giovedì 15 maggio 2025

Il "Saggio" del mese - Maggio 2025

 

Il “Saggio” del mese

 MAGGIO 2025

Fra le cause che concorrono a comporre l’attuale quadro di disordine geopolitico mondiale, (il “caos” nostra recente Parola del mese) un ruolo decisivo è sicuramente quello degli scontri di contrapposti interessi sul mercato globale. Il saggio di questo mese offre una chiave di lettura di questi fenomeni visti come l’inevitabile esito di alcune tendenze economiche globali, determinate da “leggi di mercato”, così pervasive da condizionare l’insieme delle relazioni internazionali. Si tratta di un testo molto specialistico di politica economica probabilmente per molti non proprio accattivante. Valeva comunque la pena di tentare di renderlo il più possibile accessibile per condividere le interessanti chiavi di lettura del presente che offre

il cui principale autore (si tratta in effetti di un coordinato lavoro di gruppo) è Emiliano Brancaccio (professore di politica economica presso l’Università del Sannio, autore di numerosi saggi ed articoli accademici fra i quali ricordiamo “Democrazia sotto assedio” nostro “Saggio del mese” di Settembre 2022)

Questo saggio, conseguentemente al suo essere il risultato di un lavoro di gruppo, è suddiviso in più parti fra di loro collegate dalla traccia di alcune riflessioni prevalentemente sviluppate da Brancaccio. Questa nostra sintesi si concentra soprattutto sulla parte centrale che, articolata su tre capitoli:

     I.         Capitalisti di tutto il mondo, unitevi!

   II.         La centralizzazione del Capitale alla prova dei fatti

 III.         Centralizzazione imperialista e guerra

approfondisce il rapporto tra logiche capitalistiche di mercato e la loro possibile incidenza sulle relazioni economiche e politiche tra Stati e blocchi geopolitici

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La violenta recessione globale del 2008 innescata dalla fine della precedente incontrollata bolla speculativa finanziaria, ma non di meno dalla successiva caotica gestione della crisi pandemica e dallo scoppio della guerra russo-ucraina, hanno in comune l’essere segnali non più trascurabili di qualcosa di strutturale che non sta più funzionando nell’ordine globale neoliberista.

Questi segnali sono stati presi in seria considerazione dalle più famose testate finanziarie, (Financial Times, Wall Street Journal, Economist) di norma allineate al pensiero economico mainstream, che hanno così iniziato a chiedersi se il ritorno alla selvaggia declinazione di una incontrollata “libertà di mercato”, fortemente voluta dalla svolta neoliberista degli anni Settanta/Ottanta, sia davvero la forma migliore di gestione economica e finanziaria, o se, come sembra sempre più evidente, essa sia invece foriera di rischi, non solo economici,  potenzialmente persino catastrofici. Mentre nelle stanze della politica ancora si tarda a meglio conoscere il nuovo che avanza, altrove, in ambienti non sospetti, si sono cioè manifestate forti le esigenze di strumenti di lettura degli attuali processi di mercato che aiutino a meglio comprendere le dinamiche di fondo in corso.

Ed in questo contesto, certamente non sospettabile di simpatie comuniste, si sono recuperate, senza imbarazzo alcuno, le analisi scientifiche del mercato capitalistico di Karl Marx e le sue conseguenti individuazioni di “leggi generali di movimento del sistema (proprio quelle che la sinistra mondiale da tempo sembra aver mandato in soffitta), a queste attenzioni hanno poi fatto seguito inaspettati espliciti riconoscimenti di fondatezza.

Si tratta sicuramente di ammissioni strumentali, la finalità del gotha del pensiero economico e finanziario non è certo quella di mettere in discussione il sistema capitalistico in quanto tale, ma semmai quella di acquisire una migliore consapevolezza delle sue logiche interne per individuare eventuali pericolose distorsioni ed indicare con giusto anticipo le conseguenti possibili contraddizioni.

Alcune delle questioni che imponevano questo approfondimento erano quelle di capire:

Ø perché un mercato finanziario libero da lacci e lacciuoli non risulti in grado di orientare gli investimenti per meglio sostenere i settori trainanti la produzione

Ø perché il peso della finanza sia diventato tale da pregiudicare in modo decisivo, a fronte di turbolenze sui mercati, l’intera economia, o meglio ancora perché il capitale monetario sia aumentato così tanto in modo slegato dall’andamento dell’economia reale

Ø quanto stia incidendo il ruolo dell’interconnessione globale fra produttori (accordi di cartello) sulle dinamiche del mercato

Ø quanto sia ancora solida la sostenibilità del rapporto fra capitalismo, libero di agire sulla base delle logiche di profitto, e la stessa democrazia.

Tra tutte le leggi di mercato individuate dall’analisi marxiana, riemerse all’attenzione del dibattito economico quella che a parere di Brancaccio, e di buona parte degli analisti citati in precedenza, meglio si presta a spiegare le attuali tendenze del mercato capitalistico globalizzato di stampo neoliberista è la legge di centralizzazione del Capitale, la cui centralità è un fatto relativamente recente determinato proprio dalle specifiche forme assunte negli ultimi decenni dalla competizione capitalistica sui mercati di tutto il mondo.

A lungo questa legge è stata tuttavia sottovalutata perché l’intuizione marxiana di processi di centralizzazione del Capitale era stata al tempo concepita, solamente su basi teoriche, come sviluppo, ritenuto comunque inevitabile, delle logiche di mercato capitalistico, ma a lungo non era stato possibile sottoporla ad adeguata verifica empirica per la mancanza di dati consolidati su cui operare. Solo recentemente questo riscontro è divenuto possibile grazie alla nascita di imponenti archivi dati sui concreti movimenti dei mercati azionari e finanziari resi possibili dalla informatizzazione globale, ed è esattamente su questi dati che poggiano anche le valutazioni analitiche ripercorse in questo saggio.

Entrando nel merito dell’assunto di base di questa legge, si potrebbe ironicamente dire che una sua esemplare sintesi è perfettamente racchiusa nell’antico detto “pesce grande mangia pesce piccolo”, vale a dire che la feroce competizione tra capitali e capitalisti inevitabilmente genera di continuo vincitori e vinti con i primi che, nelle forme che qui si prenderanno in esame, di fatto uccidono e cannibalizzano i secondi. La legge marxiana di centralizzazione del Capitale, finalmente rafforzata da riscontri empirici, si concentra sui possibili esiti di questa guerra capitalistica e sulle conseguenze che essa può avere sulla struttura dei mercati, sulla solidità delle economie nazionali e di quella globale, sull’intero sistema delle relazioni, nazionali ed internazionali, di potere economico.

Per meglio comprendere cosa si debba esattamente intendere per “centralizzazione (tendenza alla), nella versione introdotta da Marx (successivamente ripresa e raffinata da Rudolf Hilferding, 1877/1941, economista tedesco) è bene fissare innanzitutto la differenza che intercorre con un altro concetto economico marxiano, quello della “concentrazione”, non di rado tra loro non correttamente scambiati: il termine concentrazione nell’accezione originaria di Marx indica “la creazione di nuovi mezzi di produzione (investimenti in impianti e strumenti di produzione)” che consente ad alcuni capitalisti di concentrare su sé stessi maggiori quote di mercato, mentre la tendenza alla centralizzazione rappresenta invece l’esito della incessante competizione tra capitali per la conquista dei mercati rappresentato da una “espropriazione di un capitalista da parte di un altro capitalista”.

La centralizzazione dei capitali, così intesa, si può concretizzare in vari modi:

Ø con l’uscita dal mercato del capitalista perdente, con quote di mercato che di conseguenza si spostano verso quelli vincenti

Ø con assorbimento mediante acquisizione o fusione dell’impresa (in questo caso si registra anche un cambiamento di proprietà)

Ø nel caso di imprese azionarie, il caso più frequente e più rilevante (quello al centro del saggio), con l’acquisizione del pacchetto di maggioranza da parte del capitale vincente (in questo caso non si ha però formale cambiamento di proprietà).

In alcuni di questi casi la centralizzazione si concretizza come esito estremo della concorrenza fra operatori produttivi, ma la forma che storicamente si è rivelata quella prevalente, soprattutto negli ultimi decenni, è quella messa in atto da capitali non direttamente coinvolti nella produzione (e non di rado neppure interessati ad essa in quanto tale) che si muovono nel “sistema del credito”, vale a dire operatori finanziari che, potendo manovrare ingenti risorse finanziarie, le investono, a fini di profitto, acquisendo il controllo di imprese produttive.

L’esito finale di questa forma di centralizzazione, sempre più diffusa e radicata, è sostanzialmente quello dell’accorpamento nelle mani dell’alta finanza di vasti (si vedrà quanto) settori del capitale industriale, commerciale e bancario, come a dire che è in questo modo divenuto elemento costitutivo del capitalismo moderno il “superamento della libera concorrenza” fra operatori produttivi, con il “capitale finanziario assurto al ruolo di capitale unificato”.

