La
parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
LUGLIO
2019
Anche questa volta una
tematica comune collega la “Parola” ed il “Saggio” del mese. In effetti è stato
quest’ultimo che ha “imposto” una parola che in qualche modo aprisse la strada
all’argomento, complesso, che tratta. La scelta è caduta su un termine al
contrario tutt’altro che complicato o di sporadico utilizzo. Non si tratta
quindi di scoprire o di esplorare una parola inconsueta, ma semmai di
raccogliere l’invito, che essa comunque emana, di riflettere su un importante aspetto
di fondo del nostro vivere collettivo. Siamo così tanto concentrati sulle
singole questioni che lo caratterizzano da dimenticare che tutte queste
problematiche trovano proprio in essa non solo il contesto in cui avvengono, ma
la loro stessa ragione di fondo, la spiegazione ultima. Tanto la parola appare
semplice tanto non lo sono tutte le possibili ricadute che da essa derivano. La
parola del mese è………..
Socialità
1.
Convivenza sociale; tendenza degli individui alla convivenza sociale.
2. Con significato
più ristretto, l’insieme dei rapporti che insorgono tra gli individui che fanno
parte di una società o di un ambiente determinato; la coscienza, generale o
individuale, di questi rapporti e dei diritti e dei doveri che essi comportano
3. In
fitogeografia, è il modo di raggrupparsi degli individui di una data specie in
una cenosi (detta anche sociabilità): si esprime con una scala di 5
gradi (1 = individui isolati; 2 = a gruppi o cespi; 3 = a piccole macchie o
cuscinetti; 4 = in piccole colonie o in grandi macchie o tappeti; 5 = in grandi
colonie); il grado di socialità dipende in grande misura dalle condizioni
locali, che possono essere più o meno favorevoli alle singole specie.
Sono davvero infinite le riflessioni attorno a questo termine,
al suo significato, alle sue implicazioni ad esempio in campo politico,
economico, sociologico, filosofico, psicologico, tanto da rendere impossibile in questo spazio un suo approfondimento per quanto ristretto. Ci limitiamo qui ad un sintetico, molto
sintetico, riassunto della sua costruzione “filosofica”, attraverso le idee di alcuni
dei pensatori che di più hanno riflettuto sul concetto di socialità, per
coglierne l’evoluzione ed il suo intreccio con i termini, collegati, di
socievolezza e società. Ci fermiamo comunque alle soglie della contemporaneità
quando il concetto di socialità inizia a misurarsi con un contesto tecnologico e geopolitico che, come abbiamo potuto constatare in alcune delle nostre iniziative
dello scorso programma 2018-2019, sembra influire su di esso modificandolo in
non poche delle sue caratteristiche………
Tracce e spunti dall’Enciclopedia
filosofica on line Treccani ……..I
concetti di socialità e di società si distinguono soltanto assai tardi da
quello di Stato e, più in generale, di politica. Il mondo antico comprende
nell’unico concetto del πολιτικῶς ξῆν il «vivere socialmente» e il «vivere
politicamente»: non emerge ancora il problema della distinzione tra legami sociali
e legami statali.
Aristotele e il pensiero
classico = Così,
si riferiscono contemporaneamente alla socialità e allo Stato le riflessioni di
Aristotele che considera la
dimensione politico-sociale come pertinente «per natura» all’uomo. Analoga è
anche l’impostazione di coloro (sofisti, cinici, epicurei) che invece
considerano la socialità risultante da una convenzione che altera l’originario
e naturale stato dell’umanità. Un modello diverso è invece rappresentato
dall’ideale stoico del ‘cosmopolitismo’ (inteso come la comunità dell’intero
genere umano), poi ripreso da Cicerone.
Tale ideale consente infatti di dissociare l’aspetto sociale da quello statuale,
e quindi di considerare la società come indipendente dall’organizzazione
politica.
Il pensiero medoevale e
rinascimentale = L’impostazione aristotelica continua comunque a segnare la
riflessione politica medievale e rinascimentale fino al Seicento. Ancora per Grozio (1583-1645) ’uomo è «per natura»
un essere razionale e sociale, cioè atto a vivere in socialità, ma non in un
qualsiasi raggruppamento bensì in una società razionalmente organizzata, cioè
la civitas, ossia la società
civile o politica, termini sinonimi nel linguaggio dei giusnaturalisti.
