domenica 15 giugno 2025

Il "Saggio" del mese - Giugno 2025

 

Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2025

Riprendiamo con questo saggio, “militante” perché indica sulla base delle considerazioni svolte coerenti azioni politiche, il discorso del “cibo” visto nelle sue diverse implicazioni, più volte già affrontato da CircolarMente:

*  nell’ormai lontano Luglio 2018 il Saggio del mese, “Fame” di Martijn Caparros, denunciava la sua drammatica attuale mancanza in molte aree del mondo spesso determinata dalle storture, create dalle logiche di profitto, della catena di produzione e distribuzione

*  nel 2020 i due Saggi di Febbraio e Marzo “Storia del cibo” di Felipe Armesto e “I padroni del cibo” di Ray Patel avevano approfondito tali problematiche, sulle quali si erano tenute tre specialistiche conferenze del nostro Programma 2019/2020 “Ricucire le ferite”: “Globalizzazione, sistemi del cibo e sovranità alimentare in Africa” relatore Giacomo Pettenati – “La politica locale del cibo: uso del suolo, giustizia sociale, accesso al ciborelatore Egidio Dansero – “La criminalità nella filiera del cibo” relatore Davide Mattiello

*  nello stesso anno a Novembre il Saggio del mese “Presi per la gola” di Tim Spector approfondiva la tematica dei danni alla salute, specie delle popolazioni più povere, provocati dal cibo industriale, troppo spesso l’unico accessibile per gli strati più disagiati

*  ed infine con il Saggio del mese di Ottobre 2023 “Mangiare come Dio comanda” di Marino Niola e Moro Elisabetta si era esaminata la particolare relazione che esiste tra precetti religiosi e usanze alimentari.

Questa costante attenzione è sempre stata sollecitata dalla convinzione che nel cibo, nell’insopprimibile azione del mangiare, si condensano fondamentali aspetti culturali, sociali, politici, medici, che di molto incidono sulla salute dell’individuo e ancor di più su quella complessiva delle nostre società. La stessa considerazione è alla base di questo testo ……

il cui autore è Fabio Ciconte (esperto di filiere alimentari, cofondatore dell’associazione ambientalista “Terra!”, Presidente del Consiglio del Cibo di Roma, collabora con Geo (Rai Tre) su cui tiene la rubrica “Dispensa consapevole”, autore di numerose inchieste e saggi sul tema)


che ripercorre buona parte delle tematiche che ruotano attorno al cibo, in particolare sul ruolo del consumatore, per evidenziare la loro valenza politica e per individuare di conseguenza le azioni più efficaci per affrontarla

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I sistemi alimentari vanno resi sostenibili, bisogna capire come  

Negli ultimi decenni si è fatto davvero consistente il numero di consumatori di ogni parte del mondo che, consapevoli della grande incidenza della filiera del cibo sulla crisi climatica ed ambientale, hanno adottato forme di alimentazione attente ad evitare sprechi, alimenti industriali, privilegiando filiere corte ed ecosostenibili di approvvigionamento.

Ferma restando l’opportunità di mantenere ed estendere tali buone pratiche individuali è però evidente che da sole non sembrano essere riuscite ad incidere in modo adeguato su una situazione globale che, a fronte di un’umanità che ha ormai superato la soglia degli otto miliardi di persone (con un incremento che si è ormai concentrato nei paesi in via di sviluppo mentre in quelli ricchi sono progressivi riduzione ed invecchiamento), vede aumentare la produzione di carne (con il connesso spaventoso impatto degli allevamenti intensivi),  l’utilizzo della plastica per confezionamento alimenti (il cibo senza una qualche forma di imballaggio sembra non esistere più), lo spreco alimentare (i cui record vengono costantemente superati ogni anno), l’occupazione di suolo vergine a fini agricoli (per mezzo di incontrollabili deforestazioni) correlato all’impoverimento del suolo di vaste aree iper-sfruttate grazie a pesticidi e fertilizzanti.

Occorre quindi prendere coscienza che la sola adozione di corrette scelte individuali non si sta dimostrando in grado, da sola, di trasformare un settore che resta ispirato da precise logiche di profitto su scala globale, perfettamente in grado di (ri)modularsi adeguandosi alle specifiche scelte del consumatore ed ampliando a dismisura l’occupazione della domanda alimentare di tutte le aree del mondo (cancellando così millenari stili di vita alimentare ed innescando una pericolosa riduzione del numero delle specie e varietà vegetali e animali. Sulle tavole di tutto il mondo arrivano cibi ed alimenti che sono infatti il risultato di una scientifica selezione che privilegia quelli che garantiscono la maggiore resa commerciale. Due semplici esempi: delle centinaia di specie cerealicole esistenti solo nove coprono il 66% della produzione totale, il 90% delle specie di mele immesse sul mercato, sono alcune migliaia, è composto da sole cinque varietà). E si sta parlando, aspetto non adeguatamente tenuto in considerazione, di un settore che nel suo complesso a livello globale è stabilmente responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra.

Il salto di qualità che di conseguenza s’impone per sperare di avviare una svolta concreta ed efficace diventa obbligatoriamente quello di adeguare le forme di contrasto alle logiche che guidano l’attuale filiera alimentare, partendo dalla consapevolezza che il cibo è politica, proprio perché riguarda aspetti fondamentali della vita umana, e come tale va affrontato. Ed è esattamente questo il tema al centro di questo saggio.

Come siamo arrivati sin qui?

Per meglio mettere a fuoco il salto di qualità che tale svolta comporta è utile ricostruire il percorso con cui si è articolato negli ultimi decenni il complesso rapporto critico tra consumatore e filiera del cibo che, mai emerso in precedenza, ha iniziato ad avere una sua rilevanza con la comparsa in scena dell’innovativa figura del “consumatore consapevole”. Si tratta di una svolta avvenuta, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso al culmine della definitiva affermazione dell’industria globalizzata del cibo, che è stata determinata da un insieme molto variegato di fattori culturali, sociali e politici (in particolare meritano di essere considerati la crescente attenzione verso comportamenti salutistici, il rifiuto giovanile del “consumismo”, ma soprattutto la nascita dei movimenti ambientalisti) che esprimevano, promuovendo un rapporto ragionato con il cibo, un rifiuto critico dei modi di produrlo e di distribuirlo.

Una data assumibile come momento di nascita del consumatore consapevole italiano (avvenuta con tempistiche appena più ritardate di quelle di altri paesi europei e degli stessi USA) può essere quella del 1990 con la pubblicazione di un testo presto divenuto riferimento di base per la controcultura alimentare: “Lettera ad un consumatore del Nord” edito dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo (fondato nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani, saggista e attivista), un centro di documentazione (tuttora attivo con sede in Toscana) nato con l’obiettivo di dare prospettive al più generale malessere economico, sociale ed ambientale, all’interno del quale trovava da subito ampio spazio proprio la lotta all’ingiusta filiera globalizzata del cibo che, per alimentare un falso benessere alimentare occidentale, sfruttava il cosiddetto “Sud del mondo(punto di riferimento fondamentale era il concetto disovranità alimentareelaborato dalla “Via Campesina, “la vita dei contadini”, un movimento internazionale, nato in Sud America, di contadini di tutto il mondo in lotta contro le multinazionali alimentari che auspicava a tal fine un’alleanza con i consumatori occidentali).

E’ una data chiaramente simbolica, sarebbe infatti una forzatura ritenere che quel documento abbia di per sé stesso dato il via ad un sentire diffuso che, come si è evidenziato, si stava già formando seguendo sotterranei percorsi dettati da più sensibilità, ma che ha avuto l’indubbio merito di arricchirlo inserendolo in un più definito quadro di considerazioni ecologiche e di giustizia sociale capaci di  dare orizzonti a quelle convinzioni e alle motivazioni individuali che confusamente lo stavano delineando.

Un salto di qualità che ha trovato, pochi anni dopo, un ulteriore fondamentale tassello di carattere decisamente politico: nel 1999 nasce infatti il movimento “No global (che prende forma negli USA a Seattle in coincidenza con le forti contestazioni al vertice OCSE, Organizzazione Commercio Sviluppo Economico, una delle istituzioni promotrici della globalizzazione neoliberista, per conoscere da subito una straordinaria, per quanto effimera, diffusione internazionale). Nella piattaforma complessiva di questa opposizione contro la globalizzazione neoliberista, sintetizzata dal famoso slogan “Pensa globalmente, agisci localmente”, il cibo ed i modi di produrlo e consumarlo avevano una grande rilevanza e la conseguente sollecitazione alla lotta contro le logiche politiche ed economiche della loro gestione fornivano alla figura del consumatore consapevole un ulteriore fondamentale bagaglio di motivazioni.

