sabato 10 aprile 2021

Il "Saggio" del mese - Aprile 2021

 

Il “Saggio” del mese

 APRILE 2021

Ancora un saggio che prende le mosse dalla pandemia per proporre riflessioni che, partendo dalle sollecitazioni imposte da questa impattante vicenda, si aprono verso orizzonti più ampi. Nulla di nuovo per certi versi, si tratta pur sempre di fare tesoro degli insegnamenti che il nostro vivere, individuale e collettivo, costantemente ci offre, a patto di mostrarsi realmente attenti e disponibili a coglierli. Ed è esattamente quanto ci offre il filosofo Roberto Esposito (docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore, editorialista e saggista)

in questo suo ultimo agile, ma molto denso, saggio


dal risvolto di copertina …….. Come ricostruire la nostra società dopo il blocco della pandemia? Le istituzioni saranno decisive poiché rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita e della propria morte

Ci sia concesso lo spazio per una sorta di consiglio alla lettura. Il testo di Esposito si muove su due versanti: l’attenzione alle concrete dinamiche istituzionali, a partire da quella della fase pandemica, che lo stesso Esposito definisce il polo dell’attualità e la ricostruzione dei filoni di pensiero che le hanno storicamente studiate ed ispirate il polo dell’origine Nel primo polo rientrano il “Prologo” ed i Capitoli I e V, nel secondo i Capitoli II e III, mentre il Capitolo IV si pone a metà strada fra i due. La lettura della sintesi dei Capitoli II e III, quelli del polo dell’origine, può risultare impegnativa per i non “addetti ai lavori” (chi scrive ben compreso). L’invito è però quello di misurarsi con questo impegno, che rende omogenea e coerente l’intera trattazione, tenendo comunque conto che la lettura delle altre parti già del suo consente di entrare nel merito delle valutazioni di Esposito. N.B.= le parti in corsivo blu sono estratti del testo del saggio

Prologo

Una questione è da sempre rimasta aperta per il suo essere in costante evoluzione e cambiamento, la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana, i due aspetti che formano il mutevole rapporto tra il carattere vitale delle istituzioni e la potenza istituente della vita. Sarebbe un errore ritenere che questo rapporto sia emerso solo con la recente comparsa del termine “biopolitica” (in un recente nostro post di Gennaio 2021 abbiamo riassunto un confronto a più voci sulla sua validità come chiave di lettura delle attuali istituzioni politiche), da sempre la sfera del potere mantiene uno stretto intreccio con quella della vita anche se, come la stesa pandemia dimostra, con la Modernità esso si è fatto più stretto e più percepibile. E’ quindi impossibile parlare di politica senza considerare il suo legame con la vita umana, con il suo aspetto “organico” (la “nuda vita”), così come con desideri, scelte, passioni, progetti, individuali e collettivi, con tutta la rete di rapporti che formano una comunità. Ma è evidente che, perché tutto questo si possa manifestare, la “nuda vita” debba essere il più possibile protetta dalle mille insidie che la circondano.  Questa difesa della “prima vita” sopravanza quindi ogni altro passaggio, ma, affinché non si appiattisca sulla mera sopravvivenza organica insieme ad essa dobbiamo difendere la seconda, quella istituita e capace di istituire. Come si avrà modo di approfondire sta proprio in questo il pieno significato di “istituzione”, e cioè non solo quello che individua la miriade di strutture articolate della dimensione sociale, economica, politica e statale, ma anche quello che definisce il bisogno di una comunità di gestire, attraverso queste strutture, il presente per poter continuare a proiettarsi nel futuro. Vale a dire di essere la forma capace di dare concretezza alla “institutio vitae

I =  l’eclissi

1 – Dalla pandemia:

La pandemia si è così violentemente abbattuta sulla “normalità” del rapporto tra istituzioni e vita da imporre una riflessione su come esse hanno gestito la sfida al virus. Non sono mancate insufficienze, ritardi, confusioni e contraddizioni, un eccesso di invadenza negli stili di vita individuali, ma una domanda comunque si impone: come avremmo retto all’attacco del virus senza di esse?  Una risposta obiettiva impone di riconoscere che le istituzioni -  non solo governo, regioni, enti locali, ma anche tutti gli organismi, professionali e volontari, che hanno avuto un qualche ruolo -  sono state, per quanto in modo perfettibile, l’unico concreto punto di riferimento. Si sono poi levate voci di denuncia di un eccessivo ricorso allo “stato di emergenza”, ed in effetti raramente sono state rispettate le “normali” procedure legislative e decisionali, ma anche in questo caso sembra ingiusto non riconoscere l’esistenza di un oggettivo “stato di necessità”. Da tempo la sanità è diventata questione direttamente politica, ma non sembra che in tutta la fase pandemica siano emersi particolari disegni di controllo e limitazione dei diritti. Ed è d’altronde da tempo evidente che la sovranità statale così come è stata finora intesa sia esplosa in mille frammenti, in buona parte autonomi dai governi nazionali e collocati in uno spazio transnazionale.  Se è quindi legittimo sostenere che nel complesso le istituzioni abbiano retto all’urto del virus, è però bene ribadire con fermezza che ogni reazione immunitaria non può prolungarsi ai suoi massimi livelli oltre una certa soglia senza rischiare una vera e propria crisi della socializzazione.

