, la situazione europea ed italiana appare poi (fatta salva l’eccezione svedese) non meno indicativa e condivisa. Di seguito le percentuali dei votanti:
Così attestano i dati delle democrazie rappresentative
più storicamente consolidate, ma non è diversa la tendenza anche per i paesi,
come Grecia Portogallo e Spagna, che hanno tardivamente conquistato una
democrazia elettorale.
Venendo
infine al dettaglio della situazione italiana è interessante rilevare, lungo
tutte le elezioni avvenute a partire dall’avvento della Repubblica, il peso del
partito del non voto (astensioni
più bianche/nulle) raffrontato con quello ottenuto dai primi
due partiti:
Emerge con evidenza come, terminata nel
1992/1996 la fase bloccata di sostanziale bipolarismo, il partito del non voto,
a partire dal 2013, sia ormai quello sempre più consistente
Può infine essere utile rilevare la ripartizione per macro-aree interne del voto italiano nel periodo che ha visto concretizzarsi tale ascesa
Sarebbero,
ovviamente, molte le considerazioni che emergono incrociando questi dati con le
varie forme di astensionismo, ci limitiamo
qui a riportare quelle più immediatamente utili per il normale fine di una
“Parola del mese”, iniziando da quelle diverse da quello “volontario” per poi successivamente concentrarci su di esso.
Nella
trattazione della Sampugnaro dalle prime emergono quattro principali schemi
interpretativi che mettono in ordine i vari fattori che le caratterizzano:
fattori macro distanti = quelli “esterni” all’elettore che rientrano nel
contesto complessivo, entro il quale si forma il suo orientamento, quali:
Ø la cultura politica, intesa come
valori condivisi e come comportamenti sociali consolidati
Ø il sistema elettorale (l’opinione mainstream ritiene che il
sistema maggioritario incentivi
l’astensionismo più
del proporzionale perché può indurre all’astensione
l’elettore orientato verso un partito con scarse possibilità di vittoria)
Ø le forme organizzative delle
operazioni elettorali, i giorni di
voto e le modalità (solo in presenza, anche elettronica,
possibilità di voto in sedi diverse dalla residenza)
Ø l’importanza delle elezioni (tecnicamente distinte fra un primo
livello: quelle nazionali o sovrannazionali, ed un secondo livello: quelle
locali ed i referendum) e
la loro diversa attrattività
Ø la frammentazione eccessiva
dell’offerta partitica e la confusione che ne può derivare
fattori macro prossimi = come
i precedenti, ma più vicini al contesto dell’elettore, quali:
Ø eventi pubblici che, molto
ravvicinati al voto, incidono sulla predisposizione psicologica
Ø le modalità di conduzione della
campagna elettorale e la loro capacità di colpire la sfera individuale
dell’elettore
Ø la spettacolarizzazione mediatica di
avvenimenti di forte impatto emotivo
Ø il rapporto diretto (o filtrato dalla Rete) con associazioni, movimenti, gruppi
di pressione
fattori micro prossimi = altrettanto
correlati alla dimensione individuale dell’elettorale, ma, a differenza dei
precedenti, molto più connessi al suo specifico contesto, quali:
Ø l’interazione diretta con la cerchia
di conoscenze (famiglia allargata, amicizie, rapporti nel mondo del lavoro)
Ø la ricaduta (percepita come tale) sulle condizioni sociali ed
economiche
Ø la percezione di un esito elettorale
molto incerto e capace di incidere direttamente sul proprio status
Ø la volontà (di norma maturata su tempi medio
lunghi, ma anche emersa nel breve periodo a ridosso del voto) di “punire” - “premiare” una determinata proposta politica
Ø il personale coinvolgimento
favorevole/sfavorevole verso uno specifico candidato (a partire dagli stessi leader)
fattori micro distanti = come
quelli “macro distanti” non sono immediatamente associabili alla sfera
personale dell’elettore pur avendo una valenza molto più circoscritta, quali
Ø la qualità dell’istruzione e
l’appartenenza a classi/gruppi sociali
Ø il contesto sociale e culturale del
territorio di appartenenza più prossimo
Ø l’appartenenza a partiti, gruppi
religiosi, associazioni
Ø la qualità delle informazioni su cui
si basano i personali giudizi
Sono,
come si può cogliere, elementi molto variegati che si prestano ad intrecci non
meno complessi che da una parte ribadiscono nel loro insieme la fallacia di
semplificazioni eccessive ed azzardate e dall’altra giocano un ruolo decisivo
sulla volontà a partecipare al voto rafforzandola se fra loro si incrociano in
un certo modo, ovvero disincentivandola se di segno opposto.