L’insieme di queste congiunzioni motivazionali ha quindi costituito un quadro d’insieme capace di completare in modo armonico le tante diffuse scelte individuali, comunque si fossero determinate, di consumare cibo prestando attenzione a tutte le implicazioni che questo gesto, di per sé stesso del tutto naturale, aveva ormai assunto nell’era della alimentazione industrializzata e globalizzata. In questo innovativo fervore ha così preso considerevole consistenza l’idea che il rapporto diretto fra il singolo consumatore e l’intera filiera del cibo, esercitato nella scelta di acquisto, potesse avere una capacità regolatoria del mercato in grado di influenzarlo fino al punto di rimettere in discussione le stesso logiche che lo ispirano (nella situazione italiana uno dei più influenti ispiratori di questa idea è stato Alexander Langer, 1946/1995, una poliedrica figura di intellettuale a tutto tondo molto conosciuta e ascoltata nei movimenti di sinistra ed ambientalisti).

Va inoltre precisato che non poco ha contribuito a determinare questo sentire diffuso la sua coincidenza temporale con i primi evidenti segnali di declino delle tradizionali forme di partecipazione politica, rispetto alle quali sembrava in grado di ridare concreta importanza, rimotivando l’attivismo individuale, a forme di democrazia partecipativa.

E’ stato però un vento di cambiamento che troppo presto ha smesso di soffiare, forse troppo fragili erano le sue stesse basi e di sicuro esso si è dimostrato incapace di sedimentarsi in adeguati momenti organizzativi minimamente stabili. Quella che con gran probabilità era un’esperienza destinata del suo ad esaurirsi ha comunque trovato, nella situazione specifica italiana, un’altra data simbolica di definitiva fine: i tragici fatti di Genova 2001, con la brutale repressione della contestazione no-global ai grandi della Terra lì riunitisi per un appuntamento G8, ne hanno segnato il definitivo epitaffio.

L’idealtipo del consumatore consapevole, al termine di un percorso comunque significativo di due decenni, si è riscoperto orfano di orizzonti più ampi, riconsegnato a percorsi basati su motivazioni più individualistiche che si sono sempre più dimostrate inadeguate a fronteggiare le ciniche e potenti logiche dell’industria del cibo

Qualcosa è comunque ancora rimasto di quel fervore, alcune idee ed esperienze si sono dimostrate in qualche modo ancora resilienti. Lo sono state, anche nel nuovo millennio, la rete dei negozi di “commercio equo e solidale”, che tuttora rappresentano una esperienza di tutto rispetto, anche se oggettivamente lontane dal fervore che l’accompagnava nei decenni di fine secolo, e lo sono stati i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, sorti con il duplice scopo di dare una mano ai piccoli produttori locali e di sostenere una filiera alternativa alla grande distribuzione, che ancora resistono in alcuni contesti, ma sempre più racchiusi su sé stessi quasi a formare un microcosmo identitario, e sul piano della tutela politica ed anche legale lo sono state, ed ancora oggi lo sono, le associazioni di difesa del consumatore (quali Altroconsumo, Codacons, , Federconsumatori, Aduc, tutte nate a partire dagli anni Settanta).

Occorre purtroppo ribadire che anche  queste esperienze, residuo frutto della fase più significativa del consumatore consapevole, non sono in grado di rappresentare  un’alternativa vera e di massa alla filiera della grande distribuzione organizzata e semmai confermano il rinchiudersi dell’epopea del consumatore consapevole in orizzonti e percorsi individualistici sempre meno significativi.

A determinare l’attuale quadro della filiera del cibo, globale non meno che nazionale, concorre, come contraltare non meno negativo all’esaurirsi della speranza di costruire una alternativa generale operando quasi esclusivamente sul ruolo esercitabile dal consumatore nell’atto dell’acquisto, un secondo elemento: la capacità dell’industria capitalistica del cibo di aver rimodulato sapientemente la propria immagine adottandone su vasta scala una nuova, all’apparenza attenta proprio agli aspetti più oggetto di critica, ma mantenendo ben salde le logiche di profitto ed ottimizzando semmai i metodi di produzione e distribuzione per realizzarle al meglio. Il cibo “green” è infatti divenuto un diffusissimo brand commerciale cavalcato con cinica perizia dalle multinazionali del cibo a fini di profitto.

Alcune filiere specifiche del cibo raccontano esperienze esemplari in questo senso. Lo è ad esempio quella dello zucchero, che rappresenta un settore globale di grande rilevanza (trenta milioni di ettari di suolo sono dedicati a questa coltivazione). Proprio negli anni della “Lettera ad un consumatore del Nord” lo zucchero bianco prodotto in Occidente con la raffinazione della barbabietola era diventato uno dei simboli della lotta al cibo industriale. Comprare e sostenere la produzione di quello di canna è stata a lungo una delle bandiere del commercio equo e solidale. Peccato però che questa sua acquisita rilevanza, nell’attuale modificato contesto, sostiene ormai una coltivazione industrializzata della canna responsabile di un consistente abbattimento della foresta amazzonica brasiliana (tra il 2000 ed il 2012 si parla di sedicimila chilometri quadrati di foresta abbattuta per fare spazio a piantagioni). Una quantità ormai minima dello zucchero di canna, compreso quello “grezzo”, arriva in Occidente da piccoli produttori locali per sostenere una condivisibile presa di posizione che si è però rivelata un’illusoria alternativa di sistema

E’ lungo l’elenco delle trasformazioni avviate nei settori della produzione alimentare ed ancor di più in quello della distribuzione che testimoniano questa capacità metamorfica presente in tutta la filiera del cibo sollecitata proprio dalle esperienze globali di fine secolo scorso che ponevano al loro centro il ruolo del consumatore consapevole.

L’idea che sosteneva il suo ruolo, quella di poter condizionare con la scelta individuale di acquisto l’intero ciclo del cibo, è stata di fatto espropriata dall’industria alimentare che ha lucidamente compreso la rilevanza commerciale della “dimensione etica del business del cibo”, ovviamente declinandola in modo mirato per sostenere ancor di più il business.

Ormai non c’è prodotto alimentare che non si dichiari “sostenibile”, che non sia confezionato con colori e disegni che richiamano la natura, a creare una grande messa in scena in cui tutto - cibo, confezione e relative informazioni su produzione, modo di consumare e smaltire – è magicamente diventato green.

Tutte le indicazioni così enfaticamente vantate non significano nulla: “agricoltura sostenibile” è parola vuota se non viene specificato in cosa è consistita, e allo stesso modo lo sono “biodegradabile”, “compostabile”, “naturale”, “rispettoso dell’ambiente”, “riciclabile”, “impatto zero”, “carbon neutral”. Nel 2021 sono stati pubblicati i risultati di una indagine UE su queste affermazioni che evidenziavano come nel 42% dei casi fossero palesemente false ed ingannevoli, mentre buona parte del restante 58% era quantomeno strumentalmente enfatizzato

Ha ormai un nome preciso questa prassi consolidata: “greenwashing”, letteralmente “lavare di verde”, lasciando però inalterato il cibo contenuto, i modi di produrlo, di impacchettarlo, trasportarlo, pubblicizzarlo, senza intaccare, ma semmai aumentando, i margini di guadagno. La prassi dell’acquisto si è fatta di conseguenza un’impresa quanto mai complicata anche per un consumatore attento e consapevole perchè è ormai davvero difficile districarsi nella giungla di un mercato così subdolamente architettato.

Le strategie persuasive messe in atto dall’industria alimentare non si concentrano solamente sul prodotto finale, ma molto spesso si articolano in studiate campagne pubblicitarie che assumono la difesa dell’ambiente e la giustizia sociale come testimonial di un più generale impegno ecologico ed etico. Si pensi ad esempio agli spot di Amazon con protagonisti i suoi stessi dipendenti che raccontano della correttezza del trattamento lavorativo piuttosto che ai volti sorridenti e felici dei riders nelle pubblicità delle varie aziende di food delivery. Un esempio ancora più eclatante della mistificazione che passa attraverso queste campagne è quello delle “giornate assieme a te per l’ambiente” da qualche anno organizzate da McDonald’s, il più grande fast food della storia (si stima che globalmente prepari qualcosa come cinquanta milioni di panini ogni giorno), per contrastare l’abbandono di rifiuti nell’ambiente. Sapientemente organizzate e pubblicizzate vantano le migliaia di sacchi di rifiuti raccolti, ma al tempo stesso nascondono in modo elegante che molti di quei rifiuti li produce proprio la catena di hamburger a buon mercato. Sempre McDonald’s si fa vanto di usare solo carne italiana, “100% bovina da allevamenti italiani (il Made in Italy tanto amato dal nostro attuale governo), ben guardandosi dal dire che quella carne viene da qualcosa come 15.000 allevamenti intensivi, concentrati in un fazzoletto di terra compreso tra Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, capaci di produrre una mole impressionante di rifiuti, magari non abbandonati ma non per questo meno impattanti

“Cosa posso fare come consumatore?” è una domanda sbagliata = La solitudine e lo spaesamento che il consumatore, consapevole o inconsapevole, costantemente prova nel gestire i suoi acquisti alimentari (peraltro come di qualsiasi altro prodotto) si sono infatti accentuati in un contesto come quello attuale che oggettivamente vede la totale egemonia dell’industria alimentare in tutte le fasi della catena del cibo. In questo mutato contesto sono ormai divenute stabili e consistenti le due caratteristiche che contraddistinguono l’attuale rapporto consumatore-filiera del cibo: da una parte il definitivo tramonto della speranza che un consumo attivamente consapevole possa incidere sulle logiche di fondo della catena di approvvigionamento e dall’altra il fatto che l’industria del cibo si sia rivelata in grado di affinare la sua capacità di controllo dell’intera filiera anche mettendo a frutto, per i propri fini speculativi, la stessa storica esperienza del consumatore consapevole.

