Che fine hanno fatto le classi sociali?
Articolo di Denise Celentano (studiosa di filosofia
politica. Attualmente svolge un periodo di ricerca all'Ecole des Hautes Etudes en
Sciences Sociales di Parigi) tratto dal sito
“lasinistrainrete”
Qualcuno
ricorderà il gioco da tavolo Taboo, nel quale i partecipanti devono
indovinare una certa parola senza mai pronunciarla ma evocandola in vari modi.
Nello stesso modo il dibattito pubblico sembra impegnato da qualche anno in
un’elaborata partita di Taboo pur di non pronunciare una certa parola.
Chi la pronunciasse rischierebbe di essere accusato di passatismo, d’intenti
polemici, o ancora di voler semplificare troppo le questioni sociali; eppure ce
l’abbiamo tutti sulla punta della lingua, pronta a scappar fuori. È la parola
“classe”. Ma cos’è successo a questo termine, dalla storia lunga e gloriosa?
Oggi per poter dire la stessa cosa – che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha
di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini
diversi – si tende a preferire termini come «diseguaglianza» o «strati
sociali», che assegnano alla questione un’aria neutralmente statistica. Perché
con la classe non vogliamo fare i conti. Nel suo bestseller intitolato Chavs.
The Demonization of the Working Class, Owen Jones ha notato
che se nel Regno Unito commenti razzisti o omofobi sono ormai da tempo banditi,
lo stesso non si può dire di espressioni classiste come chav, grossomodo
traducibile con ‘tamarro’ o ‘poveraccio’ — al punto che il termine può essere
utilizzato pubblicamente senza conseguenze. La stessa strana coesistenza di
progressismo e classismo emerge dal racconto di Bell Hooks, che in Where We Stand: Class Matters
osserva come negli Stati Uniti l’argomento delle classi sia diventato uncool:
i suoi vicini del Greenwich Village, prevalentemente bianchi e benestanti, non
esitano a celebrare la diversità e il multiculturalismo, ma quando si viene
alle classi e ai soldi non possono fare a meno di sentirsi «scelti, speciali,
meritevoli» – a differenza dell’ingiustizia razziale, del sessismo o
dell’omofobia, la questione non suscita in loro il minimo dubbio morale. Forse
si potrebbe liquidare la questione con le lapidarie parole di Beverly Skeggs: le
classi sono ignorate da chi ha il privilegio di poterle ignorare.
Evidentemente, al fenomeno di “imbarazzo delle classi”, come lo ha chiamato
Andrew Sayer in The Moral Significance of Class,
sembra associarsi una forma di indignazione selettiva, a seconda che si tratti
di ‘diversità culturali’ o di classe. L’idea stessa che le classi non esistano
più riemerge regolarmente, giustificata dai più diversi argomenti. Si è parlato
di una ‘cetomedizzazione’ della società – si pensi al Tony Blair di “we’re
all middle class now” –, e di una generalizzazione di stili di vita
prima riservati a fasce più ristrette di persone; una tesi piuttosto difficile
da sostenere dopo la fine del Boom economico e a fronte della crescente
polarizzazione delle diseguaglianze globali. Altri hanno parlato di
“individualizzazione”: secondo Ulrich Beck, a
fronte della logica sempre più individuale della modernità, quella di classe
sarebbe una “categoria zombie” cui riservare degna sepoltura. Un “capitalismo
senza classi”, dove ciascuno costruisce da sé la propria biografia, prenderebbe
il posto dei vecchi pattern di diseguaglianza.Che l’argomento delle classi
tenda a essere rimosso, contestato o a comportarsi come un tabù, ci dice
qualcosa del nostro tempo, ma è forse anche un indicatore della natura stessa
delle classi. Come ha scritto Bourdieu, “finché ci saranno classi, ‘classe’ non
sarà una parola neutrale. La questione dell’esistenza o non esistenza delle
classi è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi”. La
questione non si lascia derubricare a diatriba terminologica o sociologica,
tendendo a sconfinare sul piano politico. In seno alla sinistra da diversi anni
si dibatte attorno alla necessità di superare le vecchie tassonomie per
privilegiare nuove e più scrupolose mappature dell’ineguaglianza – razza,
genere, eccetera – oppure al contrario di ritornarvi per restare fedeli
a una visione che mantiene al suo cuore il dato economico. Non è da
sottovalutare la natura politicamente divisiva del concetto. “La nozione di
classe è carica di passioni e di equivoci […] chi pretende di essere senza
pregiudizi su questo argomento non è creduto”, ha scritto Raymond Aron. Da
questo punto di vista, l’idea che “il concetto di classe è un concetto
comunista” di Margaret Thatcher (verosimilmente per lo stesso motivo per cui
“la società non esiste”) sembrerebbe interpretare un sentimento diffuso: la