2 – Istituzioni e movimenti

E’ quindi emerso anche nella vicenda pandemica lo storico snodo critico del rapporto tra istituzioni e comunità, tra istituzione e vita, l’insopprimibile tensione fra “interno”, ciò che sta dentro le istituzioni, ed “esterno”, ciò che le fronteggia dal di fuori. Ed ancora una volta è opportuno, evitare due errori: quello di ritenere che le istituzioni siano esclusivamente quelle “statali” e quello di considerarle statiche, ferme, non cogliendo il loro continuo divenire. Questo secondo errore è aggravato da due contrapposte tendenze: quella conservativa delle istituzioni stesse che tendono ad essere refrattarie ad ogni cambiamento e quella opposta del proliferare continuo di movimenti anti-istituzionali. Ambedue questi errori rendono evidente l’insufficiente consapevolezza della vera natura delle istituzioni che, a ben vedere, altro non sono che dispositivi artificiali necessari a ordinare, selezionandole, tendenze naturali presenti in ogni società complessa. Per comprenderlo non occorre scomodare Freud, e la sua tesi della civilizzazione come inibizione degli istinti primari, per capire che le istituzioni, tutte, servono al duplice scopo di proteggerci dalla nostra stessa natura e di regolamentare i nostri rapporti con gli altri. Con la nascita del moderno Stato esse si sono evolute in un sistema di regole che consente di governare la società umana e in un potere finalizzato a farle rispettare. Il complesso rapporto tra istituzioni e comunità, tra “interno” ed “esterno”, in definitiva si gioca tutto attorno a questa loro dialettica natura.

3 – L’invenzione della natura

La nozione giuridica di istituzione compare per la prima volta nel diritto romano, ma non per definire dei soggetti giuridici formalmente individuati quanto piuttosto l’attività dell’ “instituere” che, attribuita a una vasta categoria di soggetti, consentiva di creare specifiche relazioni sociali in un processo fortemente dinamico. In linea peraltro con l’impostazione di fondo del diritto romano fortemente improntato ad un continuo adattarsi al mutare dei contesti e quindi refrattario a riconoscere vincoli esterni compresi quelli imposti dalla stessa natura, umana e non. E’ la natura che viene assoggettata al diritto, non viceversa. In un quadro così mutevole l’istituzione, qualsiasi istituzione, non poteva assumere carattere di stabilità. Ed è proprio in opposizione a questa eccessiva indipendenza dai vincoli naturali che si forma la concezione giuridica cristiana, nella quale il diritto non legifera più sulla natura, ma le si conforma dando voce alla legge in essa contenuta. Questa voce è quella divina e, conseguentemente, tutto il diritto, principio di istituire compreso, rientrano pienamente nella sfera della teologia. La stessa “institutio vitae”, con la natura posta sotto l’ordine divino, perde ogni carattere autonomo: ogni istituzione è inserita in un orizzonte metafisico. Questa svolta teologica definisce i caratteri delle istituzioni per almeno un millennio, bisognerà attendere il primo timido affacciarsi della Modernità per cogliere l’avvio di una svolta

4 – Istituzioni sovrane

Ancora per tutto il Medioevo si mantiene intatto questo carattere trascendentale, tutte le  istituzioni, che pure iniziano a formarsi con una certa varietà di forme, mantengono un carattere di fissata stabilità proprio perché sono intese come espressione di un potere che scavalca quello umano. I secoli dell’Ancien Régime per certi versi accentuano questo tratto distintivo incorporandolo nella figura del sovrano assoluto, non a caso tale per volere divino. Si forma così lungo questo lungo percorso un tratto destinato a mantenere una sua rilevanza. Questa sottrazione di storicità è decisiva per la configurazione di “istituzione” nella cultura politica e crea le condizioni per un rischio ancora riscontrabile nella contemporaneità: che le istituzioni restino fissate da caratteri e meccanismi impersonali essendo slegate dal loro reale contesto storico e sociale. Una prima vera cesura avviene solo nel corso della Rivoluzione Francese che sancisce l’irruzione del contrasto movimenti-istituzioni, affiancando però al precedente rischio quello opposto del proliferare disordinato di fragili istituzioni. Dovranno intervenire altre cesure prima che questa dialettica diventi la contemporanea forma di “prassi istituente”, il tormentato secolo XIX, tra la lenta agonia delle forme classiche di sovranità, l’affermarsi del mercato capitalistico e l’incedere ancora fragile dei movimenti che ad esso si oppongono, non è ancora il secolo della svolta