Con un’aggiunta non meno rilevante: nel caso di acquisizione delle quota di maggioranza di società per azioni i suoi nuovi titolari ottengono il controllo totale del capitale azionario e possono quindi governare a pieno titolo l’impresa pur senza averne rilevato l’intero valore. In questo modo, nel gioco incrociato (si vedrà quanto) di acquisizioni operate dal capitale finanziario, la centralizzazione del capitale consente di superare i limiti del possesso della formale proprietà privata del capitale così conquistato. Detto in termini tecnici: la centralizzazione dà luogo ad una “concentrazione del capitale oltre il limite del mero rapporto proprietario”, ossia a quella che è divenuta la caratteristica preminente dell’attuale capitalismo oligarchico globale, conferendo a quello finanziario il potere di indirizzare l’azione economica di una platea molto ampia di imprese.

Eppure va detto che (con la sola eccezione delle recenti attenzioni di cui si è detto in apertura) l’idea di una progressiva centralizzazione del controllo dei capitali non è mai stata al centro dell’attenzione degli studiosi di economia, dei vari istituti di controllo delle relazioni economiche (Banca Mondiale, OCSE, Fondo Monetario, Banche Centrali) per non dire delle concrete politiche economiche di tutti gli Stati.

Un ritardo di attenzione che è peraltro riscontrabile nello stesso campo degli studi economici marxisti con buona probabilità troppo condizionato dalla propensione a considerare il complesso delle teorie marxiane come un unico corpo concettuale in cui ogni singola teoria vale come pezzo di un incastro organico non scomponibile. La sola possibilità che la tendenza alla centralizzazione del Capitale metta in crisi altre teorie, come quella della “caduta tendenziale del saggio di profitto(l’investimento sulla parte fissa del Capitale - macchinari, impianti e materie prime - a scapito di quelli sul lavoro, il vero produttore di valore, che sul lungo periodo riduce i margini di profitto, del saggio di profitto) sembra aver fortemente limitato l’attenzione specifica su di essa.

Verso la quale sono state semmai mosse perplessità e critiche, favorite dalla mancanza di dati di cui si è detto, che si sono concentrate soprattutto sulla reale consistenza e portata dei processi di centralizzazione. In particolare a prima vista potrebbe apparire non del tutto priva di fondamento l’obiezione che il mercato capitalistico, soprattutto quello attuale a forte contenuto tecnico e tecnologico, sempre apre spazio a nuove imprese, nuove attività e settori, la cui affermazione, raggiungendo livelli dimensionali significativi, ha un così forte impatto positivo sull’andamento dell’economia da ridare costantemente nuovo fiato alla suddivisione del Capitale. Il fenomeno in sé è innegabile, e ben lo testimoniano molte delle recenti novità intervenute con l’avvento della Rete e lo sviluppo delle ICT, ma resta altrettanto vero che sul medio-lungo periodo la tendenza alla centralizzazione ha sempre e comunque preso piede anche in tutte le nuove forme del Capitale, e questo perché le tendenze di fondo del sistema capitalistico in quanto tale non hanno termine temporale.

Una seconda perplessità è stata mossa criticando l’idea che i meccanismi decisionali delle imprese e società, specie se di forma azionaria, siano ancora in capo ai possessori di maggioranza dei pacchetti azionari essendo ormai stati affidati al management aziendale di vertice, non a caso così lautamente retribuito proprio per queste responsabilità gestionali. Anche questa lettura non regge però a due contro-obiezioni: in primo luogo il processo di centralizzazione è un fenomeno che si articola sui complessi e articolati intrecci fra distinti capitali (il “capitale unificato” di cui si è detto) le gestioni manageriali delle singole attività non possono. in quanto tali. incidere su questo contesto così ampio e articolato, in secondo luogo è fatto risaputo che l’acquiescenza manageriale rispetto alle indicazioni ed alle aspettative di immediato profitto (questa è la logica del capitale finanziario) dei rispettivi consigli di amministrazione è sempre stata tale da essere, non di rado, sfociata in gestioni persino perniciose per la stessa efficienza dell’impresa.

Le altre critiche e perplessità, più specifiche e mirate, si sono sostanzialmente basate su contestazioni riguardo alle dimensioni quantitative dei processi di centralizzazione  la risposta di Brancaccio a queste critiche (il cuore stesso di questo saggio) è basata su un ponderoso e scientifico lavoro di analisi dei dati finalmente disponibili (portato avanti con il gruppo di lavoro che ha condiviso la sua stesura),  ben presto assurto a riconosciuto punto di riferimento nel campo degli studi economici, che ha innanzitutto smontato il loro assunto di partenza. Queste critiche erano infatti basate sull’analisi dell’incidenza del peso del capitale posseduto da multinazionali sul prodotto interno lordo, PIL, dei singoli paesi e poi assemblato in un dato aggregato globale che, valutato su un arco temporale significativo, sembrava escludere un loro ruolo preponderante. Brancaccio ed il suo team di studiosi hanno però evidenziato la fallacia analitica di questa misurazione che, muovendosi sulla superficie del possesso proprietaristico formale, non era in grado di cogliere l’intreccio di interessi che le lunghe catene di controllo del capitale, come in una sorta di matrioska russa, in effetti consentono.

La scelta analitica operata da Brancaccio si è mossa esattamente in questa direzione ed è stata attuata applicando ai dati economici i sistemi di studio delle interazioni fra i vari elementi di sistemi fisici complessi (quelli che hanno consentito a Giorgio Parisi di vincere nel 2021 il premio Nobel per la fisica). Con questa accurata metodologia di analisi è stato così possibile far emergere che è l’interazione fra i singoli elementi il fattore determinante per il comportamento globale del sistema complesso in esame. Questa proprietà, valida per tutti i sistemi complessi, è chiamata “comportamento emergente” nel senso che in essi sempre emerge un “comportamento globale” che però non è prevedibile sulla base dello studio delle singole parti perché è determinato proprio dalle tantissime possibili interazioni fra di esse che unitamente compongono quella che viene tecnicamente definita “rete complessa”.

In parole povere non ha senso alcuno studiare separatamente ogni singola parte di un sistema economico complesso (specie se transnazionale) di relazioni azionarie, per poi assemblare in un dato finale la loro sommatoria, occorre invece mappare gli snodi della loro rete di relazioni composta dai singoli punti che li individuano e soprattutto dalle linee (doppie, triple, ….. a salire) che li collegano, denominate “link (collegamento)”, una operazione che consente di definire un livello di concentrazione dei meccanismi di controllo, tecnicamente definito “net control (controllo della rete)” che, là dove dovesse accertare che una percentuale bassa di azionisti detiene di fatto il controllo gestionale dell’insieme dei capitali coinvolti, fornirebbe una chiara indicazione di centralizzazione.

Questo lungo lavoro di analisi, svolto da Brancaccio e dal suo team, dei dati economici 2001-2016 forniti dal “database (banca dati)Ekon che con copertura mondiale raccoglie dati accurati sulle società azionarie (ricavi operativi, capitale, acquisizioni, cassa, ecc.) che formano una gigantesca rete proprietaria globale giunta nel 2016 a superare le quarantacinquemila unità fra di loro collegate da più di un milione di partecipazioni azionarie fra di loro intrecciate, ha fornito un dato inequivocabile (graficamente sintetizzato in una serie di tabelle e grafici, di non semplice interpretazione, qui comunque non riportabili per ovvie ragioni di spazio): nel periodo in esame si è sviluppato un processo che ha portato al risultato finale del 2016 che vede l’80% della rete di relazioni detenuto da una frazione di azionisti molto piccola, non lontana dall’1% degli azionisti totali a testimoniare quindi una elevatissima centralizzazione del capitale mondiale in capo a proprietà azionarie (non è quindi l’intero capitale mondiale che, come si vedrà qui di seguito è gestito con varie differenti modalità, ma sicuramente ne rappresenta una percentuale così rilevante da influenzare l’intero mercato capitalistico).

Questo dato, di indubbia e clamorosa rilevanza, è stato poi ulteriormente integrato e suddiviso prendendo in considerazione i processi che, al suo interno, hanno interessato le diverse forme di capitalismo, le situazioni dei singoli paesi, le aree omogenee che li contengono e le istituzioni internazionali a cui aderiscono (in questo caso l’arco temporale preso in esame è stato esteso dal 1999 al 2019).

Secondo la letteratura economica sono tre i principali modelli di capitalismo: quello anglosassone (essenzialmente USA e Regno Unito), quello renano-nipponico (Germania e Giappone) e quello latino (Francia, Italia e Spagna). Il primo è caratterizzato da imprese che per più dell’80% sono basate su una forma di azionariato diffuso quello quindi più permeabile a possibili acquisizioni a possibili acquisizioni, nel secondo prevalgono invece imprese con proprietà molto ristrette ed a forte concentrazione azionaria (ed in cui hanno già un forte ruolo le banche d’affari), nel terzo prevalgono imprese di stampo padronale/familiare con un forte azionista di controllo e residue forme azionarie relativamente diffuse. Ambedue queste ultime forme di capitalismo sono meno influenzate dai processi di net control, pur non essendone per nulla esenti, potendo contare su una maggiore diversificazione gestionale.