Il quale deve allora (re)interrogarsi sul proprio ruolo ponendo però questa domanda su basi completamente differenti da quelle degli anni Settanta, perché appare ormai evidente che da sole sono insufficienti e inadeguate le classiche prassi di sprecare meno, di mangiare meno carne e cibi industriali, di leggere attentamente le etichette, di rifornirsi il più possibile da produttori locali e da negozi di commercio equo e solidale (per quanto tutte quante mantengano intatti valore e importanza). L’attuale stato delle cose dimostra infatti che il concentrarsi esclusivamente sull’ultimo anello della catena, ovvero sull’atto individuale dell’acquisto, non può essere una forma di lotta vincente se non si aggrediscono, su un piano politico collettivo, le logiche di fondo della filiera del cibo. (papa Francesco in una intervista, dal titolo “Il peccato di gola sta uccidendo il mondo”, concessa al giornale “Avvenire” a Gennaio 2024 sintetizzava lucidamente questa constatazione affermando che “abbiamo abiurato il nome di uomini per assumere quello di consumatori”).

Al tempo stesso, per dare concreto avvio a queste azioni di più mirato contrasto, non ha senso alcuno stigmatizzare i pur evidenti comportamenti non corretti del consumatore “standard”, è molto più utile, individuando e denunciando con adeguate azioni politiche le ragioni che li mettono in atto, far emergere quanto essi siano funzionali all’attuale filiera del cibo proprio perché sono il risultato indotto di sofisticate politiche commerciali

una situazione esemplare è quella delle verdure già selezionate e lavate vendute in buste plastificate. Non vi è dubbio alcuno che siano un acquisto assurdo perchè costano molto di più delle verdure fresche, perché sono ecologicamente molto impattanti, oltre ad essere non proprio salutari, eppure stanno da anni conoscendo un successo crescente grazie alla loro comodità e velocità di uso tali da aver   incontrato il favore ormai consolidato di molti consumatori. Un successo ottenuto dall’industria del cibo sulla base di accurate ricerche di mercato mirate ad individuare e sfruttare le motivazioni esistenziali e psicologiche alla base dell’acquisto

Il passaggio a forme di contrasto che, sul piano politico, sappiano denunciare e contrastare il monopolio capitalistico della filiera del cibo prevede, di conseguenza, che al loro centro stiano tutti i cittadini (gli uomini indicati da papa Francesco) nella loro valenza di soggetti politici e non solo nella loro veste di consumatori. E’ quindi ormai evidente che il consumatore in quanto tale, consapevole o inconsapevole che sia, è troppo segnato da mancanza di informazioni, da bombardamenti pubblicitari, da pressioni contraddittorie determinate da tempi di vita e possibilità economiche, per restare il protagonista principale di una battaglia che deve essere combattuta su un terreno che non può più restringersi alla sola fase dell’acquisto finale.

Un ulteriore ammonimento in questo senso viene dalle stesse campagne greenwashing di cui si è detto, le quali non a caso sempre si rivolgono all’individuo, al singolo consumatore e utente, chiamato a comportamenti correttamente ecocompatibili purché ininfluenti sulle logiche di fondo del sistema. In queste campagne si chiamano ad esempio in causa i comportamenti individuali per le emissioni di gas serra sottacendo però che il 70% di esse è prodotto dalle grandi attività industriali ed agricole. Così come, restando nel contesto del cibo e del suo spreco, enfatizzano con clamore il peso virtuoso di acquisti calibrati, delle azioni di recupero e corretto smaltimento, di quelle stesse famiglie che tempo stesso sono invogliate da pubblicità asfissianti a comprare cibi di ogni genere. Passano quotidianamente su media e social messaggi in cui si parla tanto di spreco domestico e nulla si dice di quello della produzione primaria (ad esempio frutta e verdura che non raggiungendo i previsti canoni estetici restano a marcire sui campi) e su quello dell’industria di trasformazione, che insieme (dati Ispra) valgono il 69% dello spreco alimentare totale mentre quello domestico (in gran parte determinato proprio dall’eccesso indotto di acquisto) vale per il restante 31%.

In questa riflessione concentrata sul rapporto tra filiera del cibo e consumatore non c’è spazio per entrare nel merito delle tante problematiche legate al criminale consumo e impoverimento dei suoli agricoli, allo sfruttamento senza scrupoli dei contadini poveri del Sud del mondo piuttosto che a quello degli addetti ai lavori agricoli nei paesi ricchi, alla crudele gestione degli allevamenti intensivi, alle impressionanti ricadute ambientali dell’intera filiera alimentare, ossia a tutti gli aspetti che segnano l’attuale gestione capitalistica del cibo. All’interno di questo quadro vale la pena di approfondire il peso di quelli che di più sembrano chiamare direttamente in causa il ruolo del consumatore: il ruolo del supermercato, il prezzo del cibo e la filiera della carne.

 

Purtroppo non c’è alternativa al supermercato = è ormai il luogo ideale per mettere a fuoco la valenza politica del cibo. Lo è perché è lì, nei venticinquemila punti vendita (piccoli, medi, grandi, giganteschi) che costituiscono la grande distribuzione italiana, che si concentra la stragrande maggioranza degli acquisti agroalimentari per una percentuale pari all’80% del totale di acquisti (con una crescita negli ultimi dieci anni di ben dieci punti percentuali) capaci di generare un fatturato complessivo di 155 miliardi di euro (un valore pari al 7% del PIL italiano totale). E pensare che quella dei supermercati è una storia recente in Italia (il primo venne aperto all’Eur a Roma nel 1956, mentre negli USA erano già diffusi negli anni Trenta) che racconta una loro costante evoluzione capace di accompagnare e, sempre di più, indirizzare le italiche modalità di acquisto.

La sua ormai totale egemonia non è solo una questione di prezzo, tutti gli studi sulla capacità attrattiva del supermercato evidenziano un insieme di fattori che vanno da aspetti sociologici (ogni marchio ed ogni prodotto hanno un loro corrispondente status) a quelli psicologici (come la sensazione di stare in un posto conosciuto, familiare, dove ci si muove con sicurezza). La  loro crescente diffusione territoriale (tale da suscitare comprensibili perplessità sulla sua stessa sostenibilità peraltro sempre smentite dal costante successo di vendite) spiega il significativo trend di crescita di cui si è detto a riprova di una modalità di vendita che crea nel consumatore l’illusione di essere in grado di governare al meglio i suoi acquisti (magari grazie alla quotidiana faticosa ricerca dell’offerta migliore) anche se, aspetto ampiamente confermato da studi e riscontri statistici, molto spesso succede esattamente il contrario (sempre “si inciampa” in qualche offerta imperdibile anche se non messa in conto).

I supermercati sono la dimensione terminale di una catena alimentare industrializzata che se da una parte ha appiattito, ormai globalmente, gusti, sapori, culture alimentari, dall’altra ha costruito la sua forza attrattiva proprio su questo appiattimento scientificamente studiato per fornire al consumatore la sensazione di muoversi in una bolla rassicurante. L’incontestabile risultato è che non esiste al momento alcuna alternativa al supermercato realmente competitiva: sono in difficoltà non solo quelle sorte attorno alla figura del consumatore consapevole di cui si è detto, ma anche le forme di vendita tradizionali del negozio di vicinato e dei mercati rionali e di paese, che in buona misura sono oramai sostenute solo più dalle generazioni più anziane di consumatori (la stessa sfida dell’e-commerce non sembra aver incrinato la dittatura del supermercato nel settore specifico delle vendite di cibo)

Il cibo costa troppo ed al tempo stesso troppo poco = I fattori concorrenziali che hanno consentito al supermercato di divenire il luogo predominante in cui si chiude la lunga filiera del cibo sono di diversa natura (economie di scala, forte potere contrattuale su fornitori, trasportatori e lavoratori, offerta completa ed articolata capace di coprire la gamma completa di prodotti alimentari, sinergie con altri venditori, accordi di cartello, per citarne alcuni, ma tutti contribuiscono a formare il risultato finale vincente: il prezzo. In generale, al di là della vincente capacità concorrenziale della grande distribuzione, il prezzo del cibo merita uno specifico approfondimento perché, molto più di quello di altre tipologie di merci, è determinato da una serie di storture strutturali che, investendo l’intera sua filiera, in effetti lo falsificano (a tutto vantaggio dell’industria del cibo) così tanto da poter affermare che il cibo costa al tempo stesso troppo e troppo poco. L’argomento è decisamente complesso è richiederebbe un’analisi molto approfondita, merita qui riprendere alcune di queste storture, quelle che di più consentono di capire il determinarsi di questo paradosso.

