Il “Saggio” del mese
MAGGIO 2025
Fra le cause che concorrono a comporre
l’attuale quadro di disordine geopolitico mondiale, (il “caos” nostra recente Parola del mese) un ruolo decisivo è sicuramente quello
degli scontri di contrapposti interessi sul mercato globale. Il saggio di
questo mese offre una chiave di lettura di questi fenomeni visti come
l’inevitabile esito di alcune tendenze economiche globali, determinate da
“leggi di mercato”, così pervasive da condizionare l’insieme delle relazioni
internazionali. Si tratta di un testo molto specialistico di politica economica
probabilmente per molti non proprio accattivante. Valeva comunque la
pena di tentare di renderlo il più possibile accessibile per condividere le
interessanti chiavi di lettura del presente che offre
il cui principale autore (si tratta in effetti di un coordinato
lavoro di gruppo) è Emiliano Brancaccio
(professore
di politica economica presso l’Università del Sannio, autore di numerosi saggi
ed articoli accademici fra i quali ricordiamo “Democrazia sotto assedio” nostro
“Saggio del mese” di Settembre 2022)
Questo saggio, conseguentemente al suo
essere il risultato di un lavoro di gruppo, è suddiviso in più parti fra di
loro collegate dalla traccia di alcune riflessioni prevalentemente sviluppate
da Brancaccio. Questa nostra sintesi si concentra soprattutto sulla parte
centrale che, articolata su tre capitoli:
I.
Capitalisti di tutto il
mondo, unitevi!
II.
La centralizzazione del
Capitale alla prova dei fatti
III.
Centralizzazione
imperialista e guerra
approfondisce il rapporto tra logiche
capitalistiche di mercato e la loro possibile incidenza sulle relazioni
economiche e politiche tra Stati e blocchi geopolitici
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La violenta recessione
globale del 2008 innescata dalla fine della precedente incontrollata bolla
speculativa finanziaria, ma non di meno dalla successiva caotica gestione della
crisi pandemica e dallo scoppio della guerra russo-ucraina, hanno in comune
l’essere segnali non più trascurabili di qualcosa di strutturale che non sta più
funzionando nell’ordine globale neoliberista.
Questi segnali sono stati
presi in seria considerazione dalle più famose testate finanziarie, (Financial Times, Wall Street Journal, Economist) di
norma allineate al pensiero economico mainstream, che hanno così iniziato a
chiedersi se il ritorno alla selvaggia declinazione di una incontrollata “libertà di mercato”,
fortemente voluta dalla svolta neoliberista degli anni Settanta/Ottanta, sia davvero
la forma migliore di gestione economica e finanziaria, o se, come sembra sempre
più evidente, essa sia invece foriera di rischi, non solo economici, potenzialmente
persino catastrofici. Mentre nelle stanze della politica ancora si tarda a meglio conoscere il nuovo che avanza, altrove, in ambienti non sospetti, si sono cioè manifestate
forti le esigenze di strumenti di lettura degli attuali processi di mercato che
aiutino a meglio comprendere le dinamiche di fondo in corso.
Ed in questo contesto,
certamente non sospettabile di simpatie comuniste, si sono recuperate, senza
imbarazzo alcuno, le analisi scientifiche del mercato capitalistico di Karl
Marx e le sue conseguenti individuazioni di “leggi generali di movimento del sistema” (proprio
quelle che la sinistra mondiale da tempo sembra aver mandato in soffitta), a
queste attenzioni hanno poi fatto seguito inaspettati espliciti riconoscimenti
di fondatezza.
Si tratta sicuramente di ammissioni
strumentali, la finalità del gotha del pensiero economico e finanziario non è
certo quella di mettere in discussione il sistema capitalistico in quanto tale,
ma semmai quella di acquisire una migliore consapevolezza delle sue
logiche interne per individuare eventuali pericolose distorsioni ed indicare con
giusto anticipo le conseguenti possibili contraddizioni.