II =  Il ritorno

1 – Sociologia

E’ solo con il Novecento che si manifesta un reale interesse verso le istituzioni, il cui “ritorno”, dai lontani tempi romani, sulla scena culturale-politica non passa però per lo Stato, ma per la società, e ad inaugurare un sguardo nuovo su di esse è la nascente scienza della sociologia Non quella di Weber (1864-1920, sociologo, filosofo ed economista tedesco) che ancora si muove all’interno del paradigma dell’ordine sovrano hobbesiano, ma quella della scuola francese di Durkeim (Emile Durkheim, 1858-1917, sociologo, filosofo) e soprattutto di Mauss (Marcel Mauss, 1872-1950, antropologo, sociologo) che già nei primi anni del secolo afferma esplicitamente che le istituzioni sono oggetto privilegiato della sociologia e che come esse dipendono dal contesto sociale così questo ne è a sua volta modellato. Si intravedono in questa definizione i due elementi fondamentali del formarsi dal basso delle istituzioni: una concezione orizzontale del loro istituirsi e, di conseguenza, il loro elemento dinamico. Rispetto a tutti i precedenti paradigmi è avvenuto un deciso mutamento, il concetto di istituzione si è ormai spostato dall’istituito all’istituire. Questo capovolgimento di paradigma è attestato dalla capacità di continua auto-generazione, dal loro carattere sociale, e, novità non solo semantica, dall’’uso di un linguaggio autenticamente nuovo in cui confluiscono elementi di carattere religioso, giuridico, economico, politico, estetico

2 – Diritto

Questo fermento movimentista, la sua capacità di prassi istituente, non poteva non essere riconosciuto anche nell’ambito giuridico fin lì appiattito sul considerare le Norme unicamente come espressione dello Stato. Due scuole di pensiero giuridico, una francese (Maurice Hauriou, 1856-1929, giurista francese) ed una italiana (Santi Romano, 1875-1947, giurista e magistrato) pongono le basi per quello che, più tardi, diverrà un compiuto “istituzionalismo giuridico” capace di recepire buona parte delle istanze evidenziate in campo sociologico. E’ lo stesso concetto di soggetto giuridico che viene modificato dall’irruzione delle nuove istituzioni, si afferma una netta distinzione tra le “istituzioni-persona”, quali lo Stato e le sue articolazioni, i partiti ed i sindacati, ossia tutte quelle che possono essere collegate ad un formale soggetto giuridico, e le “istituzione-cose”, tutte quelle concretamente attive nella realtà sociale ma non riconducibili ad un individuato soggetto giuridico. E a queste ultime viene riservata pari attenzione in termini di diritto, all’origine della legge non c’è quindi solo più la volontà del legislatore, ma anche la necessità espressa dalla società tramite queste diverse istituzioni. E’ una svolta radicale che attraverserà tutte le tragiche traversie novecentesche per formare un tassello importante dell’attuale rapporto istituzione – movimenti

3 – Filosofia

Più complesso, e più lento a produrre nuovi paradigmi, è l’impatto in campo filosofico. Il dibattito filosofico per tutta la prima metà del Novecento verte su interessi e filoni di pensiero estranei alla prassi istituente. E’ solo con la “fenomenologia” di Husserl (Edmund Husserl, 1859-1938, filosofo e matematico austriaco) ripresa da parte dell’esistenzialismo francese di Sartre (Jean-Paul Sartre, 1905-1980, filosofo e scrittore) ed Aron (Raymond Aron, 1905-1983, filosofo, sociologo e politologo) che l’istituzione riacquista un ruolo in campo filosofico lungo due distinti filoni: il rapporto tra soggetto ed oggetto (con più evidente derivazione dalla fenomenologia) e il concetto di relazione del soggetto con gli altri (più vicino alle tematiche esistenzialiste). Rispetto alla fenomenologia classica, ancora basata sul ruolo della “coscienza” del soggetto, si passa con l’esistenzialismo ad un visione molto più legata alla dimensione storica, al concreto sviluppo delle relazioni sociali. Si afferma in questo senso una netta distinzione tra prassi istituente e potere costituente: con questo secondo termine si intende una creazione dal nulla di nuove istituzioni, con il primo invece un processo che, partendo da una dimensione già istituita, produce loro trasformazioni. Secondo Merleau-Ponty (Maurice Merleau-Ponty, 1908-1961, filosofo francese) questo processo di trasformazione ha una valenza aggiuntiva: nel cambiare l’istituzione si produce una evoluzione anche nei soggetti che l’attivano: il pensiero istituente vede la soggettività scaturire dalla sua stessa prassi, una dote fondamentale non riscontrabile al contrario nel potere costituente che presuppone, per manifestarsi, un soggetto già compiutamente formato. Seppure con ritardo ma anche dalla filosofia novecentesca iniziano ad emergere importanti elementi di riflessione utili a meglio comprendere le attuali dinamiche

