Il “Saggio” del mese
APRILE 2021
Ancora un saggio che prende le mosse dalla pandemia per proporre
riflessioni che, partendo dalle sollecitazioni imposte da questa impattante
vicenda, si aprono verso orizzonti più ampi. Nulla di nuovo per certi versi, si
tratta pur sempre di fare tesoro degli insegnamenti che il nostro vivere,
individuale e collettivo, costantemente ci offre, a patto di mostrarsi
realmente attenti e disponibili a coglierli. Ed è esattamente quanto ci offre
il filosofo Roberto Esposito (docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale
Superiore, editorialista e saggista)
in questo suo ultimo agile, ma molto denso, saggio
dal risvolto di copertina …….. Come ricostruire
la nostra società dopo il blocco della pandemia? Le istituzioni saranno
decisive poiché rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé
al di là della propria vita e della propria morte
Ci
sia concesso lo spazio per una sorta di consiglio alla lettura. Il testo di
Esposito si muove su due versanti: l’attenzione alle concrete dinamiche
istituzionali, a partire da quella della fase pandemica, che lo stesso Esposito
definisce il polo dell’attualità e la
ricostruzione dei filoni di pensiero che le hanno storicamente studiate ed ispirate
il polo dell’origine Nel primo polo
rientrano il “Prologo” ed i Capitoli I e V, nel secondo i Capitoli II e III, mentre il Capitolo IV si pone a metà strada fra i due. La
lettura della sintesi dei Capitoli II e III, quelli del polo dell’origine, può
risultare impegnativa per i non “addetti ai lavori” (chi scrive ben compreso).
L’invito è però quello di misurarsi con questo impegno, che rende omogenea e
coerente l’intera trattazione, tenendo comunque conto che la lettura delle
altre parti già del suo consente di entrare nel merito delle valutazioni di
Esposito. N.B.= le parti in corsivo blu sono
estratti del testo del saggio
Prologo
Una questione
è da sempre rimasta aperta per il suo essere in costante evoluzione e
cambiamento, la
relazione enigmatica tra istituzione e vita umana, i due aspetti che
formano il mutevole rapporto tra il carattere vitale delle istituzioni e la potenza
istituente della vita. Sarebbe un errore ritenere che questo
rapporto sia emerso solo con la recente comparsa del termine “biopolitica” (in un recente nostro post di Gennaio 2021 abbiamo riassunto un
confronto a più voci sulla sua validità come chiave di lettura delle attuali
istituzioni politiche), da sempre la sfera del potere
mantiene uno stretto intreccio con quella della vita anche se, come la stesa
pandemia dimostra, con la Modernità esso si è fatto più stretto e più percepibile.
E’ quindi impossibile parlare di politica senza considerare il suo legame con
la vita umana, con il suo aspetto “organico” (la “nuda vita”), così come con desideri,
scelte, passioni, progetti, individuali e collettivi, con tutta la rete di
rapporti che formano una comunità. Ma è evidente che, perché tutto questo si
possa manifestare, la “nuda vita” debba essere il più possibile protetta dalle
mille insidie che la circondano. Questa
difesa della “prima
vita” sopravanza quindi ogni altro passaggio, ma, affinché non si
appiattisca sulla mera sopravvivenza organica insieme ad essa dobbiamo difendere la seconda,
quella istituita e capace di istituire. Come si avrà modo di
approfondire sta proprio in questo il pieno significato di “istituzione”, e cioè non solo quello che
individua la miriade di strutture articolate della dimensione sociale, economica,
politica e statale, ma anche quello che definisce il bisogno di una comunità di
gestire, attraverso queste strutture, il presente per poter continuare a
proiettarsi nel futuro. Vale a dire di essere la forma capace di dare
concretezza alla “institutio vitae”
I = l’eclissi
1 – Dalla pandemia:
La pandemia
si è così violentemente abbattuta sulla “normalità” del rapporto tra
istituzioni e vita da imporre una riflessione su come esse hanno gestito la
sfida al virus. Non sono mancate insufficienze, ritardi, confusioni e
contraddizioni, un eccesso di invadenza negli stili di vita individuali, ma una
domanda comunque si impone: come avremmo retto all’attacco del virus senza di esse?