Alcune delle questioni che imponevano
questo approfondimento erano quelle di capire:
Ø
perché
un mercato finanziario libero da lacci e lacciuoli non risulti in grado di
orientare gli investimenti per meglio sostenere i settori trainanti la
produzione
Ø
perché
il peso della finanza sia diventato tale da pregiudicare in modo decisivo, a
fronte di turbolenze sui mercati, l’intera economia, o meglio ancora perché il
capitale monetario sia aumentato così tanto in modo slegato dall’andamento
dell’economia reale
Ø
quanto
stia incidendo il ruolo dell’interconnessione globale fra produttori (accordi di cartello) sulle dinamiche del mercato
Ø
quanto
sia ancora solida la sostenibilità del
rapporto fra capitalismo, libero di agire sulla base delle logiche di profitto,
e la stessa democrazia.
Tra tutte le leggi di mercato
individuate dall’analisi marxiana, riemerse all’attenzione del dibattito
economico quella che a parere di Brancaccio, e di buona parte degli analisti
citati in precedenza, meglio si presta a spiegare le attuali tendenze del
mercato capitalistico globalizzato di stampo neoliberista è la legge di
centralizzazione del Capitale, la cui centralità è un fatto
relativamente recente determinato proprio dalle specifiche forme assunte negli
ultimi decenni dalla competizione capitalistica sui mercati di tutto il mondo.
A lungo questa legge è stata
tuttavia sottovalutata perché l’intuizione marxiana di processi di
centralizzazione del Capitale era stata al tempo concepita, solamente su basi
teoriche, come sviluppo, ritenuto comunque inevitabile, delle logiche di mercato
capitalistico, ma a lungo non era stato possibile sottoporla ad adeguata
verifica empirica per la mancanza di dati consolidati su cui operare. Solo recentemente
questo riscontro è divenuto possibile grazie alla nascita di imponenti archivi
dati sui concreti movimenti dei mercati azionari e finanziari resi possibili
dalla informatizzazione globale, ed è esattamente su questi dati che poggiano
anche le valutazioni analitiche ripercorse in questo saggio.
Entrando nel merito
dell’assunto di base di questa legge, si potrebbe ironicamente dire che una sua
esemplare sintesi è perfettamente racchiusa nell’antico detto “pesce grande mangia
pesce piccolo”,
vale a dire che la feroce competizione tra capitali e capitalisti
inevitabilmente genera di continuo vincitori e vinti con i primi che, nelle
forme che qui si prenderanno in esame, di fatto uccidono e cannibalizzano i
secondi. La
legge marxiana di centralizzazione del Capitale, finalmente
rafforzata da riscontri empirici, si
concentra sui possibili esiti di questa guerra capitalistica e sulle
conseguenze che essa può avere sulla struttura dei mercati, sulla solidità delle
economie nazionali e di quella globale, sull’intero sistema delle relazioni,
nazionali ed internazionali, di potere economico.
Per meglio comprendere cosa si debba esattamente intendere per “centralizzazione (tendenza alla)”, nella versione introdotta da Marx (successivamente ripresa e raffinata da Rudolf Hilferding, 1877/1941, economista tedesco) è bene fissare innanzitutto la differenza che intercorre con un altro concetto economico marxiano, quello della “concentrazione”, non di rado tra loro non correttamente scambiati: il termine concentrazione nell’accezione originaria di Marx indica “la creazione di nuovi mezzi di produzione (investimenti in impianti e strumenti di produzione)” che consente ad alcuni capitalisti di concentrare su sé stessi maggiori quote di mercato, mentre la tendenza alla centralizzazione rappresenta invece l’esito della incessante competizione tra capitali per la conquista dei mercati rappresentato da una “espropriazione di un capitalista da parte di un altro capitalista”.
La centralizzazione dei
capitali, così intesa, si può concretizzare in vari modi:
Ø
con
l’uscita dal mercato del capitalista perdente, con quote di mercato che di
conseguenza si spostano verso quelli vincenti
Ø
con
assorbimento mediante acquisizione o fusione dell’impresa (in questo caso si registra anche un
cambiamento di proprietà)
Ø
nel caso di imprese
azionarie, il caso più frequente e più rilevante (quello
al centro del saggio),
con l’acquisizione del pacchetto di maggioranza da parte del capitale vincente (in questo caso non si ha però formale
cambiamento di proprietà).