Anche in questo caso, tornando ai capitale azionario, gli studi condotti dal team di Brancaccio (che hanno integrato con appositi parametri aggiuntivi lo schema usato per la precedente analisi) hanno fornito un identico risultato: la percentuale di azionisti detentori dell’80% del capitale azionario nazionale, per tutti i tre modelli di capitalismo, si aggira mediamente attorno all’1% (il paese con la più alta concentrazione è il Regno Unito con una media dello 0,1%, quello con la concentrazione più bassa è invece l’Italia con un net control del 3,6%. Ricordiamo che più è basso il net control più alta è la centralizzazione).

Un dato specifico merita un di più di attenzione: ferma restando la comune tendenza verso la centralizzazione nell’arco temporale esaminato il paese che più ha trainato la curva generale verso il dato finale sono gli USA (passati da un iniziale 3% a meno dell’1%), l’unico paese fra quelli presi in esame che in proporzione ha segnato una simile accelerazione è la Cina (dal 13% a meno dell’1%) che ha un sistema economico decisamente anomalo di certo non classificabile fra quelli prima individuati: vale a dire che i due giganti dell’economia mondiale che si stanno disputando l’egemonia mondiale (il loro PIL vale circa il 44% di quello mondiale), per quanto fra di loro diversissimi, hanno ambedue trainato la tendenza generale verso la centralizzazione dei capitali.

Non meno interessante è la rilevazione del grado di scartamento di ogni singolo paese rispetto al trend della media complessiva di net control, suddividendoli inoltre fra aderenti o non aderenti all’OCSE (Organizzazione Cooperazione Sviluppo Economico): anche in questo caso non emergono scartamenti rilevanti , ma è interessante notare che i paesi OCSE (quelli più sviluppati), seppur di poco, sono sopra la media (hanno quindi minore net control) quelli che non aderiscono all’OCSE (quelli al contrario meno sviluppati) sono invece sotto la media (hanno cioè un maggiore net control). Un dato che lascia intuire l’esistenza di una centralizzazione dei capitali più accentuata nei paesi sottosviluppati (probabilmente dovuta a minori controlli antitrust o proprio alla debolezza delle loro economie).

Dall’insieme delle analisi svolte dal team di Brancaccio emerge quindi una chiara indicazione: nei primi due decenni del nuovo secolo, quelli più segnati dai cambiamenti economici determinati dal grande progresso tecnologico, la tendenza alla centralizzazione è divenuta un dato strutturale di dimensioni molto significative. In particolare va precisato che si è registrata una sua rilevante accelerazione (di circa 25 punti percentuali) negli anni a ridosso della grande crisi mondiale del 2007/2008. Un dato che nerita di essere approfondito.

E’ infatti interessante capire quali dinamiche possono intercorrere fra centralizzazione e ciclo economico, e cioè se la correlazione che è emersa nel 2007/2008 fra questi due aspetti sia meglio spiegabile con la prima che innesca una fase di crisi del secondo o viceversa con il secondo che, entrando del suo in una fase negativa, accentua la prima.

Il dibattito economico teorico al riguardo (a cui Brancaccio dedica molte complesse pagine qui non riportate per non appesantire ulteriormente questa sintesi) da sempre vede posizioni contrapposte spiegabili con la complessità di relazioni fra forme proprietarie, accessibilità a finanziamenti, solvibilità, struttura del credito, ingerenze speculative, politiche economiche governative e ruolo delle Banche Centrali, concorrenza globale, ed altri correlati aspetti. Un intreccio così complesso da indurre molti economisti (a partire da Marx) a ritenere che nel sistema di mercato capitalistico non è la crisi a costituire l’eccezione, ma semmai il suo esatto opposto: l’equilibrio.

Se così è il costante ripetersi di crisi, più o meno cicliche, non può più rappresentare un occasionale fattore di disturbo, ma piuttosto l’evidenza della fragilità dello stesso assunto ideologico, del liberismo classico così come del neoliberismo attuale, della bontà del gioco dei liberi scambi sul mercato capace, da solo, di mantenere un equilibrio economico naturale (ossia un impiego pieno ed efficiente di tutte le risorse tale da massimizzare le aspettative di tutti i soggetti coinvolti). La realtà storica dimostra infatti che molte delle crisi sistemiche hanno trovato una qualche soluzione solo grazie all’intervento regolatore di adeguate politiche economiche governative, consolidate da coerenti politiche monetarie delle Banche Centrali. A queste in particolare spetta il complesso compito di fissare tassi di interessi (il costo del denaro) in grado di garantire un ottimale livello di solvibilità delle imprese (un parametro economico/finanziario che, come si vedrà, la centralizzazione dei capitali può porre in crisi) ossia la loro capacità di far fronte agli impegni finanziari, requisito indispensabile per garantire la sopravvivenza dei “capitalisti vinti” evitando così l’innesco di crisi economiche.

La possibile incidenza della centralizzazione dei capitali sull’innescarsi di crisi sistemiche (le crisi strutturali sono quelle che possono pregiudicare la stessa “riproducibilità” dell’intero meccanismo economico, la capacità di un’economia di mercato di preservare sé stessa) può quindi essere valutata solamente se inserita in questo contesto di fondo e se adeguatamente confermata da concreti dati empirici. Ed in effetti sono proprio queste due evidenze che, ritornando alla situazione specifica della crisi finanziaria 2007/2008 (esplosa a causa della insostenibilità della bolla dei titoli “derivati” che innescò una pesantissima insolvibilità a sua volta provocata dalla concentrazione del potere azionario e finanziario testimoniata dalla consistente accentuazione del net control in quei due anni), consentono di spiegare la sua genesi nel loro intreccio perverso.

La crisi globale del 2007/2008 rappresenta quindi una concreta ed epocale vicenda che evidenzia come la centralizzazione del capitale, stante la sua caratteristica di legge inscritta nelle logiche del mercato capitalistico, possa evolvere a livelli tali da innescare (soprattutto se vengono superati determinati limiti negativi di solvibilità) fortissime turbolenze critiche sui mercati globali proprio a causa della sua diffusa rete di intrecci azionari di potere.

Più in generale diventa possibile sostenere, come considerazione riassuntiva di quanto fin qui analizzato, che i processi di centralizzazione dei capitali rappresentano un fattore di destabilizzazione del libero gioco del mercato tale da innescare un sovrappiù di feroce competizione fra capitalisti, con i suoi inevitabili vinti e vincitori, con il rischio che le sconfitte dei primi inneschino autentiche crisi sistemiche. Non solo: la forza del suo impatto è tale da andare oltre la sfera economica, i vincitori della competizione, in quello che di fatto diventa una gestione oligopolistica del mercato, acquisiscono anche un potere politico tale da incidere pesantemente, all’interno dei singoli Stati, sul libero svolgimento del gioco democratico (aspetto analizzato da Brancaccio nel suo precedente saggio “Democrazia sotto assedio”) e da accentuare, passando alle relazioni tra Stati ed aree del mondo, le conflittualità geopolitiche fino al limite di aperti conflitti armati. Non pare cioè inappropriato parlare, stante questi livelli di centralizzazione del capitale, di una nuova fase storica caratterizzata da una tendenza allo scontro aperto fra i vincitori delle singole aree di potere mondiali, i blocchi della geopolitica, definibile come “centralizzazione imperialista del capitale” là dove imperialista individua “deliberate politiche di potenza che mirano a creare “imperi” basati sul controllo ferreo di stati sottomessi”. E’ questo l’attuale culmine dei processi economici governati dalle leggi di fondo del mercato capitalistico globale all’interno delle quali è fondamentale quella della centralizzazione dei capitali, ed è in questo contesto di guerra capitalistica che devono essere collocati gli stessi conflitti armati

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Ed è quello che fa Brancaccio nei diversi allegati che costituiscono la nutrita appendice del saggio. In particolare sono riportati tre articoli (di cui due in forma di intervista) apparsi sull’inserto “Econopoly de Il Sole 24 ore del 1° Giugno 2022, su MicroMega del 28 Febbraio 2022, sulla rivista online Il Tascabile della Treccani dell’8 Luglio 2022. Qui estrapoliamo i passi che più ci sono sembrati collegati alla parte del saggio fin qui sintetizzata.

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La narrazione delle guerre che stanno segnando l’attuale fase storica, in particolare di quella russo-ucraina, si basa in gran prevalenza su due punti di valutazione fra di loro intrecciati: quello geopolitico e quello valoriale.

Scarsa attenzione è invece prestata alle possibili cause e finalità di ordine economico, salvo una qualche chiamata in causa dell’obiettivo di mettere le mani sulle risorse minerarie (terre rare) ed agricole.

La scarsa, se non addirittura assente, analisi degli aspetti economici impedisce però di inserire il ricorso al conflitto armato entro il quadro delle tendenze strutturali di ordine economico che, al contrario, molto potrebbero dire al riguardo.