Una risposta obiettiva impone di
riconoscere che le istituzioni - non
solo governo, regioni, enti locali, ma anche tutti gli organismi, professionali
e volontari, che hanno avuto un qualche ruolo - sono state, per quanto in modo perfettibile,
l’unico concreto punto di riferimento. Si sono poi levate voci di denuncia di
un eccessivo ricorso allo “stato di emergenza”, ed in effetti raramente sono
state rispettate le “normali” procedure legislative e decisionali, ma anche in
questo caso sembra ingiusto non riconoscere l’esistenza di un oggettivo “stato di
necessità”. Da tempo la sanità è diventata questione direttamente politica, ma
non sembra che in tutta la fase pandemica siano emersi particolari disegni di
controllo e limitazione dei diritti. Ed è d’altronde da tempo evidente che la
sovranità statale così come è stata finora intesa sia esplosa in mille frammenti, in buona
parte autonomi dai governi nazionali e collocati in uno spazio transnazionale. Se è quindi legittimo sostenere che nel
complesso le istituzioni abbiano retto all’urto del virus, è però bene ribadire
con fermezza che ogni reazione immunitaria non può prolungarsi ai suoi massimi
livelli oltre una certa soglia senza rischiare una vera e propria crisi della
socializzazione.
2 – Istituzioni e movimenti
E’ quindi emerso
anche nella vicenda pandemica lo storico snodo critico del rapporto tra
istituzioni e comunità, tra istituzione e vita, l’insopprimibile tensione fra “interno”,
ciò che sta dentro le istituzioni, ed “esterno”, ciò che le fronteggia dal di fuori. Ed
ancora una volta è opportuno, evitare due errori: quello di ritenere che le
istituzioni siano esclusivamente quelle “statali”
e quello di considerarle statiche, ferme, non cogliendo il loro continuo
divenire. Questo secondo errore è aggravato da due contrapposte tendenze:
quella conservativa delle istituzioni stesse che tendono ad essere refrattarie
ad ogni cambiamento e quella opposta del proliferare continuo di movimenti
anti-istituzionali. Ambedue questi errori rendono evidente l’insufficiente
consapevolezza della vera natura delle istituzioni che, a ben vedere, altro non
sono che dispositivi
artificiali necessari a ordinare, selezionandole, tendenze naturali presenti in
ogni società complessa. Per
comprenderlo non occorre scomodare Freud, e la sua tesi della civilizzazione
come inibizione degli istinti primari, per capire che le istituzioni, tutte,
servono al duplice scopo di proteggerci dalla nostra stessa natura e di regolamentare
i nostri rapporti con gli altri. Con la nascita del moderno Stato
esse si sono evolute in un sistema di regole che consente di governare la società
umana e in un potere finalizzato a farle rispettare. Il complesso rapporto tra
istituzioni e comunità, tra “interno” ed “esterno”, in definitiva si gioca tutto
attorno a questa loro dialettica natura.
3 – L’invenzione della natura
La nozione giuridica
di istituzione compare per la prima volta nel diritto romano, ma non per
definire dei soggetti giuridici formalmente individuati quanto piuttosto
l’attività dell’ “instituere” che, attribuita a una vasta categoria di soggetti,
consentiva di creare specifiche relazioni sociali in un processo fortemente
dinamico. In linea peraltro con l’impostazione di fondo del diritto romano
fortemente improntato ad un continuo adattarsi al mutare dei contesti e quindi refrattario
a riconoscere vincoli esterni compresi quelli imposti dalla stessa natura,
umana e non. E’ la natura che viene assoggettata al diritto, non viceversa. In
un quadro così mutevole l’istituzione, qualsiasi istituzione, non poteva
assumere carattere di stabilità. Ed è proprio in opposizione a questa eccessiva
indipendenza dai vincoli naturali che si forma la concezione giuridica
cristiana, nella quale il diritto non legifera più sulla natura, ma le si conforma dando
voce alla legge in essa contenuta. Questa voce è quella divina e,
conseguentemente, tutto il diritto, principio di istituire compreso, rientrano pienamente
nella sfera della teologia. La stessa “institutio vitae”, con la natura posta
sotto l’ordine divino, perde ogni carattere autonomo: ogni istituzione è inserita in un orizzonte
metafisico. Questa svolta teologica definisce i caratteri delle
istituzioni per almeno un millennio, bisognerà attendere il primo timido
affacciarsi della Modernità per cogliere l’avvio di una svolta
