giovedì 2 gennaio 2025

La Parola del mese - Gennaio 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GENNAIO 2025

Dopo che per diverse elezioni il “partito del non voto” è risultato essere quello di maggioranza relativa, nelle ultime tornate elettorali sembra essere ormai evoluto a quello di maggioranza assoluta. Succede in Italia, ma non diversamente in molte democrazie rappresentative soprattutto occidentali. In questi paesi, ad economia di mercato, una possibile spiegazione di questo fenomeno è solitamente consistita nel richiamare la logica di “domanda/offerta”: a fronte di un’offerta politica/partitica percepita come inadeguata si è cioè reso inevitabile il crollo della collegata domanda, ossia il voto. E’ una spiegazione per alcuni versi condivisibile, ma non più sufficiente da sola a spiegare una tendenza così accentuata e consolidata da rappresentare un aspetto ormai costitutivo dell’attuale democrazia rappresentativa. Sembra quindi necessario indagare più in profondità le possibili ragioni che spiegano la Parola di questo mese ……

ASTENSIONISMO

astensionismo, derivato da astensione (sul modello del francese  abstentionnisme) = L’astenersi di proposito, per ostentazione di indifferenza o di protesta, dal partecipare alla vita politica o da un determinato atto politico (votazioni, riunioni, e similari) – Vocabolario Treccani on line

Per farlo è utile capire come le scienze sociali abbiano affrontato questo tema, considerato che sui media, per non dire nel dibattito politico, l’attenzione, di norma basata solo su analisi dei flussi elettorali, non va mai molto oltre la constatazione del suo crescente peso restando centrale la valutazione delle dinamiche del voto espresso. Un saggio di recente pubblicazione offre invece una interessante sintesi del dibattito culturale attorno a ciò che è richiamato nel suo titolo…..

la cui autrice è Rossana Sampugnaro (Docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università di Catania)

 

l’astensionismo è una possibilità nelle mani dell’elettore per esprimere un suo orientamento nei confronti del sistema politico e dei partiti: disappunto, protesta, ostilità o sfiducia nei confronti dei principali attori, ma anche giudizi sulla scarsa efficacia dell’azione politica e sulla inutilità delle assemblee rappresentative…

l saggio della Sampugnaro inizia presentando nell’introduzione questa definizione di astensionismo che, riassumendo un giudizio mediamente condiviso da tutti gli studi sul tema, già offre una significativa indicazione là dove, in aggiunta alle problematiche dell’attuale rapporto fra elettori e sistema dei partiti, chiama esplicitamente in causa: la scarsa efficacia dell’azione politica e la percepita inutilità delle assemblee rappresentative.

All’interno di questa comune definizione emergono però differenze davvero significative fra i modi con cui l’astensionismo è stato a lungo interpretato in Europa rispetto agli USA, dove, a differenza del vecchio continente, l’interesse verso di esso è sempre stato decisamente minore. Un atteggiamento che trova spiegazione nella consolidata certezza della solidità storica della democrazia statunitense che per i due secoli e più della sua esistenza non ha mai conosciuto particolari crisi.

Le sue particolari forme di funzionamento, non prevedono l’esistenza di un “obbligo al voto” (la volontà di votare dei cittadini che possiedono i requisiti per farlo deve essere, di volta in volta, espressa con una specifica richiesta di iscrizione ai registri elettorali), in un simile contesto la partecipazione al voto (sempre altalenante e mai arrivato alle percentuali europee) non ha mai rappresentato un particolare campanello d’allarme, al contrario lo è stato, paradossalmente, un alto livello di partecipazione perché percepito come una sorta di manifestazione di sfiducia verso il garantito buon funzionamento delle istituzioni (non a caso i due grandi partiti americani hanno le caratteristiche di “partiti elettorali” che si attivano solo in occasione di competizioni, ma che non possiedono strutture permanenti di mobilitazione e di attivismo politico storicamente giudicate non necessarie proprio per la certezza del buon funzionamento della democrazia così come concepita dai Padri Fondatori).

Di tutt’altro segno è il tradizionale approccio europeo al tema che risente di un percorso storico diametralmente opposto, nel quale la conquista e la difesa della democrazia dalle ripetute deviazioni autoritarie sono sempre state sostenute dall’attiva partecipazione, elettorale e non, dei cittadini. In questo quadro l’eccesso di astensionismo poteva assumere i caratteri di una emergenza democratica proprio perché possibile indicatore di una pericolosa caduta di sensibilità democratica.