Senza nulla togliere alle altre motivazioni uno sguardo più attento agli intrecci fra strategie di medio/lungo periodo economiche e militari consentirebbe infatti di mettere a fuoco il fatto che molti dei conflitti armati che stanno segnando lo scenario mondiale degli ultimi trent’anni trovano infatti una loro spiegazione anche in strategie messe in atto per fronteggiare le conseguenze dei due processi economici che stanno strutturando la competizione mondiale sui mercati: la globalizzazione e la tendenza alla centralizzazione dei capitali qui esaminata.

Il connubio tra queste due caratteristiche strutturali è alla base della spietata competizione sul mercato mondiale che genera continuamente vincitori e vinti in una dinamica che, come si è visto, costituisce un grave rischio per la tenuta della democrazia e al tempo stesso la molla per il costituirsi di contrapposti blocchi.

Paradossalmente negli ultimi vent’anni si è via via consolidato un quadro che vede gli USA, ossia la nazione egemone sul piano geopolitico e la culla, ideologica e concreta, della gestione neoliberista dell’economia, risultare la grande perdente della globalizzazione. Negli ultimi trent’anni il baricentro del potere economico si è clamorosamente spostato ad est (Cina, India, Sud-est asiatico) innescando in tutto l’Occidente (USA ed Europa), sin lì padrone del mondo, una crisi economica e identitaria.

Il dato debitorio degli USA verso il resto del mondo (in particolare proprio verso la Cina) è ormai clamoroso e testimonia, riprendendo quanto in precedenza visto su centralizzazione e solvibilità, che in pochi decenni l’intera economia americana (nonostante alcune recenti eccellenze tecnologiche) è passata dal ruolo di vincitore a quello di vinto.

La reazione, spesso scomposta e poco lucida (si pensi al ricorso esasperato e controproducente ai dazi), messa in atto negli ultimi anni (sia dai democratici che dai repubblicani) dimostra che gli USA, con gli altri debitori occidentali, non stanno più tentando di governare la tendenza alla globalizzazione e alla centralizzazione del capitale, ma stanno mirando a bloccarla ricorrendo ad ogni mezzo, conflitto armato per nulla escluso.

Una delle più evidenti conseguenze di questa reazione è stata, altro paradosso innescato dalla miopia americana, quella di rafforzare, smentendo ogni precedente assunto della globalizzazione neoliberista, la divisione in blocchi del potere economico, e conseguentemente geopolitico, mondiale attivando su ampia scala il fenomeno tecnicamente denominato “friend-shoring(il rafforzamento delle relazioni con i paesi ritenuti “amici” accompagnato da chiusure sempre più rigide versi quelli “nemici”) che ad esempio ha, fra le altre ricadute, messo in gravissima crisi, ancor prima del conflitto con l’Ucraina e le collegate sanzioni, economie come quella russa basate quasi esclusivamente sui rapporti con l’estero (a fronte di mercati interni di scarso valore).

la scelta di Putin di invadere l’Ucraina non trova infatti spiegazione solo con diritti territoriali negati, con la minaccia Nato, con gli improbabili sogni imperiali, ma anche, se non soprattutto, con l’irritazione di vedersi chiudere in una bolla economica che lo consegna all’ interessato abbraccio cinese, ovviamente in posizione di inferiorità. Dall’altro canto il secondo mandato Trump sta dimostrando, nell’attuale contesto multipolare, di voler inseguire un sogno autarchico (Maga), abbandonando l’UE al suo destino (peraltro ancora tutto da definire) e cercando di costruire in funzione anticinese e antieuropea una qualche convenienza tattica con la Russia di Putin

Il probabile esito sul medio periodo dell’insieme di queste tensioni con buona probabilità sarà il permanere di una guerra capitalistica, senza esclusioni di colpi, di sicuro sul campo di battaglia economico, ma non è da escludere che per ragioni di convenienza piuttosto che di esasperazione il conflitto assuma, qua e là, le classiche vesti dello scontro armato. Non a caso è globalmente ripartita una paranoica corsa agli armamenti, classici ed ipertecnologici. Difficile capire quale potrà essere un nuovo punto di equilibrio geopolitico e quando questo potrebbe realizzarsi, quel che è certo che esso potrà aversi solo quando nel quadro multipolare dei nuovi imperialismi gli interessi dei vari capitalismi troveranno un qualche punto di convergenza. Leggi di fondo del capitalismo permettendo.



giovedì 1 maggio 2025

La Parola del mese - Maggio 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MAGGIO 2025

L’irruzione sulla scena geopolitica globale della nuova amministrazione Trump ha, come da previsioni, innescato una notevole dose di problematiche di gestione tutt’altro che semplice. Ognuna di esse merita certamente di essere affrontata con specifica attenzione, ma è soprattutto la logica di fondo che le ispira che sta imponendo uno sforzo in più di analisi e comprensione. La parola di questo mese, non a caso diffusamente utilizzata, sintetizza in sole quattro lettere il tratto che contraddistingue questo quadro d’insieme. La recuperiamo proprio perché offre uno spunto aggiuntivo di riflessione che, guardando indietro nel tempo, si sofferma sui modi storicamente fin qui messi in atto per evitare, come attualmente sta succedendo, situazioni ingestibili di ………….

CAOS

(declinato nel suo corrispondente termine italiano di disordine)

càos = dal lat. chaos (derivato dall’omonimo greco che letteralmente significava “essere aperto, spalancato”) = nelle antiche cosmologie greche indicava il complesso degli elementi materiali senza ordine preesistenti all’universo ordinato, attualmente è molto usato in matematica e in fisica nell’ambito dello studio dei sistemi complessi, nel discorso comune significa “grande disordine, confusione, di cose o anche d’idee, di sentimenti, in particolare indica disordine e grave turbamento nella vita sociale e politica

Per farlo seguiremo la traccia di un interessante testo di recentissima uscita


il cui autore è Manlio Graziano (1958, docente di geopolitica e di geopolitica delle religioni alla  Sorbona, autore di numerosi saggi, sodale di Lucio Caracciolo scrive regolarmente su Limes)

che ripercorre fino ai nostri giorni l’evoluzione secolare dei rapporti fra le varie parti del mondo e le nazioni che le compongono, per capire in quali modi si siano articolati i tentativi di costruire un ordine globale capace di dare stabilità alle relazioni internazionali. Ovviamente la sua attenzione è concentrata sull’attuale caos, sulle dinamiche che lo stanno creando, sulle conseguenze che ne conseguono, su quale nuova stabilità di relazioni potrà essere costruita, ma proprio per meglio capire è quanto mai utile conoscere il più a fondo possibile in quali modi, e con quali esiti, sia stata fin qui perseguita la finalità di costruire un ordine mondiale. Nell’ultima parte del testo di Manlio Graziano si arriverà comunque, lungo questo percorso storico, a ricostruire in cosa esso consisteva appena prima della bufera trumpiana.

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L’ordine mondiale, storia di una grande illusione:

…. l’ordine mondiale non è mai esistito: non è mai stato un ordine e non è mai stato mondiale. Se per “ordine mondiale” ci si riferisce ad un assetto delle relazioni internazionali in grado di garantire la pace si può essere certi che un simile stato di cose non è mai esistito …..

Questa perentoria affermazione di Manlio Graziano è suffragata da una constatazione storica di lungo periodo che parte dal Cinquecento, dall’epoca delle grandi scoperte geografiche europee (prima di allora le varie parti del mondo semplicemente non erano mai state collegate o lo erano, solo in minima parte, molto occasionalmente). E’ solo da lì in poi infatti che la parola “ordine mondiale” ha iniziato ad acquisire senso anche se, stante la feroce egemonia coloniale delle potenze europee sul resto del mondo, più che di ordine mondiale è più corretto, almeno fino ai primi del Novecento, parlare di “ordine europeo” che, in successive diverse declinazioni, si è però sempre dimostrato parziale.

Da questo secolare percorso emerge con chiarezza un prima fondamentale caratteristica: tutti gli ordini europei che si sono realizzati nel corso di questi quattro secoli si sono sempre realizzati all’esito di guerre feroci. In effetti solo tre conflitti, nella lunghissima e spaventosa serie di guerre che hanno segnato la storia europea, sono poi sfociati in una parvenza, seppure parziale, di ordine:

Ø la “Guerra dei Trent’anni(1618-1648, una serie concatenata di guerre iniziata come scontro tra Stati Protestanti e Cattolici e poi evoluta nella rivalità franco-asburgica per l’egemonia europea. Ha significato un autentico disastro demografico che ha visto la popolazione europea diminuire dai 554 milioni di inizio conflitto ai 548 milioni del 1650)

Ø le “Guerre rivoluzionarie ed imperiali francesi(1792-1815, una continua successione di scontri che hanno coinvolto le potenze del tempo in funzione antifrancese, prima in relazione alla Rivoluzione del 1789 e poi all’’epopea napoleonica. E’ considerata la prima “guerra totale” con il suo ricorso alla leva obbligatoria, alla mobilitazione di tutte le risorse statali ed al coinvolgimento di intere popolazioni, che ha provocato la morte, fra militari e civili, di circa dieci milioni di persone)

Ø la “Seconda Guerra Mondiale[1939-1945, la prima combattuta su scala davvero globale. Secondo molti storici è la prosecuzione e il completamento della Prima Guerra Mondiale, 1914-1918, che avrebbe già potuto dare vita ad un ordine mondiale però non realizzato perché gli Stati Uniti che dovevano costituirne il fulcro rinunciarono a tale ruolo diretto. E’ spaventoso il numero delle vittime di ogni singolo conflitto (nella Prima tra 15 e 22 milioni di militari e tra 6 e 13 milioni di civili, nella Seconda, considerata il conflitto più letale della storia umana, si sale ad un totale di circa 70 milioni di morti, considerati tutti quelli coinvolti in vario modo nella guerra e nelle sue articolazioni collaterali) ed è quindi semplicemente catastrofica la loro somma].