In alcuni di questi casi la
centralizzazione si concretizza come esito estremo della concorrenza fra operatori
produttivi, ma la forma che storicamente si è rivelata quella prevalente,
soprattutto negli ultimi decenni, è quella messa in atto da capitali non
direttamente coinvolti nella produzione (e
non di rado neppure interessati ad essa in quanto tale) che
si muovono nel “sistema
del credito”, vale a dire operatori finanziari che, potendo
manovrare ingenti risorse finanziarie, le investono, a fini di profitto,
acquisendo il controllo di imprese produttive.
L’esito finale di questa
forma di centralizzazione, sempre più diffusa e radicata, è sostanzialmente
quello dell’accorpamento nelle mani dell’alta finanza di vasti (si vedrà quanto) settori
del capitale industriale, commerciale e bancario, come a dire che è in questo
modo divenuto elemento costitutivo del capitalismo moderno il “superamento della
libera concorrenza” fra operatori produttivi, con il “capitale finanziario
assurto al ruolo di capitale unificato”.
Con un’aggiunta non meno
rilevante: nel caso di acquisizione delle quota di maggioranza di società per
azioni i suoi nuovi titolari ottengono il controllo totale del capitale
azionario e possono quindi governare a pieno titolo l’impresa pur senza averne
rilevato l’intero valore. In questo modo, nel gioco incrociato (si vedrà quanto) di
acquisizioni operate dal capitale finanziario, la centralizzazione del capitale
consente di superare i limiti del possesso della formale proprietà privata del
capitale così conquistato. Detto in termini tecnici: la centralizzazione dà
luogo ad una “concentrazione
del capitale oltre il limite del mero rapporto proprietario”, ossia
a quella che è divenuta la caratteristica preminente dell’attuale capitalismo
oligarchico globale, conferendo a quello finanziario il potere di indirizzare
l’azione economica di una platea molto ampia di imprese.
Eppure va detto che (con la sola eccezione delle recenti
attenzioni di cui si è detto in apertura) l’idea di una
progressiva centralizzazione del controllo dei capitali non è mai stata al
centro dell’attenzione degli studiosi di economia, dei vari istituti di
controllo delle relazioni economiche (Banca
Mondiale, OCSE, Fondo Monetario, Banche Centrali) per
non dire delle concrete politiche economiche di tutti gli Stati.
Un ritardo di attenzione che
è peraltro riscontrabile nello stesso campo degli studi economici marxisti con
buona probabilità troppo condizionato dalla propensione a considerare il
complesso delle teorie marxiane come un unico corpo concettuale in cui ogni
singola teoria vale come pezzo di un incastro organico non scomponibile. La
sola possibilità che la tendenza alla centralizzazione del Capitale metta in
crisi altre teorie, come quella della “caduta tendenziale del saggio di profitto”
(l’investimento sulla parte
fissa del Capitale - macchinari, impianti e materie prime - a scapito di quelli
sul lavoro, il vero produttore di valore, che sul lungo periodo riduce i margini di
profitto, del saggio di profitto) sembra aver fortemente
limitato l’attenzione specifica su di essa.
Verso la quale sono state semmai
mosse perplessità e critiche, favorite dalla mancanza di dati di cui si è
detto, che si sono concentrate soprattutto sulla reale consistenza e portata dei
processi di centralizzazione. In particolare a prima vista potrebbe apparire non
del tutto priva di fondamento l’obiezione che il mercato capitalistico, soprattutto quello
attuale a forte contenuto tecnico e tecnologico, sempre apre spazio a nuove
imprese, nuove attività e settori, la cui affermazione, raggiungendo
livelli dimensionali significativi, ha un così forte impatto positivo
sull’andamento dell’economia da ridare costantemente nuovo fiato alla
suddivisione del Capitale. Il fenomeno in sé è innegabile, e ben lo
testimoniano molte delle recenti novità intervenute con l’avvento della Rete e
lo sviluppo delle ICT, ma resta altrettanto vero che sul medio-lungo periodo la
tendenza alla centralizzazione ha sempre e comunque preso piede anche in tutte le nuove
forme del Capitale, e questo
perché le tendenze di fondo del sistema capitalistico in quanto tale non hanno
termine temporale.