4 – Istituzioni sovrane
Ancora per
tutto il Medioevo si mantiene intatto questo carattere trascendentale, tutte le
istituzioni, che pure iniziano a formarsi
con una certa varietà di forme, mantengono un carattere di fissata stabilità
proprio perché sono intese come espressione di un potere che scavalca quello
umano. I secoli dell’Ancien Régime per certi versi accentuano questo tratto
distintivo incorporandolo nella figura del sovrano assoluto, non a caso tale per
volere divino. Si forma così lungo questo lungo percorso un tratto destinato a
mantenere una sua rilevanza. Questa sottrazione di storicità è decisiva per la
configurazione di “istituzione” nella cultura politica e crea le condizioni per un rischio ancora riscontrabile
nella contemporaneità: che le istituzioni restino fissate da caratteri e
meccanismi impersonali essendo slegate dal loro reale contesto
storico e sociale. Una prima vera cesura avviene solo nel corso della
Rivoluzione Francese che sancisce l’irruzione del contrasto
movimenti-istituzioni, affiancando però al precedente rischio quello opposto
del proliferare disordinato di fragili istituzioni. Dovranno intervenire altre
cesure prima che questa dialettica diventi la contemporanea forma di “prassi
istituente”, il tormentato secolo XIX, tra la lenta agonia delle
forme classiche di sovranità, l’affermarsi del mercato capitalistico e
l’incedere ancora fragile dei movimenti che ad esso si oppongono, non è ancora
il secolo della svolta
II = Il ritorno
1 – Sociologia
E’ solo con
il Novecento che si manifesta un reale interesse verso le istituzioni, il cui
“ritorno”, dai lontani tempi romani, sulla scena culturale-politica non passa però per
lo Stato, ma per la società, e ad inaugurare un sguardo nuovo su di esse è la
nascente scienza della sociologia Non quella di Weber (1864-1920, sociologo, filosofo ed economista tedesco)
che ancora si muove all’interno del paradigma dell’ordine sovrano hobbesiano,
ma quella della scuola francese di Durkeim (Emile
Durkheim, 1858-1917, sociologo, filosofo) e soprattutto
di Mauss (Marcel Mauss, 1872-1950,
antropologo, sociologo) che già nei primi anni del secolo
afferma esplicitamente che le istituzioni sono oggetto privilegiato della
sociologia e che come esse dipendono dal contesto sociale così questo ne è a
sua volta modellato. Si intravedono in questa definizione i due
elementi fondamentali del formarsi dal basso delle istituzioni: una concezione
orizzontale del loro istituirsi e, di conseguenza, il loro elemento dinamico. Rispetto
a tutti i precedenti paradigmi è avvenuto un deciso mutamento, il concetto di
istituzione si è ormai spostato dall’istituito all’istituire. Questo
capovolgimento di paradigma è attestato dalla capacità di continua auto-generazione,
dal loro carattere sociale, e, novità non solo semantica, dall’’uso di un
linguaggio autenticamente nuovo in cui confluiscono elementi di carattere
religioso, giuridico, economico, politico, estetico
2 – Diritto
Questo fermento
movimentista, la sua capacità di prassi istituente, non poteva non essere
riconosciuto anche nell’ambito giuridico fin lì appiattito sul considerare le Norme
unicamente come espressione dello Stato. Due scuole di pensiero giuridico, una
francese (Maurice Hauriou, 1856-1929,
giurista francese) ed una italiana (Santi
Romano, 1875-1947, giurista e magistrato) pongono le
basi per quello che, più tardi, diverrà un compiuto “istituzionalismo giuridico” capace
di recepire buona parte delle istanze evidenziate in campo sociologico. E’ lo
stesso concetto di soggetto giuridico che viene modificato dall’irruzione delle
nuove istituzioni, si afferma una netta distinzione tra le “istituzioni-persona”,
quali lo Stato e le sue articolazioni, i partiti ed i sindacati, ossia tutte
quelle che possono essere collegate ad un formale soggetto giuridico, e le “istituzione-cose”,
tutte quelle concretamente attive nella realtà sociale ma non riconducibili ad
un individuato soggetto giuridico. E a queste ultime viene riservata pari attenzione
in termini di diritto, all’origine della legge non c’è quindi solo più la
volontà del legislatore, ma anche la necessità espressa dalla società tramite
queste diverse istituzioni. E’
una svolta radicale che attraverserà tutte le tragiche traversie novecentesche
per formare un tassello importante dell’attuale rapporto istituzione –