parola tende a evocare un immaginario socialista che, a quasi trent’anni dalla
Guerra fredda, appare ai più sbiadito e anacronistico. Indubbiamente il
marxismo è molto esigente con le classi: esse non sono mere categorie
sociologiche, ma le protagoniste di un conflitto considerato come il motore
della storia (“la storia è una storia di lotte di classi”), da superare in
vista dell’obiettivo di una “società senza classi”. Nel marxismo tradizionale
il soggetto dell’emancipazione è inoltre chiaramente distinguibile, trattandosi
della classe operaia. Si direbbe allora che le classi sono passate di moda
perché il marxismo è passato di moda. Oggi, una simile filosofia della storia
non è più accettabile; a fare problema è la promessa stessa di un’emancipazione
universale. L’idea che un soggetto collettivo possa essere considerato speciale
detentore di prerogative politiche in virtù della propria posizione, non è più
difendibile nemmeno per i progressisti. Ernesto Laclau e Chantal Mouffe lo
scrivevano già trent’anni fa in Hegemony and Socialist Strategy,
preferendo alla lotta di classe il modello di una conflittualità sociale più
fluida, aperta e irriducibile a schemi. La sinistra intellettuale ha fatto i
conti con questo problema in più modi, preferendo categorie come “egemonia”,
“moltitudine” o “populismo” a seconda dei casi. In questo contesto, in cui le
classi sono diventate un problema più sociologico che politico (i dibattiti
accademici sui confini della classe media sono un esempio), l’idea di
emancipazione di classe finisce per individualizzarsi, potendo al massimo
ambire a una strategia privata di autodifesa dal declassamento, come nelle transclasses di Chantal Jaquet: risposte solitarie all’ingiustizia
di classe che nell’atto stesso di negare le classi, le riconfermano. Evidentemente,
quel che fa problema della classe è la sua interpretazione politica: l’idea che
sia associabile a qualche forma di ‘emancipazione’. Le opinioni sul tema sono
fortemente condizionate dalla definizione, non sempre resa esplicita, di che
cosa debba intendersi con ‘classe’. Se si intende l’idea di una coscienza di
classe o di un forte senso di appartenenza a un gruppo sociale, chiamando in
causa l’azione politica collettiva, è facile dire che le classi non esistono
più. (A poco serve ricordare che persino nel marxismo l’idea di una ‘coscienza
di classe’ è concettualmente distinta da quella di classe). Del resto, non solo
il marxismo non detiene il monopolio del concetto di classe, che è stato
utilizzato e reinterpretato da diverse tradizioni – si pensi a Weber,
Dahrendorf, Bourdieu –, ma persino nell’ambito dello stesso marxismo è stato
fatto negli ultimi decenni un notevole sforzo di riattualizzazione, per
liberarlo da ogni residuo di dogmatismo e filosofia della storia. Da questo
punto di vista, se alcuni hanno preferito abbandonare il concetto di classe,
altri si sono presi la briga di ripensarlo. È il caso di Erik Olin Wright, che di recente ha
sostenuto la necessità di superare le vecchie “battaglie fra paradigmi”, in
favore di un pragmatismo capace di integrare in un unico modello letture
solitamente ritenute incompatibili. Anziché posizionarsi sull’uno o l’altro
fronte della guerra fra weberiani e marxisti, secondo Wright occorre prendere
quanto c’è di buono in ogni tradizione a seconda delle domande a cui vogliamo
rispondere: If Class is the Answer, What is the Question?, è il titolo
eloquente di un capitolo da lui scritto nel 2005. Parafrasando
ironicamente un noto passaggio di Marx, per il sociologo americano si può
essere “weberiani per la descrizione della mobilità di classe, bourdieusiani
per i fattori determinanti gli stili di vita, e marxiani per la critica
del capitalismo”. La società è cambiata, e con essa la geografia delle classi:
la vecchia classe operaia non esiste più nelle forme tradizionali. Non solo
sono venute meno, in Occidente, le condizioni materiali per la sua esistenza –
la terziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione delle industrie nei
paesi dove il lavoro costa meno –, ma quel che oggi rimane della vecchia working
class sembrerebbe godere di una posizione di relativo privilegio. Secondo
Guy Standing, il suo erede ideale sarebbe il “precariato”, una
classe emergente sorta da specifiche scelte economiche compiute a livello
globale in favore della deregolazione del lavoro. A differenza del proletariato
tradizionale, protetto da un sistema di diritti e dai sindacati, i precari incarnerebbero
un inedito movimento di regressione nell’esercizio dei diritti di cittadinanza.