Ognuno degli ordini seguiti a queste tragedie è stato costruito con ovvio riferimento al suo specifico contesto storico, ma al tempo stesso in tutti sono rintracciabili preziose indicazioni sugli elementi che, con valenza generale, possono concorrere a delineare cosa possa essere inteso per “costruzione di un ordine mondiale” e che quindi possono essere utili, ferme restando le peculiarità dell’attuale contesto geopolitico, per meglio comprendere quali linee guida meglio si adattano al caos contemporaneo.

La “Pace di Westfalia” che, siglata nel 1648, mise fine alla Guerra dei Trent’anni (e alla correlata “Guerra degli Ottant’anni” fra la Spagna e le Province Unite dei Paesi Bassi) è considerata in ambito storico il primo trattato che, sulla base del concreto esito di tale conflitto (che in particolare vedeva il tramonto dell’egemonia spagnola e l’avvento di quella francese), si è proposto di fissare, con la finalità di rimuovere il più possibile le cause che avevano provocato una guerra di tali dimensioni, un quadro stabile di relazioni tra gli Stati e le istituzioni coinvolte. Non a caso quindi, senza entrare nel merito dei complessi processi storici che in quel periodo stavano segnando la definitiva strutturazione del potere europeo in singoli moderni Stati, la caratteristica fondamentale che ha ispirato la sua definizione è consistita proprio nel “reciproco riconoscimento delle rispettive aree di sovranità”.

All’interno di questa visione di base la Pace di Westfalia contiene già due aspetti che possono essere sicuramente assunti come elementi che caratterizzano ogni tentativo di stabilire un ordine di ampio raggio e respiro:

1.  l’acquisita consapevolezza, maturata sul sostanziale fallimento di tutti i vari accordi di pace che avevano fin lì segnato la storia europea, dell’evidenza che non sono mai i trattati a creare la realtà, ma è la realtà che crea i trattati, è sempre la relazione reale che si cristallizza sul campo, seguendo percorsi che inevitabilmente sfuggono alle clausole fissate, a determinare la necessità e i termini del nuovo ordine

2.  a questa consapevolezza se ne aggiunge una seconda, alla prima strettamente connessa: i trattati, in questo modo definiti, per essere mantenuti e rispettati necessitano sempre e comunque dell’esercizio, messo in atto o anche solo minacciato, della forza. E’ cioè indispensabile che quelle forze, una o più che siano, che l’esito sul campo ha individuato come vincenti, restino sufficientemente forti per farne rispettare i termini e per impedirne violazioni. Vale a dire che l’ordine è quindi sempre quello dei vincitori e dura finché questi sono in grado di farlo rispettare.

E’ inoltre già presente anche un terzo aspetto, non meno significativo, che, come vedremo, verrà ulteriormente rafforzato in quelli successivi: il riconoscimento delle rispettive sovranità deve essere consolidato con la creazione di un sistema di relazioni capace di conciliare gli interessi in gioco garantendoli in un equilibrio concretamente gestibile. Vale a dire che un ordine, una volta delineato, può reggere nel tempo solo fintantoché quello che in termini tecnici viene definito “balance of power (equilibrio di potere)” viene da tutte le parti in gioco percepito come adeguato al raggiungimento dei propri specifici interessi.

Appare evidente la fragilità sul lungo periodo di questa prima idea di “ordine mondiale (nella sua forma di ordine europeo parziale)”, non a caso la Pace di Westfalia (che pure nelle sue linee generali si è mantenuta, a dispetto di innumerevoli conflitti locali, per ben un secolo e mezzo) è stata infine irrimediabilmente incrinata da un elemento, imprevedibile al momento della sua stesura, che ha sconvolto il suo, fin lì ben articolato, “balance of power”: l’irruzione sulla scena di un nuovo protagonista, il Regno Unito, che di molto cresciuto lungo percorsi autonomi dalle linee di potere continentali, era ormai divenuto portatore di nuovi interessi inconciliabili con quelli da esso contemplati

E’ quella che in gergo geopolitico è definita “la trappola di Tucidite”, un modo di dire espressamente richiamato nel 2015 dal presidente cinese Xi Jinping per riferirsi ai rapporti USA-Cina. Con questa espressione, che riprende il passaggio in cui lo storico ateniese individuava la causa della guerra del Peloponneso nell’apprensione di Sparta per la formidabile crescita di Atene, si indica la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenerne un’altra emergente. La trappola consiste quindi nel cedere alla paura di perdere il primato

L’esito finale dei due decenni di totale caos, seguiti alla Rivoluzione Francese ed all’epopea imperiale napoleonica, rappresentava una così nuova realtà, tale da imporre la necessità di definire un ordine altrettanto nuovo, in grado di governarne i mutati aspetti.  Non soltanto erano infatti radicalmente mutati, un secolo e mezzo dopo Westfalia, i rapporti di forza fra le classiche potenze europee, ma era ormai evidente il ruolo centrale assunto dal Regno Unito, il vero vincitore sul campo ed oltretutto portatore di interessi in misura preponderante connessi al suo essere al centro di un vastissimo sistema di relazioni coloniali: il nuovo ordine doveva quindi ancora avere casa in Europa ma, per la prima volta, assumeva un carattere davvero mondiale

Ed è ciò che è stato sancito dal Congresso di Vienna del 1815, con la costruzione di un nuovo sistema di relazioni che solo in parte è riconducibile alla classica definizione di “Restaurazione(quella delle tradizionali dinastie regnanti). Al centro della nuova architettura, disegnata dal Regno Unito in funzione della sua acquisita egemonia, stava piuttosto la volontà inglese di evitare che la “vecchia” Europa, con tutte le sue ingovernabili tensioni fra Stati e sovrani, fosse di disturbo, di intralcio, alle sue politiche di espansione globale quanto mai funzionali alle aspettative della ormai affermata borghesia capitalistica.

Ed è proprio in questo tratto che si può cogliere l’irruzione, nella faticosa definizione di un’idea di ordine mondiale, di un nuovo elemento: il potere della potenza egemone di turno di disegnare un insieme di relazioni con tutti gli altri Stati, tale per cui nessuno di essi possa essere abbastanza grande da poter divenire un avversario, ma neppure così troppo debole da non costituire un ostacolo per la crescita degli altri.

Attorno a questo elemento si è inoltre consolidato, come sua concreta estensione, un secondo aspetto: la costruzione di un sistema di alleanze (oltretutto resa ormai indispensabile proprio per l’estensione delle aree da controllare) impostato proprio per imprigionare ogni eventuale tensione in una sorta di gabbia che consenta alla potenza egemone di turno (in questo caso il Regno Unito) di svolgere il ruolo di arbitro e di controllore [nel Congresso di Vienna viene infatti formalizzata la nascita della “Santa Alleanza” (Russia, Austria e Prussia) per ribadire il ruolo delle “monarchie legittime” e soprattutto la “Quadruplice Alleanza” (alle tre precedenti si aggiunge il Regno Unito e, successivamente, la Francia) preposta a dirimere in modo preventivo ogni eventuale contrasto] confluite in un sistema formale di coordinamento tra Stati, definito “concerto d’Europa”.

Gli storici si dividono sulla data esatta della fine del Concerto d’Europa e del sistema di controllo inglese sull’Europa, visto che già nei decenni immediatamente successivi non erano mancati evidenti contrasti legati da una parte all’affermarsi anche nel vecchio continente delle logiche di mercato capitalistiche e dall’altra alle concorrenziali politiche coloniali. Ma al di là del dato temporale ciò che progressivamente ha incrinato tale idea di  ordine mondiale è stata ancora una volta la “Trappola di Tucidite” della crescita inarrestabile della Prussia (paradossalmente voluta proprio dalla Gran Bretagna, all’interno del sistema di Alleanze, come tassello di supporto in funzione antifrancese) principale protagonista di un fenomeno più ampio che aveva già iniziato, poco dopo il Congresso di Vienna del 1815, a caratterizzare l’intera Europa: l’affermarsi dell’idea sempre più esasperata di “Stato nazione”.