Il prezzo del cibo infatti, se si applicassero correttamente tutte le voci che concorrono a determinarlo, dovrebbe davvero essere decisamente più alto, così alto però da renderlo di fatto inaccessibile per buona parte della massa dei consumatori. Trattandosi però del “bene primario” per eccellenza, intervengono di norma alcuni correttivi di mercato che consentono, aspetto che non vale alla stessa maniera per la quasi totalità dei cosiddetti “beni secondari”, di non contabilizzare nella sua definizione alcuni costi, sociali, ambientali ed etici, mantenendolo così a livelli tutto sommato accessibili alla maggioranza (anche se sempre troppo alti per i consumatori indigenti). Questi costi sono quelli che gli esperti definiscono “esternalità negative” che, per non gravare sul prezzo finale del cibo, sono fatte ricadere sulla collettività e sui sistemi naturali.

Alle voci che di norma concorrono a determinare il prezzo del cibo – produzione, trasformazione, trasporto, marketing, distribuzione e vendita, margini concorrenziali di profitto in ognuno di questi passaggi – non si aggiungono infatti i “costi sanitari(quelli collegabili alle patologie dei consumatori causate dalla sua qualità e dalle modalità di produzione, si pensi ai cibi ultra-processati con additivi chimici o all’uso eccessivo di antibiotici) che sono coperti dai sistemi sanitari pubblici, i “costi ambientali(ossia l’insieme degli impatti che la filiera del cibo ha sugli eco-sistemi con l’emissione di gas serra e sostanze inquinanti, con la perdita di biodiversità, con il consumo e il degrado del suolo), per coprire i quali interviene la spesa pubblica, ed i “costi sociali ed etici(quelli determinati dal ricorso all’iper-sfruttamento incontrollato della manodopera agricola) almeno parzialmente compensati dalla fiscalità generale. Appare evidente che se questi costi fossero, come logica vorrebbe (e come almeno in parte avviene per i beni secondari), fatti sostenere dall’industria agro-alimentare sarebbero, seguendo le normali logiche del mercato, da essa ribaltati sul prezzo finale del cibo rendendolo di fatto inaccessibile ai più (uno studio ONU del 2023, “The true cost and true price of food” – “Il vero costo e prezzo del cibo”, stima una ricaduta pari al suo raddoppio).

Non esiste soltanto il problema politico della determinazione del giusto prezzo del cibo, certamente non affrontabile dal solo consumatore nella fase di acquisto se non in termini di una insostenibile ricaduta, non è infatti meno grave la ripartizione dei guadagni fra i vari soggetti che operano nella filiera del cibo, nella quale emerge con evidenza una scorretta ed ingiusta redistribuzione della catena del valore. Restando alla sola situazione italiana (ma i dati su scala globale sono persino più gravi) l’ISMEA, l’ente pubblico che analizza i mercati agroalimentari, nel suo ultimo rapporto del 2024 fa emergere che su 100 euro di spesa al supermercato il guadagno netto che va al settore agricolo  varia in una forbice da va da 1,5 a 7 euro, tutto il resto copre i profitti dei vari soggetti che intervengono a vario titolo nella filiera con circa 36 euro medi (lordi) che finiscono alla grande distribuzione finale

Il paradosso della carne = E’ sicuramente il cibo nel quale di più si condensano le problematiche e le contraddizioni dell’intera filiera e che più rappresenta il possibile equilibrio tra consumi individuali ed aspetti politici generali. A partire dalla sua quantità che è spaventosamente alta: la produzione globale di carne è stimata in circa trecentocinquanta milioni di tonnellate all’anno fornite da qualcosa come settanta miliardi di capi tra avicoli, bovini, suini, ovini e caprini, che complessivamente per essere allevati richiedono il 70% della terra agricola anche se coprono solo il 20% delle proteine mangiate. Sono cifre che bene spiegano l’impressionante incidenza del settore della carne (specie bovina) sulla produzione di gas serra e sull’ inquinamento ambientale. Se ne mangia comunque davvero tanta e, se gli attuali trend si confermeranno, se ne mangerà sempre di più (in Cina e India, che fino a pochi anni fa ne consumavano pochissima, il consumo di carne conosce una impressionante crescita).

La soluzione globalmente proposta, a vario titolo e da differenti protagonisti, è finora consistita nell’appello/raccomandazione a “mangiare meno carne(con tutte le conseguenti diatribe fra carnivori e vegetariani/vegani) sono ben poche invece le voci che si sono levate per proporre di “produrre meno carne”, sembra una sottigliezza semantica, ma non lo è. Perché il consumo di carne (che sostiene, come si è visto, i profitti delle maggiori industrie alimentari) rappresenta l’esempio paradigmatico della necessità di spostare le strategie alternative dalla dimensione del consumatore a quella della politica. Non si può infatti prevedere quanto consenso avrà l’invito, per quanto condivisibile sotto diversi punti di vista, a mangiare meno carne (proprio mentre i dati indicano una costante crescita globale del suo consumo), è però certo che i tempi di una augurabile svolta saranno quanto meno molto lunghi, mentre è impellente la necessità di ridimensionare l’impatto di un settore così energivoro e così impattante.

Ed è quindi la politica che è chiamata ad intervenire da subito e con la maggiore efficacia possibile. Lo deve fare a livello locale, nazionale e internazionale, adottando strategie mirate di diversa natura che vanno dal fermare un’ulteriore espansione della zootecnia a sostegni per una sua sostenibile riconversione, dall’adozione di menù con una calibrata offerta di carne per le mense scolastiche e aziendali (aspetto che può sembrare marginale ma che a ben vedere riguarda l’erogazione di centinaia di migliaia di pasti giornalieri)

Le misure ecologiche nel mirino dell’agroindustria = Esiste infine, oltre a quello della carne, un secondo paradosso, che ancor più e meglio conferma l’opportunità di chiamare in causa la politica in luogo della indistinta figura del consumatore, che consiste in un capovolgimento della storia in base al quale i responsabili dell’attuale crisi alimentare sarebbero le misure ecologiche e chi le propone. Se si vuole davvero capire la dimensione politica del cibo questo è un ottimo punto di partenza, confermato da quanto sta succedendo nella stessa UE, ossia nella parte del mondo dove oggettivamente da tempo queste problematiche ricevono le maggiori attenzioni alle quali seguono concreti provvedimenti, come quello della strategia “Farm to fork(dalla fattoria alla forchetta) del 2019 che, nell’ambito del Green Deal europeo, aveva l’obiettivo di rendere più sostenibile il settore agricolo. Purtroppo per un insieme di ragioni che vanno dalla ferma opposizione dell’agro-industria, compresa quella di parte del mondo contadino (le marce dei trattori) troppo succube rispetto alla grande distribuzione, ai timori innescati dalle turbolenze nel mercato alimentare seguite allo scoppio del conflitto russo-ucraino, l’attenzione si è presto riposizionata sulla necessità di difendere, costi quel che costi, i modi tradizionali di produrre cibo. Una svolta retrograda, fatta propria dalle destre sovraniste e populiste, finalizzata a screditare le misure ecologiche in agricoltura e ad attribuire al valore della sostenibilità la responsabilità dei costi del cibo. In base a quanto fin qui evidenziato non deve certo stupire che questa politica al servizio delle lobby strizzi l’occhio al consumatore, alle sue comprensibili esigenze di bilancio ed alle sue molto meno condivisibili abitudini alimentari, per averlo alleato contro l’opposta politica che, seppure ancora troppo timidamente, guarda finalmente ad un cibo ambientalmente e socialmente sostenibile.  


domenica 8 giugno 2025

Video della conferenza del prof. Ermanno Vitale

 Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali) ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della conferenza tenuta, Mercoledì 28 Maggio 2025 presso l’auditorium D.Bertotto, dal prof. Ermanno  Vitale  (già professore ordinario di Filosofia  politica  presso l’Università di Aosta) con titolo:

UGUAGLIANZA, LIBERTA' E MERITO

UN EQUILIBRIO DIFFICILE 

Per accedere al video cliccare qui

domenica 1 giugno 2025

La Parola del mese - Giugno 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GIUGNO 2025