All’interno
di questo quadro generale (con
riferimento alla varie forme di astensionismo elencate in precedenza) le
scienze sociali hanno inoltre individuato i requisiti che potrebbero definire
una sorta di tipologia standard di “elettore” (la
cui effettiva validità resta comunque sempre molto indicativa)
utile per costruire il corrispondente profilo del “non elettore” a sua volta definita
dalla mancanza, più o meno accentuata, di tali requisiti. E’ bene precisare che
questi profili si basano sulle propensioni “esogene”, ossia sui fattori passati in
rassegna in precedenza che, indipendentemente da una scelta consapevole,
possono influire sulla propensione all’esercizio del voto.
L’elettore abituale
standard è di norma definito dal possesso di uno status economico
soddisfacente, con tempo libero disponibile dedicato all’abituale accesso
all’informazione, di buona conoscenza e cultura, inserito in una rete ampia di
relazioni, con occasioni abituali di dialogo e confronto, ed infine in possesso
di una solida cultura civica di base.
Questa
sorta di “dotazione
civica” (che
può essere più o meno accentuata da fattori come il genere e l’età) mantiene
nel tempo la sua efficacia rendendo costante la partecipazione al voto perché
di norma in grado di superare eventuali momenti di disaffezione ed incertezza.
Una propensione
al non voto può pertanto emergere
quando almeno una parte significativa di questi requisiti viene a mancare
rendendo così carente la dotazione civica (si
tratta sicuramente di una carenza diretta conseguenza di una precaria
situazione socio-economica, per intervenire sulla quale non si può prescindere
da azioni di carattere strutturale).
Il quadro muta però se si passa a considerare lo stadio successivo:
quello dell’astensionismo volontario,
quello in cui sulla propensione al non voto così definita si innesta un
definitiva scelta verso l’astensione, quello in cui il non voto si manifesta pienamente
come conseguenza
di un comportamento razionale che esprime una risposta all’offerta politica,
quello in cui l’astensionismo smette cioè di
essere la possibile conseguenza di fattori esogeni e diventa una delle tante
alternative in campo che l’elettore sceglie coscientemente.
Anche
in questo caso le interpretazioni delle scienze sociali sintetizzate dalla
Sampugnaro si aprono in un ventaglio di più approcci al tema: il primo è quello
definibile come “economico-razionale”
(votare
“con la tasca”), che ha al suo centro il connubio “domanda/offerta”, proprio del
libero mercato, applicato al gioco elettorale (in
una versione decisamente più raffinata di quella richiamata in apertura di questo
post). In questa interpretazione del voto/non voto, nelle società a
democrazia avanzata nelle quali i diritti fondamentali sono mediamente dati per
scontati, l’elettore è portato a considerare le varie opzioni
politiche in relazione al proprio status sociale e di reddito, manifestando
così una concezione laica e “interessata” della partecipazione al voto che di
per sé comunque non esclude considerazioni di utilità collettiva purchè non
compromettano status e reddito, la vera discriminante della scelta elettorale.
Se
l’offerta politica, così valutata, non sembra offrire interessanti ed evidenti diversità
(in quanto nessuna sembra
fornire un ritorno positivo tale da essere premiato ovvero un ritorno negativo
tale da essere penalizzato votando altre proposte) l’elettore
razionalmente può manifestare un orientamento all’astensionismo.
