La
parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
Giugno 2019
Parola e Saggio del
mese di Giugno 2019 sono dedicati al tema, sempre più drammaticamente cruciale,
della crisi ambientale. Il Saggio ne presenterà una lettura fortemente
politica, mentre la Parola si limita a farci meglio conoscere un termine,
entrato solo di recente nel linguaggio prima tecnico-scientifico e poi in
quello di suo comune. Lo abbiamo scelto non tanto per una sua particolare
rilevanza ma perché può fornire un interessante spunto di riflessione sul ruolo
della tecnologia nel processo dei cambiamenti climatici ed ambientali. Da una
parte: quanto può aver inciso in senso negativo, così come è stata
concretamente utilizzata e applicata, nell’aver in qualche modo contribuito a
crearli? Dall’altra:, proprio sulla base dell’esperienza concreta fin qui
verificatasi, può essere comunque ancora considerata uno strumento efficace per
fronteggiarli? La “Parola del mese” è……..
GEOINGEGNERIA
Geoingegneria = Nelle
scienze applicate con il termine geoingegneria
si designa l'applicazione delle conoscenze relative alle scienze geologiche all'ingegneria (geologia applicata), intesa come lo studio dell'influenza che alcuni fattori geologici
possono avere su un'opera di ingegneria. Si tratta di una sovrapposizione di
diversi ambiti ingegneristici e geologici: geologia, geologia applicata, ingegneria geotecnica, ingegneria ambientale……………
In effetti quindi con il termine geoigegneria si dovrebbe intendere l’applicazione
delle conoscenze geologiche sulle attività ingegneristiche, sia di
progettazione che di realizzazione. In realtà il termine si è ormai affermato
per indicare l’esatto contrario, ossia per indicare interventi ingegneristici
in grado di incidere sull’assetto geologico, inteso in senso lato, ed in
particolare quelli finalizzati a limitare se non a correggere gli effetti
negativi sull’ambiente delle attività antropiche. Questo utilizzo del termine è
utile per riflettere sul ruolo, positivo o negativo, condivisibile o
criticabile, della tecnologia in relazione ai cambiamenti climatici ed
ambientali- Per farlo presentiamo due articoli che, nel fornirci molti
chiarimenti utili a meglio comprendere cosa si debba intendere per geoingegneria, offrono elementi a sostegno di tesi di fatto contrapposte. Iniziamo con
un articolo tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”……………
In effetti quindi con il termine geoigegneria si dovrebbe intendere l’applicazione
delle conoscenze geologiche sulle attività ingegneristiche, sia di
progettazione che di realizzazione. In realtà il termine si è ormai affermato
per indicare l’esatto contrario, ossia per indicare interventi ingegneristici
in grado di incidere sull’assetto geologico, inteso in senso lato, ed in
particolare quelli finalizzati a limitare se non a correggere gli effetti
negativi sull’ambiente delle attività antropiche. Questo utilizzo del termine è
utile per riflettere sul ruolo, positivo o negativo, condivisibile o
criticabile, della tecnologia in relazione ai cambiamenti climatici ed
ambientali- Per farlo presentiamo due articoli che, nel fornirci molti
chiarimenti utili a meglio comprendere cosa si debba intendere per geoingegneria, offrono elementi a sostegno di tesi di fatto contrapposte. Iniziamo con
un articolo tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”……………
Basterà la tecnologia per salvarci dalla crisi climatica? Promesse e illusioni della geoingegneria.