Farebbero parte del precariato tre distinte componenti sociali talvolta in
conflitto fra loro: i “non-cittadini”; i figli della classe operaia in via di
declassamento, dotati di scarsa istruzione e facilmente sedotti da programmi
politici conservatori; i giovani istruiti cui era stato promesso un futuro
interessante ma che ora si trovano trascinati in un generale stato di
“frustrazione da mancato status”. Questo esercito di figli della classe media
divisi fra gig economy ed emigrazione all’estero vivrebbe una peculiare
condizione esistenziale di scollamento fra aspirazioni e realtà, entro il
contesto di un generale abbassamento della soglia di ciò che si può realisticamente
pretendere. Del resto, se la classe funziona come un filtro selettivo, come un
recinto invisibile che circoscrive preventivamente il campo di ciò che è
ragionevole aspettarsi (“il campo del possibile” di Bourdieu), la dialettica di
rinegoziazione fra i due poli della traiettoria – le aspirazioni e la realtà,
appunto – tipica di ogni esperienza di classe, diventa particolarmente dolorosa
nel caso del declassamento. Si tratta di una forma di malessere che Raffaele
Ventura, facendo il verso a Veblen, ha catturato con l’espressione “classe disagiata”:
si tratterebbe di una “classe aspirazionale”, che nel continuare a desiderare
quello che non può più avere trova il suo tratto distintivo. Il rapporto fra
classe percepita e classe reale, per così dire, si è sfalsato. Vincent de
Gaulejac chiamava névrose de classe la crisi d’identità di coloro
che hanno fatto l’esperienza di migrare da una classe all’altra. Tuttavia, il
tono patologizzante ed eccezionalista dell’espressione sembra difficile da
applicare a una realtà che somiglia oggigiorno alla norma più che
all’eccezione. Di frattura generazionale parla anche Mike Savage nel libro Social Class in the 21st Century, in
cui sono riportati i risultati del Great British Class Survey del 2013
commissionato dalla BBC sulle nuove strutture sociali del Regno Unito.
Significativamente, all’estremità inferiore della mappa di sette classi emersa
dallo studio guidato da Savage troviamo il precariato. Secondo Savage, la
categoria rilanciata da Standing consente di porre l’accento sulla collocazione
strutturale di questo gruppo sociale, evitando giudizi di valore e
stigmatizzazioni. Si presta a riempire un vuoto sociologico e politico:
quello lasciato aperto dal declino della working class tradizionale. Savage
riflette sulla questione generazionale sottolineando come la possibilità di
accumulare capitali nel tempo – non solo economici, ma anche culturali, sociali
e simbolici – costituisca una fonte di specifici vantaggi: in linea di
principio, una persona anziana gode di un vantaggio competitivo rispetto a una
persona giovane già per il sol fatto di avere avuto più tempo a disposizione
(un capitale temporale?). Vale a dire che se la classe ha a che fare con i
“diritti preventivi sul futuro”, come diceva Bourdieu, è per via dei vantaggi
cumulativi del passato. È questa la ragione per cui non basta per così dire
‘vincere al lotto’ per cambiare classe sociale, quasi fossero un paio di
infradito. Le classi non corrispondono semplicemente a fasce di reddito o a
categorie occupazionali: come scrive Savage, le classi sono “cristallizzazioni
di vantaggi”: i marxisti direbbero che il reddito è solo un effetto dei
rapporti di produzione, e che confonderlo con le classi è un modo di scambiare
le cause per le conseguenze. L’enfasi sullo scollamento dell’individuo da
gruppi e strutture accomuna molte riflessioni, al punto da poter essere
considerata una vera e propria tendenza culturale del nostro tempo. Si direbbe
che faccia parte di un orientamento eterogeneo che, a partire almeno dagli anni
Ottanta, ha attaccato da ogni parte il concetto di classe. Quel che è
interessante notare, è che tali riserve non sono affatto una prerogativa
liberale o conservatrice. Fra i maggiori critici del concetto di classe troviamo
in prima linea i progressisti. Protagonisti di questo deflazionamento generale
del concetto di classe sono stati, a vario titolo e in modi diversi, il
femminismo, il post-marxismo, le filosofie post-moderne, nell’ambito di un
doppio movimento che va dall’arena politica all’accademia e viceversa. Dalle
classi, l’accento si è progressivamente spostato su categorie come
‘soggettività’, ‘identità’, ‘differenze’, contribuendo a ridisegnare il
vocabolario politico a disposizione nel senso di una politica delle identità.