Di recente questi due distinti approcci stanno però conoscendo una comune nuova attenzione verso l’astensionismo sollecitata dai profondi cambiamenti avvenuti a livello globale nel quadro geopolitico, nelle relazioni sociali e nella cultura politica. Prima di entrare nel merito di questa nuova sensibilità al tema e prima di analizzare gli oggettivi trend della partecipazione al voto nel mondo occidentale ed in particolare in Italia la Sampugnaro presenta una interessante panoramica dei differenziati comportamenti elettorali che confluiscono nella generica definizione di astensionismo, che bene evidenzia quanto siano riduttive se non fuorvianti le sue generiche interpretazioni.

Con questo termine ci si riferisce genericamente a coloro che, pur avendone diritto, rinunciano ad esprimere il loro voto, ma è bene ricordare che il titolo di elettore viene assegnato in modi differenti da paese a paese. Negli USA, come visto in precedenza, è prevista una adesione volontaria voto per voto, in Italia, ed in buona parte dei paesi occidentali (seppure con differenti modalità e gradazioni) lo si diventa automaticamente al compimento dell’età minima prevista. Un secondo aspetto, solo in apparenza “tecnico”, consiste nei diversi modi di classificare i “non voto”, in alcuni paesi formano il loro totale tutti i voti non chiaramente espressi astenuti inclusi, in altri, Italia compresa, lo sono solo gli elettori che non si sono presentati alle urne, le schede bianche o nulle sono conteggiate a parte

Una prima categoria di astensionisti, definita “astensionismo assoluto o cronico”, comprende gli elettori che, per variegate ragioni, mantengono nel tempo un ostinato e preconcetto rifiuto all’esercizio del voto, all’estremo opposto si trovano gli “elettori assidui”, ossia coloro che, magari con motivazioni altrettanto variegate, comunque si recano alle urne.

Fra questi due estremi esiste la “terra di mezzo” dell’“elettorato fluttuante o intermittente”, vale a dire elettori che decidono di volta in volta, esprimendo così tendenze mutevoli, se votare o no. E’ la fascia di elettorato sulla quale più si concentra l’attenzione delle scienze sociali per tentare di individuare quali fattori siano intervenuti per orientare al voto o al non voto e di cogliere il manifestarsi di processi di consolidamento in un senso o nell’altro.

Di conseguenza la mutevolezza di comportamento elettorale di questa decisiva ampia fascia viene tecnicamente suddivisa in una “componente congiunturale”, aventi diritto al voto che ogni volta decidono il da farsi, ed in una “componente consolidata”, composta da coloro che stanno progressivamente confermando la loro scelta (ad esempio quella di partecipare a certe elezioni, perché considerate davvero importanti, ma non ad altre). La prima componente pratica un “astensionismo fluttuante”, la seconda un “astensionismo selettivo”.

Le motivazioni di primo impatto che di più sembrano incidere sui comportamenti elettorali della “terra di mezzo”, quella che di fatto determina l’evoluzione, positiva o negativa, dell’astensionismo, sono individuate dagli studi scientifici sul tema in:

Ø caratteristiche e trasformazioni del sistema partitico di riferimento

Ø frequenza di appuntamenti elettorali

Ø cambiamento delle modalità di voto

Ø incidenza mediatica dei sondaggi pre-voto (con esito scontato o più o meno incerto)

Ø bassa o nulla probabilità di successo del candidato e del partito preferito

Ø volontà di esprimere proteste o rivendicazioni diversamente non accolte

Sono alcuni dei fattori esterni che possono predisporre ad una scelta astensionistica, ma perché questa abbia davvero luogo deve intervenire una scelta consapevole, una precisa volontà in tal senso, che gli studi sul tema definiscono “astensionismo volontario”, che a sua volta può avere una connotazione “passiva”, se determinato quasi esclusivamente da basso livello di informazione e di interesse verso la politica, piuttosto che “attiva”, se mosso da una scelta ragionata e motivata da fattori precisi.

Di norma la prima denota una combinazione di marginalità sociale ed un eccesso di individualismo asociale tali da generare una sorta di persistente “apatia”, una “motivazione fredda”, la seconda invece si spiega con il prevalere di sentimenti di rabbia e delusione innescati da una percepita “alienazione” verso il quadro politico ed istituzionale, e quindi una “motivazione calda”.