Articolo di Alessio Giacometti (Sociologo)
Ricordo perfettamente come i miei nonni paterni, entrambi contadini,
reagivano alle improvvise grandinate estive che infuriavano sulla campagna. La
nonna sfilava da sotto il letto un rametto d’ulivo consacrato che si era
procurata in chiesa, la domenica delle palme. Spiluccava le foglie rinsecchite
una a una, le affastellava sul lastricato sotto al portico di casa e le
incendiava con un fiammifero. Con solennità salmodiava i tridui, che assieme al
fumo balsamico liberato dal minuscolo falò avrebbero dovuto acquietare l’ira
divina e placare, così, la tempesta. Il nonno invece, aspettava in silenzio che
lo scroscio sgonfiasse, dopodiché smurava impavido il crocifisso che tenevamo
in cucina e lo legava alla sella della bicicletta con un lungo spago bianco. Me
lo vedo ancora, sghembo sulla sua bici arrugginita, spedalare tra i filari con
il Cristo di legno sballottato alle sue spalle. Il nonno faceva così per
mostrare a Dio i danni che l’imprevedibilità climatica aveva causato al suo
raccolto, al suo lavoro, alla sua stirpe. I riti paleocattolici dei mei
progenitori appartenevano al lembo terminale di quello stadio mitico della
storia durante il quale gli esseri umani attribuivano agli dèi la stabilità e
la mutevolezza del clima. Come ebbe a dimostrare James Frazer ne Il ramo
d’oro (1915), avveniva a ogni latitudine culturale che alle calamità
naturali si tributasse un’origine metafisica: ovunque si credeva che il mondo
visibile non fosse altro che la rappresentazione di quello invisibile, regolato
dalle potenze insondabili del numinoso. Per migliaia, forse decine di migliaia
di anni l’apparato rituale delle religioni è stato l’unico dispositivo utile a
propiziarsi quelle forze arcane, a interferire con il regime delle piogge, a
piegare la volubilità climatica in favore della vita umana. In una parola, a
preservare la systasis, l’armonia fra il divino e il naturale. Rispetto
al tempo in cui i miei nonni praticavano il loro sciamanesimo naturale, la
comprensione fisica del mondo è diventata molto più profonda e diffusa, la
natura si è completamente dissolta nelle mani degli scienziati, e quei riti
dimenticati sono stati rimpiazzati dalle più moderne tecniche di geoingegneria che cominciano a essere
sperimentate per la manipolazione artificiale del clima. Nonostante di fondo vi
sia lo stesso fine – intervenire sull’ordine o sul disordine naturale – e la
stessa promessa di salvezza, il passaggio dalla teologia naturale
all’ambientalismo scientifico è irreversibile: nessuno più si metterebbe a
pregare di fronte a una grandinata anomala, o a un ghiacciaio che si scioglie.
Oggi quel ghiacciaio possiamo provare a ricongelarlo.
Il pianeta nuovo
Di geoingegneria si comincia a
parlare in termini non più fantascientifici solo nel 2011, dopo la COP17 sul
clima che si tenne a Durban, in Sudafrica. Da allora il termine designa la
scienza applicata che ingloba tutte le tecniche di manipolazione antropica e
consapevole degli equilibri climatici e ambientali. Il libro-guida per gli
appassionati avidi di approfondire la dottrina arriva nel 2017: Il pianeta nuovo. Come la
tecnologia cambierà il mondo di Oliver Morton (il Saggiatore), filosofo della scienza
e caporedattore dell’Economist. Secondo Morton, il presupposto teorico
su cui si fonda l’intera disciplina è che un taglio alle emissioni di CO₂,
benché necessario e inevitabile, non darà effetti abbastanza immediati e
dirimenti da mantenere il riscaldamento globale al di sotto del limite soglia
di due gradi entro la fine del secolo, come stabilito dagli accordi di Parigi
del 2015. Non c’è abbastanza tempo, in sostanza, per una conversione ambientale
“dolce”, per organizzarci collettivamente e abbandonare in blocco l’energia
fossile. Servono misure più radicali, proprie di una “scienza
prometeica” che sfidi gli dèi della
natura e rimetta in asse il piano inclinato della storia lungo cui sta
scivolando l’umanità. In fondo, spiega Morton, “è da secoli che gli esseri
umani interferiscono più o meno involontariamente con gli equilibri del pianeta
che li ospita: le trasformazioni subite dai mari, dai venti, dai suoli, dai
grandi cicli dell’azoto e del carbonio sono molto maggiori di quanto si pensi”.
La geoingegneria è solo lo sviluppo
prossimo e necessario di un processo che affonda nella storia radici antiche. Il
libro di Morton si configura dunque come un breviario al tempo stesso eccitante
e spaventevole di molte delle possibili soluzioni alla crisi ambientale che la geoingegneria ha proposto negli ultimi
anni:
· una
flotta di aerei che raggiunge la stratosfera per formare un “velo” di solfati
intorno al mondo e riflettere la luce del sole.· navi fabbrica-nubi che seminano nuclei di condensazione sopra gli oceani per ispessire e imbiancare le nuvole, rendendole più riflettenti
· fertilizzanti a base di ferro sparsi nei mari per rinfoltire la presenza di alghe avide di anidride carbonica
· speciali “lenzuola” plastiche che ricoprono i ghiacciai a rischio di scioglimento e i deserti troppo caldi.