4 – Politica

In stretta relazione con queste riflessioni sociologiche, giuridiche e filosofiche si muovono poi alcuni filoni di pensiero più strettamente politici. Prendono infatti corpo alcuni concetti che già affrontano gli snodi dell’attuale dibattito sulle istituzioni. Il primo concetto fondamentale consiste nel riconoscimento del ruolo del conflitto che diventa l’elemento capace di tutto racchiudere e generare: a congiungere istituzioni, società e politica è la funzione del conflitto. Da sempre le società sono attraversate da fisiologiche divisioni delle quali spesso non si ha adeguata coscienza e nozione, ed è allora proprio la prassi istituente, il formarsi di nuove istituzioni prodotte da queste linee di conflitto, che consente di avere chiara evidenza delle sue linee di frattura. Il cui punto finale di caduta, secondo concetto basilare, è inderogabilmente rappresentato dalla forma di potere, della sua attribuzione e articolazione, che viene conformata dalla prassi istituente: non esiste, né è mai esistita, una società senza potere, intendendo però per potere non solo e non tanto il dispositivo formale di dominio, ma soprattutto la configurazione delle istituzioni che lo rappresentano e lo definiscono. Le istituzioni sono allora i luoghi, le procedure, entro cui si rapportano potere e conflitto. Difficile indicare i pensatori novecenteschi che meglio rappresentano questi concetti, il pensatore per eccellenza del potere istituente, da tutti richiamato, resta ancora Machiavelli. Per la sua capacità di vedere le natura conflittuale della società, per il suo attribuire al conflitto il ruolo di motore della storia, e per la sua intuizione del ruolo delle istituzioni come ciò che tiene insieme interessi contrapposti evitando che il conflitto politico degeneri in violenza. Il pensiero di Machiavelli ancora oggi conduce allo snodo chiave nel cuore del paradigma istituente resta l’enigma di come possa una contrapposizione creare ordine. Un enigma inaggirabile che impone di affrontare il ruolo negativo della prassi istituente.

III =  Produttività del negativo

1 – Fine della mediazione

La negatività della prassi istituente non riguarda i suoi effetti, va oltre ed investe la natura stessa dell’istituire. Se l’atto dell’istituire suggella un processo che produce un elemento prima inesistente, questo da subito assume uno status di entità che si vota a permanere. Vale a dire che il concreto risultato di una prassi istituente di fatto nega il processo che lo ha istituito puntando in senso opposto al garantirsi stabilità, perché il processo istituente sia produttivo occorre che dia vita a qualcosa che però acquisisce una realtà esterna al movimento che l’ha prodotta. L’istituzione è allora al tempo stesso libertà e necessità, soggetto e oggetto, positivo e negativo. L’illusione di riuscire in qualche modo a “mediare” questo gioco di contrasti, ancora coltivata dall’idealismo di Hegel (Friedich Hegel, 1770-1831, filosofo tedesco), non appena le istituzioni acquistano maggiore consistenza storica si rivela fallace: lo è già con la prassi rivoluzionaria di Marx, (1818-1883), lo è nella visione di Nietzsche (1844-1900) dello Stato come “mostro freddo”, lo è infine nella stessa idea di Weber della società capitalistica come “gabbia d’acciaio”. In tutte queste letture il negativo ha però un peso tale da escluderlo, si mantiene  come potenza dialettica in grado di includere il positivo. Viene però così impedita ogni possibile mediazione e si congela un situazione senza una via d’uscita che non sia l’irriducibile contrasto tra il negativo che punta alla conservazione ed il positivo inteso come sola destituzione del presente: da un lato la progressiva sclerosi istituzionale, dall’altro la libertà dalle istituzioni, quando invece la via da percorrere è quella di un nuovo nesso tra istituzioni e libertà

2 – Protesi dell’umano

Ma l’ineliminabile presenza del negativo rappresenta solo una sorta di eterna condanna a questa contrapposizione oppure può rappresentare un incentivo per la trasformazione delle istituzioni? Alcune delle scuole di pensiero novecentesche si sono misurate con questo dilemma, ad iniziare dalle considerazioni, piuttosto controverse, portate avanti dalla “antropologia filosofica” di marca tedesca. Secondo la quale la questione di partenza, in stretta analogia con il rapporto tra natura e tecnica, consiste nella necessità dell’uomo, per realizzare i propri bisogni esistenziali e sociali, di ricorrere a dei “filtri istituzionali”. Così come per gestire al meglio il rapporto con la natura, conscio della limitatezza dei suoi strumenti naturali, l’uomo si è dotato di protesi tecnologiche, allo stesso modo la gestione delle tante problematiche del vivere in comunità, in società, non risolvibile sulla base degli istinti naturali, richiede il ricorso a specifiche protesi, che altro non sono che le istituzioni.  Un processo articolato che comporta un rischio: così come le protesi tecnologiche implicano quello della sostituzione della dimensione naturale con quella artificiale, le istituzioni corrono il rischio di divenire una dimensione a sé permeata da una logica di continuo processo di smantellamento di sè stesse Una posizione decisamente conservatrice e per questo fortemente criticata: in un celebre confronto Adorno (Theodor Adorno, 1903-1969, filosofo e sociologo tedesco) obiettò a Gehlen (1904-1976, filosofo e sociologo tedesco) il maggiore rappresentante della antropologia filosofica, che le istituzioni non sono solo protesi, ma il frutto di un determinato sviluppo storico, perciò il loro destino non dipende solo dalla loro tenuta , ma al contrario dalla loro disponibilità al mutamento