Una seconda perplessità è
stata mossa criticando l’idea che i meccanismi decisionali delle imprese e società,
specie se di forma azionaria, siano ancora in capo ai possessori di maggioranza
dei pacchetti azionari essendo ormai stati affidati al management aziendale di
vertice, non a caso così lautamente retribuito proprio per queste
responsabilità gestionali. Anche questa lettura non regge però a due
contro-obiezioni: in primo luogo il processo di centralizzazione è
un fenomeno che si articola sui complessi e articolati intrecci fra distinti
capitali (il “capitale
unificato” di cui si è detto) le gestioni manageriali delle singole attività non possono. in quanto tali.
incidere su questo contesto così ampio e articolato, in
secondo luogo è fatto risaputo che l’acquiescenza manageriale rispetto alle indicazioni
ed alle aspettative di immediato profitto (questa è la logica del capitale
finanziario) dei rispettivi consigli di amministrazione è
sempre stata tale da essere, non di rado, sfociata in gestioni persino
perniciose per la stessa efficienza dell’impresa.
Le altre critiche e perplessità, più specifiche e mirate, si sono
sostanzialmente basate su contestazioni riguardo alle dimensioni quantitative
dei processi di centralizzazione la
risposta di Brancaccio a queste critiche (il
cuore stesso di questo saggio) è basata su un ponderoso e
scientifico lavoro di analisi dei dati finalmente disponibili (portato avanti con il gruppo di lavoro
che ha condiviso la sua stesura), ben
presto assurto a riconosciuto punto di riferimento nel campo degli studi
economici, che ha innanzitutto smontato il loro assunto di partenza. Queste
critiche erano infatti basate sull’analisi dell’incidenza del peso del capitale posseduto da
multinazionali sul prodotto interno lordo, PIL, dei singoli paesi e poi assemblato in un dato aggregato globale
che, valutato su un arco temporale significativo, sembrava escludere un loro ruolo
preponderante. Brancaccio ed il suo team di studiosi hanno però
evidenziato la fallacia analitica di questa misurazione che, muovendosi sulla
superficie del possesso proprietaristico formale, non era in grado di cogliere l’intreccio di
interessi che le lunghe catene di controllo del capitale, come in
una sorta di matrioska russa, in effetti consentono.
La scelta analitica operata
da Brancaccio si è mossa esattamente in questa direzione ed è stata attuata
applicando ai dati economici i sistemi di studio delle interazioni fra i vari
elementi di sistemi fisici complessi (quelli
che hanno consentito a Giorgio Parisi di vincere nel 2021 il premio Nobel per
la fisica). Con questa accurata metodologia di analisi è stato così
possibile far emergere che è l’interazione fra i singoli elementi il fattore
determinante per il comportamento globale del sistema complesso in esame.
Questa proprietà, valida per tutti i sistemi complessi, è chiamata “comportamento
emergente” nel senso che in essi sempre emerge un “comportamento globale”
che però non è prevedibile sulla base dello studio delle singole parti perché è determinato proprio
dalle tantissime possibili interazioni fra di esse che unitamente
compongono quella che viene tecnicamente definita “rete complessa”.
In parole povere non ha senso
alcuno studiare separatamente ogni singola parte di un sistema economico
complesso (specie se
transnazionale) di relazioni azionarie, per poi assemblare in
un dato finale la loro sommatoria, occorre invece mappare gli snodi della loro rete di
relazioni composta dai singoli punti che li individuano e soprattutto
dalle linee (doppie,
triple, ….. a salire) che li collegano, denominate “link (collegamento)”,
una operazione che consente di definire un livello di concentrazione dei
meccanismi di controllo, tecnicamente definito “net control (controllo
della rete)” che, là dove dovesse accertare che una
percentuale bassa di azionisti detiene di fatto il controllo gestionale dell’insieme
dei capitali coinvolti, fornirebbe una chiara indicazione di
centralizzazione.
