martedì 15 luglio 2025

Il "Saggio" del mese - Luglio 2025

 

Il “Saggio” del mese

 LUGLIO 2025

Restano gravemente inascoltate le voci di coloro che da tempo sollecitano ad affrontare i tanti problemi che affliggono l’economia e la società italiana con uno sguardo di più lungo periodo, capace quindi di cogliere le ragioni di fondo che li hanno determinati e che li stanno accentuando. E’ purtroppo deprimente la miopia che accompagna il dibattito politico attorno a questi temi incapace di andare oltre sterili e strumentali contrapposizioni sui singoli provvedimenti presi di volta in volta senza il conforto di adeguate strategie. Eppure non mancano contributi di valore, sono ormai molte le analisi e le indicazioni che, se raccolte e messe a frutto, possono costituire una base oggettiva sulla quale riflettere e discutere andando oltre lo strumentale chiacchiericcio mediatico per costruire politiche di più ampio respiro. Il testo scelto come Saggio di questo mese va in questa direzione perché raccoglie valutazioni, basate su dati ed evidenze analitiche, su problematiche strutturali economiche e sociali che, se non risolte, rischiano di condannare il nostro paese ad un declino ancor più accentuato proprio perché non adeguatamente affrontato

il cui autore è Pier Giorgio Ardeni (professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all'Università di Bologna. Un suo precedente testo “Le classi sociali oggi in Italia” è stato nostro Saggio del mese di Marzo 2025)

Il sottotitolo di questo saggio “ Le crisi che l’Italia deve risolvere per non precipitare” indica con chiarezza obiettivi di analisi e finalità, da subito precisati nell’introduzione ….. da più di tre decenni lo sviluppo italiano ha rallentato ed oggi il Paese appare fermo al capolinea perché afflitto da tre grandi mali: demografia, territori e fasce sociali. Affrontarli è indispensabile ed è bene farlo uscendo dalle narrazioni di comodo che mantengono inutili illusioni.

Ardeni articola la sua analisi su una nutrita serie di tabelle e grafici, riportiamo qui solamente quelli più significativi per seguire le sue considerazioni che hanno come finalità principale quella di cucire insieme tematiche che, per quanto ampiamente esplorate da specifici studi di settore (alcuni dei quali sono stati nostri Saggi del mese nel corso di questi anni), richiedono di essere fra di loro collegate per offrire una più organica visione d’insieme

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Capitolo primo = Il Paese che “ce la fa”. Oltre gli stereotipi, la realtà dei numeri

Nella consueta autocelebrazione del proprio operato l’attuale governo vanta come un successo delle sue politiche l’attuale situazione economica ed occupazionale. Ed in effetti, dopo la caduta precipitosa del 2020, il peggiore anno pandemico, in cui il PIL italiano era crollato del 9% il nostro Paese è tornato a crescere ad un ritmo superiore a quello medio UE e il tasso di occupazione ha in parallelo conosciuto una considerevole crescita. Si potrebbero avanzare diverse e consistenti perplessità al riguardo (ad es. che la crescita del PIL è stata sostenuta da favorevoli fattori temporanei e che la maggiore occupazione in gran misura non è una “buona occupazione”, la povertà cresce fra gli stessi occupati), ma non è questo lo scopo di questa analisi che si propone di valutare con sguardo lungo, andando quindi oltre i singoli passaggi congiunturali, il tasso di crescita reale del nostro paese. Facendolo emerge una situazione tutt’altro che confortante, un primo grafico lo evidenzia visivamente:

Grafico 1



Fonte = Eurostat + Istat

Al di là dei dati di dettaglio interessa rilevare ad occhio come la curva di crescita del PIL italiano, che faticosamente è ritornata ai valori già non esaltanti di inizio secolo, sia costantemente rimasta inferiore a quella media europea (salvo nell’ultimissimo periodo). Il che ha implicato che in meno di 20 anni si sia accumulato un consistente divario di crescita con le altre medie dell’UE (con Francia e Germania è di oltre 20 punti %, con la Spagna di ben 30 punti %), un dato purtroppo non modificato da un più zero virgola qualcosa di un anno o due.

Un dato per l’appunto incontrovertibile evidenziato anche nel recente Rapporto annuale 2024 Istat che sottolinea come l’economia italiana fatichi ormai in modo stabile ad adeguarsi al mutato contesto economico globale sempre più tecnologizzato. L’Italia soffre degli stessi mali comuni delle altre economie avanzate, sorti con l’affermarsi di nuovi equilibri globali, ma in maniera più netta. Il raffronto con le altre economie europee lo evidenzia con chiarezza e lo conferma, in modo più eclatante, quello con tutte le altre economie dei paesi G7: l’Italia è l’unico caso in cui tra il 2007 ed il 2023 il PIL pro-capite è peggiorato (meno 0,8%, mentre è cresciuto del 7,3% in Francia, dell’11,6% in Germania, del 9,2% in Giappone, del 20,2% negli USA, del 9,2% in Giappone, del 5,6% in Canada).

Questi dati negativi del nuovo millennio confermano, accentuandolo, un trend che si era manifestato con evidenza già alcuni decenni prima: l’economia italiana ha conosciuto un lungo periodo di crescita sostenuta, fra le migliori in Europa e nel mondo, tra il 1946 e il 1974, seguito però da una fase già allarmante di costante contrazione sfociata, a partire dal 1992 (un anno di netta recessione) in una traiettoria di crescita appiattita che nel nuovo millennio si è fatta vieppiù stabile.