Com’è noto, questo slittamento nella sensibilità pubblica dalla “politica delle
classi” ai ‘conflitti culturali’ ha preso il nome di “svolta culturale”: l’idea
che la categoria di classe fosse insufficiente si è progressivamente imposta,
per dare spazio ad analisi e riflessioni ispirate a categorie alternative. In
questo contesto, le teorie del riconoscimento hanno svolto un ruolo strategico
nel fornire un lessico alternativo, capace di reinterpretare la “grammatica
morale” (Honneth) dei conflitti in un modo che l’idea della lotta di classe non
riusciva più a rappresentare. L’idea di fondo è che le categorie economiche non
siano sufficienti: a essere ripartite in modo diseguale non sono soltanto le
risorse, ma anche il rispetto e la considerazione sociale. Honneth esponeva la
sua teoria in un libro molto fortunato, Lotta per il riconoscimento,
nello stesso anno – il 1992 – in cui il filosofo canadese Charles Taylor poneva
il concetto di riconoscimento al centro di una riflessione sul multiculturalismo
e sulle identità, anch’essa di grande risonanza. Attraverso due letture del
riconoscimento diverse fra loro – come bisogno umano universale il primo, come
rivendicazione culturale il secondo – l’idea di riconoscimento ha contribuito a
dare voce a istanze che premevano da tempo e rispetto alle quali il lessico
delle classi appariva inadeguato. In questo contesto, almeno due tipi di
discorso hanno finito per contendersi il terreno. Un tipo di discorso tende a
ridimensionare l’idea di classe o a squalificarla come un relitto
dell’“economicismo”. Il concetto di classe è considerato socialmente angusto e
politicamente superato. In generale, questo discorso definito a seconda dei
casi identitario o culturalista include uno spettro eterogeneo di posizioni,
che vanno idealmente dalla rivendicazione identitaria alla negazione di ogni
statuto di esistenza alle stesse identità – ridotte ad atti performativi – di
Judith Butler. Se la critica femminista ha mostrato che le diseguaglianze di
genere seguono una logica autonoma, irriducibile a quella di classe, i
post-marxisti hanno insistito sul carattere politicamente limitato dell’idea di
classe. A questo discorso se ne oppone un altro, che difende i diritti sociali
e insiste sul primato dei conflitti economici. Si potrebbe sintetizzare questa
posizione con il noto detto (attribuito a Sanguineti): “va bene la pornografia,
va bene il femminismo, ma torniamo alla lotta di classe”. Un po’ come dire,
‘torniamo alle cose serie’. La vecchia idea di una gerarchia fra questioni ‘strutturali’
e questioni ‘sovrastrutturali’ sembra riemergere nella forma di una
delegittimazione dei conflitti culturali o di una loro riduzione a conflitti di
classe in ultima istanza. Essi vengono derubricati alla sezione ‘cultura’ della
società, dove per cultura si intende qualcosa di politicamente irrilevante o
secondario. Nella sua versione più mediatica e popolare, l’idea è che si
debbano mettere da parte le questioni di genere, sessuali, culturali per
tornare a occuparsi dei ‘veri problemi’. A sostegno di questa tesi non mancano
letture banalizzanti e caricaturali, che accusano per esempio i difensori dei
diritti LGBT di complicità con il capitalismo mascherata da progressismo. Si
dice che questi darebbero una rappresentazione mercificata delle identità come
di qualcosa che si compra al supermercato, contribuendo ad asservire alla
logica del mercato quello che volevano emancipare. Judith Butler ha risposto
alle accuse di “culturalismo” con un saggio significativamente intitolato Merely
Cultural. Secondo Butler, il presupposto delle critiche è una discutibile