3 – Istinti ed istituzioni

In linea con la critica di Adorno una seconda scuola di pensiero, quella francese sorta attorno a Deleuze (Gilles Deleuze, 1905-1995, filosofo e sociologo), interpreta il negativo della prassi istituente in senso esattamente contrario: le istituzioni non frenano gli istinti umani ma, a certe condizioni, li possono esaltare positivamente. Deleuze propone questa visione partendo dalla sconnessione che a suo avviso esiste tra istituzione e legge. Mentre la legge rinchiude l’azione umana entro obblighi e divieti, incorporando in tal modo il negativo, l’istituzione le fornisce modelli utili alla sua realizzazione, svolgendo quindi un ruolo positivo: la tirannia è un regime con molte leggi e poche istituzioni, la democrazia uno in cui vi sono molte più istituzioni che leggi. La prassi istituente è pertanto molto più feconda della pura attività legiferante. La visione di Deleuze non sembra però poter risolvere appieno l’esistenza del negativo che in effetti può tornare a riaffacciarsi nella stessa prassi istituente là dove non viene negata la tendenza di ogni istituzione alla propria auto-conservazione. La lodevole volontà di vedere nelle istituzioni il riconoscimento degli istinti naturali - che porta ad esempio la sessualità a trovare riconoscimento nell’istituzione “matrimonio”, oppure l’avidità ad avere campo in quella della “proprietà privata” – inevitabilmente deve fare i conti con il progressivo loro ingessarsi in un sistema di divieti e regole. Vale a dire che l’istituzione non può coincidere perfettamente con l’istinto, essa presuppone una distanza che, anche se in misura inferiore a quella fissata dalla legge, in qualche modo si carica di un negativo. E non a caso le istituzioni sono sempre diverse, perché variano in relazione alla ragione, al costume, ma soprattutto all’immaginazione di chi le inventa in un determinato contesto

4 – Immaginario sociale

Ed è proprio il rapporto tra istituzione e immaginazione ad essere al centro del pensiero di Castoriadis (Cornelius Castoriadis, 1922-1997, filosofo e psicanalista greco naturalizzato francese). La sua posizione, esterna sia al pensiero liberale che a quello marxista, pone in stretta connessione i due termini: immaginare qualcosa significa istituirla, facendo di un non-essere un essere Questo non significa però che l’immaginario, nel nostro caso quello sociale, crei l’essere dal nulla, se così fosse di fatto si ricadrebbe nella concezione teologica della “genesi”. Ora, essendo anche la natura umana in qualche modo istituita, è da questa primordiale istituzione che l’immaginazione si è sviluppata per produrre a sua volta istituzioni, come a dire che: si istituisce solo a partire dal già istituito. Neppure la storia può avere di per sé stessa un inizio, un’origine, perché se mai lo possedesse precederebbe, in una sorta di riproposizione teleologica della genesi, ogni processo di immaginazione sociale. Il quale può quindi esistere solo lungo il sottile equilibrio tra essere e divenire, tra storia e natura, in un contesto perennemente dialettico che, per inverarsi, ancora e sempre necessita di un negativo capace di fare attrito nel flusso incontrollato del divenire e per fare ciò di assumere, a seconda dello specifico contesto, le forme di pratiche rituali, sociali, politiche, Ma, anche in questo caso,  se è dal confronto/scontro con queste forme del negativo che scatta l’impulso all’immaginazione,  non si annulla il negativo ma semmai su di esso ci si innesta

IV = Oltre lo Stato

1 – Istituzioni senza sovrano

Queste diverse correnti di riflessione attorno al tema delle istituzioni testimoniano attenzioni, soprattutto teoriche, nel concreto processo storico a lungo le istituzioni sono state considerate meri contenitori dei comportamenti individuali e collettivi. Classi sociali, modelli economici, trasformazioni tecnologiche apparivano fattori determinanti delle dinamiche politiche assai più della prassi istituente. Guardando alla realtà occidentale è solo con gli anni Sessanta e Settanta che all’attenzione della cultura in senso lato, e a quella sociale e politica in particolare, si impone come oggetto ineludibile di analisi l’impetuosa crescita di momenti istituenti che, nelle forme più variegate - associazioni, circoli, federazioni, assemblee permanenti, comitati, fondazioni, oppure su versanti opposti lobbies e corporazioni – incidono in modo significativo sull’insieme delle dinamiche sociali e politiche: lo scenario è cambiato: le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre più rilevanti nel definire, orientare, trasformare le agende politiche. E se è pur vero che a lungo l’istituzione per eccellenza è rimasta quello dello Stato, e delle sue articolazioni, è altrettanto vero che anche su di esso l’affermarsi di quelle diffuse ha avuto un forte impatto. In un momento in cui, non a caso, lo Stato sempre meno è riuscito a mantenere il suo ruolo di titolare delle decisioni politiche nel mutato contesto globalizzato. E sembra ormai difficile che si possa innescare un percorso inverso, anche perché problematiche come l’emergenza ambientale, le crisi economiche, la stessa pandemia, confermano la necessità irreversibile di momenti decisionali ad un livello superiore a quello statale: lo stesso fenomeno impropriamente definito “sovranismo” appare più una forma di resistenza ai processi in corso che una prospettiva capace di intercettare il futuro. In questo quadro il ruolo delle istituzioni diffuse acquista a maggior ragione un ruolo decisivo sotto diversi profili, sia quando esprimono la voglia di cambiamento sia quando, al contrario, danno voce alla volontà di frenarlo.