Per l’approccio utilitaristico la
democrazia di massa è di fatto sostenuta, nella sua versione più vera, da una “minoranza di cittadini informati ed attivi”
che dedicano tempo ed energie per acquisire conoscenze e strumenti di
valutazione, un’autentica élite, mentre la grande
maggioranza degli elettori valuta anche il ricorso ad un’informazione politica
più approfondita esclusivamente come costo, soprattutto in termini di tempo ed
energie sottratti ad altre utilità
Su
questa base si innesca una seconda linea di pensiero che accentua il peso delle
modalità di formazione della “razionalità politica ed elettorale”. Proprio
la percezione del costo dell’ informazione utile per una scelta più ragionata induce
l’elettore, che comunque ancora mantiene una certa razionalità nel suo
approccio al voto, a ricorrere ad alternative, meno “costose”:
quali “l’ideologia”
- quasi sempre quella ricevuta in famiglia, nella cerchia delle amicizie, nei
luoghi di frequentazione sociale - piuttosto che le fonti di “informazione gratuita”
– media e social già a portata di mano (nei
quali però, come evidenziato in precedenza, la spettacolarizzazione della
politica ed il ruolo dei leader contano molto)
– ovvero l’ “informazione di prossimità” (ambito familiare e parentale, amicizie
e colleghi di lavoro) quella immediatamente a portata di mano.
Quando
però da questo insieme di fonti non emerge una indicazione giudicata certa e
rassicurante, tale cioè da non richiedere ulteriore informazione, l’astensionismo diventa una opzione
sbrigativa e risolutiva. Il peso delle informazioni e delle modalità della
loro acquisizione resta centrale anche per un terzo approccio al
tema del voto/non voto che mette al suo centro una tipologia di elettore che, a
differenza dei primi due modelli, ne è di norma privo in forma stabile.
L’assenza
totale di una seppur minima “sofisticazione informativa” viene di norma
compensata dall’accumulo di esperienze e di “scampoli informativi” che si sono,
casualmente e disordinatamente, sedimentati a formare degli schemi di lettura e
interpretazione delle dinamiche sociali e politiche. L’aspetto negativo di questa
semi-razionalità elettorale sta nel rischio della formazione di preconcetti stereotipati che si autoriproducono costantemente senza che
siano mai sottoposti ad una vera verifica, tanto da divenire delle autentiche “scorciatoie
informative”.
La
debolezza di valutazione che ne consegue rende questa tipologia di elettore
molto influenzabile da eventi, di una certa rilevanza, che possono avvenire a
ridosso del voto ovvero dal percepire umori diffusi, anche se non motivati, che
lo inducono ad una sorta di presunzione, quella di ritenere che la sua scelta
di votare (in una certa
direzione), ma soprattutto quella di non votare, sarà la stessa di tanti altri,
creando così uno scudo protettivo verso la sua insicurezza, la sua
disinformazione, il suo disinteresse.
Un
ultimo approccio si distacca nettamente dai tre precedenti (in qualche modo fra di loro
intrecciati) della razionalità economica, della
razionalità informativa, della razionalità esperienziale, per porre al centro
dell’attenzione un autentico valore democratico: il “dovere civico del voto inteso come norma
sociale”.
Si
è di fronte ad una motivazione civica che, in modo trasversale, è condivisa da
una parte non indifferente dell’elettorato che ritiene che il voto abbia un “valore in sé”,
sganciato dall’esito delle elezioni. Di norma si accompagna ad una consapevole identificazione
con una parte dello schieramento politico (tutt’al
più variando fra i singoli partiti che la compongono)
che, unitamente al senso di dovere civico, forma una concezione del voto
fortemente orientata dal valore dell’“efficacia politica”, che diventa non solo
la vera finalità dell’esercizio democratico del voto, ma anche il metro
principale per misurarne lo stato di salute.
Sembrerebbe
quindi che sussistano convinzioni tali da escludere una propensione al non voto,
eppure una qualche disaffezione può prendere corpo anche in questa parte
dell’elettorato se sollecitata dalla constatazione dell’incapacità, misurata
razionalmente, del sistema dei partiti e della politica in generale di
mantenere una adeguata efficacia. Il non voto può manifestarsi cioè proprio come
conseguenza di una percepita incapacità della politica di affrontare
“efficacemente” gli snodi alla base della competizione elettorale (incide moltissimo in questo senso la
oggettiva crisi delle politiche nazionali sempre più svuotate di reale potere nel
contesto globalizzato).
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Si
chiude con quest’ultima rassegna delle tipologie più comuni dell’astensionista la
parte più “scientifica”
del saggio della Sampugnaro che passa, su queste basi, a valutare la
convinzione, sempre più diffusa, che l’astensionismo,
nelle sue varie forme, componenti e modalità di manifestazioni, non sia solo
una reazione ad una offerta politica giudicata inadeguata, ma che possa essere
anche indizio di una crisi “strutturale” della democrazia rappresentativa
e dei suoi meccanismi.
