La Parola del mese
Una parola in grado
di offrirci nuovi spunti di riflessione
MAGGIO 2025
L’irruzione
sulla scena geopolitica globale della nuova amministrazione Trump ha, come da
previsioni, innescato una notevole dose di problematiche di gestione tutt’altro
che semplice. Ognuna di esse merita certamente di essere affrontata con
specifica attenzione, ma è soprattutto la logica di fondo che le ispira che sta
imponendo uno sforzo in più di analisi e comprensione. La parola di questo mese,
non a caso diffusamente utilizzata, sintetizza in sole quattro lettere il
tratto che contraddistingue questo quadro d’insieme. La recuperiamo proprio
perché offre uno spunto aggiuntivo di riflessione che, guardando indietro nel
tempo, si sofferma sui modi storicamente fin qui messi in atto per evitare,
come attualmente sta succedendo, situazioni ingestibili di ………….
CAOS
(declinato
nel suo corrispondente termine italiano di disordine”)
càos = dal
lat. chaos (derivato dall’omonimo greco che letteralmente
significava “essere aperto, spalancato”) = nelle antiche cosmologie
greche indicava il complesso degli elementi materiali senza ordine preesistenti
all’universo ordinato, attualmente è molto usato in matematica e in fisica
nell’ambito dello studio dei sistemi complessi,
nel discorso comune significa “grande disordine, confusione, di cose o anche
d’idee, di sentimenti, in particolare indica disordine e grave turbamento nella vita
sociale e politica”
Per farlo seguiremo la traccia di un interessante testo di
recentissima uscita
il cui
autore è Manlio Graziano (1958, docente di
geopolitica e di geopolitica delle religioni alla Sorbona, autore di numerosi saggi, sodale di
Lucio Caracciolo scrive regolarmente su Limes)
che ripercorre fino ai nostri giorni l’evoluzione
secolare dei rapporti fra le varie parti del mondo e le nazioni che le
compongono, per capire in quali modi si siano articolati i tentativi di
costruire un ordine globale capace di dare stabilità alle relazioni
internazionali. Ovviamente la sua attenzione è concentrata sull’attuale caos,
sulle dinamiche che lo stanno creando, sulle conseguenze che ne conseguono, su quale
nuova stabilità di relazioni potrà essere costruita, ma proprio per meglio
capire è quanto mai utile conoscere il più a fondo possibile in quali modi, e
con quali esiti, sia stata fin qui perseguita la finalità di costruire un
ordine mondiale. Nell’ultima parte del testo di Manlio Graziano si arriverà
comunque, lungo questo percorso storico, a ricostruire in cosa esso consisteva
appena prima della bufera trumpiana.
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L’ordine mondiale, storia di una grande illusione:
….
l’ordine mondiale non è mai esistito: non
è mai stato un ordine e non è mai stato mondiale. Se per “ordine mondiale” ci si riferisce
ad un assetto delle relazioni internazionali in grado di garantire la pace si
può essere certi che un simile stato di cose non è mai esistito …..
Questa
perentoria affermazione di Manlio Graziano è suffragata da una constatazione
storica di lungo periodo che parte dal Cinquecento, dall’epoca delle grandi
scoperte geografiche europee (prima
di allora le varie parti del mondo semplicemente non erano mai state collegate
o lo erano, solo in minima parte, molto occasionalmente). E’
solo da lì in poi infatti che la parola “ordine mondiale” ha iniziato
ad acquisire senso anche se, stante la feroce egemonia coloniale delle potenze
europee sul resto del mondo, più che di ordine mondiale è più corretto, almeno
fino ai primi del Novecento, parlare di “ordine europeo” che, in
successive diverse declinazioni, si è però sempre dimostrato parziale.
Da
questo secolare percorso emerge con chiarezza un prima fondamentale caratteristica:
tutti gli ordini europei che si sono realizzati nel corso di questi quattro
secoli si sono sempre realizzati all’esito di guerre feroci.
In effetti solo tre conflitti, nella lunghissima e spaventosa serie di guerre
che hanno segnato la storia europea, sono poi sfociati in una parvenza, seppure
parziale, di ordine:
Ø la “Guerra
dei Trent’anni” (1618-1648,
una serie concatenata di guerre iniziata come scontro tra Stati Protestanti e
Cattolici e poi evoluta nella rivalità franco-asburgica per l’egemonia europea.
Ha significato un autentico disastro demografico che ha visto la popolazione
europea diminuire dai 554 milioni di inizio conflitto ai 548 milioni del 1650)
Ø le “Guerre
rivoluzionarie ed imperiali francesi” (1792-1815,
una continua successione di scontri che hanno coinvolto le potenze del tempo in
funzione antifrancese, prima in relazione alla Rivoluzione del 1789 e poi
all’’epopea napoleonica. E’ considerata la prima “guerra totale” con il suo ricorso alla leva
obbligatoria, alla mobilitazione di tutte le risorse statali ed al coinvolgimento
di intere popolazioni, che ha provocato la morte, fra militari e civili, di
circa dieci milioni di persone)
Ø la “Seconda Guerra Mondiale” [1939-1945, la prima combattuta su scala davvero globale. Secondo molti storici è la prosecuzione e il completamento della Prima Guerra Mondiale, 1914-1918, che avrebbe già potuto dare vita ad un ordine mondiale però non realizzato perché gli Stati Uniti che dovevano costituirne il fulcro rinunciarono a tale ruolo diretto. E’ spaventoso il numero delle vittime di ogni singolo conflitto (nella Prima tra 15 e 22 milioni di militari e tra 6 e 13 milioni di civili, nella Seconda, considerata il conflitto più letale della storia umana, si sale ad un totale di circa 70 milioni di morti, considerati tutti quelli coinvolti in vario modo nella guerra e nelle sue articolazioni collaterali) ed è quindi semplicemente catastrofica la loro somma].