Grafico 2

Fonte = World Bank Dataset

A fronte di una tendenza storica ormai di lungo periodo diventa legittimo chiedersi se lo sviluppo italiano sia giunto al suo capolinea, ovvero se le condizioni che lo hanno reso possibile e lo hanno sostenuto per un buon ventennio non siano più così adeguate ai ritmi ed alle forme del cambiamento globale. (pubblichiamo questo post nel pieno della crisi di dazi innescata dalle politiche trumpiane che di sicuro, comunque si chiuda, non poco inciderà sul quadro globale). E se davvero così fosse, quali potrebbero essere i fattori negativi che di più hanno determinato questo declino e che ancora persistono nel frenare una concreta possibilità di rilancio? Domande che impongono una coraggiosa presa d’atto ed una conseguente attenta analisi dello stato di salute delle tre componenti fondamentali di sostegno ad una economia in salute: la consistenza di una adeguata base lavorativa, la valorizzazione delle risorse territoriali locali, la definizione di una identità produttiva ed economica. Le tre componenti di base che, come si vedrà, sono esattamente quelle che più spiegano l’attuale situazione negativa. Esiste poi un quarto fattore non meno determinante: il quadro politico ed istituzionale, che si è dimostrato incapace di dare un indirizzo diverso all’economia, in particolare negli ultimi decenni, fino ad essere divenuto anch'esso un pesante freno allo sviluppo. Si impone quindi una autentica svolta concettuale che potrebbe però, se colta e declinata nel giusto modo, rappresentare la giusta occasione per una revisione critica dello stesso concetto di “crescita” finalizzandola non più al solo aspetto quantitativo, ma anche alla sua sostenibilità ambientale, alla sua equità sociale, al suo corretto inserirsi nel nuovo quadro di relazioni fra le parti di un mondo radicalmente mutato da quello del secondo dopoguerra.

Capitolo secondo = L’ inverno demografico italiano

Il primo fattore da prendere in considerazione è indubbiamente quello della consistenza della base produttiva, ovvero della disponibilità di una adeguata forza lavoro, ed il primo inaggirabile passo consiste nell’analizzare i dati generali della popolazione italiana. Gli studi demografici indicano nel 2014 l’anno di avvio consolidato di un preoccupante trend denominato “inverno demografico” italiano. Con questo termine si indica un quadro della popolazione determinato dall’intreccio di alcuni fenomeni tra di loro connessi: calo della natalità, rallentamento della mortalità e collegato allungamento delle aspettative di vita, contrazione dei flussi immigratori. Tale intreccio ha prodotto in questo periodo una consistente riduzione del numero complessivo di abitanti, l’innalzamento dell’età media e lo sbilanciamento al suo interno fra popolazione attiva (quella collocabile nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni di età) e inattiva (il resto della popolazione).

Si tratta di fenomeni che, con diversa gradualità, stanno comunque interessando tutta la parte ricca del mondo (e sono attesi anche per la parte povera con il suo progressivo miglioramento economico) spiegabili con un insieme parecchio complesso di cause tutte però in qualche modo riconducibili ai livelli ed alle forme dei processi economici e produttivi con i quali intrattengono un duplice rapporto di causa/effetto: l’economia è molto influenzata dal quadro demografico (in quanto base lavorativa e domanda sul mercato), ma al tempo stesso il suo andamento e la sua organizzazione incidono sulle propensioni alla natalità (determinando stili di vita e disponibilità delle necessarie risorse) e quindi sulla consistenza e composizione complessiva della popolazione. Si tratta di un rapporto che ha radici e prospettive di lungo periodo, ma che può conoscere dinamiche accelerate di più breve periodo.

La situazione specifica italiana presenta indubbiamente un quadro di questo tipo: l’attuale inverno demografico è frutto di processi di mutamento iniziati decenni addietro che hanno però conosciuto una recente marcata progressione. Se da una parte ha quindi caratteristiche di lungo periodo  identiche a quelle del resto del mondo benestante, dall’altra  si è però caratterizzata con una accentuazione decisamente peggiore: anche solo in confronto con gli altri paesi europei l’Italia è il paese con meno giovani (in percentuale sulla popolazione), con la popolazione più anziana ancorché più longeva, con la minore attrattività immigratoria (la grande maggioranza dei flussi in entrata è solamente di transito) ed è quindi quello che inevitabilmente sta perdendo più abitanti.

Una situazione oggettiva che, soprattutto per il recente marcato peggioramento dovrebbe sollecitare riflessioni attente sul suo rapporto con la situazione economica e sociale del paese e sul suo essere un grave fattore di rischio di ulteriore freno nel prossimo futuro. Non sembra purtroppo che ciò stia avvenendo in misura adeguata, eppure i dati dell’inverno demografico sono ormai ampiamente risaputi, non mancano le sollecitazioni a tenerli in debito conto da parte delle istituzioni statistiche e dagli esperti del settore (la nostra Parola del mese di Giugno 2024, “Demografia”, recuperava fra le altre quella di Francesco Billari, statistico/demografo della Bocconi, con il suo testo “Domani è oggi. Costruire il futuro con la lente della demografia”), ma tutto ciò non sembra al momento sortire adeguato effetto.

