lunedì 1 luglio 2019

La Parola del mese - Luglio 2019


La parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


LUGLIO 2019

Anche questa volta una tematica comune collega la “Parola” ed il “Saggio” del mese. In effetti è stato quest’ultimo che ha “imposto” una parola che in qualche modo aprisse la strada all’argomento, complesso, che tratta. La scelta è caduta su un termine al contrario tutt’altro che complicato o di sporadico utilizzo. Non si tratta quindi di scoprire o di esplorare una parola inconsueta, ma semmai di raccogliere l’invito, che essa comunque emana, di riflettere su un importante aspetto di fondo del nostro vivere collettivo. Siamo così tanto concentrati sulle singole questioni che lo caratterizzano da dimenticare che tutte queste problematiche trovano proprio in essa non solo il contesto in cui avvengono, ma la loro stessa ragione di fondo, la spiegazione ultima. Tanto la parola appare semplice tanto non lo sono tutte le possibili ricadute che da essa derivano. La parola del mese è………..

Socialità
(dal vocabolario on line Treccani) socialità sostantivo femminile. [dal latino. socialĭtas -atis «socievolezza», derivato di socialis «sociale].

1. Convivenza sociale; tendenza degli individui alla convivenza sociale.

2. Con significato più ristretto, l’insieme dei rapporti che insorgono tra gli individui che fanno parte di una società o di un ambiente determinato; la coscienza, generale o individuale, di questi rapporti e dei diritti e dei doveri che essi comportano

3. In fitogeografia, è il modo di raggrupparsi degli individui di una data specie in una cenosi (detta anche sociabilità): si esprime con una scala di 5 gradi (1 = individui isolati; 2 = a gruppi o cespi; 3 = a piccole macchie o cuscinetti; 4 = in piccole colonie o in grandi macchie o tappeti; 5 = in grandi colonie); il grado di socialità dipende in grande misura dalle condizioni locali, che possono essere più o meno favorevoli alle singole specie.

Sono davvero infinite le riflessioni attorno a questo termine, al suo significato, alle sue implicazioni ad esempio in campo politico, economico, sociologico, filosofico, psicologico, tanto da rendere impossibile in questo spazio un suo approfondimento per quanto ristretto. Ci limitiamo qui ad un sintetico, molto sintetico, riassunto della sua costruzione “filosofica”, attraverso le idee di alcuni dei pensatori che di più hanno riflettuto sul concetto di socialità, per coglierne l’evoluzione ed il suo intreccio con i termini, collegati, di socievolezza e società. Ci fermiamo comunque alle soglie della contemporaneità quando il concetto di socialità inizia a misurarsi con un contesto tecnologico e geopolitico che, come abbiamo potuto constatare in alcune delle nostre iniziative dello scorso programma 2018-2019, sembra influire su di esso modificandolo in non poche delle sue caratteristiche………

Tracce e spunti dall’Enciclopedia filosofica on line Treccani ……..I concetti di socialità e di società si distinguono soltanto assai tardi da quello di Stato e, più in generale, di politica. Il mondo antico comprende nell’unico concetto del πολιτικῶς ξῆν il «vivere socialmente» e il «vivere politicamente»: non emerge ancora il problema della distinzione tra legami sociali e legami statali.

Aristotele e il pensiero classico = Così, si riferiscono contemporaneamente alla socialità e allo Stato le riflessioni di Aristotele che considera la dimensione politico-sociale come pertinente «per natura» all’uomo. Analoga è anche l’impostazione di coloro (sofisti, cinici, epicurei) che invece considerano la socialità risultante da una convenzione che altera l’originario e naturale stato dell’umanità. Un modello diverso è invece rappresentato dall’ideale stoico del ‘cosmopolitismo’ (inteso come la comunità dell’intero genere umano), poi ripreso da Cicerone. Tale ideale consente infatti di dissociare l’aspetto sociale da quello statuale, e quindi di considerare la società come indipendente dall’organizzazione politica.