2 – Il diritto dei privati

Anche in questo mutato contesto l’evoluzione delle norme giuridiche, un campo erroneamente troppo trascurato dal dibattito culturale-politico, aiuta a comprendere la posta in gioco visto che, come già evidenziato in precedenza, il Diritto altro non è che l’espressione di una trama di relazioni presenti nel corpo sociale ed Il mutamento, o la conservazione, delle norme di Legge altro non esprime che l’esito di un confronto, di uno scontro, extra-giuridico.  Ed è proprio di riflesso a questo quadro, e proprio pensando alla prassi istituente, che in campo giuridico si è da tempo avviato un importante approfondimento sulla opportunità/necessità di definire un nuovo “diritto”, indicativamente denominato come “collettivo”, che si collochi a metà tra i due tradizionali diritti, quello privato e quello pubblico. Per muoversi in questa direzione occorre mettere al centro dell’attenzione non tanto un soggetto giuridico terzo, ma l’insieme delle relazioni fra le sfere del pubblico e del privato in gran misura gestito proprio dalle istituzioni. Si collocherebbe così in questa dimensione un diritto collettivo, “più che privato e meno che pubblico”, che dia riconoscimento normativo alla mutua cooperazione di soggetti organizzati in istituzioni capace quindi di entrare nell’orbita vivente di quel vasto mondo di beni, di utilità, di fini e di interessi che hanno per comune denominatore una collettività

3 – Giustizia sovversiva

I tempi di modifica degli ordinamenti giuridici sono di norma molto lunghi e complessi, ed è quindi lecito non attendersi svolte immediate, ma dal dibattito su un nuovo diritto “collettivo” è già emersa la constatazione che questo diverso intreccio tra società, politica e diritto non necessariamente debba ancora poggiare sulla centralità dello Stato. Non fosse altro che per il fatto che sempre più spesso la prassi istituente si misura e si attiva per problematiche che, conseguentemente all’avvento della dimensione transnazionale, scavalcano l’ambito dei singoli Stati. Si parla cioè di dinamiche che, collocandosi al di fuori dei singoli schemi giuridici nazionali, impongono una sorta di costituzionalismo senza Stato. Una dimensione nuova, né interamente pubblica e né interamente privata, nella quale far rientrare la complessità delle problematiche che investono, globalmente, sfere della società contemporanea quali ad esempio: economia, scienza, tecnologia, ambiente, medicina, trasporti, istruzione, diritti individuali e di genere. Tutti questi settori presentano evidenti linee di frattura tra pubblico e privato, tra interessi nazionali e aggregazioni transnazionali, tra estensione piuttosto che restrizione degli spazi democratici. Si è di fronte ad una divaricazione così complessa, e per molti versi fin qui inesplorata, perché chi viene investita non è più una relazione tra individui, ma una intera comunità se non l’intera umanità, da rendere impossibile la sua gestione, in questo caso giuridica, avendo al centro il “singolo individuo”. Purtroppo però il linguaggio del diritto dispone ancora solo del lessico della persona. Ma può il diritto da solo farsi carico di questo di più di giustizia? E se in qualche modo fosse tentato di farlo non si sostituirebbe in tal modo alla politica? Sovvertendo allora l’intera evoluzione della cultura occidentale che da sempre vede la netta disarticolazione fra lo ius romano, la fonte del diritto, e la polis greca, la casa della politica. Questa domanda di una nuova giustizia impone quindi da subito due correlati passaggi. Il primo chiama in causa la politica che deve, diventando più consapevole della vera posta in gioco, mettere ordine in questa molteplicità di linguaggi inserendo in quello del diritto la lingua del diritto “comune”. E, secondo passaggio, in questo sforzo a cui la politica è chiamata la prima sponda alla quale appoggiarsi sono proprio le istituzioni che possono costituire gli snodi decisivi in cui i fili del diritto e della politica, da sempre separati, riprendono ad intrecciarsi in un orizzonte poststatuale

4 – Oltre lo Stato?