Emerge in sintesi un quadro concettuale che evidenzia quanto possa essere complessa l’individuazione e l’analisi dei comportamenti elettorali che indistintamente sono fatti rientrare nel concetto di astensionismo, i cui dati statistici devono quindi essere, per essere meglio compresi, adeguatamente scomposti.

Fatta salva questa avvertenza, il quadro statistico globale (che in questa sintesi limitiamo ai dati essenziali delle elezioni politiche generali ma il saggio ne contiene molti altri) evidenzia una interessante convergenza fra le aree continentali:

 

Va da sé che in questo grafico sono assemblate situazioni nazionali molto differenziate fra loro (ad esempio il dato europeo mette insieme democrazie consolidate e paesi fino al 1989/1990 sotto il blocco sovietico) e che gli scostamenti possono essere spiegati da specifici fattori

E’ evidente nel periodo in esame un comune trend di disaffezione al voto che ha portato le democrazie rappresentative dell’intero pianeta a misurarsi con percentuali di astensionismo pressochè simili, la situazione europea ed italiana appare poi (fatta salva l’eccezione svedese) non meno indicativa e condivisa. Di seguito le percentuali dei votanti:


  

Così attestano i dati delle democrazie rappresentative più storicamente consolidate, ma non è diversa la tendenza anche per i paesi, come Grecia Portogallo e Spagna, che hanno tardivamente conquistato una democrazia elettorale.

Venendo infine al dettaglio della situazione italiana è interessante rilevare, lungo tutte le elezioni avvenute a partire dall’avvento della Repubblica, il peso del partito del non voto (astensioni più bianche/nulle) raffrontato con quello ottenuto dai primi due partiti:


Emerge con evidenza come, terminata nel 1992/1996 la fase bloccata di sostanziale bipolarismo, il partito del non voto, a partire dal 2013, sia ormai quello sempre più consistente

Può infine essere utile rilevare la ripartizione per macro-aree interne del voto italiano nel periodo che ha visto concretizzarsi tale ascesa

Sarebbero, ovviamente, molte le considerazioni che emergono incrociando questi dati con le varie forme di astensionismo, ci limitiamo qui a riportare quelle più immediatamente utili per il normale fine di una “Parola del mese”, iniziando da quelle diverse da quello “volontario” per poi successivamente concentrarci su di esso.

Nella trattazione della Sampugnaro dalle prime emergono quattro principali schemi interpretativi che mettono in ordine i vari fattori che le caratterizzano:

fattori macro distanti = quelli “esterni all’elettore che rientrano nel contesto complessivo, entro il quale si forma il suo orientamento, quali:

Ø la cultura politica, intesa come valori condivisi e come comportamenti sociali consolidati

Ø il sistema elettorale (l’opinione mainstream ritiene che il sistema maggioritario incentivi l’astensionismo più del proporzionale perché può indurre all’astensione l’elettore orientato verso un partito con scarse possibilità di vittoria)

Ø le forme organizzative delle operazioni elettorali,  i giorni di voto  e le modalità (solo in presenza, anche elettronica, possibilità di voto in sedi diverse dalla residenza)

Ø l’importanza delle elezioni (tecnicamente distinte fra un primo livello: quelle nazionali o sovrannazionali, ed un secondo livello: quelle locali ed i referendum) e la loro diversa attrattività

Ø la frammentazione eccessiva dell’offerta partitica e la confusione che ne può derivare

fattori macro prossimi = come i precedenti, ma più vicini al contesto dell’elettore, quali:

Ø eventi pubblici che, molto ravvicinati al voto, incidono sulla predisposizione psicologica

Ø le modalità di conduzione della campagna elettorale e la loro capacità di colpire la sfera individuale dell’elettore

Ø la spettacolarizzazione mediatica di avvenimenti di forte impatto emotivo

Ø il rapporto diretto (o filtrato dalla Rete) con associazioni, movimenti, gruppi di pressione

fattori micro prossimi = altrettanto correlati alla dimensione individuale dell’elettorale, ma, a differenza dei precedenti, molto più connessi al suo specifico contesto, quali:

Ø l’interazione diretta con la cerchia di conoscenze (famiglia allargata, amicizie, rapporti nel mondo del lavoro)