Il pensiero medoevale e rinascimentale = L’impostazione aristotelica continua comunque a segnare la riflessione politica medievale e rinascimentale fino al Seicento. Ancora per Grozio (1583-1645) ’uomo è «per natura» un essere razionale e sociale, cioè atto a vivere in socialità, ma non in un qualsiasi raggruppamento bensì in una società razionalmente organizzata, cioè la civitas, ossia la società civile o politica, termini sinonimi nel linguaggio dei giusnaturalisti.

Le basi della socialità moderna = Per Thomas Hobbes (1588-1651), il primo a contestare Aristotele, l’uomo non è socievole per natura, ma lo diventa in seguito a un ragionamento e a un calcolo di vantaggi: una socialità pacifica offre infatti all’individuo le maggiori opportunità di sopravvivenza. L’uomo è invece per natura «lupo per l’altro uomo», un essere egoisticamente concentrato su sé stesso, spinto da pulsioni aggressive e competitive. La socialità è quindi una costruzione artificiale, che nasce da un atto volontario, attraverso un contratto che tramite la sottomissione a un potere centrale dà origine alla vita sociale e politica, e alla pace. Dunque, per Hobbes società e Stato coincidono, non esiste socializzazione fuori dallo Stato e se si dissolve lo Stato – per esempio in caso di guerra civile – si dissolve anche la socialità e gli individui tornano nello stato di natura.  E’ soprattutto John Locke (1632-1704)  che mette in luce come nello stato di natura (almeno in una prima fase), e dunque prima di ogni forma di patto, esista già una vita sociale: l’uomo naturale conosce infatti quelle forme di associazione (uomo-donna, padre-figli e padrone-servo) che sono comprese nell’istituto della «famiglia», esiste la proprietà privata fondata sul lavoro, sono possibili commerci, scambi e, una volta introdotta la moneta, anche l’accumulazione di ricchezza. Per Locke, che critica lo stato di natura di Hobbes, la discriminante tra stato di natura e socialità politica non è quindi data dall’assenza o presenza di forme di vita associata, bensì dall’assenza o presenza di un’autorità politica e di tribunali, cioè di un potere centrale in grado di dirimere le controversie e far rispettare le leggi. Lo stato naturale si delinea così nelle pagine dei giusnaturalisti come il luogo dei rapporti non politici, mediati da legami familiari, oppure di interesse e di reciproco aiuto. Quindi rispetto a Hobbes – di cui pure viene recuperata quella concezione individualistica della società che, affermata in polemica con Aristotele, avrebbe poi caratterizzato il pensiero moderno, dalle teorie politiche a quelle economiche – Locke segna la scoperta di una sfera di rapporti tra gli uomini non caratterizzata da legami politici. Inoltre lo stato di natura precedente la socialità politica è già uno stato morale. L’individuo appare infatti già titolare di diritti innati e inalienabili, che egli non deriva dalla socialità e quindi dal rapporto storico con gli altri, ma dalla sua spiritualità e razionalità. A tale condizione l’istituzione della società civile mediante il contratto non aggiunge nulla se non la legge positiva che garantisce e rende sicuro l’esercizio di quei diritti naturali che l’uomo già possiede, ma che nella condizione naturale sono costantemente esposti alla violenza e al sopruso. La socialità quindi non si presenta come un fine, ma come un semplice mezzo per difendere, con la forza comune, la persona e i beni di ogni singolo associato.  Profondamente diversa è la posizione di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Mentre per Hobbes lo stato di natura si oppone alla società civile in Rousseau questo significato si disarticola, la condizione naturale dell’uomo si presenta come un originario stato di innocenza ma di semi-bestialità, e la società politica o Stato arriva alla fine di un lungo processo di snaturamento e di civilizzazione, che è nello stesso tempo un processo di corruzione e di decadenza morale. L’uomo naturale, inconsapevole e felice, non è un soggetto morale né un essere razionale, bensì una creatura solitaria che non conosce né desidera la socialità perché autonomo e autosufficiente. Il bisogno (collegato a eventi casuali, quali aumento demografico, mutamenti climatici, calamità naturali) lo spinge a cercare gli altri e a diventare un essere socievole e razionale, capace di linguaggio. La società civile si sviluppa così attraverso una serie di passaggi, trasformazioni, crisi, che portano gli uomini a intrecciare rapporti, commerci e interessi. È dunque soltanto la socialità che fa «di un animale stupido e limitato un essere intelligente e un uomo».  