Ognuno degli ordini seguiti a queste tragedie è
stato costruito con ovvio riferimento al suo specifico contesto storico, ma al
tempo stesso in tutti sono rintracciabili preziose indicazioni sugli elementi
che, con valenza generale, possono concorrere a delineare cosa possa essere inteso
per “costruzione di un ordine mondiale” e che quindi
possono essere utili, ferme restando le peculiarità dell’attuale contesto
geopolitico, per meglio comprendere quali linee guida meglio si adattano al caos contemporaneo.
La “Pace di Westfalia” che, siglata
nel 1648, mise fine alla Guerra dei Trent’anni (e
alla correlata “Guerra degli Ottant’anni” fra la Spagna e le Province Unite dei
Paesi Bassi) è considerata in ambito storico il primo
trattato che, sulla base del concreto esito di tale conflitto (che
in particolare vedeva il tramonto dell’egemonia spagnola e l’avvento di quella
francese), si è proposto di fissare, con la finalità di rimuovere il
più possibile le cause che avevano provocato una guerra di tali dimensioni, un
quadro stabile di relazioni tra gli Stati e le istituzioni coinvolte. Non a
caso quindi, senza entrare nel merito dei complessi processi storici che in
quel periodo stavano segnando la definitiva strutturazione del potere europeo in
singoli moderni Stati, la caratteristica fondamentale che ha ispirato la sua
definizione è consistita proprio nel “reciproco riconoscimento delle
rispettive aree di sovranità”.
All’interno di questa visione di base la Pace
di Westfalia contiene già due aspetti che possono essere sicuramente assunti
come elementi che caratterizzano ogni tentativo di stabilire un ordine di ampio
raggio e respiro:
1. l’acquisita
consapevolezza, maturata sul sostanziale fallimento di tutti i vari accordi di
pace che avevano fin lì segnato la storia europea, dell’evidenza che non
sono mai i trattati a creare la realtà, ma è la realtà che crea i trattati,
è sempre la relazione reale che si cristallizza sul campo, seguendo percorsi
che inevitabilmente sfuggono alle clausole fissate, a determinare la necessità
e i termini del nuovo ordine
2. a
questa consapevolezza se ne aggiunge una seconda, alla prima strettamente
connessa: i trattati, in questo modo definiti, per essere mantenuti e
rispettati necessitano sempre e comunque dell’esercizio, messo in atto o anche
solo minacciato, della forza. E’ cioè indispensabile che quelle forze,
una o più che siano, che l’esito sul campo ha individuato come vincenti, restino
sufficientemente forti per farne rispettare i termini e per impedirne violazioni. Vale a dire che l’ordine è quindi sempre quello dei
vincitori e dura finché questi sono in grado di farlo rispettare.
E’ inoltre già presente anche un terzo
aspetto, non meno significativo, che, come vedremo, verrà ulteriormente
rafforzato in quelli successivi: il riconoscimento delle rispettive
sovranità deve essere consolidato con la creazione di un sistema di relazioni
capace di conciliare gli interessi in gioco garantendoli in un equilibrio
concretamente gestibile. Vale a dire che un ordine, una volta
delineato, può reggere nel tempo solo fintantoché quello che in termini tecnici
viene definito “balance of power (equilibrio
di potere)” viene da tutte le parti in gioco percepito come adeguato
al raggiungimento dei propri specifici interessi.
Appare evidente la fragilità sul lungo periodo
di questa prima idea di “ordine mondiale (nella
sua forma di ordine europeo parziale)”, non a caso la Pace di
Westfalia (che pure nelle sue
linee generali si è mantenuta, a dispetto di innumerevoli conflitti locali, per
ben un secolo e mezzo) è stata infine irrimediabilmente
incrinata da un elemento, imprevedibile al momento della sua stesura, che ha
sconvolto il suo, fin lì ben articolato, “balance of power”: l’irruzione
sulla scena di un nuovo protagonista, il Regno Unito, che di molto
cresciuto lungo percorsi autonomi dalle linee di potere continentali, era ormai
divenuto portatore di nuovi interessi inconciliabili con quelli da esso
contemplati
E’ quella che in gergo geopolitico è
definita “la trappola di Tucidite”, un
modo di dire espressamente richiamato nel 2015 dal presidente cinese Xi Jinping
per riferirsi ai rapporti USA-Cina. Con questa espressione, che riprende il
passaggio in cui lo storico ateniese individuava la causa della guerra del
Peloponneso nell’apprensione di Sparta per la formidabile crescita di Atene, si
indica la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenerne
un’altra emergente. La trappola consiste quindi nel cedere alla paura di
perdere il primato
L’esito finale dei due decenni di totale caos, seguiti alla
Rivoluzione Francese ed all’epopea imperiale napoleonica, rappresentava una
così nuova realtà, tale da imporre la necessità di definire un ordine
altrettanto nuovo, in grado di governarne i mutati aspetti. Non soltanto erano infatti radicalmente
mutati, un secolo e mezzo dopo Westfalia, i rapporti di forza fra le classiche
potenze europee, ma era ormai evidente il ruolo centrale assunto dal Regno
Unito, il vero vincitore sul campo ed oltretutto portatore di interessi in
misura preponderante connessi al suo essere al centro di un vastissimo sistema
di relazioni coloniali: il nuovo ordine doveva quindi ancora avere casa in
Europa ma, per la prima volta, assumeva un carattere davvero mondiale
Ed è ciò che è stato sancito dal Congresso
di Vienna del 1815, con la costruzione di un nuovo sistema di
relazioni che solo in parte è riconducibile alla classica definizione di “Restaurazione”
(quella delle tradizionali
dinastie regnanti). Al centro della nuova architettura,
disegnata dal Regno Unito in funzione della sua acquisita egemonia, stava
piuttosto la volontà inglese di evitare che la “vecchia” Europa, con tutte le
sue ingovernabili tensioni fra Stati e sovrani, fosse di disturbo, di
intralcio, alle sue politiche di espansione globale quanto mai funzionali alle
aspettative della ormai affermata borghesia capitalistica.