Ø la ricaduta (percepita come tale) sulle condizioni sociali ed economiche

Ø la percezione di un esito elettorale molto incerto e capace di incidere direttamente sul proprio status

Ø la volontà (di norma maturata su tempi medio lunghi, ma anche emersa nel breve periodo a ridosso del voto) di “punire” - “premiare” una determinata proposta politica

Ø il personale coinvolgimento favorevole/sfavorevole verso uno specifico candidato (a partire dagli stessi leader)

fattori micro distanti = come quelli “macro distanti” non sono immediatamente associabili alla sfera personale dell’elettore pur avendo una valenza molto più circoscritta, quali

Ø la qualità dell’istruzione e l’appartenenza a classi/gruppi sociali

Ø il contesto sociale e culturale del territorio di appartenenza più prossimo

Ø l’appartenenza a partiti, gruppi religiosi, associazioni

Ø la qualità delle informazioni su cui si basano i personali giudizi

Sono, come si può cogliere, elementi molto variegati che si prestano ad intrecci non meno complessi che da una parte ribadiscono nel loro insieme la fallacia di semplificazioni eccessive ed azzardate e dall’altra giocano un ruolo decisivo sulla volontà a partecipare al voto rafforzandola se fra loro si incrociano in un certo modo, ovvero disincentivandola se di segno opposto.

All’interno di questo quadro generale (con riferimento alla varie forme di astensionismo elencate in precedenza) le scienze sociali hanno inoltre individuato i requisiti che potrebbero definire una sorta di tipologia standard di “elettore(la cui effettiva validità resta comunque sempre molto indicativa) utile per costruire il corrispondente profilo del “non elettore” a sua volta definita dalla mancanza, più o meno accentuata, di tali requisiti. E’ bene precisare che questi profili si basano sulle propensioni “esogene”, ossia sui fattori passati in rassegna in precedenza che, indipendentemente da una scelta consapevole, possono influire sulla propensione all’esercizio del voto.

L’elettore abituale standard è di norma definito dal possesso di uno status economico soddisfacente, con tempo libero disponibile dedicato all’abituale accesso all’informazione, di buona conoscenza e cultura, inserito in una rete ampia di relazioni, con occasioni abituali di dialogo e confronto, ed infine in possesso di una solida cultura civica di base.

Questa sorta di “dotazione civica(che può essere più o meno accentuata da fattori come il genere e l’età) mantiene nel tempo la sua efficacia rendendo costante la partecipazione al voto perché di norma in grado di superare eventuali momenti di disaffezione ed incertezza. Una propensione al non voto può pertanto emergere quando almeno una parte significativa di questi requisiti viene a mancare rendendo così carente la dotazione civica (si tratta sicuramente di una carenza diretta conseguenza di una precaria situazione socio-economica, per intervenire sulla quale non si può prescindere da azioni  di carattere strutturale).

Il quadro muta però se si passa a considerare lo stadio successivo: quello dell’astensionismo volontario, quello in cui sulla propensione al non voto così definita si innesta un definitiva scelta verso l’astensione, quello in cui il non voto si manifesta pienamente come conseguenza di un comportamento razionale che esprime una risposta all’offerta politica, quello in cui l’astensionismo smette cioè di essere la possibile conseguenza di fattori esogeni e diventa una delle tante alternative in campo che l’elettore sceglie coscientemente.

Anche in questo caso le interpretazioni delle scienze sociali sintetizzate dalla Sampugnaro si aprono in un ventaglio di più approcci al tema: il primo è quello definibile come “economico-razionale” (votare “con la tasca”), che ha al suo centro il   connubio “domanda/offerta”, proprio del libero mercato, applicato al gioco elettorale (in una versione decisamente più raffinata di quella richiamata in apertura di questo post). In questa interpretazione del voto/non voto, nelle società a democrazia avanzata nelle quali i diritti fondamentali sono mediamente dati per scontati, l’elettore è portato a considerare le varie opzioni politiche in relazione al proprio status sociale e di reddito, manifestando così una concezione laica e “interessata” della partecipazione al voto che di per sé comunque non esclude considerazioni di utilità collettiva purchè non compromettano status e reddito, la vera discriminante della scelta elettorale.

Se l’offerta politica, così valutata, non sembra offrire interessanti ed evidenti diversità (in quanto nessuna sembra fornire un ritorno positivo tale da essere premiato ovvero un ritorno negativo tale da essere penalizzato votando altre proposte) l’elettore razionalmente può manifestare un orientamento all’astensionismo.