Questo lungo lavoro di
analisi, svolto da Brancaccio e dal suo team, dei dati economici 2001-2016 forniti dal “database (banca
dati)” Ekon che con copertura mondiale raccoglie
dati accurati sulle società azionarie (ricavi
operativi, capitale, acquisizioni, cassa, ecc.) che
formano una
gigantesca rete proprietaria globale giunta nel 2016 a superare le
quarantacinquemila unità fra di loro collegate da più di un milione di
partecipazioni azionarie fra di
loro intrecciate, ha fornito un dato inequivocabile (graficamente
sintetizzato in una serie di tabelle e grafici, di non semplice interpretazione,
qui comunque non riportabili per ovvie ragioni di spazio): nel
periodo in esame si è sviluppato un processo che ha portato al risultato finale del
2016 che vede l’80% della rete di relazioni detenuto da una frazione di
azionisti molto piccola, non lontana dall’1% degli azionisti totali a
testimoniare quindi una elevatissima centralizzazione del capitale mondiale in
capo a proprietà azionarie (non
è quindi l’intero capitale mondiale che, come si vedrà qui di seguito è gestito
con varie differenti modalità, ma sicuramente ne rappresenta una percentuale
così rilevante da influenzare l’intero mercato capitalistico).
Questo dato, di indubbia e
clamorosa rilevanza, è stato poi ulteriormente integrato e suddiviso prendendo
in considerazione i processi che, al suo interno, hanno interessato le diverse
forme di capitalismo, le situazioni dei singoli paesi, le aree omogenee che li
contengono e le istituzioni internazionali a cui aderiscono (in questo caso l’arco temporale preso in
esame è stato esteso dal 1999 al 2019).
Secondo la letteratura economica sono tre i principali modelli di capitalismo: quello anglosassone (essenzialmente USA e Regno Unito), quello renano-nipponico (Germania e Giappone) e quello latino (Francia, Italia e Spagna). Il primo è caratterizzato da imprese che per più dell’80% sono basate su una forma di azionariato diffuso quello quindi più permeabile a possibili acquisizioni a possibili acquisizioni, nel secondo prevalgono invece imprese con proprietà molto ristrette ed a forte concentrazione azionaria (ed in cui hanno già un forte ruolo le banche d’affari), nel terzo prevalgono imprese di stampo padronale/familiare con un forte azionista di controllo e residue forme azionarie relativamente diffuse. Ambedue queste ultime forme di capitalismo sono meno influenzate dai processi di net control, pur non essendone per nulla esenti, potendo contare su una maggiore diversificazione gestionale.
Anche in questo caso,
tornando ai capitale azionario, gli studi condotti dal team di Brancaccio (che hanno integrato con appositi
parametri aggiuntivi lo schema usato per la precedente analisi)
hanno fornito un identico risultato: la percentuale di azionisti detentori dell’80% del
capitale azionario nazionale, per tutti i tre modelli di capitalismo, si aggira
mediamente attorno all’1% (il paese con la più alta concentrazione
è il Regno Unito con una media dello 0,1%, quello con la concentrazione più
bassa è invece l’Italia con un net control del 3,6%. Ricordiamo
che più è basso il net control più alta è la centralizzazione).
Un dato specifico merita un
di più di attenzione: ferma restando la comune tendenza verso la
centralizzazione nell’arco temporale esaminato il paese che più ha trainato la curva
generale verso il dato finale sono gli USA
(passati da un iniziale
3% a meno dell’1%), l’unico paese fra quelli presi in esame che in
proporzione ha segnato una simile accelerazione è la Cina (dal 13% a meno dell’1%) che
ha un sistema economico decisamente anomalo di certo non classificabile fra
quelli prima individuati: vale a dire che i due giganti dell’economia mondiale
che si stanno disputando l’egemonia mondiale (il loro PIL vale circa il 44% di quello
mondiale), per quanto fra di loro diversissimi, hanno ambedue trainato
la tendenza generale verso la centralizzazione dei capitali.