Gli ordini mondiali previsti dalla Pace di Westfalia e dal Congresso di Vienna miravano ad una stabilità di relazione fra Stati fondata su una comune “ragion di Stato”, ossia sul riconoscimento della “sovranità giuridica” di ciascuno di essi come fattore di ordine, nella prima affidato al comune rispetto degli interessi altrui e nel secondo al ruolo di controllo di una potenza egemone. L’evoluzione dello Stato in capo ad un sovrano, a quello in capo ad una nazione, sconvolge definitivamente queste idee di stabilità.

La spinta dell’affermazione del capitalismo ottocentesco, articolata sulla creazione di delimitate aree di mercato, ed il suo stretto rapporto con l’affermarsi ideologico del concetto di “nazione”, l’idealizzazione dell’unione fra un popolo, definito da una lingua, una cultura ed una storia comuni, ed uno Stato che lo contenga e lo rappresenti, cancella dalla scena politica globale i soggetti protagonisti dei primi due ordini mondiali. E’ il processo che in termini tecnico-politici viene definito come “shift of power(“traslatio imperii” in latino) ossia “passaggio/trasferimento di poteri, dei rapporti di forza interni ed esterni”.

Lo shift tedesco, che vede il suo definitivo compimento nel 1871 con la nascita dello stato nazionale “Germania” grazie alla piena unificazione guidata dalla Prussia dei vari precedenti Stati (nel 1815, in coincidenza con il Congresso di Vienna era già nata la Confederazione Germanica che comprendeva ben 39 Stati accomunati da un’unica lingua) rappresenta la svolta più significativa verso il consolidamento dell’identificazione dello Stato con la Nazione ed a tempo stesso il fattore che di più destabilizza l’ordine mondiale fissato dal Congresso di Vienna.

Svolta e fattore che peraltro si collegano con il parallelo e contemporaneo trasferimento di fatto del ruolo egemonico mondiale tra Regno Unito e USA (nonostante una sua crescita economica costante per tutto il secolo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, l’economia inglese viene raggiunta e superata da quella americana, così come, nel successivo primo decennio del Novecento, da quella tedesca), che si è però articolato in un lungo processo lento e controverso dovuto allo storico spirito isolazionista statunitense.

La ritrosia americana viene infatti solo parzialmente superata con la sofferta decisione di intervenire nel corso della Prima Guerra Mondiale a fianco di Francia e Regno Unito contro l’espansionismo tedesco (l’impressionante crescita della Germania aveva fatto saltare il disegno inglese di mantenere un controllabile quadro di rapporti di forza di cui si è detto in precedenza in merito all’architettura dell’ordine mondiale del Congresso di Vienna, provocando la sua inevitabile reazione armata e lo scoppio della Prima Guerra nella quale confluiranno tutti i nazionalismi europei), una scelta maturata sulla base di una contraddittoria commistione fra interessi economici e produttivi e confuse idealità politiche. Ma la scelta di intervenire nel conflitto non è stata confermata e completata, come già evidenziato in precedenza, con l’assunzione piena della responsabilità di divenire la nuova potenza egemone, per la semplice ragione che non era quello che, in quel momento, voleva il popolo americano [le elezioni del 1920, le prime dopo il conflitto, vedono la schiacciante vittoria del Partito Repubblicano all’insegna dello slogan “return to normalcy (ritorno alla normalità)”].

L’ordine mondiale del Congresso di Vienna era quindi definitivamente morto e sepolto, ma nulla lo sostituiva perché l’unico soggetto politico che poteva farsene carico non era interessato ad assumere tale ruolo. Si è aperta così una fase storica contraddistinta dal più grave e drammatico caos che abbia mai interessato l’Europa (aprendo così la strada alle dittature novecentesche) che si è concluso, poco meno di trent’anni dopo, al termine del più sanguinoso conflitto di sempre (non per nulla, come già evidenziato, sono molti gli storici che interpretano il secondo conflitto mondiale come il proseguimento ed il completamento del primo) lasciando una eredità innanzitutto morale, ma poi anche politica, che non poteva più essere disattesa. Un nuovo ordine, ormai compiutamente mondiale, si imponeva, ma doveva fare i conti con un contesto geopolitico incredibilmente mutato.

Quella ritrosia americana, che pure permaneva (e permane) nel cuore profondo degli USA, è stata infine superata al termine della Seconda guerra per la semplice ragione che gli Stati Uniti erano ormai divenuti il centro delle relazioni economiche globali, il che inevitabilmente implicava, per la difesa dei propri interessi, l’assunzione di responsabilità sul piano politico. La scelta di intervenire in guerra questa volta trovava ormai compiutamente senso solo accettando l’onere di costruire, sul suo esito, un nuovo ordine mondiale. L’intreccio tra esposizione economica ed esposizione strategica, coniugandosi, hanno cioè in qualche modo imposto agli USA il ruolo di “stabilizzatore egemonico”.

Ma nel nuovo contesto geopolitico i precedenti modelli di costruzione di un ordine mondiale non potevano essere ripresi se non in alcuni tratti di ordine tattico. Non era innanzitutto più pensabile che l’architettura del nuovo ordine mondiale potesse essere fissata da un Trattato di Pace, essendo troppi e troppo differenziati i soggetti coinvolti e non meno complesse le singole specifiche situazioni da normare.

Da questo punto di vista alla stessa Conferenza di Yalta del Febbraio 1945, che si è limitata a fissare le “aree di influenza” sul territorio europeo assegnabili alle tre potenze vincitrici sul nazismo, non può quindi essere attribuita la stessa valenza strategica di lungo periodo della Pace di Westfalia e del Congresso di Vienna. Semmai, secondo un giudizio storico diffusamente condiviso, nelle more di tale accordo furono già impiantati i germi di un processo conflittuale di lungo periodo, la “Guerra Fredda” che, come si vedrà, per almeno quarant’anni determinerà, senza alcun accordo formale ed anzi con una congenita costante conflittualità, un “ordine mondiale di fatto”.

Per meglio comprendere l’anomalia di questo passaggio storico è utile ricordare che per tutta la Seconda Guerra Mondiale il rapporto USA-URSS è stato decisamente collaborativo (gli Stati Uniti hanno costantemente sostenuto l’Armata Rossa con imponenti forniture belliche), l’obiettivo di sconfiggere il nazismo ha permesso per i lunghi cinque anni di guerra di mettere da parte il loro irriducibile conflitto ideologico, la loro inconciliabile idea di società, economia, politica (va anche detto che durante il conflitto è stato prioritario, sul piano strategico per l’America, l’obiettivo di ridimensionare definitivamente il ruolo egemone su scala globale del Regno Unito).

L’acquisita consapevolezza americana del proprio ruolo di stabilizzatore egemonico è stata inizialmente declinata in un “multilateralismo” imposto proprio dal caos postbellico, la svolta verso il “bipolarismo della divisione del mondo in due blocchi” si imporrà pertanto, sull’onda di una contrapposizione ideologica e politica non diversamente risolvibile, pochi anni dopo (l’occasione per formalizzare la svolta si è presentata nel 1947 con l’intervento americano nella guerra civile in Grecia contro la fazione comunista). La convinzione statunitense della necessità di un sistema articolato a supporto del proprio ruolo egemonico si era infatti già precedentemente tradotta in due precise linee di azione:

1.  la creazione di un sistema di accordi e di alleanze (che si inseriscono nel solco degli accordi di Bretton Woods del 1944 che avevano fissato attorno al dollaro le relazioni monetarie e finanziarie occidentali) che confluiscono nella nascita, fortemente voluta e concretamente gestita dagli USA, dell’ONU  nel 1945 e successivamente, a bipolarismo ormai affermato, in quella della NATO nel 1949

2.  in coerenza con questo quadro di relazioni gli USA avevano (già durante il conflitto e ben prima di Yalta) immaginato una forma di “balance of power” (vedi Pace di Westfalia) coinvolgendo in un comitato ristretto URSS, Regno Unito e Cina, (definiti i “four policemen i quattro poliziotti) incaricati di tenere in ordine le rispettive aree di influenza. L’idea non ebbe seguito in questa forma, ma è stata poi ripresa nell’ambito della nascita dell’ONU con la creazione, al suo interno, del “Comitato di sicurezza” (che poco dopo ingloberà, assieme ai quattro “poliziotti”, la Francia, nei suoi cinque membri permanenti)

Al termine di questo convulso e contradditorio percorso si conferma evidente il ruolo egemonico americano (il “gendarme del mondo”, quanto meno della sua parte occidentale) concretamente esercitato, non sulla base di un accordo onnicomprensivo e di una sua conseguente architettura formalmente definita, ma attuando politiche a ricaduta locale tutte però ispirate dalla logica del quadro bipolare della “Guerra Fredda”,  ossia di quello che per quarant’anni sarà di fatto un non concordato ordine mondiale. Un ordine che tuttavia, ben presto e neanche tanto sotto traccia, si rivelerà essere, al di là dell’evidenza degli interessi in gioco, l’incubatore di un più diffuso disordine.

Termina qui la ricostruzione del caos dell’altro ieri.