Ed è proprio in questo tratto che si può
cogliere l’irruzione, nella faticosa definizione di un’idea di ordine mondiale,
di un nuovo elemento: il potere della potenza egemone di
turno di disegnare un insieme di relazioni con tutti gli altri Stati, tale per
cui nessuno di essi possa essere abbastanza grande da poter divenire un
avversario, ma neppure così troppo debole da non costituire un ostacolo per la
crescita degli altri.
Attorno a questo elemento si è inoltre
consolidato, come sua concreta estensione, un secondo aspetto: la
costruzione di un sistema di alleanze (oltretutto
resa ormai indispensabile proprio per l’estensione delle aree da controllare)
impostato proprio per imprigionare ogni eventuale tensione in una sorta di gabbia
che consenta alla potenza egemone di turno (in
questo caso il Regno Unito) di svolgere il ruolo di arbitro e di
controllore [nel
Congresso di Vienna viene infatti formalizzata la nascita della “Santa Alleanza” (Russia, Austria
e Prussia) per ribadire il ruolo delle “monarchie legittime” e soprattutto la “Quadruplice
Alleanza” (alle tre precedenti si aggiunge il Regno Unito e,
successivamente, la Francia) preposta a dirimere in modo preventivo ogni
eventuale contrasto] confluite in un sistema formale di
coordinamento tra Stati, definito “concerto d’Europa”.
Gli storici si dividono sulla data esatta della
fine del Concerto d’Europa e del sistema di controllo inglese sull’Europa, visto
che già nei decenni immediatamente successivi non erano mancati evidenti
contrasti legati da una parte all’affermarsi anche nel vecchio continente delle
logiche di mercato capitalistiche e dall’altra alle concorrenziali politiche
coloniali. Ma al di là del dato temporale ciò che progressivamente ha incrinato
tale idea di ordine mondiale è stata ancora
una volta la “Trappola di Tucidite” della crescita inarrestabile della Prussia (paradossalmente voluta proprio dalla
Gran Bretagna, all’interno del sistema di Alleanze, come tassello di supporto
in funzione antifrancese) principale protagonista di un fenomeno
più ampio che aveva già iniziato, poco dopo il Congresso di Vienna del 1815, a
caratterizzare l’intera Europa: l’affermarsi dell’idea sempre più esasperata di
“Stato nazione”.
Gli ordini mondiali previsti dalla Pace di
Westfalia e dal Congresso di Vienna miravano ad una stabilità di relazione fra
Stati fondata su una comune “ragion di Stato”, ossia sul
riconoscimento della “sovranità giuridica” di
ciascuno di essi come fattore di ordine, nella prima affidato al comune
rispetto degli interessi altrui e nel secondo al ruolo di controllo di una
potenza egemone. L’evoluzione dello Stato in capo ad un sovrano, a quello in
capo ad una nazione, sconvolge definitivamente queste idee di stabilità.
La spinta dell’affermazione del capitalismo
ottocentesco, articolata sulla creazione di delimitate aree di mercato, ed il
suo stretto rapporto con l’affermarsi ideologico del concetto di “nazione”, l’idealizzazione
dell’unione fra un popolo, definito da una lingua, una cultura ed una storia
comuni, ed uno Stato che lo contenga e lo rappresenti, cancella dalla scena
politica globale i soggetti protagonisti dei primi due ordini mondiali. E’ il
processo che in termini tecnico-politici viene definito come “shift
of power” (“traslatio imperii” in latino)
ossia “passaggio/trasferimento di poteri, dei rapporti di forza
interni ed esterni”.
Lo shift tedesco,
che vede il suo definitivo compimento nel 1871 con la nascita dello stato
nazionale “Germania” grazie alla piena
unificazione guidata dalla Prussia dei vari precedenti Stati (nel 1815, in coincidenza con il
Congresso di Vienna era già nata la Confederazione Germanica che comprendeva
ben 39 Stati accomunati da un’unica lingua) rappresenta la svolta
più significativa verso il consolidamento dell’identificazione dello Stato con
la Nazione ed a tempo stesso il fattore che di più destabilizza l’ordine
mondiale fissato dal Congresso di Vienna.