Nel campo, questo sì davvero “largo”, dei diritti civili da conquistare, consolidare e difendere, da tempo occupa una posizione centrale il diritto della singola persona di decidere, a fronte di una sofferenza fisica senza speranza di risoluzione e divenuta ormai insopportabile, tempi e modalità della propria morte. Da troppo tempo la politica, bloccata da strumentali contrapposizioni ideologiche, si sta dimostrando incapace di fornire concrete risposte ad una esigenza sempre più diffusamente condivisa che già sconta la divisione fra credenti, ispirati dal valore della “sacralità della vita”, e non credenti, più attenti al valore della “qualità della vita”.  E’ quindi elemento di conforto constatare che anche nell’ambito degli studi teologici non mancano importanti contributi che si propongono di andare oltre questa contrapposizione offrendo nel merito della questione spunti di riflessione che meritano, al di là della loro condivisione, di essere attentamente valutati. La Parola di questo mese, scelta proprio per meglio conoscerli, è ….. (dal Vocabolario Treccani on line)

FINIS VITAE

fīnis = parola latina traducibile in limite, cessazionevale a dire   l’ultima parte, l’ultimo tempo di una cosa, ma anche la finalità di un’azione che, associata all’altra parola latina “vita/vitae”, “vita”, intesa in particolare nel suo indicare ciò che ne costituisce l’essenza, la ragione, rappresenta al tempo stesso “il fine fondamentale della vita” ossia ciò che le dà valore e significato e, come suo indissolubile legame e controcanto, il suo venire meno con l’inevitabile fine biologica

Ci faremo guidare in questo approfondimento da un interessante testo


che ha rappresentato il testamento culturale del suo autore Giannino Piana (1939/2023, teologo moralista, docente di etica cristiana presso l’Università di Urbino e di Etica ed economia presso l’Università di Torino, a lungo Presidente dell’ “Associazione Studi Teologici Italiana per lo studio della Morale”)

Lo spunto per utilizzare questo saggio di Giannino Piana ci è stato fornito da un articolo di Enzo Bianchi, monaco e saggista, che lo segnalava come importante riflessione sul fīnis vitae, e sul connesso enigma del “dolore”, avviata proprio per tentare di individuare un punto di incontro tra razionalismo laico e confessionalismo religioso, esprimendo al contempo, con un passaggio di significativa apertura, l’opportunità per i credenti di non trasformare, per eccesso di schematismo dottrinale, la sacralità della vita” in “biolatria”, (l’adorazione della vita in quanto tale).

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PARTE PRIMA = Le ragioni di una nuova prospettiva di approccio

Se è pur vero che il tema della morte, del suo perché e dei suoi come, da sempre accompagna il percorso esistenziale e culturale di tutta l’umanità, qualcosa deve pur essere intervenuto nella modernità occidentale per farlo divenire una delle tematiche più dirimenti nel dibattito culturale e politico sui diritti civili. Questo qualcosa si compone di almeno tre aspetti, va da sé tra di loro intrecciati, che richiedono di essere comunque distintamente presi in esame, il primo ed il più recente in ordine temporale, è sicuramente rappresentato dagli straordinari sviluppi della medicina ed in particolare di quelli delle biotecnologie.

Negli ultimi decenni si è infatti gradualmente modificata la stessa identità della (bio)medicina che al suo tradizionale essere curativa, preventiva e riabilitativa, ha aggiunto una formidabile capacità, progettuale e sperimentale, di incidere in profondità in tutti i meccanismi biologici che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte, ottenendo impressionanti successi su malattie e sofferenze che hanno (perlomeno nella parte ricca del mondo) migliorato tantissimo la qualità della vita.

Si tratta di un cambio di paradigma così radicale che, come preoccupante controcanto, ha persino innescato in alcuni settori della ricerca medica una sorta di “hybris”, una superba tentazione prometeica di poter forgiare un uomo nuovo sganciato dai suoi presunti limiti biologici e fisiologici, procedendo ad ogni modificazione divenuta possibile avendo come criterio esclusivo quello della sua fattibilità e della sua utilità senza porsi fastidiose domande sul suo senso ultimo.

L’equazione che ne consegue, fra il “tecnicamente possibile” e l’ “eticamente lecito” è però sostenibile solo con la riduzione, definitiva e totale, del corpo “a mero oggetto”, ad un insieme di organi, modificabili a piacimento, privato della sua ben più complessa connotazione di “persona”, di vivente dotato di coscienza. La consapevolezza, sempre più trasversalmente diffusa, di essere in questo modo giunti di fronte ad un non più aggirabile bivio etico ha innescato reazioni di perplessità, persino di ansietà, che hanno posto domande ed obiezioni di indubbia consistenza.

In particolare in molti si è fatta strada la convinzione che, essendo scienza e tecnica un sapere mai del tutto neutrale, dietro questa hybris stiano, in aggiunta all’indubbio peso degli interessi che le sostengono, idee dell’uomo e del suo essere in questo mondo che stanno stravolgendo la tradizionale filosofia che ha sin qui ispirato la medicina. La possibilità di intervenire in modo sempre più efficace sul corpo dell’uomo sta sempre più rendendo distinti due fini che dovrebbero al contrario essere tenuti strettamente connessi: quello del “curare”, il correggere tecnicamente le imperfezioni delle sue singole parti, e quello del “prendersi cura”, l’attenzione che guarda invece alla persona nel suo insieme.

Si tratta di considerazioni che incidono direttamente su tutte le tematiche collegabili al finis vitae. Il ricorso eccessivo al “curare tecnico” porta infatti con sé una duplice tentazione: quella di intervenire, non di rado in modo ossessivo, sulla persona con la finalità di prolungarne la pura vita biologica, ciò che viene definito “accanimento terapeutico”, o all’opposto di abbandonarla a sé stessa quando la tecnica si dimostri incapace di guarigione. In entrambi questi casi però ciò che drammaticamente emerge è che “l’inguaribilità” si traduce in una inaccettabile “incurabilità”, in un cinico rifiuto del “prendersi cura” che al contrario dovrebbe non venire mai meno fino al momento della morte.

Si può già qui anticipare un primo giudizio: la domanda di eutanasia, di suicidio assistito, il rifiuto dell’accanimento terapeutico hanno spesso origine da questa situazione, dalla percezione che la persona ha di sentirsi lasciata sola al suo dolore, al suo destino.

Più in generale sembra inoltre emergere una forma di contraddittorio rapporto tra “natura” e “cultura”: se da sempre nascita e morte, eventi naturali, sono stati dall’uomo vissuti ed elaborati con processi culturali sempre più elaborati e raffinati, l’attuale sviluppo scientifico, fattore altrettanto culturale, pone per la prima volta l’umanità nella condizione potenziale di modificare l’evento naturale.

In questo contesto anche eutanasia e accanimento terapeutico, pur essendo di segno opposto, vanno viste come possibili conseguenze di questo cambio di paradigma che di fatto sancisce il passaggio della sfera della “natura” a quella della “cultura”. Ed è esattamente in questo snodo che si colloca, con la sua specifica incidenza, il secondo fattore di novità da prendere in considerazione: l’affermarsi del concetto di “dignità umana”.

In realtà l’idea di attribuire alla persona umana una specifica categoria valoriale, quella della dignità, non è poi così nuova, era infatti già ben presente nella cultura romana, la dignitas, anche se attribuita unicamente al “civis romanus liber”, ai cittadini romani liberi, a segnare un tratto distintivo da tutti gli altri uomini. La piena trasformazione nella sua attuale declinazione, come caratteristica appartenente ad ogni persona in quanto essere unico e irripetibile che implica il suo pieno rispetto, è però avvenuta molto più tardi a partire dall’Illuminismo e dalla sua traduzione nelle rivoluzionarie Costituzioni americana e francese di fine Settecento che l’hanno fatta rientrare a pieno titolo nel campo dei “diritti umani”.

Il concetto di dignità umana ha successivamente conosciuto, nel corso dei complessi processi storici ottocenteschi e novecenteschi, una tormentata evoluzione caratterizzata da due sue differenti interpretazioni: una prima che ha accentuato il suo aspetto più “individualista” di “diritto soggettivo” , alla base della cosiddetta “cultura dei diritti”, ed una seconda più attenta al suo aspetto “relazionale”, al suo ineliminabile rapporto con l’ “alterità” tradotto nella cultura dei “diritti e dei doveri”. Non appare così semplice la sintesi tra queste due interpretazioni che segnando, va da sé con molti altri fattori, la stessa linea di divisione fra una visione di destra ed una di sinistra rischiano di esasperarsi fino a divenire fra di loro conflittuali.