· tecniche per catturare l’anidride carbonica emessa dagli impianti a energia fossile e immagazzinarla sotto terra.
In particolare, a solleticare la fantasia di Morton è soprattutto l’idea
“che così come immettiamo nell’atmosfera i gas serra che riscaldano il pianeta,
potremmo immettere nella stratosfera anche le particelle che lo raffreddano”.
L’intuizione non nasce dal nulla, ma da uno studio pionieristico condotto da un team di venticinque scienziati coordinati dal
fisico dell’Università di Washington Rob Wood, che già nel 2012 proponeva di
liberare nell’atmosfera aerosol di acqua marina per favorire la condensazione
di nuvole “artificiali” e schermare così il pianeta dall’irraggiamento solare. A
distanza di sette anni, il gruppo di ricerca dell’Università di Harvard diretto
da Frank Keutsch, Zhen Dai e David Keith è ormai pronto a testare il progetto
SCoPEx, il primo esperimento di
perturbazione climatica attraverso un’iniezione controllata di aerosol
stratosferico, che permetterà di studiare i rischi e le opportunità di
un’applicazione su larga scala. “Se tutto andrà secondo i piani”, ha scritto
Jeff Tollefson in un lungo articolo di presentazione dell’esperimento apparso su Science,
“il team di Harvard porterà per la prima volta la geoingegneria solare fuori dai laboratori”. Gli scienziati hanno
già assaporato un’anticipazione dei possibili effetti sul clima nel 1991,
quando un’eruzione del Monte Pinatubo nelle Filippine “liberò nella stratosfera
circa 20 milioni di tonnellate di diossido di zolfo”, spiega lo stesso
Tollerson. La nube generata “raffreddò il pianeta di circa mezzo grado
centigrado” per i successivi diciotto mesi, riportando la temperatura media
della Terra ai valori precedenti all’introduzione del motore a vapore. Da
quando il libro di Morton è stato pubblicato, la geoingegneria ha continuato a mobilitare la comunità scientifica
internazionale e a trovare ambiti di applicazione inediti, alimentandosi
dell’attenzione e degli investimenti privati di plurimiliardari del calibro di
Niklas Zennstrom, Richard Branson e Bill Gates – come nel caso del progetto
SCoPEx. Sguinzagliata la creatività immaginifica degli scienziati, sono
moltissime le ipotesi geoignegneristiche circolate negli ultimi anni. Alcune
rimangono fedeli all’idea di schermare le radiazioni solari, magari con enormi
parasoli posizionati sulla superficie terrestre o direttamente lanciati
in orbita. Altre guardano invece agli oceani, come la costruzione di metropoli galleggianti o
l’introduzione di microrobot natanti che ripuliscano l’acqua da batteri o da
altre sostanze inquinanti, già allo studio di
un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Intelligent Systems.
Nel 2013, l’oggi venticinquenne Boyan Slat ha invece messo a punto The Ocean Cleanup,
un sistema galleggiante per la rimozione passiva e su vasta scala dei frammenti
di plastica in sospensione negli oceani. Tra le possibili applicazioni della geoingegneria rientrano anche tutte le
misure tecnoscientifiche per fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai e il
conseguente innalzamento del livello dei mari. Nel settembre del 2018, un
gruppo di ricercatori coordinati da Michael Wolovick del Geophysical Fluid
Dynamics Laboratory dell’Università di Princeton, ha progettato due diversi piani
ingegneristici per frenare l’ice shelf del ghiacciaio di Thwaites, in
Antartide, che con una velocità di due chilometri
all’anno sta scivolando sul mare di Amundsen. Il primo piano di Wolovick e
colleghi prevede di puntellare quasi 120.000 chilometri quadrati del Thwaites
con degli enormi pilastri sottomarini, così da sostenere lo scivolamento del
ghiacciaio senza però proteggerlo dalle correnti calde sottostanti. La seconda
proposta, invece, suggerisce l’impiego di una barriera isolante che scorra