Anche Pier Giorgio Ardeni non si esime, in questo suo testo, dal presentarne una consistente rassegna, qui ne recuperiamo, per restare concentrati sullo specifico aspetto dello sviluppo, una minima parte utile a dare contezza dei trend più significativi:

Ø al 31 Dicembre 2024 la popolazione italiana ammonta a 58.934.000 abitanti , con una diminuzione di circa un milione e mezzo dal 2014

Ø nel 2024 la fecondità è stata di 1,18 figli per donna, inferiore al precedente minimo storico assoluto di 1,19 del 1995 (dato al tempo ancora occasionale) e a quello di 1,20 del 2023. Era ancora dell1,39 nel 2014. L’età media al parto è salita a 32,6 dal 31,5 del 2014

Ø Il tasso di natalità e di fertilità italiani sono i più bassi della UE, e l’età media al parto la più alta

Ø i giovani sotto i 14 anni sono il 12,2%, quelli dai 15 ai 29 anni sono il 15,1%, i giovani adulti, 30-44 anni, pesano per il 17,4% e gli adulti, 45-64 anni, per il 31%. Gli over 65 sono saliti al 24,3%

Ø L’Italia vanta, si fa per dire, la minore quota di giovani under 15, la maggiore quota di anziani over 65 (con il Portogallo) e primeggia senza concorrenti per quella degli over 80

Ø Il saldo migratorio resta positivo, ma non compensa più tale calo complessivo di popolazione ed il tasso di fertilità delle donne immigrate sta rapidamente scendendo ai livelli di quelle italiane

L’inverno demografico italiano, come inevitabile conseguenza di questi fattori, sta vedendo in particolare una preoccupante riduzione della “componente attiva”, ossia della parte della popolazione che, anagraficamente compresa tra 15-64 anni, compone la “forza lavoro

Grafico 3

Fonte = dati Istat assemblati

Questo trend evidenzia infatti un ormai risicato margine di azione (più della metà della forza lavoro è nella fascia alta d’età) che rischia seriamente di non essere mantenuto già nel futuro a breve e se così fosse (ed al momento i tassi di natalità/fertilità italiani non consentono speranze), salvo robusti innesti di immigrati, la consistenza della forza lavoro italiana non consentirà più importanti tassi di sviluppo. Le proiezioni al riguardo sono infatti impressionanti: nei prossimi cinquant’anni l’Istat, nel rapporto annuale 2023, prevede che:

Ø la popolazione lavorativa scenderà dal 63,5% al 54,5%, quella con meno di 15 anni dal 12,4% al 10,9% (cinquant’anni sembrano un orizzonte lungo, ma invertire una tendenza demografica è un processo che coinvolge almeno due successive generazioni, immaginando che gli attuali trend si modifichino oggi i risultati saranno pienamente misurabili fra diversi decenni)  

Ø ll rapporto tra individui in età lavorativa e non, passerà già nel 2050 (dopodomani) dall’odierno 3 a 2 a circa 1 a 1

Ø ancora peggio se dai potenziali lavoratori si passa a considerare quelli davvero occupati e quindi davvero attivi: oggi sono il 66,7% (con una recente crescita enfaticamente vantata dal Governo), se anche si riuscisse (operazione non facile proprio per lo stato reale dell’economia italiana) a raggiungere il 70% (l’attuale media europea dalla quale, con buona pace del Governo, siamo ancora lontani) fra cinquant’anni gli attivi sarebbero poco più di 16 milioni che, a fronte di una popolazione prevista di poco più di 46 milioni di abitanti, varrebbero circa il 35%

Con prospettive demografiche come queste la speranza di rilanciare lo sviluppo italiano, quand’anche venissero individuate strategie economiche e produttive di buon livello, avrebbe di fronte una strada decisamente in salita: la mancanza di una adeguata forza lavoro rappresenterebbe infatti un handicap micidiale.

Ritornando al dato complessivo della popolazione italiana una sua ripartizione per aree geografiche consente di passare ad esaminare il secondo fattore che ha un non minore impatto sullo sviluppo italiano: la diversità socio-economica dei territori:

Grafico 4


Fonte = dati Istat assemblati

Capitolo terzo = L’ Italia degli squilibri

Sono proiezioni che, sulla base degli attuali trend, ripartiscono il previsto calo della popolazione italiana tra le tre macro aree (qui di seguito quella del Nord viene ulteriormente suddivisa fra NordOvest e NordEst) che compongono il nostro paese e rappresentano, con le loro differenti traiettorie, una utile base di partenza per analizzare i percorsi che le hanno sin qui caratterizzate e le loro possibili evoluzioni. Tali traiettorie evidenziano infatti profondi divari economici, sociali, di reddito, culturali, sicuramente eredità storiche di lungo periodo, che sono state però non poco modificate dalle forme assunte dallo sviluppo del secondo dopoguerra; la loro conoscenza è quindi indispensabile anche per capire quanto possano a loro volta incidere sulle possibili future prospettive di rilancio economico. Due macro-dati emergono con chiarezza: un avvenuto riequilibrio al Nord fra Ovest ed Est, ma soprattutto il permanere della frattura che più ha segnato, e tuttora segna, la realtà italiana: quella del Mezzogiorno con tutto il resto del paese. Esula dagli scopi di questo saggio la ricostruzione delle dinamiche storiche di lungo periodo che hanno determinato tale quadro generale, è semmai utile concentrare l’attenzione sulle dinamiche più recenti collegate alla fase di più evidente rallentamento/stagnazione dell’economia italiana(anche in questo caso Pier Giorgio Ardeni ha raccolto una considerevole mole di dati, spesso tradotti in grafici e tabelle, ne recuperiamo qui, come in precedenza, una minima parte, quella ritenuta essenziale per comprendere le dinamiche di fondo).