Svolta e fattore che peraltro si collegano con
il parallelo e contemporaneo trasferimento di fatto del ruolo egemonico
mondiale tra Regno Unito e USA (nonostante
una sua crescita economica costante per tutto il secolo nell’ultimo decennio
dell’Ottocento, l’economia inglese viene raggiunta e superata da quella
americana, così come, nel successivo primo decennio del Novecento, da quella
tedesca), che si è però articolato in un lungo processo lento e
controverso dovuto allo storico spirito isolazionista statunitense.
La ritrosia americana viene infatti solo
parzialmente superata con la sofferta decisione di intervenire nel corso della
Prima Guerra Mondiale a fianco di Francia e Regno Unito contro l’espansionismo
tedesco (l’impressionante
crescita della Germania aveva fatto saltare il disegno inglese di mantenere un
controllabile quadro di rapporti di forza di cui si è detto in precedenza in
merito all’architettura dell’ordine mondiale del Congresso di Vienna,
provocando la sua inevitabile reazione armata e lo scoppio della Prima Guerra
nella quale confluiranno tutti i nazionalismi europei), una
scelta maturata sulla base di una contraddittoria commistione fra interessi
economici e produttivi e confuse idealità politiche. Ma la scelta di
intervenire nel conflitto non è stata confermata e completata, come già
evidenziato in precedenza, con l’assunzione piena
della responsabilità di divenire la nuova potenza egemone, per la
semplice ragione che non era quello che, in quel momento, voleva il popolo
americano [le elezioni del 1920,
le prime dopo il conflitto, vedono la schiacciante vittoria del Partito
Repubblicano all’insegna dello slogan “return to normalcy
(ritorno alla normalità)”].
L’ordine mondiale del Congresso di Vienna era
quindi definitivamente morto e sepolto, ma nulla lo sostituiva perché l’unico
soggetto politico che poteva farsene carico non era interessato ad assumere
tale ruolo. Si è aperta così una fase storica contraddistinta dal più grave e
drammatico caos
che abbia mai interessato l’Europa (aprendo
così la strada alle dittature novecentesche) che si è concluso,
poco meno di trent’anni dopo, al termine del più sanguinoso conflitto di sempre
(non per nulla, come già
evidenziato, sono molti gli storici che interpretano il secondo conflitto
mondiale come il proseguimento ed il completamento del primo) lasciando
una eredità innanzitutto morale, ma poi anche politica, che non poteva più
essere disattesa. Un nuovo ordine, ormai compiutamente mondiale, si
imponeva, ma doveva fare i conti con un contesto geopolitico incredibilmente
mutato.
Quella ritrosia americana, che pure permaneva (e permane) nel
cuore profondo degli USA, è stata infine superata al termine della Seconda
guerra per la semplice ragione che gli Stati Uniti erano ormai divenuti il
centro delle relazioni economiche globali, il che inevitabilmente implicava,
per la difesa dei propri interessi, l’assunzione di responsabilità sul piano
politico. La scelta di intervenire in guerra questa volta trovava ormai compiutamente
senso solo accettando l’onere di costruire, sul suo esito, un nuovo ordine
mondiale. L’intreccio tra esposizione economica ed esposizione strategica,
coniugandosi, hanno cioè in qualche modo imposto agli USA il ruolo di “stabilizzatore
egemonico”.
Ma nel nuovo contesto geopolitico i precedenti
modelli di costruzione di un ordine mondiale non potevano essere ripresi se non
in alcuni tratti di ordine tattico. Non
era innanzitutto più pensabile che l’architettura del nuovo ordine mondiale
potesse essere fissata da un Trattato di Pace, essendo troppi e troppo differenziati
i soggetti coinvolti e non meno complesse le singole specifiche situazioni da
normare.
Da questo punto di vista alla stessa Conferenza
di Yalta del Febbraio 1945, che si è limitata a fissare le “aree
di influenza” sul territorio europeo assegnabili alle tre potenze
vincitrici sul nazismo, non può quindi essere attribuita la stessa valenza
strategica di lungo periodo della Pace di Westfalia e del Congresso di Vienna.
Semmai, secondo un giudizio storico diffusamente condiviso, nelle more di tale
accordo furono già impiantati i germi di un processo conflittuale di lungo
periodo, la “Guerra Fredda” che, come si vedrà, per almeno
quarant’anni determinerà, senza alcun accordo formale ed anzi con una congenita
costante conflittualità, un “ordine mondiale di fatto”.
Per meglio comprendere l’anomalia di
questo passaggio storico è utile ricordare che per tutta la Seconda Guerra
Mondiale il rapporto USA-URSS è stato decisamente collaborativo (gli Stati
Uniti hanno costantemente sostenuto l’Armata Rossa con imponenti forniture
belliche), l’obiettivo di sconfiggere il nazismo ha permesso per i lunghi
cinque anni di guerra di mettere da parte il loro irriducibile conflitto
ideologico, la loro inconciliabile idea di società, economia, politica (va
anche detto che durante il conflitto è stato prioritario, sul piano strategico
per l’America, l’obiettivo di ridimensionare definitivamente il ruolo egemone
su scala globale del Regno Unito).