Per l’approccio utilitaristico la democrazia di massa è di fatto sostenuta, nella sua versione più vera, da una “minoranza di cittadini informati ed attivi” che dedicano tempo ed energie per acquisire conoscenze e strumenti di valutazione, un’autentica élite, mentre la grande maggioranza degli elettori valuta anche il ricorso ad un’informazione politica più approfondita esclusivamente come costo, soprattutto in termini di tempo ed energie sottratti ad altre utilità

Su questa base si innesca una seconda linea di pensiero che accentua il peso delle modalità di formazione della “razionalità politica ed elettorale”. Proprio la percezione del costo dell’ informazione utile per una scelta più ragionata induce l’elettore, che comunque ancora mantiene una certa razionalità nel suo approccio al voto, a ricorrere ad alternative, meno “costose: quali “l’ideologia” - quasi sempre quella ricevuta in famiglia, nella cerchia delle amicizie, nei luoghi di frequentazione sociale - piuttosto che le fonti di “informazione gratuita” – media e social già a portata di mano (nei quali però, come evidenziato in precedenza, la spettacolarizzazione della politica ed il ruolo dei leader contano molto) –  ovvero l’ “informazione di prossimità(ambito familiare e parentale, amicizie e colleghi di lavoro) quella immediatamente a portata di mano.

Quando però da questo insieme di fonti non emerge una indicazione giudicata certa e rassicurante, tale cioè da non richiedere ulteriore informazione, l’astensionismo diventa una opzione sbrigativa e risolutiva. Il peso delle informazioni e delle modalità della loro acquisizione resta centrale anche per un terzo approccio al tema del voto/non voto che mette al suo centro una tipologia di elettore che, a differenza dei primi due modelli, ne è di norma privo in forma stabile.

L’assenza totale di una seppur minima “sofisticazione informativa” viene di norma compensata dall’accumulo di esperienze e di “scampoli informativi” che si sono, casualmente e disordinatamente, sedimentati a formare degli schemi di lettura e interpretazione delle dinamiche sociali e politiche. L’aspetto negativo di questa semi-razionalità elettorale sta nel rischio della formazione di preconcetti stereotipati che si autoriproducono costantemente senza che siano mai sottoposti ad una vera verifica, tanto da divenire delle autentiche “scorciatoie informative”.

La debolezza di valutazione che ne consegue rende questa tipologia di elettore molto influenzabile da eventi, di una certa rilevanza, che possono avvenire a ridosso del voto ovvero dal percepire umori diffusi, anche se non motivati, che lo inducono ad una sorta di presunzione, quella di ritenere che la sua scelta di votare (in una certa direzione), ma soprattutto quella di non votare, sarà la stessa di tanti altri, creando così uno scudo protettivo verso la sua insicurezza, la sua disinformazione, il suo disinteresse.

Un ultimo approccio si distacca nettamente dai tre precedenti (in qualche modo fra di loro intrecciati) della razionalità economica, della razionalità informativa, della razionalità esperienziale, per porre al centro dell’attenzione un autentico valore democratico: il “dovere civico del voto inteso come norma sociale”.

Si è di fronte ad una motivazione civica che, in modo trasversale, è condivisa da una parte non indifferente dell’elettorato che ritiene che il voto abbia un “valore in sé”, sganciato dall’esito delle elezioni. Di norma si accompagna ad una consapevole identificazione con una parte dello schieramento politico (tutt’al più variando fra i singoli partiti che la compongono) che, unitamente al senso di dovere civico, forma una concezione del voto fortemente orientata dal valore dell’“efficacia politica”, che diventa non solo la vera finalità dell’esercizio democratico del voto, ma anche il metro principale per misurarne lo stato di salute.

Sembrerebbe quindi che sussistano convinzioni tali da escludere una propensione al non voto, eppure una qualche disaffezione può prendere corpo anche in questa parte dell’elettorato se sollecitata dalla constatazione dell’incapacità, misurata razionalmente, del sistema dei partiti e della politica in generale di mantenere una adeguata efficacia. Il non voto può manifestarsi cioè proprio come conseguenza di una percepita incapacità della politica di affrontare “efficacemente” gli snodi alla base della competizione elettorale (incide moltissimo in questo senso la oggettiva crisi delle politiche nazionali sempre più svuotate di reale potere nel contesto globalizzato).