sotto la piattaforma di ghiaccio in modo da impedire all’acqua oceanica più
calda di eroderla dal fondo.Ancor più radicale è il progetto avanzato nel dicembre del 2016 dal team di Steven Desch dell’Arizona State
University, che prevede di ricongelare l’Artide mediante pompe azionate a vento
che spruzzino l’acqua marina al di sopra della calotta di ghiaccio. L’acqua
vaporizzata dovrebbe congelarsi al contatto con lo strato superficiale del
ghiacciaio, e aumentarne così lo spessore di circa un metro nel corso di un
intero inverno. “Al momento la sola strategia che abbiamo [per frenare il
riscaldamento globale] sembra essere quella di chiedere alle persone di
smettere di utilizzare combustibili fossili”, ha dichiarato Desch in un’intervista al Guardian. “È un’ottima idea, ma avremo bisogno di molto di
più per impedire la scomparsa del ghiaccio dal Mar Glaciale Artico”. Incredibilmente,
per salvare le comunità costiere dall’innalzamento di mari causato dallo
scioglimento dei ghiacciai, anche progetti avveniristici pensati con altre
finalità sono di recente rientrati nella sfera d’interesse della geoingegneria. È il caso del progetto Atlantropa, l’enorme diga sullo Stretto di Gibilterra che l’architetto tedesco Herman
Sörgel progettò nel 1928. Secondo Sörgel, l’opera avrebbe non solo rifornito
d’energia idroelettrica l’intero continente europeo, ma avrebbe anche abbassato
il livello del Mare Mediterraneo di 200 metri, facendo così emergere nuove
lingue di terra per l’agricoltura e per il collegamento diretto tra Europa e
Africa. L’idea del progetto, accantonata per quasi un secolo, è stata
recuperata in anni recenti per la realizzazione del ben più modesto
MOSE, la diga che una volta in
azione dovrebbe sigillare la laguna di Venezia e proteggere così la pianura
padana dall’innalzamento dell’Adriatico. Come mostrano i progetti di protezione
dall’aumento del livello dei mari o di ricongelamento dei ghiacciai, la geoingegneria non mira soltanto a
contenere il cambiamento climatico, ma cerca anche di intervenire direttamente
sul suo ampio spettro di conseguenze. Tra queste, la meglio documentata e forse
in più rapido svolgimento è quella che un team dell’Università di Stanford
guidato dal biologo Rodolfo Dirzo ha definito “defaunazione
dell’Antropocene”. Le attività
antropiche, infatti, non stanno soltanto deforestando il pianeta, ma anche
defaunandolo al ritmo vertiginoso di più di un terzo delle specie animali
portate a estinzione entro la fine del secolo, molte delle quali non ancora
classificate dagli scienziati. Cambiamento climatico, degrado degli habitat,
agricoltura intensiva e riduzione delle aree verdi compongono il groviglio di
concause all’origine di quella che Philip Hoare chiama la “Grande
Accelerazione” dell’estinzione, la
rarefazione della biodiversità animale che sta già cambiando in maniera irreversibile
gli ecosistemi naturali di ogni latitudine. Mentre i conservazionisti tendono a
concentrarsi principalmente sulla perdita della megafauna, la geoingegneria si è da tempo interessata
all’estinzione funzionale di molte specie di insetti: questi sono ancora
presenti negli ambienti di riferimento, ma talvolta in numero insufficiente per
svolgere i cosiddetti servizi “ecosistemici”. Come ha scritto Brooke Jarvis in
un lungo
reportage per il New York Times,
gli insetti non sono semplicemente degli indispensabili impollinatori, ma sono
anche alla base della catena alimentare e sono infaticabili riciclatori degli
ecosistemi, poiché concorrono alla decomposizione di escrementi, carcasse e di
ogni altra sostanza organica. “Le piccole cose che fanno funzionare il mondo
naturale”, direbbe Edward O. Wilson. Negli ultimi anni, ai dati frammentari
raccolti dai naturalisti amatoriali si sono aggiunte le evidenze degli