La società politica si presenta così solo alla fine di un complesso processo di incivilimento, e la sua storia è anche la storia della caduta dell’uomo. Di qui la necessità di un nuovo contratto sociale che ponga le basi di una nuova socialità politica. Nei suoi scritti politici e di filosofia della storia, Immanuel Kant (1724-1804) sottolinea come l’uomo sia spinto verso la socialità da tendenze diverse e opposte: «L’uomo ha un’inclinazione ad associarsi perché egli nello stato di socialità si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, perché ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa che egli deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri». Tuttavia proprio questo conflitto di tendenze, questa «insocievole socievolezza», viene indicata da Kant come uno dei più potenti fattori di sviluppo storico e di progresso perché essa eccita le energie dell’uomo, lo induce a vincere la sua inclinazione alla pigrizia e lo stimola a sviluppare tutte le sue capacità. È necessario però, affinché questa «insocievole socievolezza» dia tutti i propri frutti, che essa sia disciplinata da regole che ne assicurino il funzionamento: occorre, cioè, «una società civile che faccia valere universalmente il diritto». Solo all’interno della società civile regolata da «leggi esterne» l’antagonismo degli individui può realizzarsi in modo tale che la libertà di ognuno possa coesistere con la libertà di tutti gli altri.  Chi contribuisce soprattutto a distinguere il concetto di società da quello di Stato è Friedrich Hegel (1770-1831) che subordina il primo al secondo, considerando la società civile/ borghese come una fase imperfetta o preparatoria dello Stato. Nel sistema hegeliano lo spirito oggettivo (che segue lo spirito soggettivo e precede lo spirito assoluto) è distinto nei tre momenti del diritto, della moralità e dell’eticità. Questa, a sua volta, si articola nei tre momenti della famiglia, della società civile e dello Stato. La società civile costituisce quindi il passaggio intermedio del processo dialettico tramite il quale la «sostanza etica» sale, nella sua realizzazione, dall’«immediatezza naturale» della famiglia alla «consapevolezza» dello Stato. Anch’essa si articola in tre momenti: sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia, e polizia e corporazione (cioè gli organi che si occupano della mediazione degli interessi particolari). dunque la  socialità è qualcosa di superiore alla famiglia, ma non è ancora quella forma di eticità pienamente dispiegata che è lo Stato, il quale riassume in sé e supera le precedenti forme della socievolezza dell’uomo. In particolare la sociatà civile rappresenta il momento in cui si configurano i rapporti economici, nati dalla necessità di soddisfare i bisogni mediante il lavoro, le manifatture e i commerci: essa si articola in diverse classi sociali che rappresentano il sistema dei bisogni.  Karl Marx (1818-1883) conserva la concezione hegeliana della società civile, ma capovolge il rapporto con lo Stato: famiglia e società civile non sono sfere derivate dallo Stato, poste e create da esso, ma sono i presupposti dello Stato. Quest’ultimo non può essere concepito idealisticamente come «realtà dell’idea etica», bensì come il complesso delle leggi e degli apparati che tengono insieme i rapporti antagonistici propri della socialità. Qui ognuno persegue il proprio interesse indipendentemente da tutti gli altri e in contrasto con tutti gli altri. Concorrenza, sfruttamento, disuguaglianza caratterizzano la società civile/borghese. Lo Stato, mentre garantisce il funzionamento dei meccanismi di riproduzione della socialità, costituisce una sfera illusoria, in cui tutti sono uguali come cittadini (mentre, in realtà, tutti sono diseguali in quanto membri della società civile). Sicché per Marx società civile/borghese e Stato devono essere soppressi, e si deve dar vita a una comunità di liberi e di uguali, che si autogovernano e regolano le forze produttive da essi create, senza che essi debbano sdoppiarsi più nel «cielo» dello Stato e nella «realtà» terrena della società civile.

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