Diversità occupazionali = Al termine dei trent’anni che vanno dal 2002 al 2023, il periodo in cui si è fatto più manifesto il declino italiano, la fotografia della popolazione in età lavorativa evidenzia differenze importanti fra le aree in esame, per averne visivamente contezza è utile riprendere le indicazioni del precedente Grafico 3 (le sue prime tre colonne di fascia d’età) e spacchettarle nelle quattro macroaree italiane

Grafico 5


Fonte = dati Istat assemblati

Si possono cogliere i diversi modi con cui le quattro aree hanno vissuto la lunga fase di fine dello sviluppo italiano:  per quanto concerne le ricadute sulla popolazione attiva hanno retto meglio il NordEst ed il Centro (ambedue con struttura economica più articolata), ha sofferto di più il NordOvest (capitalismo industriale classico), ma è ancora e sempre il Sud che ha pagato il prezzo più alto con le perdite più consistenti di giovani attivi e una percentuale molto alta di quelli nella fascia più anziana. La fotografia del grafico 5 si completa poi con i dati degli inattivi che vede nel Sud la percentuale più alta, 57,4%, a fronte del 47,7% del Centro e del 45,9% del Nord, ma quelli che fra di loro non cercano più lavoro sono decisamente più bassi al Sud con l’85,1% rispetto al 93,8% del Centro e al 95,5% del Nord: segno che nel Meridione chi è inattivo non lo è necessariamente per scelta. Ancor più indicativa della stagnazione italiana è però il tasso di occupazione (percentuale di occupati sul totale della popolazione delle singole fasce) che, sempre nel periodo 2002-2023 registra una variazione in linea con i trend del Grafico 5 e sempre con una marcata differenza fra le quattro aree:

Ø nella fascia 15-24 il tasso di occupazione scende per tutte, ma se nel 2023 il NordEst si assesta al 28% (e comunque era al 44% nel 2002), il NordOvest segna solo un 25% (in netto calo rispetto al 42% nel 2002), il Centro scende al 20% (era al 31% nel 2002), il Sud si ferma ad un disarmante 14% (registrando un calo del 30% dal già debole 21% del 2002)

Ø nella fascia 25-34 i dati sono: NordEst al 78% dall’84%, il NordOvest al 76% dall’82%, il Centro al 70% dal 76%, il Sud al 51% dal 54%

Ø nella fascia 35-64 il NordEst si mantiene all’85% dall’87%, il NordOvest all’83% dall’86%, il Centro all’82% dall’81%, mentre il Sud scende al 60% dal precedente 63%

Si tenga conto che in questi dati sono compresi i lavoratori immigrati con regolare permesso di soggiorno o con cittadinanza italiana acquisita. I numeri dei soli “italiani” sono quindi ancora più preoccupanti

Sono tutti dati che confermano quanto evidenziato in precedenza: lo sviluppo si è fermato    - la maggioranza degli occupati è formata da lavoratori anziani - su questa base si presenta pressoché impossibile un rilancio davvero consistente - il Mezzogiorno resta l’area che ha pagato il conto più alto e che più rischia di pagare anche in futuro

In questo quadro va collocato anche il gender gap occupazionale: la percentuale di donne occupate rispetto a quella degli uomini è relativamente aumentata in tutte le tre aree del NordOvest, NordEst e Centro, ma è drammaticamente calata al Sud. Se in generale l’Italia resta tra i paesi con minori tassi di occupazione femminile, le Regioni del Sud sono quelle che, nella classifica europea, occupano le posizioni più basse

Diversità di reddito = Questa notevole diversità di occupati, soprattutto nelle fasce giovani, confermano che le traiettorie dello sviluppo italiano non sono riuscite a sanare la frattura storica fra il Nord ed il Sud e anche che il costo del suo progressivo arrestarsi è stato pagato in misura preponderante dallo stesso Meridione. I dati del PIL reale, ovvero della ricchezza prodotta, lo confermano:

Ø nel 2023, anno culmine del periodo esaminato, il PIL reale del NordOvest, con il 26,9% degli abitanti, valeva il 33,4% di quello nazionale, il NordEst con il 19,6% valeva il 23,4%, il Centro con il 19,9% valeva il 21,1%, il Sud più Isole con il 33,6% valeva il 22,1%

Ø il PIL procapite (rapporto tra PIL reale e abitanti) è di € 40.854 nel NordOvest (tenuto in alto soprattutto dalla “ricca” Milano), di € 39.282 nel NordEst, di € 35.052 nel Centro, di € 21.695 nel Mezzogiorno (€ 22.008 nel Sud ed € 21.035 nelle Isole)

Ø una suddivisione fortemente sbilanciata che si inserisce in un quadro generale di progressiva contrazione: ancora nel 2000, con sviluppo ormai fermo, il PIL italiano valeva comunque ancora il 122,3% di quello medio UE, è poi sceso nel 2023, con sviluppo sempre più stagnante, al 97,2% 

Ad ulteriore testimonianza di uno sviluppo non solo al capolinea, ma incapace, nell’intero suo recente percorso storico, di ripartire in modo sufficientemente equo la sempre più ridotta ricchezza creata, interviene il seguente Grafico che evidenza lo sviluppo dell’Indice di Gini (misura la concentrazione di ricchezza di una determinata area con una scala che va da 0, ricchezza ripartita in modo perfettamente uguale fra tutti, a 1, ricchezza tutta nelle mani di una sola persona. E quindi più è alto, più si avvicina ad 1, più alta è la disuguaglianza) nelle aree prese in esame:

Grafico 6


Fonte = dati Istat assemblati

Se a livello generale la curva della disuguaglianza in Italia si è mantenuta relativamente costante attorno al dato dello 0,33 (quello medio UE è pari al 0,30) l’andamento nelle sue varie aree attesta che il Nord Est (0,29) è l’area meno diseguale seguito dal Nord Ovest (0,31) e dal Centro (0,32), mentre le più diseguali sono, non a sorpresa, il Sud (0,33) e soprattutto le Isole (0,35).