scienziati ad attestare l’apocalisse degli insetti: questi stanno
estinguendosi a una velocità otto volte maggiore rispetto a mammiferi, rettili
e uccelli. “Un intero mondo di insetti [sta] scomparendo”, commenta Brooke
Jarvis, “e questa perdita [può] influire sulla vita del pianeta in modi
imprevedibili”, con conseguenze drammatiche anche per la vita umana. Basti
pensare che il 75% delle colture alimentari del mondo richiede
un’impollinazione entomogama, ovvero condotta attraverso il trasporto di
polline da parte degli insetti. Ecco che dove non è possibile l’azione del
vento a sostituire l’entomofilia, diviene necessario studiare soluzioni
alternative. In Baviera si è da poco tenuto un referendum consultivo per salvare
le api con la riduzione dei
trattamenti chimici in agricoltura, ma al tempo stesso frotte di apicoltori
bavaresi si stanno specializzando in servizi di impollinazione a pagamento per
gli agricoltori. In Cina, nella valle di Maoxian, il declino del numero di api
è stato compensato dall’impiego di impollinatori umani che, armati di cotton
fioc, attraversano le coltivazioni di alberi da frutto per propagare il polline
di fiore in fiore. In Giappone, invece, l’Istituto nazionale di scienze e
tecnologie industriali avanzate di Tsukuba sta lavorando a una soluzione
geoingegneristica: sciami di droni grandi come colibrì che, grazie al Gps e all’intelligenza
artificiale, in futuro potranno volare autonomamente e sostituire gli insetti
impollinatori una volta che saranno definitivamente scomparsi. Torna alla mente
Teodora, la città invisibile di Calvino, “cimitero del regno animale” in cui
“l’uomo [avrà] finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso
sconvolto”. L’ipotesi di rimpiazzare gli animali a rischio di estinzione con
robot meccanici non è la sola a essere stata formulata nel fertile alveo della geoigegneria. Il controverso genetista
dell’Università di Harvard George Church, ad esempio, lavora da anni a una
soluzione opposta e quanto mai dibattuta: riportare in vita le specie estinte.
Il discusso movimento da lui fondato conta oggi una comunità di ricercatori da
ogni angolo del globo e impegnati nella “de-estinzione” di animali oramai scomparsi in tempi remoti o recenti come il piccione
migratore, l’uro eurasiatico, lo stambecco dei Pirenei e il banteng di Java. Church,
in particolare,
è convinto di poter sfruttare
congiuntamente le tecnologie del Multiplex Automated Genome Engineering,
del CRISPR/Cas9 e degli uteri artificiali per riportare in vita dal genoma
antico il mammut lanoso, che popolava la steppa siberiana fino a 12.000 anni
fa, ai tempi dell’ultima era glaciale. Stando a quanto sostiene Church, la
reintroduzione del mammut nel suo habitat originario non sarebbe un vezzo
scientifico, ma aiuterebbe piuttosto a prevenire la cosiddetta “bomba
degli idrati di metano”, l’improvviso
e incontrollato rilascio di gas serra ora intrappolati nei ghiacciai e nel
permafrost. La presenza dei mammut dovrebbe infatti limitare la proliferazione
boschiva in favore della steppa, che vanta una maggiore capacità di riflettere
i raggi solari e di far penetrare il congelamento stagionale più in profondità.
Qualcosa di analogo si sta già testando nella Jacuzia russa al Pleistocene Park, una riserva siberiana creata nel 1996 dal geofisico Sergey Zimov per
ripopolare la steppa con cavalli, renne e buoi muschiati allo stato brado. In
un suo recente
articolo ripreso da Internazionale,
Philip Ball faceva notare come, a cinquant’anni esatti dall’allunaggio del ‘69,
l’entusiasmo per la corsa spaziale sia scemato velocemente, e con esso
l’illusione che l’umanità avrebbe presto colonizzato altri pianeti. “Andare
nello spazio ci ha fatto capire perché la Terra è così speciale”, scrive Ball.