Eppure una qualche loro conciliazione rappresenta un passaggio obbligato allorquando il concetto di dignità umana entra in gioco nel finis vitae. Per realizzarla la prima domanda alla quale occorre rispondere è se il rispetto incondizionato per la persona e la sua dignità si completa nel suo mero dato biologico, aspetto totalmente individuale, o se al contrario deve guardare alla dimensione complessiva della sua esistenza comprensiva quindi del sistema di relazioni che la compongono e del suo ruolo sociale.

Nel primo caso il rispetto potrebbe infatti essere limitato alla sola gestione “curativa” della sofferenza biologica, nel secondo invece è lo stesso percorso di avvicinamento verso la morte nella sua interezza che deve essere “preso in cura”. Ciò che viene condensato nel concetto di “morte dignitosa”, in questa seconda accezione, deve consistere nel diritto di vivere il finis vitae, soprattutto quando resa difficile e dolorosa da malattie e traumi, conservando il più possibile la sua complessiva dignità di persona. Questa concezione di morte dignitosa, per i tanti che in modo trasversale la sostengono, deve in primo luogo consistere nel riconoscimento della facoltà di autodeterminazione, vale a dire nella possibilità di decidere in “autonomia” della propria morte, scegliendone quindi momento e modalità.

Non meno diffusa è l’idea che il diritto di autonomia decisionale deve, proprio per poter essere realizzato nella sua interezza, integrarsi con quello della “benificità”, ossia l’accertamento che la scelta di tempi e modi possa essere concretamente perseguita avendo come finalità prioritaria il maggior benessere possibile della persona, ma anche quella della “giustizia/equità sociale”, garantendo cioè a tutti, nessuno escluso al di là della loro condizione socio-economica, pari opportunità di poterla pienamente esercitare (Giannino Piana integra queste considerazioni valoriali evidenziando il ruolo centrale del “rapporto medico-paziente” che deve essere improntato ad una loro “alleanza terapeutica” la quale a sua volta chiama in causa un adeguato modello di “medicina di relazione”).

A completare questi due primi fattori subentra infine il terzo che, avendo valenza di fondo, dà ad entrambi il loro senso ultimo: il difficile rapporto dell’uomo di oggi nei confronti della morte.

La paura, l’angoscia, il rifiuto, la speranza, sono i tratti fondamentali che hanno da sempre segnato universalmente il rapporto dell’uomo con il mistero della morte e che, limitandoci al mondo occidentale, sono chiaramente rintracciabili nella cultura che qui si è progressivamente costruita a partire dal Medioevo, con la sua commistione fra forme mitiche del mondo classico pagano e tradizione cristiana, per poi conoscere una svolta decisiva con il settecentesco Illuminismo e la sua messa in discussione di sacralità e visione cristiana dell’aldilà che hanno dato forma al moderno laicismo.

Questo quadro millenario sta però conoscendo nell’attuale contemporaneità una trasformazione, alla base dei primi due fattori di cambiamento, che sembra aver davvero messo in definitiva crisi l’idea di “naturalità del morire” che lo ha sin qui ispirato. Le più rilevanti caratteristiche di questa trasformazione, che formano un connubio non privo di contraddizioni, sembrano essere:

*  una “de-naturalizzazione”, ossia, come già evidenziato in precedenza, il passaggio della morte da evento naturale ad evento culturale, un aspetto che ha accentuato i sentimenti di paura e rifiuto

*  una “de-socializzazione”, la riduzione del morire, riferito alla “persona”, ad evento privato, sganciato da riferimenti sociali salvo i limitati casi di morti determinate da particolari eventi pubblici

*  una “de-simbolizzazione”, il passaggio da una “comprensione” della morte, fornita dal viverla come mistero irrisolvibile e dal trasferirla in un orizzonte simbolico (che se coincide con una visione religiosa chiama in causa anche una “de-sacralizzazione”), ad una sua “spiegazione” resa possibile dal suo collocarla in un contesto neutro esterno all’uomo, alla persona

*  una “de-temporalizzazione”, la rimozione della morte dal procedere naturale del tempo di vita per viverla, in una sorta di “presentismo”, di piena concentrazione sul presente, come evento a sé stante privo di passato e, nella visione desacralizzata, di futuro

*  una “de-contestualizzazione”, ovvero il morire al di fuori del contesto, familiare e relazionale, in cui si è vissuti perché la sua normale gestione medica implica, ormai quasi sempre, che la morte avvenga in strutture separate (ospedali, cliniche, case per anziani e cronicari) negando così la sua condivisione con i legami che hanno segnato la vita

Dall’insieme di questi tratti sembra emergere un quadro, non armonico ed anzi decisamente disturbato, in gran misura composto da rimozione, un di più di paura, isolamento, solitudine, freddezza, che sottrae la morte, e la sua naturalità, dal generale ambito della vita rendendolo un fatto a sé e come tale estraneo, quando non antagonista, ai valori del vivere. Una evoluzione culturale che rende ormai difficile concepire la morte come il “normale compimento” del vivere umano così come per tutte le forme di vita terrestri.

La seconda parte del testo di Giannino Piana si interroga, sulla base di queste prime riflessioni, sui modi di vivere in quanto preparatori per una morte davvero dignitosa.

PARTE SECONDA = Alcune questioni preliminari

Si è già detto come l’attuale difficoltà di definire un condiviso quadro normativo del finis vitae consista, oltre che nell’ingiustificabile ignavia della politica, nella netta contrapposizione tra l’idea della “sacralità della vita”, sostenuta dal pensiero cattolico, e quella della “qualità della vita”, valore fondante del pensiero laico. Ma si è davvero di fronte a posizioni così graniticamente compatte al loro interno da escludere punti di incontro e di mediazione? E se questa si dimostrasse in qualche modo possibile quali potrebbero essere i suoi elementi caratterizzanti?

Una risposta a queste domande deve, per una corretta conoscenza e gestione dei termini della contrapposizione, entrare nel merito delle concezioni del mondo e dell’uomo che le sostengono. Nel primo campo, quello della sacralità della vita, la sua idea poggia indubbiamente su una visione religiosa: la vita viene da Dio e solo Dio può toglierla (è questa la motivazione ufficialmente addotta nella “Dichiarazione sull’eutanasia” della Congregazione per la dottrina della fede del 1974 che ancora oggi vale come indicazione dottrinale sul tema). Questa valenza così assoluta sembrerebbe escludere qualsivoglia possibilità di mediazione con l’idea laica della qualità della vita che in contrapposizione altrettanto netta viene, in quanto valore non tanto biologico quanto “biografico”, interamente attribuita alla singola persona ed al suo intero vissuto.

Anche se non mancano nel campo laico posizioni che, partendo da un punto di vista filosofico e non religioso, comunque attribuiscono alla vita un carattere, per alcuni versi assimilabile a quello di sacralità, di “inviolabilità(Giannino Piana cita le controverse prese di posizione assunte da Norberto Bobbio in occasione del referendum sull’aborto,  in quel specifico contesto però lo stesso Bobbio precisava che il concetto di inviolabilità non significava automaticamente totale intangibilità), così come in quello cattolico corrispondenti riflessioni che molto riconoscono al concetto di qualità della vita, sembra ancora difficile, a fronte di una così netta contrapposizione di partenza, superare l’incompatibilità delle conseguenti bioetica cattolica e bioetica laica.

Per tentare di definire una convergente bioetica, il primo passo utile deve necessariamente consistere nel risalire a queste loro differenti concezioni antropologiche, alle diverse idee dell’essere uomini che ne conseguono, per cercare, in questo sforzo, di individuare quale punto di incontro possa esistere fra la maggiore importanza attribuita dalla visione cattolica alla tutela della vita fisica rispetto a quella laica della qualità della vita, così come alle non meno diversificate priorità attribuite al concetto di individuo piuttosto che di persona.

La convergenza che si deve ricercare fra queste così marcate differenze può essere costruita, al termine di un percorso di reciproco rispettoso ascolto, cercando ostinatamente di individuare un “minimo comune morale”, una concezione dell’uomo e della sua vita capace di fissare un condiviso livello di accettazione morale sotto il quale non sarebbe data alcuna coesione sociale. Un obiettivo irrinunciabile che richiede ad entrambe  le differenti concezioni antropologiche una sincera messa in atto non solamente della pur indispensabile rispettiva “razionalità”, ma anche il supporto di una non meno sincera “ragionevolezza”, vale a dire la capacità di arricchire la riflessione razionale con la concreta “esperienza” umana nella sua completezza così come si è sin qui costruita e così come è chiamata a rimodularsi in relazione al radicale cambio di paradigma di cui si è detto nella Parte prima.

Questa prospettiva, se davvero convintamente condivisa, non può non legarsi al concetto di “dignità umana”, non a caso già al centro delle discussioni sul finis vitae, concordemente inteso come il diritto di ogni individuo/persona, a prescindere dalle sue condizioni contingenti, ad essere protetto da qualsiasi forma di violazione e strumentalizzazione tenendo in debito conto la sua “relazionalità sociale”, il suo essere inserito in un contesto sociale ed umano ed al tempo stesso l’elemento trascendentale del concetto di umano che va oltre il suo essere un soggetto meramente biologico.