“Il grande disordine mondiale” (il caos di ieri)

Se è infatti in buona misura condivisibile la popolare affermazione che “la guerra fredda ha permesso di evitare la guerra calda”, per quanto sia stato davvero nutrito l’elenco dei conflitti locali combattuti per procura da USA e URSS sullo scacchiere mondiale, è possibile ritenere, con il senno di poi, che la vera ragione che ha impedito una guerra calda sia consistita non tanto nell’ “equilibrio del terrore”  quanto piuttosto nell’evidenza che la vantata superpotenza sovietica non era per nulla tale. L’inconciliabile contrapposizione ideologica alla base della Guerra Fredda ha avuto cioè un concreto riscontro nella totale diversità di interessi strategici e nel gareggiare ad armi pari (o quasi) in campo militare (la rispettiva spesa per armamenti è stata sostanzialmente identica per circa trent’anni) ed in quello dell’esplorazione dello spazio, ma la dimensione reale dell’economia russa, la sua capacità di investimento e di innovazione tecnologica, sono sempre stati di gran lunga inferiori a quelli americani. Il sorpasso USA era destino inscritto nei dati economici e tecnologici.

Diversi storici ritengono che per gli scopi statunitensi sia stato strumentalmente utile continuare ad alimentare, al di là dei dati reali, il mito di superpotenza dell’Unione Sovietica giustificando così politiche ed interventi tattici, ma a questa constatazione ne fanno seguire una seconda altrettanto decisiva: l’eccesso di attenzione verso l’URSS ha comportato una conseguente sottovalutazione, imperdonabile per una potenza egemonica, di ciò che stava succedendo su altri fronti. La politica estera americana si è cioè troppo a lungo mossa su due piani, fra di loro pericolosamente intrecciati: quello della strategia della Guerra Fredda e quello dell’improvvisazione su tutto il resto.

Questa constatazione spiega bene quella che solo in apparenza è una battuta: il colpo più grave inferto agli USA dall’URSS è stato il suo stesso crollo vale a dire che la fine del blocco sovietico, definitivamente ed ingloriosamente sancito dalla Caduta del Muro del 1989, ha messo a nudo tutti i limiti del modello americano di ordine mondiale.

Sono molte le evoluzioni sul medio/lungo periodo di situazioni che testimoniano la fragilità e la miopia dell’ordine americano, fra le altre le occasioni non colte per attivare relazioni meno travagliate con diversi paesi del sud est asiatico, del Medio Oriente, Egitto in primis, con le stesse Cina e Cuba, ma soprattutto il non aver saputo gestire il prepotente ritorno sulla scena delle due potenze sconfitte nel secondo conflitto mondiale: Giappone e Germania, (peraltro non poco favorito dagli stessi USA, proprio per l’accecamento da eccesso di visione bipolare, in funzione anti Cina e anti URSS). Giappone e Germania sono state in questo modo capaci di realizzare in pochi anni livelli di crescita economica e produttiva tali da portarle a divenire serie concorrenti, su molti fronti persino vincenti, della stessa America (con in più la Germania capace di avviare, con la “Ostpolitik”, rapporti di normalizzazione con quella dell’Est e la stessa URSS che permarranno molto a lungo).

Va peraltro evidenziato, ad ulteriore conferma dell’ostinata miopia americana, che già agli inizi degli Anni Settanta il quadro delle relazioni internazionali era ormai entrato in una fase di trasformazione, lo testimonia la nascita nel 1974 del “G7”, un organo ufficialmente di consultazione informale, ma che raggruppando attorno allo stesso tavolo le sette nazioni più industrializzate del blocco occidentale (oltre agli USA, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, con l’aggiunta di Giappone e Canada) di fatto sanciva il passaggio ad una maggiore collegialità di decisione. L’ordine mondiale targato USA, in fretta passato dall’iniziale multilateralismo (di comodo) ad un bilateralismo (decisamente sbilanciato) utilizzato per conservare una egemonia, comunque già del suo sempre più fragile, che si era ormai evoluto in un disordine reale tale da richiedere aggiustamenti radicali.

Lo riconosceva pubblicamente nel 1971 il Presidente USA Nixon (in coincidenza con l’annuncio della fine della convertibilità tra dollaro e oro) aprendo così un decennio segnato da numerosi segnali di un crescente disordine globale, fra i tanti si segnalano:

Ø 1973 = guerra Egitto-Israele, alla vittoria israeliana i paesi arabi OPEC aumentano il prezzo del greggio del 300% innescando in tutto l’Occidente la più grave crisi economica dal 1929

Ø 1974 = Cina e Giappone avviano negoziati per un accordo di pace, siglato poi nel 1978

Ø 1975 = fuga ingloriosa delle truppe americane da Saigon dopo la disastrosa guerra avviata in funzione anticinese e antirussa

Ø 1979 = i dati di crescita del PIL mondiale 1973/1979 certificano la straordinaria avanzata dell’economia delle cosiddette “quattro tigri asiatiche”, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, il baricentro dell’economia globale si sposta verso Est (aspetto che non poco ha contribuito, al di là della sua ricaduta geopolitica, a rafforzare la contemporanea affermazione delle politiche neoliberiste occidentali creando così i presupposti della “globalizzazione” a giudizio di molti il “vero nuovo ordine del mondo”)

Ed è infatti proprio in questo decennio che prende forma la rapida accelerazione di un nuovo “shift of power”: lo spostamento del centro di potere economico dovuto al costante “declino relativo” di tutti i paesi che avevano creato e dominato i mercati mondiali negli ultimi quattro/cinque secoli messo clamorosamente a nudo dai contrapposti impressionanti ritmi di crescita di parti del mondo ancora colonizzate pochi decenni prima.

In particolare nel vecchio continente la fine dei “trent’anni gloriosi”, il periodo di maggiore crescita economica e sociale della storia europea, consegna un quadro geopolitico interno frantumato e confuso, certamente non un buon viatico per le speranze di costruzione di un’Europa federata, che unitamente ai primi segnali di un declino economico relativo, è molto condizionato dalla mancanza di uno “stabilizzatore egemonico”, con la Francia troppo debole per esserlo e con la Germania troppo forte per essere accettata in quel ruolo. E come la storia insegna: più lasca è la coesione interna più è facile l’interferenza esterna, ed in prima istanza molto fragile è l’affrancamento dal ruolo egemone degli USA.

L’avvio del processo di allargamento dell’allora CEE (nel 1973 il Regno Unito, con Irlanda e Danimarca, entrano a farne parte) non coglie infatti appieno i margini di manovra che si stanno aprendo con da una parte l’URSS ormai alle prese con evidenti segnali di disgregazione e quindi incapace di conseguenti azioni e dall’altra gli USA sempre più preoccupati e confusi per l’evidente perdita di potere egemonico (oltretutto sempre meno giustificato dalla divisione bipolare stante la crisi sovietica).

Bisogna attendere il 1989 con la caduta del Muro e la successiva fine del blocco sovietico per capire in che modo gli USA tenteranno di ricostruire una parvenza di ordine mondiale a loro più congeniale in una situazione ormai di disordine conclamato, ed il modo individuato da Washington per recuperarlo e mantenerlo, ben presto si rivelerà il classico rimedio peggiore del male.

A dispetto della lettura troppo frettolosa e superficiale del tempo, basata sulla convinzione del definitivo avvento di un mondo unipolare tale da segnare la “fine della storia”, il crollo dell’Unione Sovietica in effetti si rivela al contrario l’occasione che  scatena le ambizioni e le velleità dei tanti “poli” che, nel corso degli anni Ottanta erano vieppiù cresciuti pur restando, obtorto collo, ancora compressi in quello che restava del meccanismo bipolare

Naturalmente il passaggio dall’ordine che questo sembrava garantire ad un caos sempre più conclamato ed in cerca di soluzione è un processo che ha luogo per gradi (prima della accelerazione di fine anni Ottanta, era essenzialmente consistito, su scala globale, nella conferma della costante crescita dell’area asiatica con l’ulteriore accelerazione data dai primi consistenti segnali del boom cinese). Alla preoccupazione americana per il mondo nuovo che sta sempre più crescendo in Oriente si aggiunge quella per il processo, per quanto confuso e contradditorio, di creazione dell’Unione Europea (1993, Trattato di Maastricht), a formare un quadro percepito a Washington come una pericolosa minaccia al proprio ruolo egemonico non poco già incrinato dal declino relativo della sua economia.

La scelta americana diventa quella di intervenire su questo nuovo disordine mondiale ricorrendo al classico, tragico e controproducente, strumento della guerra, applicandolo in primo luogo per condizionare il “polo europeo”.

La prima guerra del Golfo del 1991 ed il successivo intervento diretto nelle guerre di successione jugoslave (attuato proprio per accentuare l’incapacità europea di tenere in ordine il giardino di casa), pur comportando il disastro geopolitico nell’area mediorientale (dove diventa insanabile il contrasto con il regime degli ayatollah nato con la Rivoluzione Islamica del 1979 che aveva detronizzato lo Scià storico alleato USA. Il gioco incrociato con Israele di aperto contrasto anti-iraniano resterà da qui in poi un fattore di costante instabilità per l’intera area medio-orientale) destinato ad accentuarsi a dismisura nei decenni successivi, si rivelano comunque ancora insufficienti per gli obiettivi statunitensi.