L’acquisita consapevolezza americana del
proprio ruolo di stabilizzatore egemonico è stata inizialmente declinata in un
“multilateralismo” imposto proprio dal caos
postbellico, la svolta verso il “bipolarismo della divisione del mondo in due
blocchi” si imporrà pertanto, sull’onda di una contrapposizione
ideologica e politica non diversamente risolvibile, pochi anni dopo (l’occasione per formalizzare la svolta
si è presentata nel 1947 con l’intervento americano nella guerra civile in
Grecia contro la fazione comunista). La convinzione statunitense
della necessità di un sistema articolato a supporto del proprio ruolo egemonico
si era infatti già precedentemente tradotta in due precise linee di azione:
1. la
creazione di un sistema di accordi e di alleanze (che
si inseriscono nel solco degli accordi di Bretton Woods del 1944 che avevano fissato attorno al dollaro
le relazioni monetarie e finanziarie occidentali) che
confluiscono nella nascita, fortemente voluta e concretamente gestita dagli
USA, dell’ONU nel 1945
e successivamente, a bipolarismo ormai affermato, in quella della NATO nel 1949
2. in
coerenza con questo quadro di relazioni gli USA avevano (già durante il conflitto e ben prima di
Yalta) immaginato una forma di “balance of power” (vedi
Pace di Westfalia) coinvolgendo in un comitato ristretto URSS,
Regno Unito e Cina, (definiti
i “four policemen”
i quattro poliziotti) incaricati di tenere in ordine le rispettive
aree di influenza. L’idea non ebbe seguito in questa forma, ma è stata poi ripresa
nell’ambito della nascita dell’ONU con la creazione, al suo interno, del “Comitato di sicurezza” (che
poco dopo ingloberà, assieme ai quattro “poliziotti”, la Francia, nei suoi
cinque membri permanenti)
Al termine di questo convulso e contradditorio
percorso si conferma evidente il ruolo egemonico americano (il “gendarme del mondo”, quanto meno
della sua parte occidentale) concretamente esercitato, non
sulla base di un accordo onnicomprensivo e di una sua conseguente architettura
formalmente definita, ma attuando politiche a ricaduta locale tutte però
ispirate dalla logica del quadro bipolare della “Guerra Fredda”,
ossia di quello che per quarant’anni sarà di
fatto un non concordato ordine mondiale. Un ordine che tuttavia, ben
presto e neanche tanto sotto traccia, si rivelerà essere, al di là
dell’evidenza degli interessi in gioco, l’incubatore di un più diffuso
disordine.
Termina qui la ricostruzione del caos dell’altro ieri.
“Il grande disordine
mondiale” (il caos di ieri)
Se è infatti in buona misura condivisibile la
popolare affermazione che “la guerra fredda ha permesso di evitare
la guerra calda”, per quanto sia stato davvero nutrito l’elenco dei
conflitti locali combattuti per procura da USA e URSS sullo scacchiere
mondiale, è possibile ritenere, con il senno di poi, che la vera ragione che ha
impedito una guerra calda sia consistita non tanto nell’ “equilibrio del terrore”
quanto piuttosto nell’evidenza che la
vantata superpotenza sovietica non era per nulla tale. L’inconciliabile
contrapposizione ideologica alla base della Guerra Fredda ha avuto cioè un
concreto riscontro nella totale diversità di interessi strategici e nel
gareggiare ad armi pari (o
quasi) in campo militare (la
rispettiva spesa per armamenti è stata sostanzialmente identica per circa trent’anni) ed
in quello dell’esplorazione dello spazio, ma la dimensione reale dell’economia
russa, la sua capacità di investimento e di innovazione tecnologica, sono
sempre stati di gran lunga inferiori a quelli americani. Il sorpasso USA era destino
inscritto nei dati economici e tecnologici.
Diversi storici ritengono che per gli scopi
statunitensi sia stato strumentalmente utile continuare ad alimentare, al di là dei
dati reali, il mito di superpotenza dell’Unione Sovietica giustificando così
politiche ed interventi tattici, ma a questa constatazione ne fanno seguire una
seconda altrettanto decisiva: l’eccesso di attenzione verso l’URSS ha
comportato una conseguente sottovalutazione, imperdonabile per una potenza
egemonica, di ciò che stava succedendo su altri fronti. La politica
estera americana si è cioè troppo a lungo mossa su due piani, fra di loro
pericolosamente intrecciati: quello della strategia della Guerra
Fredda e quello dell’improvvisazione su tutto il resto.
Questa constatazione spiega bene quella che
solo in apparenza è una battuta: il colpo più
grave inferto agli USA dall’URSS è stato il suo stesso crollo vale a
dire che la fine del blocco sovietico,
definitivamente ed ingloriosamente sancito dalla Caduta del Muro del 1989, ha messo a nudo tutti i limiti del modello americano di
ordine mondiale.
Sono molte le evoluzioni sul medio/lungo periodo di situazioni che testimoniano la fragilità e la miopia dell’ordine americano, fra le altre le occasioni non colte per attivare relazioni meno travagliate con diversi paesi del sud est asiatico, del Medio Oriente, Egitto in primis, con le stesse Cina e Cuba, ma soprattutto il non aver saputo gestire il prepotente ritorno sulla scena delle due potenze sconfitte nel secondo conflitto mondiale: Giappone e Germania, (peraltro non poco favorito dagli stessi USA, proprio per l’accecamento da eccesso di visione bipolare, in funzione anti Cina e anti URSS). Giappone e Germania sono state in questo modo capaci di realizzare in pochi anni livelli di crescita economica e produttiva tali da portarle a divenire serie concorrenti, su molti fronti persino vincenti, della stessa America (con in più la Germania capace di avviare, con la “Ostpolitik”, rapporti di normalizzazione con quella dell’Est e la stessa URSS che permarranno molto a lungo).