Sono questi i concetti ed i valori sui quali Giannino Piana analizza, nelle successive parti del suo testo, l’attuale situazione delle più importanti problematiche che concorrono a definire ciò che s’intende, nell’attuale contesto sociale e politico, come tema del finis vitae, nella convinzione che una loro sincera ed obiettiva condivisione aiuti a superare l’attuale stallo

PARTE TERZA e QUARTA = Eutanasia – suicidio assistito – accanimento terapeutico – cure palliative – testamento biologico

Eutanasia: Etimologicamente indica una “buona morte”, quella che il pensiero millenario di cui si è detto faceva coincidere con una “morte naturale la meno dolorosa possibile” e che nell’attuale mutato contesto è passata ad indicare più esattamente un “atto, passivo o attivo, finalizzato a mettere fine ad una vita umana ormai ridotta ad uno stato di insopportabile sofferenza”.

Questa casistica di massima, proprio grazie agli sviluppi delle biotecnologie, si è di molto ampliata comprendendo, oltre ai malati oncologici ormai terminali, altre patologie altrettanto impattanti. Essa chiama in causa essenzialmente due valori, non sempre così facilmente componibili: quello della vita e quello della morte dignitosa, che a seconda della specifica patologia implicano diverse loro modulazioni.

Il pensiero ufficiale della Chiesa Cattolica è quello di una sua ferma condanna qualunque sia la situazione specifica in cui viene invocata. Questa posizione di irremovibile condanna poggia, come si è visto nella Parte Seconda, nella inviolabilità della vita il cui solo padrone è Dio creatore e redentore. Non si discosta, in generale, da questa convinzione la ricerca teologica seppure con una certa dose di maggiore modulazione (che giunge, vedi Enzo Bianchi, alla denuncia di un rischio di “biolatria”). Non mancano tuttavia prese di posizione teologiche di aperto dissenso, la più famosa delle quali è sicuramente quella di Hans Kùng (1928/2021, teologo svizzero, la cui riflessione sul tema, come da lui stesso evidenziato, è stata influenzata dalla dolorosissima morte di un fratello, stroncato da un tumore al cervello a soli 22 anni, e da quella non meno dolorosa di un collega ed amico morto di Alzheimer dopo tanti anni di sofferenza e di totale stravolgimento della personalità).

Kùng considera il diritto ad una morte dignitosa, ancorchè indotta, un “diritto morale prima ancora che legale”, essendo convinto che dal diritto della vita non deriva un assoluto dovere di vita, soprattutto quando questa è ridotta a condizioni impossibili. Il “dono” della vita all’uomo da parte di Dio, che per il vero credente rappresenta comunque una parentesi terrena in attesa della vita eterna, è dato per essere gestito responsabilmente sulla base del principio dell’auto-disposizione di sé, e può quindi implicare anche la possibilità dell’eutanasia per quanto doverosamente circoscritta ad alcuni casi rigorosamente verificabili.

Sulla scia di Kung sono molti gli intellettuali cattolici che manifestano, e spesso promuovono, diffuse prese di posizione a favore dell’eutanasia, (una recente inchiesta condotta dal sociologo Franco Garelli, torinese e cattolico, ha indicato nel 63% la percentuale di coloro, cattolici e non, che si dichiarano favorevoli a tale soluzione). Le ragioni che spiegano questo dissenso di merito nei confronti della dottrina ufficiale cattolica sono di diverse ragioni, ma quella dichiaratamente più condivisa è proprio l’esperienza di accompagnare il finis vitae di amici e parenti duramente colpiti da dolorose malattie inguaribili e l’argomentazione quasi sempre addottata per spiegarne la legittimazione è la constatazione che in quelle condizioni estreme la vita non è più degna di essere vissuta.

Questa argomentazione ricalca nella sua sostanza quella che, semmai con maggiore enfasi, viene sostenuta dal fronte laico. Dal quale viene aggiunta una constatazione statistica di importante rilievo: in Olanda, il primo paese a legalizzare la pratica dell’eutanasia nel 1994, la percentuale sul totale della popolazione di coloro che vi hanno fino ad oggi fatto ricorso è di circa il 2%, un dato che testimonierebbe come, a fronte di una chiarezza normativa, non si innescano per nulla i temuti fenomeni di incontrollabile abuso, così come paventato nei documenti ufficiali della Chiesa Cattolica sul tema.  

La legislazione italiana sulla quale occorre intervenire, se mai un fronte ampio di sostegno alla sua riforma avesse successo, avendo prima concordemente definito il minimo comune morale sul tema, è al riguardo particolarmente rigida: l’art. 579 del Codice Penale considera infatti l’eutanasia un reato di “omicidio del consenziente”. Il problema è però complicato dal fatto che, ad aggravare l’ignavia parlamentare in materia, l’eccesso ideologico del dibattito sulla questione ha prodotto una così lunga serie di proposte di legge in materia, che vanno dalla piena legalizzazione al totale rifiuto, da rendere al momento impraticabile una qualche sintesi concretamente realizzabile.

Una ulteriore complicazione è inoltre data dalla differenza di opinioni, ben presente all’interno del possibile fronte comune di sostegno ad una riforma, sulle forme di eutanasia da legalizzare: se su quella “attiva(la morte del paziente direttamente indotta, di solito mediante endovena) una sintesi normativa è, per certi versi, paradossalmente più semplice su quella “passiva(la cessazione di ogni trattamento medico che mantiene in vita il paziente) le opinioni sono più variegate perché si entra in una sorta di zona grigia in cui non è semplice distinguere tra eutanasia vera e propria e cessazione di accanimento terapeutico. [Un possibile compromesso sul quale sembra vertere la discussione è quello di distinguere i trattamenti applicabili tra “mezzi proporzionati” e “mezzi sproporzionati”, per indicare che lo stesso tipo di trattamento deve essere valutato in relazione alla situazione specifica del paziente, una scelta totalmente in capo al medico che deve valutare “in scienza e coscienza”]

Suicidio assistito: la finalità è identica a quella dell’eutanasia, ma sono diverse le modalità, in questo caso è il paziente stesso a darsi, seppur aiutato, la morte, e non di meno le situazioni che ne determinano la scelta. Se infatti di norma l’eutanasia interessa malati terminali in situazioni di grande sofferenza quasi sempre non più lucidi, il suicidio assistito è un atto di sostegno fornito ad un paziente mentalmente lucido colpito da identiche situazioni, ma in altri casi impedito, da traumi o malattie neurodegenerative, alle normali attività fisiologiche in forme fortemente invasive e senza speranza di soluzione.

Il termine “suicidio(etimologicamente l’omicidio su di sé) evoca un atto umano da sempre presente, con motivazioni e finalità molto differenziate, in tutte le culture umane, non di rado messo in atto anche con complesse procedure rituali a significarne un’autentica valenza culturale. Se a lungo la sua messa in atto ha comportato il ricorso a modalità violente, recentemente la disponibilità di mezzi molto meno invasivi e traumatici lo ha reso una pratica meno estrema e più facilmente praticabile, al punto che il ricorso al suicidio ha assunto un così diffuso e preoccupante incremento da porre significativi interrogativi sociologici, psicologici e financo culturali. Un quadro che nulla ha a che vedere con quello qui in questione, ma che evidenzia nella comune opinione pubblica un generale mutamento di valutazione del suicidio di cui tenere conto.

Nell’ambito del finis vitae i giudizi etici sul suicidio assistito si articolano su prese di posizione, altrettanto diversificate di quelle viste per l’eutanasia, che vanno da rifiuto radicale alla totale legittimazione passando per diversi livelli di accettazione a certe condizioni più o meno restrittive. Quella della Chiesa Cattolica è, sulla base dell’identico assunto dottrinale della sacralità della vita,  per certi versi più rigida di quella sull’eutanasia (per il suicida è sancito il rifiuto della sepoltura ecclesiastica, un norma leggermente attenuata con la concessione al Vescovo di sancire un’eccezione per casi clamorosamente dolorosi) anche se vanno storicamente registrate delle significative eccezioni di suicidi giustificati perché commessi per difendere fino all’estremo i valori della fede (esemplare è il caso di Pelagia suicida per non cedere ai persecutori e per questa sua scelta persino proclamata santa) che lascerebbero intendere che la vita in sé non sia sempre e comunque il valore ultimo dell’uomo, ma che possa essere sacrificato in ragione di valori giudicati più alti.