E’ solo con la seconda guerra del Golfo del 2003 che viene in qualche modo raggiunto l’obiettivo americano di creare crepe nell’ampliata UE (nel 2002 era stato deliberato il suo allargamento ad Est inglobando molti paesi dell’ex URSS) dividendo profondamente la “vecchia Europa(il cuore franco-tedesco) e la “nuova Europa(l’area già di influenza russa), un contrasto destinato a perdurare seppure con modulazioni via via diverse.

In questi stessi decenni, a cavallo del nuovo millennio, si accentua il cambiamento del baricentro economico mondiale, e se resta pur vero che lo sviluppo economico, da solo, non è sufficiente per acquisire un vero ruolo egemonico, appare ormai evidente che i tassi di crescita economica dell’Asia in generale e della Cina in particolare raccontano un balzo così impressionante da mettere seriamente in discussione il primato economico americano che vede al contrario confermata una costante contrazione. Questa innegabile svolta, sicuramente figlia di quella globalizzazione che, avviata dagli interessi occidentali, si era presto rivelata il cavallo di troia dell’espansionismo asiatico e cinese, ha però, neanche troppo paradossalmente, innescato il processo inverso di una globalizzazione che porta con sé il germe della deglobalizzazione.

Da una parte perché essa implica inevitabilmente pesanti ricadute sulle condizioni sociali e lavorative delle classi lavoratrici occidentali fin lì più protette e garantite, che ben presto si rivelano l’incubatore per la nascita di populismi e sovranismi che a breve inizieranno a condizionare fortemente le scelte politiche, interne ed estere, di USA ed Europa.

Dall’altra perché più la crescita è consistente più ingorga i mercati e più provoca reazioni protezionistiche che vanno in senso inverso alla globalizzazione (Brexit docet). Il ritorno sulla scena della parola “dazi” che nell’epoca della globalizzazione sembrava cancellata dal vocabolario economico nel nuovo millennio, si fa sempre più evidente (Trump docet).

Sembra così formarsi ad Occidente un contesto politico che, a dispetto delle illusioni neoliberiste di un nuovo quadro di relazioni economiche favorevole ai vecchi centri di potere, vede gli USA incapaci di ridefinire una propria centralità geopolitica essendo sempre più divisi al proprio interno, ed una Europa altrettanto impotente perché bloccata da un percorso di costruzione unitaria permanentemente incerto e contraddittorio. Alcuni commentatori hanno impietosamente sintetizzato questo perdente avvitamento su sé stessi e sui propri evidenti limiti con una definizione tanto spietata quanto centrata: un “suicidio attuato per paura di morire”.

Il connubio fra il nuovo quadro geopolitico, i mutamenti dell’economia mondiale e la sensazione di vuoto di potere che il crescente declino americano sta creando (il disastro delle Torri Gemelle del 2001 segnano un punto di non ritorno in questo senso), spiega bene il disordine mondiale, ma soprattutto mette a nudo la crescente irrazionalità dei rabberciati tentativi americani di ricreare una parvenza di ordine mondiale. I grotteschi primi quattro anni di presidenza Trump (e dal punto di vista mediatico le immagini della fuga ingloriosa dall’Afghanistan nell’Agosto 2021) ne sono vivida testimonianza.

Al tempo stesso nessuno dei nuovi poli di potere che si sono affacciati sulla scena globale, Cina compresa, possiede le caratteristiche necessarie per potersi affermare come nuovo stabilizzatore economico. L’inevitabile conseguenza è il caos che, segnatamente dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, caratterizza l’attuale quadro geopolitico globale. Ed in un contesto di tutti contro tutti, in cui nessuno vince e tutti perdono è inevitabile che riesplodano violenze e conflitti.

Nel corso del nuovo secolo la guerre, la forma più manifesta di disordine mondiale, si sono letteralmente moltiplicate: tra il 2001 ed il 2012 è stata registrata una media di 34 conflitti all’anno, balzata a 40 tra il 2013 ed il 2020, gli interventi militari all’estero erano 9 nel 2012 saliti a 25 nel 2020. Il 2022 è stato il tredicesimo anno consecutivo che ha registrato un aumento delle spese militari cresciute così del 20% rispetto al 2013

Paradossalmente - a chiudere questa sinteticissima ricostruzione di un ordine mondiale, mai davvero divenuto tale negli ottant’anni successivi alla Seconda Guerra ed infine  apertamente sfociato, nel nuovo secolo, in un incontrollato disordine -  sembra persino possibile sostenere che a rivitalizzare gli USA in un nuovo disperato tentativo (l’ultimo?) di riprendere peso e ruolo stiano contribuendo proprio i due ultimi conflitti armati che per certi versi avrebbero le caratteristiche di una pietra tombale sulla speranza di ordine: quello in Ucraina e quello nella striscia di Gaza. Ferma restando l’ingombrante presenza sullo sfondo del convitato di pietra cinese, lo schema che sembra emergere dalle prime mosse della nuova amministrazione Trump ricalca alcuni dei presupposti seguiti dagli USA nella primissima fase del secondo dopoguerra: riconoscimento della reciproca convenienza russo-americana ad avviare un processo di ricostruzione di una qualche bipolarità, quanto meno sullo scacchiere europeo a danno soprattutto dell’UE, vista come scomodo soggetto da ambedue questi protagonisti. Quanto questo presumibile scenario possa consolidarsi e con quali percorsi l’Europa intenda uscire da questo duplice accerchiamento sarà materia geopolitica dei prossimi mesi.

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Conclusioni

Da una analisi geopolitica, comunque e sempre opinabile, ci si aspetta anche la conseguente capacità di delineare quelli che comunemente vengono definiti “scenari”, e cioè congetture su come i processi individuati potrebbero evolvere.

Dando per scontato che, stante l’opinabilità delle analisi, si tratterebbe di mere ipotesi che, per un minimo di correttezza, devono avere un discreto ventaglio di possibilità, le idee su come l’attuale caos potrebbe evolvere è più facile che riguardino non quello che potrebbe accadere, ma ciò che non potrà accadere.

Si impone innanzitutto una doverosa premessa: se si presume che il bivio che si ha di fronte consista unicamente tra un ordine mondiale compiuto e una guerra mondiale, tanto varrebbe prepararsi al peggio, ma per fortuna il quadro è, forse, più articolato.

Lo snodo attorno al quale si possono delineare degli scenari è sempre quello del “coordinamento armonico” dei tanti diversi interessi in gioco, perlomeno questa è la lezione che la storia dei tentativi, qui ripercorsi, di costruzione di un ordine mondiale ci consegna. Se si guarda alla sempre controversa e mai davvero compiuta costruzione di una vera Europa Unita ci si rende bene conto che se il suo conseguimento è sempre complesso anche quando i portatori di interessi diversi, teoricamente, condividono il progetto comune di una Europa in qualche forma federata, diventa facile immaginare quanto più problematiche, passando alla scena globale, siano le prospettive quando non esiste in partenza alcuna analoga idea di progetto comune da realizzare.

Per parlare con un minimo di cognizione di scenari futuri - ben sapendo che un coordinamento armonico non sarà mai dato se basato unicamente su convenienze contingenti, su visioni di breve periodo, che per definizione sono provvisorie e mendaci perché troppo spesso nascondono, per convenienza, le vere finalità a cui ogni singola parte tende – occorre allora chiedersi quale progetto comune potrebbe imporsi nell’attuale caos, se neppure lo scenario catastrofico di una Terza Guerra Mondiale sembra più suscitare le paure di poco tempo addietro.

Henry Kissinger, che ha attraversato da protagonista tutta la geopolitica qui raccontata, poco prima di morire, nel 2023, a conflitto russo ucraino ormai scoppiato, affidava la speranza di uno scenario in qualche modo accettabile alla capacità di “leader sufficientemente forti e saggi” di realizzare un “accettabile compromesso fra le tante parti che costituiscono l’attuale quadro multipolare” essendo ben consapevole che mai come ora l’idea di puntare ad un organico e definito ordine mondiale appare, come tutta la storia insegna, un obiettivo oggettivamente irrealizzabile.

Ipotizzare quali scenari si potrebbero realizzare da qui in poi diventa allora una operazione che al momento ha senso solo se davvero si creeranno le condizioni per definire una sorta di “Grande Tregua”, ossia di un compromesso capace di raffreddare le tensioni. Tornando però a Kissinger e alla sua speranza sorge spontanea la domanda: ci sono oggi leader sufficientemente forti e saggi? La risposta di Manlio Graziano è nelle ultime frasi con cui chiude questa sua analisi e con cui delinea l’unico scenario a suo avviso possibile:

……. nessun tavolo di grandi negoziati in vista. Ma nell’attesa di leader forti e saggi, tanto epifanici quanto improbabili, e nella speranza di una “grande tregua” il grande disordine mondiale è destinato a proseguire nei prossimi anni la sua entropica espansione ……