Non meno interessante è la
rilevazione del grado di scartamento di ogni singolo paese rispetto al trend
della media complessiva di net control, suddividendoli inoltre fra aderenti o
non aderenti all’OCSE (Organizzazione
Cooperazione Sviluppo Economico): anche in questo caso non emergono
scartamenti rilevanti , ma è interessante notare che i paesi OCSE (quelli più sviluppati),
seppur di poco, sono sopra la media (hanno
quindi minore net control) quelli che non aderiscono all’OCSE (quelli al contrario meno sviluppati) sono
invece sotto la media (hanno
cioè un maggiore net control). Un dato che lascia intuire l’esistenza
di una centralizzazione
dei capitali più accentuata nei paesi sottosviluppati (probabilmente
dovuta a minori controlli antitrust o proprio alla debolezza delle loro
economie).
Dall’insieme delle analisi svolte dal team di Brancaccio emerge quindi una chiara indicazione: nei primi due decenni del nuovo secolo, quelli più segnati dai cambiamenti economici determinati dal grande progresso tecnologico, la tendenza alla centralizzazione è divenuta un dato strutturale di dimensioni molto significative. In particolare va precisato che si è registrata una sua rilevante accelerazione (di circa 25 punti percentuali) negli anni a ridosso della grande crisi mondiale del 2007/2008. Un dato che nerita di essere approfondito.
E’ infatti interessante capire quali dinamiche
possono intercorrere fra centralizzazione e ciclo economico, e cioè se la correlazione
che è emersa nel 2007/2008 fra questi due aspetti sia meglio spiegabile con la
prima che innesca una fase di crisi del secondo o viceversa con il secondo che,
entrando del suo in una fase negativa, accentua la prima.
Il dibattito economico
teorico al riguardo (a
cui Brancaccio dedica molte complesse pagine qui non riportate per non
appesantire ulteriormente questa sintesi) da sempre vede
posizioni contrapposte spiegabili con la complessità di relazioni fra forme
proprietarie, accessibilità a finanziamenti, solvibilità, struttura del
credito, ingerenze speculative, politiche economiche governative e ruolo delle
Banche Centrali, concorrenza globale, ed altri correlati aspetti. Un intreccio
così complesso da indurre molti economisti (a
partire da Marx) a ritenere che nel sistema di mercato capitalistico non è
la crisi a costituire l’eccezione, ma semmai il suo esatto opposto:
l’equilibrio.
Se così è il costante
ripetersi di crisi, più o meno cicliche, non può più rappresentare un
occasionale fattore di disturbo, ma piuttosto l’evidenza della fragilità dello
stesso assunto ideologico, del liberismo classico così come del
neoliberismo attuale, della bontà del gioco dei liberi scambi sul mercato
capace, da solo, di mantenere un equilibrio economico naturale (ossia
un impiego pieno ed efficiente di tutte le risorse tale da massimizzare le
aspettative di tutti i soggetti coinvolti). La realtà storica
dimostra infatti che molte delle crisi sistemiche hanno trovato una qualche
soluzione solo grazie all’intervento regolatore di adeguate politiche
economiche governative, consolidate da coerenti politiche monetarie delle
Banche Centrali. A queste in particolare spetta il complesso compito di fissare
tassi di interessi (il
costo del denaro) in grado di garantire un ottimale livello di solvibilità delle
imprese (un
parametro economico/finanziario che, come si vedrà, la centralizzazione dei
capitali può porre in crisi) ossia la loro capacità di
far fronte agli impegni finanziari, requisito indispensabile per garantire la
sopravvivenza dei “capitalisti vinti” evitando così
l’innesco di crisi economiche.
La possibile incidenza della
centralizzazione dei capitali sull’innescarsi di crisi sistemiche (le crisi strutturali sono quelle che
possono pregiudicare la stessa “riproducibilità”
dell’intero meccanismo economico, la capacità di un’economia di mercato di
preservare sé stessa) può quindi essere valutata solamente se
inserita in questo contesto di fondo e se adeguatamente confermata da concreti
dati empirici. Ed in effetti sono proprio queste due evidenze che, ritornando
alla situazione specifica della crisi finanziaria 2007/2008 (esplosa a causa della insostenibilità
della bolla dei titoli “derivati” che innescò una pesantissima insolvibilità a
sua volta provocata dalla concentrazione del potere azionario e finanziario
testimoniata dalla consistente accentuazione del net control in quei due anni),
consentono
di spiegare la sua genesi nel loro intreccio perverso.