distinzione fra “vita materiale” e “vita culturale”, che risponderebbe a una
tattica della “sinistra egemonica” intesa a squalificare i nuovi movimenti
sociali. Dietro queste critiche vi sarebbe una forma di “conservatorismo
sociale e sessuale”. È interessante notare come ciascuno dei due discorsi
concorrenti tenda talora ad opporsi a quella che appare una rappresentazione
caricaturale dell’avversario, più che l’avversario in sé. I “culturalisti” attaccano
il presunto economicismo delle classi in un modo che tende a ignorare
deliberatamente gli sforzi fatti da molti di riattualizzare il concetto. Per
parte loro, i difensori dei diritti sociali non prendono sul serio l’idea che
l’esclusione dal riconoscimento sia politicamente rilevante e non può essere
derubricata a epifenomeno della lotta di classe. Squalificare come ‘non
politiche’ queste istanze fa il paio con la pretesa di detenere il monopolio
della ‘giusta rivendicazione’, e i confini di ciò che è legittimo considerare
politico diventano essi stessi una posta in gioco, come argomento da mobilitare
nell’agone o come titolo preventivo a prenderne parte. In questo quadro,
ciascuno si costruisce il nemico a immagine e somiglianza di ciò che è più congeniale
alle proprie intenzioni polemiche. A riportare costantemente il dibattito in un
cul de sac è la logica dicotomica di fondo, condivisa tanto dai
difensori dell’‘economico’ quanto dai partigiani del ‘culturale’ o come dicono
i francesi del ‘sociale’ e del ‘societale’. Rappresentandosi come mutuamente
alternativa l’una all’altra, ciascuna prospettiva non fa in realtà che
riprodurre la logica dell’avversario, riconducendo la ‘vera questione’ ora
all’uno ora all’altro polo del dualismo. L’idea che le lotte di classe e le
lotte per il riconoscimento possano essere dissociate, non solo le rende
entrambe politicamente vulnerabili, ma tende a trascurare la natura ambivalente
degli stessi fenomeni sociali. Il fatto, cioè, che la realtà non funziona per
compartimenti stagni. A completare il quadro è il gioco di reciproche
appropriazioni di categorie politicamente cariche, come riflesso del conflitto
intorno a cosa debba intendersi per ‘sinistra’. Se i difensori dei diritti
sociali accusano i “culturalisti” di prestare il fianco al capitalismo, e
quindi di credersi di sinistra perseguendo in realtà dei fini di destra, essi
stessi vengono a loro volta accusati di perseguire una visione conservatrice
della famiglia e della società nel delegittimare le lotte per il riconoscimento,
pur credendo di difendere un’interpretazione ‘più autentica’ della sinistra. Negli
ultimi anni, questa tendenza è stata messa in luce in contesti diversi. Si
pensi, per esempio, a quello che Nancy Fraser ha chiamato “neoliberalismo
progressista” (progressive neoliberalism)
per indicare la strumentalizzazione in senso conservatore di principi
egualitari, di cui il clintonismo è un esempio; o anche all’idea di
“femonazionalismo” proposta da Sara Farris per descrivere l’uso xenofobo di
categorie femministe e che ricorda quella di “omonazionalismo” proposta da Jasbir K. Puar per il discorso LGBT.
Questa curiosa forma di strabismo politico è peraltro all’origine di fenomeni
come il “rossobrunismo”, in cui il rimescolamento categoriale diventa oggetto
di esplicita rivendicazione e identificazione. Questi ibridi politici sono
possibili da che la politica di classe e la politica dell’identità hanno
divorziato. Il fatto che si possa difendere la parità di genere disancorandola
da preoccupazioni distributive, rende possibile un’interpretazione
individualistica e antiegualitaria di un’idea nata per essere inclusiva.