Hanno un comportamento del tutto analogo le curve della povertà relativa e della povertà assoluta, i dati che le formano attestano infatti che nel periodo in esame il rischio di povertà per l’Italia si è mantenuto costante attorno al 20% della popolazione (in linea con la media europea), ma al Nord vale meno del 10%, al Centro si attesta attorno al 15%, per poi esplodere al 35% per Sud e Isole.

Si tratta di fenomeni, è bene ribadirlo, che hanno origini storicamente lontane, ma che lo sviluppo diseguale (come concentrazione territoriale e come quantità/qualità degli investimenti reali) nei due decenni di forte crescita non ha risolto più di tanto (perché poco o nulla già al tempo era mutato nei fattori che hanno un forte ruolo come istruzione e formazione) e che anzi, non appena esso è entrato in stagnazione, si sono nuovamente accentuati (Pier Giorgio Ardeni non entra più di tanto nel merito di un fattore, l’incidenza della criminalità organizzata, che a giudizio unanime continua ad avere un ruolo tutt’altro che marginale).

Un ultimo fattore, che è ormai assurto a rischio sistemico di forte freno per il futuro, illustra bene lo sbilanciato percorso dello sviluppo italiano: l’ambiente, inteso nelle sue varie accezioni di risorse naturali, di caratteristiche del paesaggio, di assetto idrogeologico, di emissioni di gas serra e di consumo del suolo. Soprattutto questi due ultimi aspetti aiutano a comprendere la gravità di uno sviluppo tanto diseguale quanto privo di adeguate attenzioni ecologiche. Per quanto comunque già al tempo non giustificabile è pur vero che tale disattenzione nei due decenni di più intenso sviluppo si spiegava, oltre che con l’euforia espansionistica, con la fragile consistenza di una sensibilità ancora di là a venire, molto meno accettabile è però divenuta la sua persistenza nei successivi decenni quando lo sviluppo ha iniziato ad arrancare e le evidenze dell’impatto ambientale si son fatte innegabili. Il consumo del suolo nel periodo 2002-2023 ne è una grave testimonianza

Grafico 7


Fonte = dati SNPA assemblati

Appaiono evidenti le disparità delle singole Regioni che comunque hanno una qualche loro spiegazione nelle diversità di base sulle quali si sono innescate, quello che però di più colpisce è la persistenza, ampiamente condivisa da tutte le aree (emblematico, anche in questo caso, è il dato del SUD) di una sorta di propensione all’utilizzo del suolo che non sembra aver fatto tesoro degli ammonimenti sempre meno emergenziali che il degrado ambientale ormai costantemente propone. L’ultimo rapporto annuale del Sistema Nazionale Protezione Ambiente (SNPA), dati 2023, conferma che il consumo di nuovo suolo prosegue a velocità elevate e consistenti (in Italia si coprono artificialmente 20 ettari ogni giorno per un totale annuo di 72 kmq) anche se da tempo sviluppo e demografia, i due fattori che dovrebbero richiederlo, hanno smesso di crescere.

Si è cioè di fronte ad una sorta di suicidio ambientale che non ha più giustificazione alcuna, i dati che lo attestano nel dettaglio sono davvero tanti e tutti spietati, ci limitiamo qui ad evidenziarne alcune caratteristiche sintetiche:

Ø nel 2003 il nuovo suolo consumato per abitante era pari a 348 mq, nel 2023 è passato a 367 mq

Ø è costantemente diminuita la superficie agricola e sono aumentate quelle per uso urbano, industriale, estrattivo, turistico (le zone costiere sono fra le più colpite)

Ø prevale ovunque una tendenza alla dispersione insediativa che porta con sé un fenomeno di ricaduta espansiva a macchia d’olio, la metà del consumo di nuovo suolo avviene infatti densificando aree di frangia urbana, vale a dire aree a bassa densità di popolazione e di più recente antropizzazione di norma collocabili nei primi 20 km di distanza da poli urbani

Ø si è accentuato il consumo di suolo per infrastrutture (autostrade, ferrovie, metanodotti, cavidotti) e quello per poli logistici e di grande distribuzione, nonostante che dal primo non sembri derivare un incentivo significativo allo sviluppo produttivo e che il secondo non sia sollecitato da un aumento demografico e della domanda generale

Ø ben più di un quinto del territorio nazionale, il 21,2%, è ormai degradato perché reso fragile dall’abbandono delle colture di altura e perché investito dai fenomeni estremi

Ø ai quali contribuisce anche l’italica immissione di gas serra, diminuita in termini assoluti ma di sicuro non abbastanza rispetto a quanto fatto in altri paesi UE (ad es. nel periodo 1990-2022 la Germania ha registrato un calo del 38,4% e la Francia del 25,4%, mentre l’Italia si è fermata al 20,4% ed è quindi il secondo paese UE per quantità di gas serra emessi)