Va peraltro evidenziato, ad ulteriore conferma
dell’ostinata miopia americana, che già agli inizi degli Anni Settanta il
quadro delle relazioni internazionali era ormai entrato in una fase di
trasformazione, lo testimonia la nascita nel 1974 del “G7”, un organo
ufficialmente di consultazione informale, ma che raggruppando attorno allo
stesso tavolo le sette nazioni più industrializzate del blocco occidentale (oltre agli USA, Francia, Regno Unito,
Germania, Italia, con l’aggiunta di Giappone e Canada) di
fatto sanciva il passaggio ad una maggiore collegialità di
decisione. L’ordine mondiale targato USA, in fretta passato
dall’iniziale multilateralismo (di
comodo) ad un bilateralismo (decisamente
sbilanciato) utilizzato per conservare una egemonia, comunque
già del suo sempre più fragile, che si era ormai evoluto in un disordine reale
tale da richiedere aggiustamenti radicali.
Lo riconosceva pubblicamente nel 1971 il
Presidente USA Nixon (in coincidenza con l’annuncio della fine
della convertibilità tra dollaro e oro) aprendo così un decennio
segnato da numerosi segnali di un crescente disordine globale, fra i tanti si
segnalano:
Ø 1973
= guerra Egitto-Israele, alla vittoria israeliana i paesi arabi OPEC aumentano
il prezzo del greggio del 300% innescando in tutto l’Occidente la più grave
crisi economica dal 1929
Ø 1974
= Cina e Giappone avviano negoziati per un accordo di pace, siglato poi nel
1978
Ø 1975
= fuga ingloriosa delle truppe americane da Saigon dopo la disastrosa guerra
avviata in funzione anticinese e antirussa
Ø 1979
= i dati di crescita del PIL mondiale 1973/1979 certificano la straordinaria
avanzata dell’economia delle cosiddette “quattro tigri asiatiche”,
Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan, il baricentro dell’economia
globale si sposta verso Est (aspetto
che non poco ha contribuito, al di là della sua ricaduta geopolitica, a
rafforzare la contemporanea affermazione delle politiche neoliberiste
occidentali creando così i presupposti della “globalizzazione” a giudizio di molti il “vero nuovo ordine del mondo”)
Ed è infatti proprio in questo decennio che
prende forma la rapida accelerazione di un nuovo “shift of power”:
lo spostamento del centro di potere economico dovuto al costante “declino
relativo” di tutti i paesi che avevano creato e dominato i mercati
mondiali negli ultimi quattro/cinque secoli messo clamorosamente a nudo dai
contrapposti impressionanti ritmi di crescita di parti del mondo ancora
colonizzate pochi decenni prima.
In particolare nel vecchio continente la fine
dei “trent’anni gloriosi”, il periodo di maggiore
crescita economica e sociale della storia europea, consegna un quadro
geopolitico interno frantumato e confuso, certamente non un buon viatico per le
speranze di costruzione di un’Europa federata, che unitamente ai primi segnali
di un declino economico relativo, è molto condizionato dalla mancanza di uno “stabilizzatore
egemonico”, con la Francia troppo debole per esserlo e con la
Germania troppo forte per essere accettata in quel ruolo. E come la storia
insegna: più lasca è la coesione interna più è facile l’interferenza
esterna, ed in prima istanza
molto fragile è l’affrancamento dal ruolo egemone degli USA.
L’avvio del processo di allargamento
dell’allora CEE (nel
1973 il Regno Unito, con Irlanda e Danimarca, entrano a farne parte) non
coglie infatti appieno i margini di manovra che si stanno aprendo con da una
parte l’URSS ormai alle prese con evidenti segnali di disgregazione e quindi
incapace di conseguenti azioni e dall’altra gli USA sempre più preoccupati e
confusi per l’evidente perdita di potere egemonico (oltretutto
sempre meno giustificato dalla divisione bipolare stante la crisi sovietica).
Bisogna attendere il 1989 con la caduta del
Muro e la successiva fine del blocco sovietico per capire in che modo gli USA
tenteranno di ricostruire una parvenza di ordine mondiale a loro più congeniale
in una situazione ormai di disordine conclamato, ed il modo individuato da
Washington per recuperarlo e mantenerlo, ben presto si rivelerà il classico
rimedio peggiore del male.
A dispetto della lettura troppo frettolosa e
superficiale del tempo, basata sulla convinzione del definitivo avvento di un
mondo unipolare tale da segnare la “fine della storia”, il crollo dell’Unione
Sovietica in effetti si rivela al contrario l’occasione che scatena le ambizioni e le velleità dei
tanti “poli” che,
nel corso degli anni Ottanta erano vieppiù cresciuti pur restando, obtorto
collo, ancora compressi in quello che restava del meccanismo bipolare
Naturalmente il passaggio dall’ordine che
questo sembrava garantire ad un caos
sempre più conclamato ed in cerca di soluzione è un processo che ha luogo per
gradi (prima della accelerazione di
fine anni Ottanta, era essenzialmente consistito, su scala globale, nella
conferma della costante crescita dell’area asiatica con l’ulteriore
accelerazione data dai primi consistenti segnali del boom cinese).