A
giudizio di molti, nella sua recente crescita esponenziale, è infatti sempre
più possibile intravedere una sfiducia di fondo verso il meccanismo fondante
della democrazia rappresentativa, del voto inteso come “delega”. Se così
fosse, valutare l’astensionismo attraverso il
filtro della sua connessione con il sistema dei partiti, con uno “sguardo dall’alto”,
potrebbe non essere sufficiente per coglierne l’intera sua valenza.
Sarebbe
cioè riduttivo interpretarlo solo come il sintomo degli attuali limiti dell’azione
politica, se fosse vero che esso abbia ormai assunto i connotati, ancora non
ben definiti, di
una trasformazione delle forme contemporanee di espressione democratica e di
cittadinanza moderna. Non meno riduttivo e persino pericoloso (anche considerando le sue molteplici
forme e articolazioni esaminate in precedenza) è allora
continuare a giudicarlo, e a condannarlo eticamente, come l’espressione immatura
di una marginalità sociale e politica.
Non
mancano tentativi (molto
più presenti nelle scienze sociali che nelle stanze dei partiti)
per una sua lettura più approfondita e meno preconcetta, alcuni dei quali (fra gli altri quello di Nadia Urbinati,
politologa italiana naturalizzata statunitense, docente presso la Columbia
University) che, insistendo proprio sulla centralità
della sua relazione con il “principio della delega”, prefigurano il
possibile consolidarsi di una forma di “astensionismo militante”
foriero di un’esigenza di una diversa articolazione dei classici meccanismi
democratici.
Visto
in questa diversa prospettiva l’astensionismo
smette di essere solamente un ingombro nelle normali analisi delle variazioni
di voto per assumere la veste di un elemento “a sé stante”, in grado di incidere
in modo determinante sugli esiti elettorali (un
esempio sono le elezioni amministrative a doppio turno in molte delle quali
l’esito finale del ballottaggio è sempre più deciso dagli elettori del primo
turno che decidono di non parteciparvi).
Iniziare
a considerare l’astensionismo (o perlomeno una parte di esso) in
questa diversa prospettiva di scelta consapevole (che
non è quindi traducibile in un atteggiamento a-politico) implica,
riprendendo i temi trattati in precedenza, anche una rilettura del peso dei
diversi fattori che incidono sulle dinamiche del voto/non voto:
Ø
istruzione = di norma, come si è visto, un buon
livello di istruzione, che consente un maggiore accesso critico alle
informazioni, è a lungo stato sinonimo di partecipazione consapevole al voto.
Tuttavia negli ultimi decenni lo studio statistico dei trend di voto ha
evidenziato una inversione di
tendenza: proprio
perché in possesso di capacità di orientamento autonomo nella scelta elettorale,
questa può essere divenuta oggetto di costante rivalutazione, nella quale
sentimenti di insoddisfazione politica possono sfociare in un astensionismo selettivo come forma di critica all’intero sistema partitico. Non di rado però questa forma,
altalenante, di non voto si accompagna a forme
di coinvolgimento civico e sociale,
che conferiscono ad esso un aspetto retrospettivo (quello della valutazione negativa
dell’offerta politica)
ed al tempo stesso uno prospettivo (quello di relazionare la scelta
elettorale all’attivismo sociale)
Ø
benessere/malessere
economico
= scontata la relazione
fra astensionismo e fasce economicamente disagiate (per l’insieme di combinazioni che,
come se è visto, si possono creare con basso livello di istruzione, scarso e
acritico accesso all’informazione)
studi recenti evidenziano una propensione astensionistica anche nelle fasce che
godono di un certo benessere. In alcuni casi determinata da apatico disinteresse
verso la sfera pubblica (specie
da parte di chi ha stili di vita consumistici fortemente individualisti), ma non è irrilevante il peso di
chi, acquisita una buona sicurezza esistenziale, matura un interesse, spesso dovuto a una formazione etica, verso temi civici, sociali
e culturali, che può determinare un giudizio critico sulla efficacia della politica
proprio in relazione a tali questioni.
In questo quadro il non voto si rivela maturo e consapevole (proprio perché coerente con la scelta
della partecipazione attiva),
ma non meno selettivo ed attento alle dinamiche politiche (tanto da rivelarsi non di rado reversibile).