La crisi globale del
2007/2008 rappresenta quindi una concreta ed epocale vicenda che evidenzia come
la centralizzazione del capitale, stante la sua caratteristica di legge
inscritta nelle logiche del mercato capitalistico, possa evolvere a livelli
tali da innescare (soprattutto
se vengono superati determinati limiti negativi di solvibilità) fortissime turbolenze critiche sui mercati globali proprio a causa
della sua diffusa rete di intrecci azionari di potere.
Più in generale diventa
possibile sostenere, come considerazione riassuntiva di quanto fin qui
analizzato, che i processi di centralizzazione dei capitali rappresentano un
fattore di destabilizzazione del libero gioco del mercato tale da innescare un sovrappiù di
feroce competizione fra capitalisti, con i suoi inevitabili vinti e
vincitori, con
il rischio che le sconfitte dei primi inneschino autentiche crisi sistemiche.
Non solo: la forza del suo impatto è tale da andare oltre la sfera economica, i
vincitori della competizione, in quello che di fatto diventa una gestione
oligopolistica del mercato, acquisiscono anche un potere politico tale da incidere
pesantemente, all’interno dei singoli Stati, sul libero svolgimento del gioco democratico
(aspetto analizzato da
Brancaccio nel suo precedente saggio “Democrazia sotto assedio”) e da accentuare,
passando alle relazioni tra Stati ed aree del mondo, le conflittualità geopolitiche fino al
limite di aperti conflitti armati. Non pare cioè inappropriato
parlare, stante questi livelli di centralizzazione del capitale, di una nuova
fase storica caratterizzata da una tendenza allo scontro aperto fra i vincitori
delle singole aree di potere mondiali, i blocchi della geopolitica, definibile
come “centralizzazione
imperialista del capitale” là dove imperialista individua “deliberate politiche
di potenza che mirano a creare “imperi” basati sul controllo ferreo di stati
sottomessi”. E’ questo l’attuale culmine dei processi economici
governati dalle leggi di fondo del mercato capitalistico globale all’interno
delle quali è fondamentale quella della centralizzazione dei capitali, ed è in questo contesto di
guerra capitalistica che
devono essere collocati gli stessi conflitti armati
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Ed è
quello che fa Brancaccio nei diversi allegati che costituiscono la nutrita
appendice del saggio. In particolare sono riportati tre articoli (di cui due in forma di intervista) apparsi sull’inserto “Econopoly de Il
Sole 24 ore del 1° Giugno 2022, su MicroMega del 28 Febbraio 2022, sulla
rivista online Il Tascabile della Treccani dell’8 Luglio 2022. Qui estrapoliamo
i passi che più ci sono sembrati collegati alla parte del saggio fin qui
sintetizzata.
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La narrazione delle guerre
che stanno segnando l’attuale fase storica, in particolare di quella
russo-ucraina, si basa in gran prevalenza su due punti di valutazione fra di
loro intrecciati: quello geopolitico e quello valoriale.
Scarsa attenzione è invece
prestata alle possibili cause e finalità di ordine economico, salvo una qualche
chiamata in causa dell’obiettivo di mettere le mani sulle risorse minerarie (terre rare) ed
agricole.
La scarsa, se non addirittura
assente, analisi degli aspetti economici impedisce però di inserire il ricorso
al conflitto armato entro il quadro delle tendenze strutturali di ordine
economico che, al contrario, molto potrebbero dire al riguardo.
Senza nulla togliere alle
altre motivazioni uno sguardo più attento agli intrecci fra strategie di medio/lungo periodo
economiche e militari consentirebbe
infatti di mettere a fuoco il fatto che molti dei conflitti armati che stanno
segnando lo scenario mondiale degli ultimi trent’anni trovano infatti una loro
spiegazione anche in strategie messe in atto per fronteggiare le conseguenze
dei due processi economici che stanno strutturando la competizione mondiale sui
mercati: la
globalizzazione e la tendenza alla centralizzazione dei capitali qui esaminata.