Alla preoccupazione americana per il mondo nuovo che sta sempre più crescendo
in Oriente si aggiunge quella per il processo, per quanto confuso e
contradditorio, di creazione dell’Unione Europea (1993, Trattato di Maastricht), a
formare un quadro percepito a Washington come una pericolosa minaccia al proprio
ruolo egemonico non poco già incrinato dal declino relativo della sua economia.
La scelta americana diventa quella di
intervenire su questo nuovo disordine mondiale ricorrendo al classico, tragico
e controproducente, strumento della guerra, applicandolo in primo luogo per
condizionare il “polo europeo”.
La prima guerra del Golfo del 1991 ed il
successivo intervento diretto nelle guerre di successione jugoslave (attuato proprio per accentuare
l’incapacità europea di tenere in ordine il giardino di casa), pur
comportando il disastro geopolitico nell’area mediorientale (dove diventa insanabile il contrasto con
il regime degli ayatollah nato con la Rivoluzione Islamica del 1979 che aveva
detronizzato lo Scià storico alleato USA. Il gioco incrociato con Israele di
aperto contrasto anti-iraniano resterà da qui in poi un fattore di costante instabilità
per l’intera area medio-orientale) destinato ad accentuarsi a
dismisura nei decenni successivi, si rivelano comunque ancora insufficienti per
gli obiettivi statunitensi.
E’ solo con la seconda guerra del Golfo del
2003 che viene in qualche modo raggiunto l’obiettivo americano di creare crepe
nell’ampliata UE (nel
2002 era stato deliberato il suo allargamento ad Est inglobando molti paesi
dell’ex URSS) dividendo profondamente la “vecchia
Europa” (il
cuore franco-tedesco) e la “nuova Europa” (l’area già di influenza russa), un
contrasto destinato a perdurare seppure con modulazioni via via diverse.
In questi stessi decenni, a cavallo del nuovo
millennio, si accentua il cambiamento del baricentro economico mondiale, e se
resta pur vero che lo sviluppo economico, da solo, non è sufficiente per
acquisire un vero ruolo egemonico, appare ormai evidente che i tassi di
crescita economica dell’Asia in generale e della Cina in particolare raccontano
un balzo così impressionante da mettere seriamente in discussione il primato economico
americano che vede al contrario confermata una costante contrazione. Questa innegabile
svolta, sicuramente figlia di quella globalizzazione che, avviata dagli
interessi occidentali, si era presto rivelata il cavallo di troia
dell’espansionismo asiatico e cinese, ha però, neanche troppo paradossalmente,
innescato il processo inverso di una globalizzazione che porta con sé il
germe della deglobalizzazione.
Da una parte perché essa implica
inevitabilmente pesanti ricadute sulle condizioni sociali e
lavorative delle classi lavoratrici occidentali fin lì più protette e garantite, che ben presto
si rivelano l’incubatore per la nascita di populismi e sovranismi che a breve
inizieranno a condizionare fortemente le scelte politiche, interne ed estere,
di USA ed Europa.
Dall’altra perché più la crescita è
consistente più ingorga i mercati e più provoca reazioni protezionistiche
che vanno in senso inverso alla globalizzazione (Brexit
docet). Il ritorno sulla scena della parola “dazi”
che nell’epoca della globalizzazione sembrava cancellata dal vocabolario
economico nel nuovo millennio, si fa sempre più evidente (Trump docet).
Sembra così formarsi ad Occidente un contesto
politico che, a dispetto delle illusioni neoliberiste di un nuovo quadro di
relazioni economiche favorevole ai vecchi centri di potere, vede gli USA
incapaci di ridefinire una propria centralità geopolitica essendo sempre più
divisi al proprio interno, ed una Europa altrettanto impotente perché bloccata
da un percorso di costruzione unitaria permanentemente incerto e contraddittorio.
Alcuni commentatori hanno impietosamente sintetizzato questo perdente
avvitamento su sé stessi e sui propri evidenti limiti con una definizione tanto
spietata quanto centrata: un “suicidio attuato per paura di morire”.
Il connubio fra il nuovo quadro geopolitico, i
mutamenti dell’economia mondiale e la sensazione di vuoto di potere che il crescente
declino americano sta creando (il
disastro delle Torri Gemelle del
2001 segnano un punto di non ritorno
in questo senso), spiega bene il disordine mondiale, ma soprattutto mette a nudo la
crescente irrazionalità dei rabberciati tentativi americani di ricreare una
parvenza di ordine mondiale. I grotteschi primi quattro anni di presidenza
Trump (e dal punto di vista
mediatico le immagini della fuga
ingloriosa dall’Afghanistan nell’Agosto 2021) ne
sono vivida testimonianza.
Al tempo stesso nessuno dei nuovi poli di
potere che si sono affacciati sulla scena globale, Cina compresa, possiede le
caratteristiche necessarie per potersi affermare come nuovo
stabilizzatore economico. L’inevitabile conseguenza è il caos
che, segnatamente dopo la crisi economico-finanziaria del 2008,
caratterizza l’attuale quadro geopolitico globale. Ed in un contesto di tutti
contro tutti, in cui nessuno vince e tutti perdono è inevitabile che
riesplodano violenze e conflitti.