Le basi della socialità
moderna = Per Thomas Hobbes (1588-1651), il primo a
contestare Aristotele, l’uomo non è socievole per natura, ma lo diventa in
seguito a un ragionamento e a un calcolo di vantaggi: una socialità pacifica
offre infatti all’individuo le maggiori opportunità di sopravvivenza. L’uomo è
invece per natura «lupo per l’altro uomo», un essere egoisticamente concentrato
su sé stesso, spinto da pulsioni aggressive e competitive. La socialità è
quindi una costruzione artificiale, che nasce da un atto volontario, attraverso
un contratto che tramite la sottomissione a un potere centrale dà origine alla
vita sociale e politica, e alla pace. Dunque, per Hobbes società e Stato
coincidono, non esiste socializzazione fuori dallo Stato e se si dissolve lo
Stato – per esempio in caso di guerra civile – si dissolve anche la socialità e
gli individui tornano nello stato di natura. E’ soprattutto John Locke (1632-1704) che mette
in luce come nello stato di natura (almeno in una prima fase), e dunque prima
di ogni forma di patto, esista già una vita sociale: l’uomo naturale conosce
infatti quelle forme di associazione (uomo-donna, padre-figli e padrone-servo)
che sono comprese nell’istituto della «famiglia», esiste la proprietà privata
fondata sul lavoro, sono possibili commerci, scambi e, una volta introdotta la
moneta, anche l’accumulazione di ricchezza. Per Locke, che critica lo stato di
natura di Hobbes, la discriminante tra stato di natura e socialità politica non
è quindi data dall’assenza o presenza di forme di vita associata, bensì
dall’assenza o presenza di un’autorità politica e di tribunali, cioè di un
potere centrale in grado di dirimere le controversie e far rispettare le leggi.
Lo stato naturale si delinea così nelle pagine dei giusnaturalisti come il
luogo dei rapporti non politici, mediati da legami familiari, oppure di
interesse e di reciproco aiuto. Quindi rispetto a Hobbes – di cui pure viene
recuperata quella concezione individualistica della società che, affermata in
polemica con Aristotele, avrebbe poi caratterizzato il pensiero moderno, dalle
teorie politiche a quelle economiche – Locke segna la scoperta di una sfera di
rapporti tra gli uomini non caratterizzata da legami politici. Inoltre lo stato
di natura precedente la socialità politica è già uno stato morale. L’individuo
appare infatti già titolare di diritti innati e inalienabili, che egli non
deriva dalla socialità e quindi dal rapporto storico con gli altri, ma dalla
sua spiritualità e razionalità. A tale condizione l’istituzione della società
civile mediante il contratto non aggiunge nulla se non la legge positiva che
garantisce e rende sicuro l’esercizio di quei diritti naturali che l’uomo già
possiede, ma che nella condizione naturale sono costantemente esposti alla
violenza e al sopruso. La socialità quindi non si presenta come un fine, ma
come un semplice mezzo per difendere, con la forza comune, la persona e i beni
di ogni singolo associato. Profondamente
diversa è la posizione di Jean-Jacques
Rousseau (1712-1778). Mentre per
Hobbes lo stato di natura si oppone alla società civile in Rousseau questo
significato si disarticola, la condizione naturale dell’uomo si presenta come
un originario stato di innocenza ma di semi-bestialità, e la società politica o
Stato arriva alla fine di un lungo processo di snaturamento e di
civilizzazione, che è nello stesso tempo un processo di corruzione e di
decadenza morale. L’uomo naturale, inconsapevole e felice, non è un soggetto morale
né un essere razionale, bensì una creatura solitaria che non conosce né
desidera la socialità perché autonomo e autosufficiente. Il bisogno (collegato
a eventi casuali, quali aumento demografico, mutamenti climatici, calamità
naturali) lo spinge a cercare gli altri e a diventare un essere socievole e
razionale, capace di linguaggio. La società civile si sviluppa così attraverso
una serie di passaggi, trasformazioni, crisi, che portano gli uomini a
intrecciare rapporti, commerci e interessi. È dunque soltanto la socialità che
fa «di un animale stupido e limitato un essere intelligente e un uomo». La società politica si presenta così solo alla
fine di un complesso processo di incivilimento, e la sua storia è anche la