Difendere il “multiculturalismo” senza una consapevolezza circa la
subordinazione economica di gruppi sociali sulla base della stessa diversità
che si voleva valorizzare, significa sancire la perfetta, paradossale
compatibilità fra antirazzismo e classismo che abbiamo visto negli esempi di
Owen Jones e Bell Hooks. Il “culturalismo” da solo non ha i mezzi per
rispondere a questo cortocircuito. Prese da sole, le sue categorie sono
politicamente vulnerabili a interpretazioni di tipo escludente, compatibili con
un’idea di emancipazione “per pochi”. Senza una politica di classe, idee come
‘diversità’ e ‘non-discriminazione’, come ha scritto Nancy Fraser, sono
suscettibili di appropriazione indiscriminata. A sua volta, la politica di
classe da sola rischia di essere compatibile con una visione conservatrice
della società. Senza prendere sul serio le lotte per il riconoscimento, in
linea di principio nulla impedisce a un sostenitore della ‘lotta di classe’ e
dei diritti sociali di abbracciare una visione fortemente gerarchica dei sessi,
o di sostenere politiche economiche ispirate al principio «prima gli italiani».
A questa specie di lotta intestina del pensiero progressista fra le sue due
anime, occorre rispondere rifiutando la logica dicotomica di fondo che
concepisce i due discorsi come mutuamente esclusivi. Si tratta della soluzione
proposta da Nancy Fraser nel dibattito con Axel Honneth in Redistribution or Recognition? del
2003, e ben sintetizzata dallo slogan “no recognition without
redistribution”. Le lotte di classe e le lotte per il riconoscimento vanno
considerate insieme, sono “co-essenziali”. Tanto più che l’idea di una
staccionata fra l’‘economico’ e il ‘culturale’, che costituisce il presupposto
logico dell’intero dibattito, non funziona. Descrivere le classi, le identità o
gli status come rappresentative dell’uno o dell’altro dominio non rende
giustizia al fatto che il confine fra questi stessi domini appare difficile da
tracciare. La classe presenta una importante dimensione simbolica, culturale e
morale oltre che economica. Come ha scritto Annette Kuhn, “class is under
your skin” (la classe è sotto la pelle): la provenienza sociale delle
persone si manifesta nel loro modo di parlare, di vestirsi, di mangiare, di
stare fra gli altri. Dobbiamo anche a Bourdieu l’idea che i conflitti fra
classi non siano esclusivamente finalizzati a vantaggi economici, ma anche a
profitti simbolici. Già Richard Sennett e Jonathan Cobb in The Hidden Injuries of Class
avevano messo in luce la dimensione irriducibilmente ‘morale’ delle classi.
Queste e altre considerazioni rendono problematico ogni tentativo di attribuire
alle classi una natura esclusivamente economica. Quanto detto per la classe
vale anche per altre categorie generalmente considerate ‘culturali’ o
simboliche, come quella di ‘razza’ (da intendersi, ovviamente, non in senso
biologico), che oltre a rispondere a una logica di dominio ed esclusione
culturale, si lega a specifiche ingiustizie economiche – si pensi, per esempio,
ai lavori meno desiderati riservati ai migranti. A sua volta, sottolinea
Fraser, il genere si comporta come una categoria doppia, perché non descrive
soltanto forme di svalutazione simbolica delle donne, ma struttura anche la
divisione del lavoro, per esempio attribuendo alle donne l’intero carico del
lavoro di cura. Infine, il prestigio o lo status sociale degli individui è esso
stesso suscettibile di funzionare secondo una logica economica: le cosiddette
‘economie reputazionali’ dove l’approvazione sociale funziona come un capitale
da accumulare, come una forma di compensazione psicologica e simbolica
alternativa a quella materiale (di cui tuttavia non smentisce la logica di
fondo), sono esempi in tal senso eloquenti. La questione continua ad
attraversare il dibattito pubblico, con una destra che pretende di appropriarsi
delle questioni economiche mentre la sinistra sembra vivere una profonda crisi
d’identità. Ma in questa confusione è bene tenere a mente due cose: la prima è
che l’attenzione della nuova destra — alt-right o rossobruni che dire si voglia
— per le questioni ‘sociali’ appare perlopiù subordinata al fine più urgente e
realizzabile di combattere le rivendicazioni ‘societali’ relative al
genere e alla razza, e si squaglia come neve al sole al momento di farsi
politica concreta; la seconda è che l’esistenza stessa di una dicotomia tra
‘sociale’ e ‘societale’ è stata prodotta con precise finalità politiche e le
energie spese per riconfermarla potrebbero essere meglio investite nel
tentativo di tenere assieme queste due dimensioni.
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