Il connubio tra queste due
caratteristiche strutturali è alla base della spietata competizione sul mercato
mondiale che genera continuamente vincitori e vinti in una dinamica che, come
si è visto, costituisce un grave rischio per la tenuta della democrazia e al
tempo stesso la molla per il costituirsi di contrapposti blocchi.
Paradossalmente negli ultimi
vent’anni si è via via consolidato un quadro che vede gli USA, ossia la
nazione egemone sul piano geopolitico e la culla, ideologica e concreta, della
gestione neoliberista dell’economia, risultare la grande perdente della globalizzazione.
Negli ultimi trent’anni il baricentro del potere economico si è clamorosamente
spostato ad est (Cina,
India, Sud-est asiatico) innescando in tutto l’Occidente (USA ed Europa), sin
lì padrone del mondo, una crisi economica e identitaria.
Il dato debitorio degli USA
verso il resto del mondo (in
particolare proprio verso la Cina) è ormai clamoroso e
testimonia, riprendendo quanto in precedenza visto su centralizzazione e
solvibilità, che in pochi decenni l’intera economia americana (nonostante alcune recenti eccellenze
tecnologiche) è passata dal ruolo di vincitore a quello di
vinto.
La reazione, spesso scomposta
e poco lucida (si
pensi al ricorso esasperato e controproducente ai dazi),
messa in atto negli ultimi anni (sia
dai democratici che dai repubblicani) dimostra che gli USA, con
gli altri debitori occidentali, non stanno più tentando di governare la tendenza
alla globalizzazione e alla centralizzazione del capitale, ma stanno mirando a bloccarla ricorrendo ad ogni mezzo,
conflitto armato per nulla escluso.
Una delle più evidenti
conseguenze di questa reazione è stata, altro paradosso innescato dalla miopia
americana, quella di rafforzare, smentendo ogni precedente assunto della
globalizzazione neoliberista, la divisione in blocchi del potere economico, e
conseguentemente geopolitico, mondiale attivando su ampia scala il fenomeno
tecnicamente denominato “friend-shoring” (il rafforzamento delle relazioni con i
paesi ritenuti “amici” accompagnato da chiusure sempre più rigide versi quelli
“nemici”) che ad esempio ha, fra le altre ricadute, messo in gravissima
crisi, ancor prima del conflitto con l’Ucraina e le collegate sanzioni, economie
come quella russa basate quasi esclusivamente sui rapporti con l’estero (a fronte di mercati interni di scarso
valore).
la
scelta di Putin di invadere l’Ucraina non trova infatti spiegazione solo con
diritti territoriali negati, con la minaccia Nato, con gli improbabili sogni
imperiali, ma anche, se non soprattutto, con l’irritazione di vedersi chiudere
in una bolla economica che lo consegna all’ interessato abbraccio cinese, ovviamente
in posizione di inferiorità. Dall’altro canto il secondo mandato Trump sta
dimostrando, nell’attuale contesto multipolare, di voler inseguire un sogno
autarchico (Maga), abbandonando l’UE al suo destino (peraltro ancora tutto da definire) e cercando di costruire in funzione anticinese e antieuropea una
qualche convenienza tattica con la Russia di Putin
Il probabile esito sul medio
periodo dell’insieme di queste tensioni con buona probabilità sarà il permanere
di una guerra capitalistica, senza esclusioni di colpi, di sicuro sul campo di
battaglia economico, ma non è da escludere che per ragioni di convenienza
piuttosto che di esasperazione il conflitto assuma, qua e là, le classiche
vesti dello scontro armato. Non a caso è globalmente ripartita una paranoica
corsa agli armamenti, classici ed ipertecnologici. Difficile capire quale potrà
essere un nuovo punto di equilibrio geopolitico e quando questo potrebbe
realizzarsi, quel che è certo che esso potrà aversi solo quando nel quadro
multipolare dei nuovi imperialismi gli interessi dei vari capitalismi
troveranno un qualche punto di convergenza. Leggi
di fondo del capitalismo permettendo.