storia della caduta dell’uomo. Di qui la necessità di un nuovo contratto
sociale che ponga le basi di una nuova socialità politica. Nei suoi scritti
politici e di filosofia della storia, Immanuel
Kant (1724-1804) sottolinea come l’uomo sia spinto verso la socialità da
tendenze diverse e opposte: «L’uomo ha un’inclinazione ad associarsi perché
egli nello stato di socialità si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter
meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte
tendenza a dissociarsi, perché ha del pari in sé la qualità antisociale di
voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza
da ogni parte e sa che egli deve da parte sua tendere a resistere contro gli
altri». Tuttavia proprio questo conflitto di tendenze, questa «insocievole
socievolezza», viene indicata da Kant come uno dei più potenti fattori di
sviluppo storico e di progresso perché essa eccita le energie dell’uomo, lo
induce a vincere la sua inclinazione alla pigrizia e lo stimola a sviluppare tutte
le sue capacità. È necessario però, affinché questa «insocievole socievolezza»
dia tutti i propri frutti, che essa sia disciplinata da regole che ne
assicurino il funzionamento: occorre, cioè, «una società civile che faccia
valere universalmente il diritto». Solo all’interno della società civile
regolata da «leggi esterne» l’antagonismo degli individui può realizzarsi in
modo tale che la libertà di ognuno possa coesistere con la libertà di tutti gli
altri. Chi contribuisce soprattutto a
distinguere il concetto di società da quello di Stato è Friedrich Hegel (1770-1831) che subordina il primo al secondo,
considerando la società civile/ borghese come una fase imperfetta o
preparatoria dello Stato. Nel sistema hegeliano lo spirito oggettivo (che segue
lo spirito soggettivo e precede lo spirito assoluto) è distinto nei tre momenti
del diritto, della moralità e dell’eticità. Questa, a sua volta, si articola
nei tre momenti della famiglia, della società civile e dello Stato. La società
civile costituisce quindi il passaggio intermedio del processo dialettico
tramite il quale la «sostanza etica» sale, nella sua realizzazione,
dall’«immediatezza naturale» della famiglia alla «consapevolezza» dello Stato. Anch’essa
si articola in tre momenti: sistema dei bisogni, amministrazione della
giustizia, e polizia e corporazione (cioè gli organi che si occupano della
mediazione degli interessi particolari). dunque la socialità è qualcosa di superiore alla
famiglia, ma non è ancora quella forma di eticità pienamente dispiegata che è
lo Stato, il quale riassume in sé e supera le precedenti forme della socievolezza
dell’uomo. In particolare la sociatà civile rappresenta il momento in cui si
configurano i rapporti economici, nati dalla necessità di soddisfare i bisogni
mediante il lavoro, le manifatture e i commerci: essa si articola in diverse
classi sociali che rappresentano il sistema dei bisogni. Karl Marx
(1818-1883) conserva la concezione hegeliana della società civile, ma
capovolge il rapporto con lo Stato: famiglia e società civile non sono sfere
derivate dallo Stato, poste e create da esso, ma sono i presupposti dello
Stato. Quest’ultimo non può essere concepito idealisticamente come «realtà
dell’idea etica», bensì come il complesso delle leggi e degli apparati che
tengono insieme i rapporti antagonistici propri della socialità. Qui ognuno
persegue il proprio interesse indipendentemente da tutti gli altri e in
contrasto con tutti gli altri. Concorrenza, sfruttamento, disuguaglianza
caratterizzano la società civile/borghese. Lo Stato, mentre garantisce il
funzionamento dei meccanismi di riproduzione della socialità, costituisce una
sfera illusoria, in cui tutti sono uguali come cittadini (mentre, in realtà,
tutti sono diseguali in quanto membri della società civile). Sicché per Marx società
civile/borghese e Stato devono essere soppressi, e si deve dar vita a una
comunità di liberi e di uguali, che si autogovernano e regolano le forze
produttive da essi create, senza che essi debbano sdoppiarsi più nel «cielo»
dello Stato e nella «realtà» terrena della società civile.
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