Nel
corso del nuovo secolo la guerre, la forma più manifesta di disordine mondiale,
si sono letteralmente moltiplicate: tra il 2001 ed il 2012 è stata registrata
una media di 34 conflitti all’anno, balzata a 40 tra il 2013 ed il 2020, gli
interventi militari all’estero erano 9 nel 2012 saliti a 25 nel 2020. Il 2022 è
stato il tredicesimo anno consecutivo che ha registrato un aumento delle spese
militari cresciute così del 20% rispetto al 2013
Paradossalmente - a chiudere questa
sinteticissima ricostruzione di un ordine mondiale, mai davvero divenuto tale
negli ottant’anni successivi alla Seconda Guerra ed infine apertamente sfociato, nel nuovo secolo, in un
incontrollato disordine - sembra
persino possibile sostenere che a rivitalizzare gli USA in un nuovo disperato
tentativo (l’ultimo?) di riprendere peso e ruolo stiano
contribuendo proprio i due ultimi conflitti armati che per certi versi
avrebbero le caratteristiche di una pietra tombale sulla speranza di ordine:
quello in Ucraina e quello nella striscia di Gaza.
Ferma restando l’ingombrante presenza sullo sfondo del convitato di pietra
cinese, lo schema che sembra emergere dalle prime mosse della nuova
amministrazione Trump ricalca alcuni dei presupposti seguiti dagli USA nella
primissima fase del secondo dopoguerra: riconoscimento della reciproca
convenienza russo-americana ad avviare un processo di ricostruzione di una
qualche bipolarità, quanto meno sullo scacchiere europeo a danno soprattutto
dell’UE, vista come scomodo soggetto da ambedue questi protagonisti.
Quanto questo presumibile scenario possa consolidarsi e con quali percorsi
l’Europa intenda uscire da questo duplice accerchiamento sarà materia
geopolitica dei prossimi mesi.
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Conclusioni
Da
una analisi geopolitica, comunque e sempre opinabile, ci si aspetta anche la
conseguente capacità di delineare quelli che comunemente vengono definiti “scenari”,
e cioè congetture su come i processi individuati potrebbero evolvere.
Dando
per scontato che, stante l’opinabilità delle analisi, si tratterebbe di mere
ipotesi che, per un minimo di correttezza, devono avere un discreto ventaglio
di possibilità, le idee su come l’attuale caos
potrebbe evolvere è più facile che riguardino non quello che potrebbe
accadere, ma ciò che non potrà accadere.
Si
impone innanzitutto una doverosa premessa: se si presume che il bivio che si ha
di fronte consista unicamente tra un ordine mondiale compiuto e una guerra
mondiale, tanto varrebbe prepararsi al peggio, ma per fortuna il quadro è,
forse, più articolato.
Lo
snodo attorno al quale si possono delineare degli scenari è sempre quello del “coordinamento
armonico” dei tanti diversi interessi in gioco, perlomeno questa è
la lezione che la storia dei tentativi, qui ripercorsi, di costruzione di un
ordine mondiale ci consegna. Se si guarda alla sempre controversa e mai davvero
compiuta costruzione di una vera Europa Unita ci si rende bene conto che se il
suo conseguimento è sempre complesso anche quando i portatori di interessi
diversi, teoricamente, condividono il progetto comune di una Europa in qualche forma federata, diventa
facile immaginare quanto più problematiche, passando alla scena globale, siano
le prospettive quando non esiste in partenza alcuna analoga idea di
progetto comune da realizzare.
Per
parlare con un minimo di cognizione di scenari futuri - ben sapendo che un
coordinamento armonico non sarà mai dato se basato unicamente su convenienze
contingenti, su visioni di breve periodo, che per definizione sono provvisorie
e mendaci perché troppo spesso nascondono, per convenienza, le vere finalità a
cui ogni singola parte tende – occorre allora chiedersi quale progetto comune
potrebbe imporsi nell’attuale caos,
se neppure lo scenario catastrofico di una Terza Guerra Mondiale sembra più
suscitare le paure di poco tempo addietro.
Henry
Kissinger, che ha attraversato da protagonista tutta la geopolitica qui
raccontata, poco prima di morire, nel 2023, a conflitto russo ucraino ormai
scoppiato, affidava la speranza di uno scenario in qualche modo accettabile
alla capacità di “leader sufficientemente forti e saggi” di
realizzare un “accettabile compromesso fra le tante parti che costituiscono
l’attuale quadro multipolare” essendo ben consapevole che mai come
ora l’idea di puntare ad un organico e definito ordine mondiale appare, come tutta
la storia insegna, un obiettivo oggettivamente irrealizzabile.
Ipotizzare
quali scenari si potrebbero realizzare da qui in poi diventa allora una
operazione che al momento ha senso solo se davvero si creeranno le condizioni
per definire una sorta di “Grande Tregua”, ossia di un
compromesso capace di raffreddare le tensioni. Tornando però a Kissinger e alla
sua speranza sorge spontanea la domanda: ci sono oggi leader
sufficientemente forti e saggi? La risposta di Manlio Graziano è
nelle ultime frasi con cui chiude questa sua analisi e con cui delinea l’unico
scenario a suo avviso possibile:
…….
nessun tavolo di grandi negoziati in vista. Ma nell’attesa di leader
forti e saggi, tanto epifanici quanto improbabili, e nella speranza di una
“grande tregua” il grande disordine mondiale è destinato a proseguire nei
prossimi anni la sua entropica espansione
……
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