Esaminati i primi due fattori - l’inverno demografico e gli squilibri territoriali, tra fasce sociali, le disuguaglianze di reddito e l’utilizzo scellerato delle risorse ambientali – Pier Luigi Ardeni passa ad analizzare il terzo, quello dell’identità produttiva ed economica, così come si è venuta a conformare, ad ulteriore testimonianza di uno sviluppo capolinea, e così come, così essendo, sia anch’essa di grave pregiudizio, se non affrontata e governata, per ogni speranza di rilancio

Capitolo quarto = Produttività del lavoro, lavoro, reddito: alle origini del ritardo

I dati sulla crescita del PIL (vedi Grafico 2) evidenziano la consistenza del calo economico del nostro paese, per meglio comprendere questi asfittici ritmi occorre entrare nel merito delle dinamiche strutturali che negli ultimi cinquant’anni si sono progressivamente concretizzate in Italia, sostanzialmente riducibili a tre macro-fattori: produttività (lavoro, salari, tecnologie, investimenti ed innovazione)struttura economica (sbilanciamento fra produzione industriale ed altre attività economiche)componente sociale (dinamiche del mercato del lavoro e politiche statali collegate).

La questione produttività = Costantemente richiamata come la causa principale del declino dell’economia italiana rappresenta un tema complesso frutto dell’interazione di diversi fattori. Di norma indica la misura ed i modi con cui questi fattori, principalmente “lavoro” e “capitale(che a sua volta comprende mezzi, tecnologie, organizzazione aziendale) riescono a ottimizzare il risultato finale della produzione (valore aggiunto) ed i connessi ricavi. La domanda che si pone, per capire lo stato di salute dell’economia italiana, è quindi quali sono le cause che possono spiegare la mancata crescita/calo di produttività prendendo in esame il periodo che va dal 1992, anno di definitiva svolta del trend di sviluppo, al 2023. Si tratta di una analisi molto complessa qui riportata nelle sue linee essenziali, privilegiando innanzitutto il confronto con altre economie avanzate:

Ø in questo periodo la produttività italiana aumenta di un tasso medio annuo del 0,26%, inferiore a quello tedesco dell’1,02%, francese del 0,84% (e a quello medio della UE dell’1,19%)

Ø il valore aggiunto dato dal lavoro è aumentato in Italia del 21%, in Germania del 43%, in Francia del 54%,

Ø il valore aggiunto dato dal capitale è aumentato in Germania dello 0,4%, in Francia dell’1,5%, mentre è diminuito dello 0,3% in Italia

Ø il combinato dei due valori aggiunti evidenzia che in Germania e Francia il tasso di aumento della produttività è dato soprattutto dall’efficientamento tecnologico del lavoro, aspetto rimasto molto meno rilevante per l’Italia

Per quanto non troppo raffinata questa comparazione già evidenzia come l’insufficiente crescita della produttività italiana sia legata agli insufficienti investimenti di capitale in innovazione tecnologica che chiamano in causa la dimensione delle imprese.

Nel 2023, al culmine del periodo esaminato, il 61,8% degli occupati in Italia è ancora impiegato in piccole imprese (fino a 49 addetti) (e di questi ben il 42,1% in imprese piccolissime, fino a 9 addetti), e solo il 24,8% in quelle grandi (più di 250 addetti) mentre in Francia i numeri sono del 44,5% e di un pari 44,2%, in Germania il 40,6% ed il 42,2% (il resto degli impiegati lavora in imprese medie da 49 a 205, con percentuali del 13,4% in Italia, dell’11,3% in Francia e del 17,2% in Germania). Mentre altri numeri dimostrano che sono le imprese più grandi quelle più produttive: il Italia il valore aggiunto medio annuo per addetto in imprese grandi è di € 345.000 rispetto a € 161.000 di quelle piccole, in Francia € 367.000 contro € 167.000, in Germania € 381.000 contro € 143.000.

Peccato però che nemmeno quelle grandi italiane siano così virtuose, questi stessi numeri lo attestano, ma ancora più lo evidenziano le percentuali di capitale investite in Ricerca e Sviluppo. Partendo da un quadro generale che vedeva nel 1995 l’Italia investire lo 0,93% del PIL per poi passare nel 2023 all’ 1,33%, la Francia passare dal 2,24% al 2,46% e la Germania dal 2,14% al 3,13%, la quota parte coperta dalle grandi imprese italiane era nel 1995 dello 0,50% passata nel 2023 allo 0,78%, in Francia invece era dell’1,37% e poi dell’1,43%, in Germania l’1,7% poi diventato il 2,68% (il resto degli investimenti è coperto dal settore pubblico, Università e centri ricerca, ma non ha specifiche finalità di ricaduta immediata sulla produzione).

In sostanza la produttività italiana soffre perché ancora troppo legata a quella del lavoro che a sua volta non è stato ottimizzato perché sono stati insufficienti gli investimenti in Ricerca e Sviluppo, ciò è avvenuto per il nanismo delle imprese che oltretutto sono rimaste legate, proprio a causa delle loro dimensioni, a settori a bassa intensità tecnologica.

La questione lavoro = E’ in sostanza l’altra faccia della medaglia della questione produttività, in Italia come si è appena sopra evidenziato l’apporto del lavoro al valore aggiunto dell’economia è stato, a partire dagli anni cinquanta/sessanta (decenni in cui l’industrializzazione accelerata italiana ha visto massicci aumenti dello stock di capitale che l’hanno consentita) e fino al 2023, più rilevante di quello dato dal capitale. Un aspetto che (stante le tendenze demografiche della popolazione attiva) centrale per capire la fine di un modello di sviluppo ormai non più sostenibile in una economia globale fortemente basata sulla tecnologia applicata e la conseguente necessità di pensare ad un diverso modello di crescita.