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Si chiude con quest’ultima rassegna delle tipologie più comuni dell’astensionista la parte più “scientifica” del saggio della Sampugnaro che passa, su queste basi, a valutare la convinzione, sempre più diffusa, che l’astensionismo, nelle sue varie forme, componenti e modalità di manifestazioni, non sia solo una reazione ad una offerta politica giudicata inadeguata, ma che possa essere anche indizio di una crisi “strutturale” della democrazia rappresentativa e dei suoi meccanismi.

A giudizio di molti, nella sua recente crescita esponenziale, è infatti sempre più possibile intravedere una sfiducia di fondo verso il meccanismo fondante della democrazia rappresentativa, del voto inteso come “delega”. Se così fosse, valutare l’astensionismo attraverso il filtro della sua connessione con il sistema dei partiti, con uno “sguardo dall’alto”, potrebbe non essere sufficiente per coglierne l’intera sua valenza.

Sarebbe cioè riduttivo interpretarlo solo come il sintomo degli attuali limiti dell’azione politica, se fosse vero che esso abbia ormai assunto i connotati, ancora non ben definiti, di una trasformazione delle forme contemporanee di espressione democratica e di cittadinanza moderna. Non meno riduttivo e persino pericoloso (anche considerando le sue molteplici forme e articolazioni esaminate in precedenza) è allora continuare a giudicarlo, e a condannarlo eticamente, come l’espressione immatura di una marginalità sociale e politica.

Non mancano tentativi (molto più presenti nelle scienze sociali che nelle stanze dei partiti) per una sua lettura più approfondita e meno preconcetta, alcuni dei quali (fra gli altri quello di Nadia Urbinati, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente presso la Columbia University) che, insistendo proprio sulla centralità della sua relazione con il “principio della delega”, prefigurano il possibile consolidarsi di una forma di “astensionismo militante” foriero di un’esigenza di una diversa articolazione dei classici meccanismi democratici.

Visto in questa diversa prospettiva l’astensionismo smette di essere solamente un ingombro nelle normali analisi delle variazioni di voto per assumere la veste di un elemento “a sé stante”, in grado di incidere in modo determinante sugli esiti elettorali (un esempio sono le elezioni amministrative a doppio turno in molte delle quali l’esito finale del ballottaggio è sempre più deciso dagli elettori del primo turno che decidono di non parteciparvi).

Iniziare a considerare l’astensionismo (o perlomeno una parte di esso) in questa diversa prospettiva di scelta consapevole (che non è quindi traducibile in un atteggiamento a-politico) implica, riprendendo i temi trattati in precedenza, anche una rilettura del peso dei diversi fattori che incidono sulle dinamiche del voto/non voto:

Ø istruzione = di norma, come si è visto, un buon livello di istruzione, che consente un maggiore accesso critico alle informazioni, è a lungo stato sinonimo di partecipazione consapevole al voto. Tuttavia negli ultimi decenni lo studio statistico dei trend di voto ha evidenziato una inversione di tendenza: proprio perché in possesso di capacità di orientamento autonomo nella scelta elettorale, questa può essere divenuta oggetto di costante rivalutazione, nella quale sentimenti di insoddisfazione politica possono sfociare in un astensionismo selettivo come forma di critica all’intero sistema partitico. Non di rado però questa forma, altalenante, di non voto si accompagna a forme di coinvolgimento civico e sociale, che conferiscono ad esso un aspetto retrospettivo (quello della valutazione negativa dell’offerta politica) ed al tempo stesso uno prospettivo (quello di relazionare la scelta elettorale all’attivismo sociale)

Ø benessere/malessere economico = scontata la relazione fra astensionismo e fasce economicamente disagiate (per l’insieme di combinazioni che, come se è visto, si possono creare con basso livello di istruzione, scarso e acritico accesso all’informazione) studi recenti evidenziano una propensione astensionistica anche nelle fasce che godono di un certo benessere. In alcuni casi determinata da apatico disinteresse verso la sfera pubblica (specie da parte di chi ha stili di vita consumistici fortemente individualisti), ma non è irrilevante il peso di chi, acquisita una buona sicurezza esistenziale, matura un interesse, spesso dovuto a una formazione etica, verso temi civici, sociali e culturali, che può determinare un giudizio critico sulla efficacia della politica proprio in relazione a tali questioni. In questo quadro il non voto si rivela maturo e consapevole (proprio perché coerente con la scelta della partecipazione attiva), ma non meno selettivo ed attento alle dinamiche politiche (tanto da rivelarsi non di rado reversibile).