Il declino della forma Stato nell’epoca della globalizzazione è fenomeno ormai diffuso, resistono solamente le grandi potenze autosufficienti e in posizione dominante al centro di una ampia rete di relazioni. Altro discorso è invece quello della crisi della “sovranità” che si manifesta in forme molto più complesse e variegate. L’incrocio fra questi due fenomeni attesta l’evidente contraddizione costituita dal fatto che molti aspetti riconducibili alla globalizzazione neoliberista, ed al formarsi di centri di potere sovra-nazionali, si sono paradossalmente realizzati sulla base di politiche statali mirate in tale direzione. In questo quadro quanto mai complesso, ed in costante contraddittoria evoluzione, emerge comunque come dato comune di ogni singola situazione statale e dell’insieme globale delle loro relazioni, una nuova dialettica fatta di scontro tra poteri e contropoteri. Ogni accelerazione dei processi che pongono in crisi Stato e sovranità nazionale, attiva infatti forme di reazione, più o meno compiute e adeguate, a dimostrare che la sostanza dello scontro sociale non è mutata: seppure frastagliata su piani diversi sempre si articola nel contrapporsi di poteri e di opposizioni che mirano ad essere reali contropoteri che chiama le istituzioni, la prassi istituente, ad un nuovo ruolo. Ciò richiede un nuovo impegno istituente lungo due linee differenziate ma convergenti: la prima è quella di una nuova e diversa relazione fra istituzioni pubbliche e private, fondata sulla categoria di interesse “comune” in grado di concretizzarsi in ambito nazionale  e sovra-nazionale. La seconda è quella di sviluppare una maggiore interrelazione tra le istituzioni classiche – partiti, sindacati, gruppi parlamentari – e quelle di nuova forma e finalità per definire e condurre comuni politiche di carattere civile, sociale, ambientale rivitalizzando in questo modo, proprio con l’innesto al loro interno della categoria del “comune”, le grandi famiglie politiche novecentesche: liberali, popolari e socialiste

V – Istituzioni e biopolitica

1 – Biopolitica

Al termine di questo percorso attorno al tema delle istituzioni occorre riprendere la questione di partenza: la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana alla quale, va detto, la cultura contemporanea, e la filosofia politica in particolare, qui esaminate non sembrano aver fornito risposte convincenti. Qualcosa è mutato con l’avvento della “biopolitica” uno dei paradigmi politici più utilizzati in questi ultimi anni. In quale misura il rapporto tra biopolitica e istituzioni può fornire indicazioni utili a risolvere tale relazione enigmatica? Queste domande consentono un preciso collegamento con la stessa vicenda pandemica. Covid19 ha attaccato la nostra vita ed ha imposto provvedimenti di chiara natura biopolitica, ma al tempo stesso, come si è visto, è stato possibile affrontarlo solo grazie al ruolo decisivo delle istituzioni. Eppure non sembra che, anche in una situazione emergenziale come questa, si sia realizzata tra di loro una vera integrazione. Da dove nasce questa persistente sensazione di eterogeneità?  Non convince la convinzione diffusa che la biopolitica, nella versione che di essa ha dato Foucault (Michel Foucault, 1926-1984, filosofo e sociologo francese), stabilisca di fatto un rapporto così diretto e stretto tra politica e vita tale da non necessitare della mediazione di istituzioni: Questa convinzione si basa sull’idea di Foucault che la biopolitica non si rapporti più ai cittadini intesi come soggetti giuridici, ma a loro come esseri viventi e che, per sottoporli a controllo sociale, non servano  più “leggi”, le quali implicano la presenza di istituzioni, ma “norme” messe in atto da “apparati”, ad esempio medici e amministrativi, che puntano più a normalizzare che a sanzionare. Ma ancora una volta ciò che colpisce è la disgiunzione che ne deriva tra la sfera della vita e quella del diritto. Oltretutto anche le “norme” per essere efficaci necessitano di istituzioni, ovvero di tutte le articolazioni istituite dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della sanità, piuttosto che della famiglia, della religione, della sessualità. Il problema quindi non è risolto sostituendo al termine istituzione quello di apparato. Si cela qui un limite della visione di Foucault che vede le due polarità della biopolitica, il bios e la politica, esaminate separatamente per poi però ricongiungerle in una maniera forzata che finisce per sovrapporre l’una all’altra. Con la conseguenza di rendere concettualmente impossibile l’intero rapporto tra biopolitica e istituzioni.

2 – Doppia nascita

L’idea di Foucault di una vita che può esprimersi solo fuori dalle istituzioni, viste come una gabbia oppressiva, trova una sponda esattamente opposta in quella di Hannah Arendt (Hannah Arendt, 1906/1975, filosofa e politologa tedesca poi naturalizzata statunitense) che vede al contrario le istituzioni minacciate dalla pressione della vita. A suo avviso l’agire politico altro non è che un incessante crearsi di istituzioni non riducibili alla centralità del potere costituito. Al centro della sua attenzione sta quindi la prassi istituente, la vera matrice della storia, per il suo essere sempre l’inizio di qualcosa di nuovo. Che non è però riducibile al ciclo della vita naturale, alla nascita biologica, ma al contrario alla volontà di sottrarsi alla naturalità ed ai suoi cicli. La prassi istituente diventa una sorta di seconda nascita che differisce dalla prima ed ha significato proprio in tale differenza. La politica è un’attività umana feconda solo quando riesce a sottrarsi all’urgenza della vita. Le rivoluzioni, come quella francese, sono state vincenti finché sono state al riparo dalla pressione dei bisogni naturali, fino a quando hanno retto all’urgenza delle esigenze primarie, che hanno imposto la fine della prassi istituente e l’instaurazione, liberticida, di istituzione durature, di un potere sovrano. all’origine di questa divaricazione sta la concezione cristiana della sacralità della vita diventata il bene supremo a cui ogni altro va sacrificato. Per ragioni esattamente opposte anche in questa visione non sembra esservi soluzione al rapporto tra vita e istituzioni, l’una è irriducibile alle altre per Foucault, ovvero queste lo sono alla vita per la Arendt