Entrando nel merito delle forme che il “fattore lavoro” ha assunto in Italia, fino a completarsi in quelle attuali, e la loro relazione specifica con quantità e qualità dello sviluppo i dati raccolti da Ardeni (valgono le considerazioni già fatte in precedenza sulla loro mole) consentono di rilevare che:

Ø la curva dell’occupazione, dopo il grande balzo degli anni Cinquanta/Sessanta (consistito in gran misura nello spostamento di forza lavoro dall’agricoltura all’industria) ha smesso di crescere fino agli anni Novanta e da lì in poi prosegue con congiunturali variazioni su una linea quasi piatta inferiore a quella dei paesi europei di riferimento (dal 1995 al 2023 in Italia gli occupati sono aumentati di 4 milioni e 200 mila unità pari al 19%, in Germania di quasi 8 milioni pari al 21%, in Francia di quasi 7 milioni pari al 28%)

Ø le rispettive ricadute sul PIL sono state proporzionali alle loro percentuali

Ø diversi sono stati anche i cambiamenti nella composizione della forza lavoro: nel 2023, al culmine del periodo in esame:

·     sul totale degli occupati 15-64 anni in Italia il 47,4% è diplomato (era del 46,1% nel 2009) - è del 50,5% in Germania (57,9% nel 2009) e del 41,1% in Francia (44,5% nel 2009), con una media UE del 45,8%

·     il 25,4% è laureato (17% nel 2009) – è del 33,2% in Germania (26,8% nel 2009) e del 46,6% in Francia (32,3% nel 2009) con una media UE del 37,9%

Ø il totale di diplomati e laureati è quindi, nel 2023, del 75,3% in Italia, a fronte dell’83,7% in Germania, dell’87,8% in Francia, con una media UE dell’82,7%. Questo confronto dice molto dei limiti italiani accumulati negli ultimi decenni ed ancor più di quelli che non potranno non pesare sul futuro

Ø in compenso gli occupati italiani lavorano di più (eredità storica di lungo periodo che spiega il maggior apporto al valore aggiunto, ma anche la minore produttività): nel 2023 il numero di ore lavorate per occupato in Italia è stato pari a 1.734, a 1.500 in Francia, a 1.342 in Germania, media UE 1.604

Ø sono più numerosi i lavoratori in proprio (il che riduce ulteriormente i margini per una tecnologizzazione su ampia scala): nel 2023 in Italia valevano il 22% (27,6% nel 1995), il 10% in Germania (8,4% nel 1995), il 10,5% in Francia (11% nel 1995)

Ø la composizione settoriale della forza lavora registra comuni tendenze UE:

·     diminuzione addetti agricoltura/industria e manifattura/costruzioni, quelli che più concorrono al valore aggiunto (incidono diversificazione e tecnologizzazione): in Italia nel periodo 1995/2023 il calo è stato dal 55,9% al 42,2%, in Germania dal 55,3% al 41%, in Francia dal 42,2% al 28,3%

·     tenuta dei settori commerciali, trasporti, turistici: in Italia dal 24,2% al 25,5%, in Germania dal 23,2% al 22%, in Francia dal 20,9% al 22,3% e, un po' meno, delle attività finanziarie ed immobiliari: in Italia dal 3,6% al 3,1%, in Germania dal 4,2% al 3,4%, in Francia dal 4,3% al 4,1%

·     aumentano settori servizi, comunicazione, attività professionali (scarso valore aggiunto): in Italia dal 17% al 25,3%, in Germania dal 15,9% al 23,8%, in Francia dal 17,6% al 25,6%

·     tiene/aumenta la pubblica amministrazione: in Italia da 20,4% al 19,2%, in Germania dal 22,5% al 26,1%, in Francia dal 30,1% al 29% (sfatando un luogo comune sono comunque più alti i dipendenti pubblici sia in Germania che in Francia)

Un dato significativo che emerge da questo quadro consiste nel fatto che da quando lo sviluppo italiano si è fermato i settori che hanno registrato un aumento di occupazione sono in gran prevalenza quelli che realizzano un basso valore aggiunto: l’economia italiana attualmente non è quindi adeguatamente sostenuta da una buona parte degli occupati, il che, ancora una volta, spiega la ragione della crisi strisciante e le difficoltà di un rilancio a breve.

Un altro fattore, collegato al lavoro ed all’occupazione, rafforza questa constatazione: la dinamica salariale e, come inevitabile correlazione, la scarsa domanda interna. Qui i dati sono impietosi, lo evidenzia bene visivamente il seguente grafico (ripubblicato di recente ha fatto molto scalpore) che riporta l’andamento dei salari dei paesi europei nel periodo 1990-2023

Grafico 8

(dati Openpolis) 

E’ però un confronto, sicuramente impattante dal punto di vista visivo, ma in parte improprio perché troppo diverse erano le condizioni di partenza dei diversi paesi presi in esame, più indicativo è quello analogo delle dinamiche salariali più comparabili con i paesi più omogenei del G7 e con la media OCSE, partendo inoltre dal 1999 a moneta unica europea, euro, entrata in vigore

Grafico 9


(dati OCSE)

Il quadro della dinamica salariale italiana non indica soltanto una grave mancanza di equità sociale, ma conferma anche che lo sviluppo italiano, in questi ultimi trent’anni, ha mantenuto una linea di minimo galleggiamento puntando quasi esclusivamente sul solo fattore lavoro che non è però più in grado, nell’attuale contesto globale tecnologizzato, di garantire da solo una adeguata crescita economica