Di tutt’altro segno è il peso dell’attuale informazione, intesa in senso lato nelle sue varie odierne articolazioni tecnologiche, per quanto molto rilevante nei meccanismi, individuali e collettivi, di maturazione degli orientamenti elettorali. Per una fascia tutt’altro che trascurabile dei potenziali elettori quella offerta dai talkshow è la fonte principale, spesso persino l’unica, di “partecipazione al dibattito politico” ed altrettanto rilevante è l’influenza della sua “spettacolarizzazione”, nella quale l’approfondimento ha da tempo ceduto spazio al confronto urlato (in cui l’iper-critica dell’avversario prevale sulla proposta politica) ed al personale fascino del leader.

L’invadente quantità e la scarsa qualità di questa informazione possono risultare determinanti per la parte dell’elettorato (quella meno attrezzata ad una valutazione ragionata dell’offerta politica e più sensibile al fascino di slogan tanto accattivanti quanto superficiali e semplificanti) ma possono, sul lungo periodo, innescare una reazione (diversamente stratificata nelle varie fasce dell’elettorato) di stanchezza e di disaffezione, tali da incentivare un astensionismo volontario ma passivo (una constatazione che sembra confortata dalla concomitanza della sua recente evoluzione con l’affermarsi diffuso dell’informazione politica spettacolarizzata e urlata).

L’influenza dell’informazione, di questa informazione, può quindi rappresentare (oltre ad essere un preoccupante indice di degrado dell’offerta politica) un ulteriore rilevante fattore di allontanamento dalla partecipazione elettorale, difficilmente recuperabile per forme di impegno sociale e politico.

L’insieme di questi tre fattori delinea un quadro che rafforza l’ipotesi che una più attenta lettura dell’astensionismo implichi una complessiva ridefinizione “del diritto di voto”, all’interno della quale vanno riviste tutte le categorie delle azioni e dei meccanismi che hanno sin qui costituito la “mobilitazione elettorale”.

Lo studio dell’astensionismo, se affrontato nella sua vera essenza, smette allora di essere solo un dato statistico e mediatico di spostamenti di flussi elettorali per divenire una indagine che rimette al centro della sua attenzione “il senso ultimo del voto democratico”. Innanzitutto perché (ed è, a ben vedere, la motivazione che promuove l’astensionismo militante) il voto, per il cumulo dei fattori fin qui esaminati, ha perso per strada le caratteristiche (possedute per quasi tutto il Novecento) di un rituale, persino festoso, capace di interrompere il normale fluire degli eventi politici.

Si è ormai entrati, a giudizio di molti analisti, in una fase “post rappresentativa”, in cui il “post” indica la fase discendente di una traiettoria a parabola che vede un fenomeno sociale e politico nascere sulla base di una spinta, raggiungere un punto culminante di consenso, per poi da lì iniziare, fisiologicamente a declinare. Ciò implica inevitabilmente uno svuotamento progressivo delle istituzioni nate sulla base di quella spinta e dei meccanismi, “voto compreso”, con cui si era concretizzato.

L’astensionismo, se in questo modo interpretato, è un importante indicatore per capire che, in questa fase “post”, un nuovo ciclo democratico deve nutrirsi di una sana discussione pubblica (avendo finalmente il coraggio di normarla per sottrarla alle logiche del mercato elettorale), di un vero pluralismo rispettoso delle differenze (il contrasto, anche acceso, di idee è il sale della democrazia), di una buona qualità dell’informazione e della conoscenza, ed anche dell’accettazione e della promozione di altre forme di partecipazione e decisione più commiserate all’attuale frantumazione dei momenti e dei luoghi decisionali (nuovo connubio fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa) e (con giudizio!) alle nuove modalità di comunicazione collettiva.

In questo quadro il “cittadino” smette di essere di una sorta di “cliente” da corteggiare in occasione del voto per tornare ad essere, individuando ed intervenendo su tutti i fattori ostativi (quelli qui analizzati), un soggetto sociale e politico che percepisce di essere davvero in grado di orientare, con il voto (di tutti) e con l’impegno (di chi è più motivato), le scelte collettive. 


 






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