3 – Diritto impersonale

Al termine dell’intero percorso nel dibattito culturale novecentesco attorno al tema del rapporto tra vita e istituzioni non sembra quindi che siano emerse adeguate idee per il superamento della loro relazione enigmatica. La sola strada percorribile sembra allora quella, facendo comunque tesoro di quanto di utile è emerso in questo dibattito, di costruire un duplice movimento: delle istituzioni verso la vita e della vita verso le istituzioni. Il primo movimento chiama necessariamente in causa la politica e la sua capacità di attivare un profondo ripensamento del “Diritto” finalizzato ad un chiaro incorporamento in esso del fatto sociale, perché la vita del diritto è anche vita nel diritto. Può in questo senso essere utile recuperare il concetto di “diritto comune” di cui si è detto sciogliendo però una sua intrinseca contraddizione: il “diritto” inteso nella sua accezione classica è sempre un insieme di prerogative di alcuni nei confronti di altri, mentre “comune” può essere tale solo se non prevede prerogative particolari.  E’ allora necessario un ulteriore passo in avanti: per identificare nuove e diverse linee di incontro tra istituzioni e vita più che di “diritto comune” si dovrebbe parlare di “diritto impersonale”, un concetto che meglio segna lo scavalcamento sia del “diritto privato” che del “diritto pubblico”. “Impersonale” può, diversamente da “comune” indicare un diritto che superi il paradigma fin qui basilare dell’individualità, ma senza poi convergere in una indistinta nozione di socialità, di collettività: l’io e il noi, entrambi prima persona singolare e plurale, vanno sostituiti con la terza persona dell’egli. O meglio ancora dell’esso, una versione ancor più impersonale capace di andare oltreal’ antropocentrismo. In una dimensione giuridica così strutturata tutte le istituzioni, e la prassi istituente, sarebbero meglio predisposte a recepire le istanze della vita intesa nel senso più ampio possibile, di dare davvero corso alla “institutio vitae

4 – Istituire la vita

A questo movimento delle istituzioni verso la vita deve corrispondere quello della vita, del bios in senso inverso. E non a caso si parla di bios, e non di zoe, si parla cioè non della sola “materia” vivente, ma di una vita umana che è da sempre “istituita” in un tessuto articolato di relazioni, di pensieri, di linguaggi, di simboli, di cultura, da cui non si può prescindere. Lo stesso termine di “nuda vita” non si presta ad essere inteso nella sua estrema interpretazione di prevalenza della materia vivente, ma semmai di una possibile sudditanza delle ragioni della vita istituita rispetto alle esigenze impellenti di quella organica: non è mai esistito un uomo puramente naturale, così la vita, fin quando non è spenta, resta pur sempre una forma di vita nel senso pieno del termine. Eppure esistono purtroppo nella storia e nella cultura umana situazioni in cui ciò viene negato: lo sono ad esempio le manifestazioni di razzismo, il ridurre la vita al colore della pelle, le proclamazioni nazionalistiche dello “spazio vitale” che possono sfociare nel genocidio. Ma lo è lo stesso disastro ambientale frutto di un cieco antropocentrismo che in nome della vita umana sacrifica quella dell’intero pianeta.  Ed è proprio in contrasto a queste degenerazioni che si pongono il pensiero e la prassi istituente capaci di guardare ad una esistenza umana inscritta nel tessuto della propria storicità. Alla categoria dell’impersonale deve allora corrispondere dalla parte della vita, nel movimento opposto verso la coincidenza di vita e istituzioni il porre l’accento sulla differenza che fa di ogni vita qualcosa di irriducibilmente singolare: una vita, quella vita. Per rispettare e valorizzare le differenze servono le istituzioni, momenti di comune aggregazione di volontà che mirano a salvaguardarle dal pensiero unico, dall’appiattimento in sistemi giuridici, dai dispositivi sociali ed economici, dal peso di interessi egoistici. In questo quadro anche la stessa categoria della biopolitica va ripensata per superare la divaricazione fra il vederla come un potere assoluto sulla vita ed il volerla vivere illusoriamente libera da ogni potere

Epilogo

Quanto qui proposto sul piano teorico è già anticipato nella realtà dal proliferare di istituzioni esterne, e spesso alternative, a quelle formali dello Stato. La pandemia non fermerà, sul tempo lungo, questo processo di superamento del paradigma della sovranità: ne sono segnali evidenti, accanto ai temi tradizionali …. la centralità attribuita ai corpi viventi, la segmentazione della popolazione in base all’età, al genere, alle condizioni di salute, il rapporto tra politica e medicina …… I movimenti che li sostengono possono realizzarsi solo istituzionalizzandosi per acquisire più forza e durata e così riportando in primo piano ….. l’istitutio vitae, nel doppio senso di vitalizzare le istituzioni e di restituire alla vita quei tratti istituenti che la spingono oltre la mera materia biologica …..

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