Nello spazio “non abbiamo ancora trovato un ambiente in cui avremmo la minima
possibilità di creare un’alternativa a lungo termine del nostro pianeta, e nel
sistema solare non c’è sicuramente”. Preso coscienza dell’inospitalità degli
altri pianeti a un’eventuale colonizzazione umana, la geoingegneria spaziale ha invertito l’ordine del problema: non è
l’umanità a dover abbandonare la Terra, ma è la produzione industriale a dover
essere mandata in orbita. L’idea si è diffusa negli ultimi anni per iniziativa
di Biran Cox, astrofisico dell’Università di Manchester convinto che per
salvare la Terra dovremmo trasformarla in un pianeta esclusivamente
“residenziale”. Entro la fine dell’anno, Cox avrà il piacere di vedere i primi
esperimenti geoingegneristici per la messa in orbita delle fabbriche
“extraterrestri”, ovvero piccoli satelliti
comandati dalla Terra per lo studio della produzione meccanica in assenza di
gravità. Qualora la migrazione industriale nello spazio si rivelasse
impraticabile, potremmo comunque provare con la produzione agricola, come
peraltro sta già avvenendo. Il 3 gennaio scorso, la missione cinese Chang’e 4
ha portato sul lato nascosto della Luna semi di cotone, patate, lievito e uova
di moscerini, all’interno di una capsula sigillata con atmosfera, temperatura,
umidità e quantità di luce controllate. Dodici giorni dopo, i semi di cotone
sono germogliati – anche se le gemme sono presto avvizzite – in quello che è il primo esperimento di crescita sulla Luna di organismi biologici per l’alimentazione umana. Tra
il 2014 e il 2015, semi di lattuga e di orzo erano già germinati con successo
in apposite nicchie illuminate a led a bordo della Stazione spaziale
internazionale. Nel 2017, invece, l’International
Potato Center di Lima aveva lanciato
una serie di esperimenti pioneristici per capire se fosse possibile coltivare
patate su Marte, mentre a inizio 2018 un gruppo di ricercatori coordinati
dall’agenzia spaziale tedesca è riuscito a coltivare vegetali in Antartide
grazie alla serra denominata
EDEN ISS, che in futuro si ritiene
possa essere impiegata per la creazione di orti marziani o lunari. Anche i miei
nonni coltivavano un orto, qui, sulla Terra. I periodi di semina li sceglievano
in funzione dei cicli lunari: “mai piantare l’insalata con la luna che cresce”,
mi insegnavano, “altrimenti va subito in semenza”. Per loro sarebbe stato
inconcepibile un orto coltivato nello spazio, senza terra né letame. In parte
lo è anche per me, che sono cresciuto imbevendomi del misticismo reverente con
cui loro abitavano il mondo naturale. L’idea
che per salvarci dalla crisi ambientale da noi stessi generata dovremo sparare
aerosol nell’atmosfera, ricongelare i ghiacciai, usare droni impollinatori,
de-estinguere i mammut e coltivare orti lunari, entusiasma certo i tecnofili,
ma lascia molti altri perplessi. Come nota lo stesso Morton ne Il pianeta
nuovo, il pensiero ecologista contemporaneo è attraversato proprio dalla
frattura irrisolvibile tra gli ambientalisti scientifici che vorrebbero
intervenire sul clima per rimetterlo a posto e i teologi naturali che
toccherebbero la natura meno possibile, limitandosi alla decrescita,
all’agricoltura biologica, al vegetarianismo e alla riforestazione del pianeta.
Le contrapposizione tra questi due atteggiamenti fondamentali di fronte alla
natura – controllarne la fisica o rispettarne la metafisica – è però sviante,
poiché la prospettiva scientifica sui cambiamenti climatici domina oggi
clamorosamente quella teologica. I tecnoentusiasti riconoscono così che abbiamo
riscaldato il pianeta ma possiamo ora provare a raffreddarlo, che abbiamo
scongelato i ghiacciai e tuttavia c’è margine per ricongelarli, che abbiamo
consumato la biodiversità ma potremo un giorno riuscire a de-estinguerla:
nell’immane tentativo storico di fare ordine, la tecnoscienza ha prodotto
un’interminabile scia di disordine, che ora possiamo rimediare soltanto con
ulteriore ricorso tecnico. Di fronte al collasso del sistema climatico non c’è
nient’altro che possa sostituirla, dunque il suo fallimento non sarebbe una
confutazione definitiva, ma la sollecitazione ad auto-perfezionarsi
all’infinito. Alimentandosi degli errori che genera, la tecnoscienza è eterna
per sua stessa struttura. Non possiamo pensarcene al di fuori, non ci è
possibile mettere in dubbio l’idea di sistemare la natura con la stessa
razionalità con cui l’abbiamo devastata. Non possiamo più dubitare che come
abbiamo sconvolto l’ordine climatico nella tecnica, nella tecnica lo
risolveremo. Resta tuttavia ancora da chiarire che senso abbia salvare questa
umanità, tracotante e smisurata, che non ama la natura e non la rispetta, che
non la prega e non la riverisce. Un’umanità forse troppo intelligente per gli
standard naturali, mai dubitosa, sempre pronta a intervenire sulle geometrie
del mondo pur di non correggere se stessa.
