lunedì 15 agosto 2016

Figli più poveri dei padri e modello Svezia -Articoli di Federico Rampini


Pubblichiamo due articoli di Federico Rampini a commento dell’ultimo Rapporto McKinsey sulla povertà crescente anche nella parte del mondo più sviluppata e sulla tenuta del modello Svezia



Quei figli più poveri dei padri   
gli anni Duemila come il Dopoguerra

Articolo di FEDERICO RAMPINI su “La Repubblica” del 13/08/2016


L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente. L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell'ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump. Per effetto dell'impoverimento e dello shock generazionale, una quota crescente di cittadini non credono più ai benefici dell'economia di mercato, della globalizzazione, del libero scambio Lo studio di McKinsey ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81%. Seguono Inghilterra e Francia. Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le diseguaglianze o compensino la crisi del reddito familiare.
L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguarda i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.  Lo studio non si limita a tracciare un quadro desolante, vi aggiunge delle distinzioni cruciali per capire come uscirne. Il caso della Svezia viene additato come un'eccezione positiva per le politiche economiche dei governi e gli interventi sul mercato del lavoro che hanno contrastato con successo il trend generale. "Lo Stato in Svezia si è mosso per mantenere i posti di lavoro, e così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti per quasi tutti". Perfino l'iperliberista America, però, ha fatto qualcosa per contrastare le tendenze di mercato. Riducendo la pressione fiscale sulle famiglie e aumentando i sussidi di welfare, gli Stati Uniti hanno agito per compensare l'impoverimento con qualche successo. In Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato finale è ancora peggiore: si passa dal 97% al 100%, quindi la totalità delle famiglie sta peggio in termini di reddito disponibile. Se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.





Equità, welfare e Keynes:
la ricetta della Svezia  
Articolo di FEDERICO RAMPINI su “La Repubblica” del 15/0/2016






Paradiso svedese, inferno italiano. Il Rapporto del McKinsey Global Institute sull'impoverimento generazionale, già illustrato sulla Repubblica di sabato, esalta il modello scandinavo come antidoto alla regressione del tenore di vita che affligge le economie più avanzate. E mette il nostro paese all'indice, il peggiore di tutto l'Occidente per la performance economica misurata nell'arco di un decennio. "Ad una estremità c'è l'Italia dove i redditi sono rimasti fermi o sono diminuiti per la quasi totalità della popolazione. Al polo opposto c'è la Svezia dove solo il 20% della popolazione ha avuto i propri redditi bloccati o ridotti". Così si legge nella recente indagine intitolata "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Questa citazione si riferisce peraltro ai "redditi di mercato", cioè prima di calcolare l'impatto degli ammortizzatori sociali, delle tasse, di tutte le politiche pubbliche sui bilanci delle famiglie. Quel che interessa ancora di più, è il risultato finale in tasca ai cittadini, sono i "redditi disponibili": quelli che rimangono dopo l'intervento del fisco e l'eventuale aiuto del Welfare. Ebbene, alla fine il divario tra Svezia e Italia si accentua ancora di più. Il ristagno o impoverimento decennale passa dal 97% fino a quasi il 100% degli italiani. Mentre per gli svedesi si scende dal 20% al 2% della popolazione "bloccata o impoverita". Eppure tutti i paesi esaminati nell'indagine (Nordamerica ed Europa occidentale) hanno subito lo stesso shock esterno: dopo la crisi finanziaria globale del 2008 il Pil si è ridotto in tutte le economie senza eccezione. Il Rapporto McKinsey è molto dettagliato su ciò che fa la differenza tra i due estremi di Italia e Svezia. Il modello svedese si fonda su una serie di ricette originali. A cominciare dai rapporti di forze sociali. "Il 68% dei lavoratori svedesi sono sindacalizzati", un record in tutto l'Occidente.
Questo li ha resi capaci di spostare in loro favore la distribuzione nazionale del reddito, la ripartizione della "torta" fra profitti e salari. È un tema centrale, perché nell'insieme dell'Occidente questo è un periodo dominato da una dinamica del tutto opposta: "I profitti delle imprese sono saliti ai livelli record dagli ultimi tre decenni, +30% rispetto al 1980". Torna in primo piano la battaglia distributiva, che era stata al centro dell'attenzione negli anni Settanta, poi fu contrastata dal liberismo che dava la priorità alla crescita. Da Ronald Reagan e Margaret Thatcher in poi, si è imposto il dogma secondo cui non conta la diseguaglianza tra i ricchi e il resto della società, perché "quando sale la marea alza tutti i battelli, grandi e piccoli". Più di trent'anni dopo, lo studioso delle diseguaglianze Thomas Piketty sconfigge il padre del neoliberismo Milton Friedman. Un eccesso di diseguaglianze contribuisce alla "stagnazione secolare", bloccando la crescita. Lo stesso Rapporto McKinsey è generoso di riconoscimenti verso Piketty: a conferma che ormai l'attenzione alle diseguaglianze è trasversale, non è un tema "ideologico". (La società McKinsey, nota soprattutto per le consulenze d'impresa, non ha fama di essere un think tank radicale).Il modello Svezia, così come lo illustra questa indagine, contiene vari altri ingredienti che si riconducono all'importanza dell'intervento pubblico. Sono state messe in opera "normative per proteggere i salari". Dopo la crisi finanziaria globale il governo svedese "ha operato d'intesa con i sindacati per raggiungere accordi di riduzione temporanea degli orari di lavoro, in alternativa ai licenziamenti, in modo da mantenere alti livelli di occupazione". Sono state "aumentate le assunzioni con contratti a tempo determinato nei servizi pubblici", sempre al fine di contrastare l'aumento della disoccupazione. "Sono stati ridotti gli oneri sociali e il cuneo fiscale per le imprese. Sono stati offerti incentivi fiscali per le assunzioni di giovani e disoccupati di lungo periodo". Qui va precisato che, almeno in parte, l'Italia ha cambiato il suo mix di ricette in tempi recenti, ma questo non appare nel Rapporto McKinsey che si fonda prevalentemente su dati dal 2005 al 2014. Le lezioni dalla Svezia comunque non mancano; insieme con le difficoltà ad esportarle da Stoccolma a Roma. Da una parte il "paradiso svedese" è la conferma della bontà delle ricette keynesiane: in una recessione o in una prolungata stagnazione, lo Stato è l'unico ad avere la capacità di rianimare un'economia esangue. La Svezia ha più autonomia nel decidere politiche di bilancio neo-keynesiane, in quanto non fa parte dell'Eurozona e quindi non è sottoposta alle stesse rigidità (rifiutò di entrare nell'euro con il referendum del 2003). La Svezia parte anche da una situazione di bilancio molto più florida della nostra: il suo debito pubblico era inferiore al 40% del Pil prima della grande crisi, è aumentato da allora, ma rimane ben inferiore ai livelli italiani. Ha un'evasione fiscale tra le più basse del mondo; e una spesa pubblica notoriamente efficiente, poco viziata da clientelismi e sprechi. Un modello davvero, in tutti i sensi.
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