Capitolo quinto = Se siamo al capolinea, per ripartire serve la politica

In aggiunta ai fattori fondamentali fin qui esaminati non mancano purtroppo altri elementi altrettanto preoccupanti:

Ø la scarsa circolazione di capitali = la struttura del controllo societario italiano è rimasta individuale e familiare, sono quindi poche le imprese a capitale azionario diffuso. La Borsa italiana è asfittica (il suo peso nel paniere delle Borse dell’Eurozona è davvero esiguo: vale il 6,76% contro il 32,5% della Francia ed il 23,8% della Germania), e ciò vuol dire scarsa circolazione di capitale e ridotte capacità di finanziamento alle imprese per quanto sempre necessaria per avviare una riconversione tecnologica concorrenziale (già pregiudicata, come si è visto, dalle dimensioni delle imprese)

Ø gli investimenti stranieri sono scarsi e troppo spesso speculativi = negli ultimi dieci anni il flusso totale di IDE privati (Investimenti Diretti Esteri) in entrata in Italia è stato di 209 milioni di euro, contro i 347 della Francia ed i 414 della Germania, quello degli IDE in uscita dall’Italia è stato di 228 milioni contro i 608 della Francia ed i 1.053 della Germania. Vale a dire che l’Italia fa meno gola (la quota di controllo estero di attività italiane è tra le più basse nella UE) e investe molto meno all’estero di altri paesi. Non solo: buona parte degli investimenti stranieri, per quanto comunque bassi, è normalmente mirata all’acquisizione speculativa di quote delle imprese già più attrattive (anche se strategiche per l’economia italiana: automotive, comunicazione, energetico, alimentare e della moda) e non pare quindi una leva su cui contare per processi di trasformazione diffusi e di lungo periodo

Ø Il turismo come ultima frontiera = lo straordinario potenziale turistico italiano ha negli ultimi anni alimentato l’idea che il turismo possa diventare uno dei settori più trainanti un nuovo modello di sviluppo (ed in effetti il suo trend in costante crescita è sicuramente interessante grazie al contributo della sostanziosa ascesa delle classi medie dei Paesi emergenti). Ma il turismo, ancorchè ottimizzato ai suoi massimi livelli, deve fare i conti con limiti fisici insuperabili (città come Firenze, Roma, Venezia non sono replicabili o allargabili, l’overtourism, l’eccesso di concentrazione di turisti nella stessa località, è già oggi una realtà), con consistenti conseguenze negative (innanzitutto ambientali ed inflazionistiche) e con il fatto che  la sua ricaduta sul sistema economico è oggettivamente limitata dall’avere  bassissimo valore aggiunto (i costi pubblici per sostenerlo sono sempre più alti, e gli introiti premiano attività non produttive come il settore della ristorazione o delle proprietà immobiliari).

Una constatazione oggettiva può sintetizzare il quadro sin qui tracciato: le forme e le modalità con cui, terminata la fase di straordinaria crescita degli anni Cinquanta/Sessanta, lo sviluppo italiano si è articolato non si sono rivelate sufficienti: l’Italia appare sempre più un gigante coi piedi di argilla, perché i fondamentali economici strutturali traballano e,  inevitabile conseguenza, perché non sembra in grado di mettere in campo adeguata coesione sociale e partecipazione civica. Non pare fuori luogo, in un simile contesto, parlare di capolinea o quanto meno di snodo epocale. Un dato appare certo: l’economia così come si è venuta a conformare da sola non è in grado di fare da traino per una svolta non più rinviabile, deve tornare in gioco la politica, ma molto diversa da quella attuale.

Il ruolo della politica = Si è detto in apertura di come l’attuale quadro politico italiano, lungi dal dimostrare la capacità di delineare e concretizzare strategie di lungo periodo capaci, intervenendo in modo coerente sul presente, di (ri)creare condizioni che consentano al nostro paese di riprendere un percorso di sviluppo, rappresenti al contrario una delle cause dell’attuale sempre più incerta situazione economica e sociale. In questi trent’anni il sistema politico italiano, di fatto passivamente succube dei dettami neoliberisti mainstream che subordinano il ruolo della politica a quello del libero gioco del mercato, non è stato capace di prendere in mano una seria azione riformatrice dei mali che affliggono l’economia italiana. E quando è intervenuto, nella forma di governi di destra, di centrosinistra, “tecnici”, è stato ispirato da un concetto distorto di “flessibilità” che altro risultato non ha avuto che quello di assecondare le dinamiche, tutt’altro che positive, del mercato. Eppure è da decenni evidente che il capitalismo italiano non possiede più da solo le doti necessarie per (ri)avviare un processo di sviluppo, in un contesto simile il confronto politico deve assumersi la responsabilità di raccontare la realtà, di individuare su questa condivisa base strategie riformatrici, di agire conseguentemente. Ciò, ovviamente, non può che avvenire nel quadro di valori e idealità che ogni parte politica deve pur possedere, ma restando consapevole - così come è avvenuto nell’Italia del dopoguerra capace nel giro di pochi anni di dare avvio ad un possente processo di cambiamento strutturale del paese pur in presenza di una forte contrapposizione di idee - che solo da un confronto di questo livello possono scaturire le energie vitali indispensabili per avviare un cambiamento. L’augurio di Ardeni, che facciamo nostro, è quello che da questa nuova tensione politica esca vincente l’idea di una economia, di una società, di un paese tutto, capace di mettere freno alle logiche di profitto capitalistico a breve che stanno condannando l’Italia al declino. 

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