Per meglio valutare le opinioni di Oliver Morton, ampiamente citato
nell’articolo precedente, pubblichiamo una sua breve intervista……………
“La geoingegneria salverà il mondo”
Intervista
al capo redattore de l’Economist (reperibile nel sito on-line “L’inkiesta”) in libreria con “Il
pianeta nuovo”, un saggio su come la tecnologia può migliorare
l’ambiente…………
Oliver Morton è a Torino, dall’altro capo del telefono, nelle prime ore di una fugace tappa italiana per presentare il suo libro “Il pianeta nuovo. Come la tecnologia trasformerà il mondo” (Il Saggiatore, 2017) dedicato alla geoingegneria. Argomento tanto importante quanto complesso che Morton valuta nel suo essere contemporaneamente caporedattore dell’Economist e divulgatore scientifico con una laurea in storia e filosofia della scienza:
Il 2006 è proprio l’anno del documentario di Al Gore “Una scomoda
verità”. Si parlava solo di riscaldamento climatico, in quel periodo…
Se ne parlava male.
In che senso?
Nel senso che c’erano due
ideologie. Quella di chi pensava che noi fossimo gli assoluti padroni della
natura e quella di chi pensava che dovessimo toccarla il meno possibile. A cui
aggiungo due corollari: che i primi ritenevano difficilissimo, quasi
impossibile, tornare indietro, ridurre le emissioni, consumare meno energia. I
secondi, invece, la ritenevano una cosa estremamente semplice.
Chi aveva ragione?
Nessuno dei due, a mio
avviso. Io non credo che l’uomo sia il padrone assoluto della Terra. Ma credo
anche che con le tecnologie e il sapere che ha a disposizione non possa e non
debba toccarla il meno possibile.
Lei non crede agli accordi di Kyoto, Parigi e Marrakesh per il
taglio delle emissioni in atmosfera?
Ci
credo, funziona, ma non è un processo abbastanza veloce. Ci sono troppi
problemi affinché lo sia.
Ad esempio?
Ad esempio, è un problema
immettere le energie rinnovabili nel sistema elettrico.
Perché?
Perché
abbiamo bisogno di incentivi, che finiscono per drogare il mercato. Nei mercati
energetici normali, il prezzo dipende dal costo marginale della produzione.
Ora, con gli incentivi e con gli investimenti a pioggia sulle rinnovabili, il
costo marginale è quasi nullo, così come il prezzo. Cosa che comincia a
diventare un problema per chi investe sulle rinnovabili, perché rischia di non
guadagnarci nulla.
Lei teme che scoppi la bolla delle rinnovabili, in pratica?
E sarebbe un disastro,
nel momento in cui bisogna fare la rivoluzione energetica. Credo vada anche
rivisto il modo in cui si investe nell’energia, tra le altre cose. E il modo in
cui si distribuisce: per permettere un vero sviluppo delle fonti rinnovabili
dovremmo cambiare radicalmente tutta la nostra infrastruttura energetica e
serve una generazione, per farlo. Non abbiamo così tanto tempo.
Servirebbe un clamoroso investimento pubblico?
Sì, ma è l’evidenza
empirica che dimostra come sia molto difficile implementare e far digerire
politiche che favoriscano il ricorso alle rinnovabili e l’abbandono dei
combustibili fossili. Intendiamoci, sono tutti problemi che si possono
superare, ma se vuoi avere una reale possibilità di non far aumentare la
temperatura del pianeta di almeno due gradi, il ritmo con cui stiamo tagliando
le emissioni oggi, è troppo lento. Serve un sacco di tempo, e noi non ne
abbiamo abbastanza. E non ci sono ancora modi per rendere questa strategia più
veloce.
È a questo punto che entra in gioco la geoingegneria…
In realtà, il fatto che
la geoingegneria non venga presa in
seria considerazione è un pezzo del problema. Eppure stiamo già facendo della
geo ingegneria climatica.
In che senso?
Stiamo alterando il clima
in peggio, immettendo troppa anidride carbonica in atmosfera. Il problema semmai
è che lo stiamo facendo inconsapevolmente. La geo ingegneria che ho in mente
io, quella che tante piccole ricerche di tanti scienziati in gamba stanno
provando a costruire, dimostra invece che l’intervento dell’uomo potrebbe
davvero aiutare il pianeta a cambiare in meglio.