In questa sottilissima breccia si sono inserite riflessioni teologiche sul suicidio legato a situazioni di estrema gravità in cui, per l’appunto, intervengono altri valori oltre a quello della sacralità della vita. A fronte di un sostanziale allineamento alla posizione ufficiale della Chiesa Cattolica si possono infatti registrare in campo teologico coraggiose prese di posizione (come quella di Adrian Holderegger, professore di teologia presso l’Università di Friburgo in Svizzera) che (sempre in nome del principio dell’auto-disposizione di sé già evidenziato da Kung riguardo l’eutanasia) ritengono possibile che in situazioni estreme di grave perdita del senso della vita, esattamente quelle riscontrabili nelle due esemplari vicende di Dj Fabo (tetraplegico dopo un incidente) e di Piergiorgio Welby (colpito da una gravissima forma di distrofia muscolare), sia possibile riconoscere al soggetto la possibilità del suicido ancorchè assistito per ovvie ragioni di impedimento fisico.

Si tratta per ora di potenziali aperture ad un dialogo meno rigidamente precostituito che giocano, anche in questo caso, la loro possibile evoluzione sulla definizione di un minimo comune morale basato sulla condivisa individuazione delle situazioni in cui si rende possibile constatare una inaccettabile perdita del senso di vita. La strada appare al momento tutta in salita e la modifica dell’Art. 580 del Codice Penale che prevede pene severissime (dai cinque ai dodici anni di carcere) per chi fornisce assistenza (perché valutata come rafforzamento al suicidio) è ancora molto lontana.

Accanimento terapeutico = Consiste nell’uso esasperato, che spesso confina il paziente in una sorta di limbo privo di relazioni e stimoli affettivi, dell’apparato tecnologico medico sempre più perfezionato e potente, una pratica che trova una crescente e condivisa opposizione perché ritenuta la negazione del diritto di non essere sottoposti ad inutili e spesso molto invasive pratiche che impediscono una “morte dignitosa”. Le critiche che vengono mosse all’uso esasperato, e troppo spesso non motivato, di tutte le potenzialità tecnologiche in campo medico si basano sul concetto di “proporzionalità delle cure” altrimenti definito “proporzionalità terapeutica” che, per poter essere applicato con empatica oggettività, necessariamente chiama in causa “la competenza e la coscienza del medico”.

Su queste valutazioni si registra, ormai da tempo, una confortante convergenza fra tutti i soggetti sin qui presi in esame per le tematiche del finis vitae: la condanna dell’accanimento terapeutico della Chiesa cattolica è netta ed ormai consolidata in quanto ciò che eticamente è in questione non è la soppressione di una vita ma il suo prolungamento oltre i limiti accertabili di una morte naturale. In campo laico si evidenzia ormai una concorde limitazione in tutte le legislazioni dei paesi occidentali, quella italiana lo ha fissato già nella stessa Costituzione del 1948 che all’articolo 32 cita testualmente che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario ………. (oltre) ….. i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Si è in questo caso di fronte ad una convergenza che potrebbe, al di là delle positive ricadute sulla specifica materia, rappresentare una importante base di partenza per la definizione di una estendibile concezione umanistica della medicina che ha al suo centro la persona del malato nella concretezza della sua situazione clinica ed esistenziale.

Cure palliative = L’importanza di una concezione umanistica della medicina trova una prima rilevante conferma nel caso del “prendersi cura” dei malati terminali di malattie incurabili che procurano forti sofferenze fisiche e psicologiche. Il termine “palliativo” viene dall’inglese (palliative cure), ma ha radici etimologiche nel latino “pallium”, il mantello di lana usato dai pastori per proteggersi da freddo e malattie, che bene esprimono l’idea di cure da attivare, quando non sussistono più speranze di guarigione, per garantire la migliore qualità possibile di vita dignitosa per il tempo che rimane.

Comprendono, di conseguenza, un insieme di attenzioni mediche, psicologiche, assistenziali, relazionali, per giungere, al loro culmine, alla “sedazione terminale” ultimo baluardo contro il dolore psicofisico e la stessa paura della morte. Sia l’etica laica che quella cattolica riconoscono l’importanza delle cure palliative nell’umanizzazione del finis vitae, ma non di meno si interrogano su alcune questioni ad esse collegate. Quella più importante riguarda proprio il ricorso alla sedazione terminale che oggettivamente impedisce al malato la possibilità di assumere decisioni e che comunque determina un inevitabile accorciamento della vita, una questione che coinvolge, su versanti opposti, ambedue queste etiche.

Il concetto di minimo comune morale comune fin qui seguito in questi casi è stato quello del “bene assoluto” del malato che, declinato in termini medici, comportava la priorità di annullare con la sedazione lo stato di sofferenza del malato. Si sta però sempre più affermando un concetto diverso, quello del “bene possibile”, molto spesso semplicemente tradotto nel “male minore”. Alla base di questo concetto sta il riconoscimento dei limiti delle azioni che, in questi casi estremi, si possono mettere in atto, tutte indistintamente pongono conflitti di valori, e quindi di doveri, che impediscono la formulazione di una procedura standard adottabile in tutti i casi (per quanto la legislazione italiana in materia abbia attuato costanti miglioramenti ed ampliamenti delle risorse coinvolgibili in materia).

Torna così in scena, inevitabilmente, il controverso ricorso a forme di eutanasia, con tutto il loro carico di irrisolta conflittualità etica.

Testamento biologico = E’ di per sé una definizione equivoca, il termine testamento di norma lascia intendere la destinazione di beni agli eredi, nella fattispecie del finis vitae non c’è nulla di tutto questo essendo in effetti la dichiarazione anticipata, per prevenire la possibilità di non essere più nella condizione di esprimerlo di persona (stato terminale con condizioni di incoscienza), delle modalità con cui un individuo vorrebbe che venisse gestita.

Al di là della definizione non mancano anche in questo caso interrogativi di ordine etico che non poco hanno condizionato la sua definizione legislativa, in aggiunta alle procedure,  quale l’eutanasia (che comunque compare in molti testamenti biologici),  che come si è visto richiedono una gestione a sé stante, sono in particolare due quelle che di più hanno contraddistinto il confronto sul tema: la scelta di non essere sottoposti a nutrizione/idratazione forzate,  e fino a che punto le indicazioni testamentarie devono essere considerate vincolanti ovvero se vi sia spazio per una eventuale diversa indicazione del medico che segue il caso.

Sulla prima questione il dibattito, a suo tempo molto accentuato dalla nota vicenda di Eluana Englaro (una giovane donna caduta a seguito di un incidente in stato vegetativo tenuta in vita per ben 17 anni grazie alla nutrizione artificiale, fino alla sua morte avvenuta nel 2009 per l’interruzione di tale trattamento), fra le diverse concezioni etiche si è articolato attorno a quale definizione si debba attribuire alla nutrizione artificiale: quella di “sostegno vitale”, e quindi di una pratica che non può essere interrotta, o quella di “cura medica”, il che consentirebbe, a fronte di una precisa scelta in tal senso, di essere interrotta? La prima interpretazione è stata sostenuta dalla Chiesa Cattolica e da uno schieramento di forze politiche in gran prevalenza di centro-destra, la seconda invece dal fronte laico (al cui interno è stato forte l’impegno del padre di Eluana, Beppino Englaro) con l’appoggio del centro-sinistra. Dopo un acceso confronto, ancora una volta segnato da strumentalizzazioni ideologiche, è prevalsa la seconda tesi (Legge 219 del 2017), il che ha consentito che tale scelta possa ormai rientrare a pieno titolo nel testamento biologico.

La seconda invece resta un tema aperto (non riferito solamente alla nutrizione artificiale).  Fortunatamente non altrettanto condizionato da strumentalizzazioni politiche, che rimanda, per essere meglio compreso, al tema dell’ “alleanza terapeutica” segnalato in precedenza. Il dibattito ruota attorno alla natura vincolante del testamento biologico che, se per certi versi deve pur avere una sua concreta accettazione, potrebbe però impedire di dare spazio ad eventuali progressi in campo medico intervenuti successivamente alla stesura del testamento biologico. Potrebbe conformarsi come soluzione l’affidamento di una maggiore delega decisionale alla figura del “rappresentante legale(una persona di fiducia indicata nel testamento biologico come portavoce del testamentario) ponendolo nella condizione di essere parte attiva nell’ambito dell’alleanza terapeutica con il medico

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Giannino Piana chiude questa sua pacata riflessione sul finis vitae e sulle tante, e tanto complesse, problematiche che lo contraddistinguono, con un’ultima considerazione che riprende un’idea della “morte” che ha attraversato tutto questo suo testo:

……. Il senso di paura e di angoscia che oggi caratterizzano l’umana esperienza della morte, spingendolo alla sua rimozione, è un sintomo di uno stato di malessere esistenziale proprio dell’odierna condizione umana …. che impedisce all’uomo di prendere serena coscienza di un limite che gli è connaturale ….. e quindi di viverlo altrettanto serenamente come fatto naturale …..