Di
tutt’altro segno è il peso dell’attuale informazione, intesa in senso lato nelle
sue varie odierne articolazioni tecnologiche, per quanto molto rilevante nei
meccanismi, individuali e collettivi, di maturazione degli orientamenti
elettorali. Per una fascia tutt’altro che trascurabile dei potenziali elettori
quella offerta dai talkshow è la fonte principale, spesso persino l’unica, di “partecipazione al
dibattito politico” ed altrettanto rilevante è l’influenza della sua
“spettacolarizzazione”,
nella quale l’approfondimento ha da tempo ceduto spazio al confronto urlato (in cui l’iper-critica dell’avversario
prevale sulla proposta politica) ed al personale fascino del leader.
L’invadente
quantità e la scarsa qualità di questa informazione possono risultare
determinanti per la parte dell’elettorato (quella
meno attrezzata ad una valutazione ragionata dell’offerta politica e più
sensibile al fascino di slogan tanto accattivanti quanto superficiali e
semplificanti) ma possono, sul lungo periodo, innescare una reazione (diversamente stratificata nelle varie fasce
dell’elettorato) di stanchezza e di disaffezione, tali da incentivare un
astensionismo volontario ma passivo
(una constatazione che sembra confortata
dalla concomitanza della sua recente evoluzione con l’affermarsi diffuso
dell’informazione politica spettacolarizzata e urlata).
L’influenza
dell’informazione, di questa informazione, può quindi rappresentare (oltre ad essere un preoccupante indice di
degrado dell’offerta politica) un ulteriore rilevante fattore di
allontanamento dalla partecipazione elettorale, difficilmente recuperabile per
forme di impegno sociale e politico.
L’insieme
di questi tre fattori delinea un quadro che rafforza l’ipotesi che una più
attenta lettura dell’astensionismo implichi una complessiva
ridefinizione “del diritto di
voto”, all’interno della quale vanno riviste tutte le categorie
delle azioni e dei meccanismi che hanno sin qui costituito la “mobilitazione
elettorale”.
Lo
studio dell’astensionismo, se affrontato
nella sua vera essenza, smette allora di essere solo un dato statistico e
mediatico di spostamenti di flussi elettorali per divenire una indagine che
rimette al centro della sua attenzione “il senso ultimo del voto democratico”. Innanzitutto
perché (ed è, a ben vedere,
la motivazione che promuove l’astensionismo militante) il voto, per il
cumulo dei fattori fin qui esaminati, ha perso per strada le caratteristiche (possedute per quasi tutto il
Novecento) di un rituale, persino festoso, capace di interrompere
il normale fluire degli eventi politici.
Si
è ormai entrati, a giudizio di molti analisti, in una fase “post rappresentativa”,
in cui il “post”
indica la fase discendente di una traiettoria a parabola che vede un fenomeno sociale e
politico nascere sulla base di una spinta, raggiungere un punto culminante di
consenso, per poi da lì iniziare, fisiologicamente a declinare. Ciò
implica inevitabilmente uno svuotamento progressivo delle istituzioni nate sulla
base di quella spinta e dei meccanismi, “voto compreso”, con cui si era
concretizzato.
L’astensionismo, se in questo modo
interpretato, è un importante indicatore per capire che, in questa fase “post”,
un nuovo ciclo democratico deve nutrirsi di una sana discussione pubblica (avendo
finalmente il coraggio di normarla per sottrarla alle logiche del mercato
elettorale), di un vero pluralismo rispettoso delle differenze (il
contrasto, anche acceso, di idee è il sale della democrazia), di una buona qualità dell’informazione
e della conoscenza, ed anche dell’accettazione e della promozione di
altre forme di partecipazione e decisione
più commiserate all’attuale frantumazione dei momenti e dei luoghi
decisionali (nuovo
connubio fra democrazia rappresentativa e democrazia
partecipativa) e (con
giudizio!) alle nuove modalità di comunicazione collettiva.
In
questo quadro il “cittadino” smette di essere di una sorta di “cliente” da
corteggiare in occasione del voto per tornare ad essere, individuando ed
intervenendo su tutti i fattori ostativi (quelli
qui analizzati), un soggetto sociale e politico che
percepisce di essere davvero in grado di orientare, con il voto (di tutti) e
con l’impegno (di
chi è più motivato), le scelte collettive.
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