Un esempio?
Dopo un eruzione
vulcanica, diverse piccole particelle di zolfo vengono rilasciate nella
stratosfera, la regione atmosferica compresa tra i 15 e i 60 chilometri dal
suolo. Sono particelle che cambiano colore al tramonto, perché riflettono una
piccola parte della luce solare. Cosa più importante, raffreddano il pianeta.
Quindi?
L’idea è che così come immettiamo nell’atmosfera i gas serra che riscaldano il
pianeta, potremmo immettere nella stratosfera anche le particelle che lo
raffreddano, con un pallone aerostatico o con aereo. Tutte le ricerche fatte
sinora dimostrano che non sono dannose e possono abbassare sensibilmente la
temperature terrestre. Perché non farlo?
Aiuto, queste sono davvero le scie chimiche…
Non sono scie chimiche e
non le chiamerò mai così!
Ok, diciamola meglio: assomigliano molto all’oggetto delle teorie
cospirazioniste sulle scie chimiche…
Le teorie sulle scie chimiche sono curiose perché hanno creato una cospirazione
sulle basi di qualcosa che non esiste. E la cosa buffa è che quelle teorie
dicono che le scie chimiche stanno peggiorando il clima, mentre tutte le
ricerche sulla geoingegneria si
fondano sull’idea di migliorarlo.
Come mai secondo lei?
Loro vedono qualcosa di
sbagliato in terra - l’inquinamento, l’aumento di alcune patologie - e qualcosa
di sbagliato in cielo - quell’aereo ha una scia, questo no - e le mettono
assieme. In questo modo hanno inquinato il dibattito, però. E adesso per quel
poco che se ne parla, la geoingegneria
è vista come una cospirazione globale. Capisce perché mi da fastidio parlare di
scie chimiche?
Parliamo d’altro, allora: non è un po’ un azzardo morale., la geoingegneria?
Inquiniamo quanto ci pare, tanto poi arriva l’aereo nella stratosfera a pulire
tutto…
L’idea della geoingenieria, non è quella di trovare
una via alternativa, ma una via complementare per ridurre ulteriormente il
rischio. È un complemento, non una sostituzione.
Lei nel libro parla anche dei rischi della geoingegneria…
Non parlo di rischi
concreti, ma di rischi potenziali. La scienza che ha enormi ambizioni, che
supera i propri confini si misura con l’ignoto. Alcuni l’hanno definita scienza
prometeica e io mi sono appropriato di questa definizione: più si punta al
sole, più c’è il rischio di scottarsi. Anche perché non parliamo solo di
solfati nella stratosfera. Parliamo di navi che fabbrichino nubi più bianche
per renderle più riflettenti, di fertilizzanti a base di ferro che
rinfoltiscano la flora oceanica di alghe avide di anidride carbonica, di coperte
di plastica che ricoprono i ghiacciai che si sciolgono.
Ecco, ad esempio: diffondere solfati nella stratosfera che
problemi può provocare?
C’è chi dice sarà dannoso per lo strato dell’ozono, chi dice che aumenterà l’umidità globale. Bisogna studiare, fare ricerca: alcuni guardano solo le ambizioni, altri solo i rischi. Andrebbero visti entrambi, come con si fa - o si dovrebbe fare - con gli Ogm.
C’è chi dice sarà dannoso per lo strato dell’ozono, chi dice che aumenterà l’umidità globale. Bisogna studiare, fare ricerca: alcuni guardano solo le ambizioni, altri solo i rischi. Andrebbero visti entrambi, come con si fa - o si dovrebbe fare - con gli Ogm.
C’è pure un problema politico: la stratosfera è di tutti. Chi può
decidere cosa diffondervi?
Dobbiamo trovare un modo per creare istituzioni democratiche in grado di prendersi questa responsabilità. Non può essere l’incapacità a costruire un quadro istituzionale la scusa per non occuparsi del futuro del pianeta.
Dobbiamo trovare un modo per creare istituzioni democratiche in grado di prendersi questa responsabilità. Non può essere l’incapacità a costruire un quadro istituzionale la scusa per non occuparsi del futuro del pianeta.
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