movimenti
3 – Filosofia
Più
complesso, e più lento a produrre nuovi paradigmi, è l’impatto in campo
filosofico. Il dibattito filosofico per tutta la prima metà del Novecento verte
su interessi e filoni di pensiero estranei alla prassi istituente. E’ solo con
la “fenomenologia” di Husserl (Edmund
Husserl, 1859-1938, filosofo e matematico austriaco) ripresa
da parte dell’esistenzialismo francese di Sartre (Jean-Paul
Sartre, 1905-1980, filosofo e scrittore) ed Aron (Raymond Aron, 1905-1983, filosofo, sociologo e politologo) che
l’istituzione riacquista un ruolo in campo filosofico lungo due distinti filoni:
il rapporto
tra soggetto ed oggetto (con più evidente derivazione dalla fenomenologia) e il concetto di
relazione del soggetto con gli altri (più vicino alle tematiche
esistenzialiste). Rispetto alla fenomenologia classica, ancora basata sul ruolo
della “coscienza”
del soggetto, si passa con l’esistenzialismo ad un visione molto più legata
alla dimensione storica, al concreto sviluppo delle relazioni sociali. Si
afferma in questo senso una netta distinzione tra prassi istituente e potere costituente: con questo secondo termine si intende una creazione
dal nulla di nuove istituzioni, con il primo invece un processo che, partendo
da una dimensione già istituita, produce loro trasformazioni. Secondo Merleau-Ponty
(Maurice Merleau-Ponty, 1908-1961, filosofo francese) questo
processo di trasformazione ha una valenza aggiuntiva: nel cambiare
l’istituzione si produce una evoluzione anche nei soggetti che l’attivano: il pensiero
istituente vede la soggettività scaturire dalla sua stessa prassi, una dote fondamentale non riscontrabile al
contrario nel potere costituente che presuppone, per manifestarsi, un soggetto
già compiutamente formato. Seppure con ritardo ma anche dalla filosofia
novecentesca iniziano ad emergere importanti elementi di riflessione utili a
meglio comprendere le attuali dinamiche
4 – Politica
In stretta
relazione con queste riflessioni sociologiche, giuridiche e filosofiche si
muovono poi alcuni filoni di pensiero più strettamente politici. Prendono
infatti corpo alcuni concetti che già affrontano gli snodi dell’attuale dibattito
sulle istituzioni. Il primo concetto fondamentale consiste nel riconoscimento
del ruolo del conflitto che diventa l’elemento capace di tutto racchiudere e
generare: a
congiungere istituzioni, società e politica è la funzione del conflitto. Da
sempre le società sono attraversate da fisiologiche divisioni delle quali spesso
non si ha adeguata coscienza e nozione, ed è allora proprio la prassi
istituente, il formarsi di nuove istituzioni prodotte da queste linee di
conflitto, che consente di avere chiara evidenza delle sue linee di frattura. Il
cui punto finale di caduta, secondo concetto basilare, è inderogabilmente
rappresentato dalla forma di potere, della sua attribuzione e articolazione,
che viene conformata dalla prassi istituente: non esiste, né è mai esistita, una società
senza potere, intendendo però per potere non solo e non tanto il dispositivo formale
di dominio, ma soprattutto la configurazione delle istituzioni che lo rappresentano
e lo definiscono. Le istituzioni sono allora i luoghi, le procedure,
entro cui si rapportano potere e conflitto. Difficile indicare i pensatori
novecenteschi che meglio rappresentano questi concetti, il pensatore per
eccellenza del potere istituente, da tutti richiamato, resta ancora
Machiavelli. Per la sua capacità di vedere le natura conflittuale della società,
per il suo attribuire al conflitto il ruolo di motore della storia, e per la
sua intuizione del ruolo delle istituzioni come ciò che tiene insieme interessi
contrapposti evitando che il conflitto politico degeneri in violenza. Il pensiero di Machiavelli ancora oggi conduce
allo snodo chiave nel cuore del paradigma istituente resta l’enigma di come possa una
contrapposizione creare ordine. Un
enigma inaggirabile che impone di affrontare il ruolo negativo della prassi
istituente.
III = Produttività del negativo
1 – Fine della mediazione
La negatività
della prassi istituente non riguarda i suoi effetti, va oltre ed investe la
natura stessa dell’istituire. Se l’atto dell’istituire suggella un processo che
produce un elemento prima inesistente, questo da subito assume uno status di
entità che si vota a permanere. Vale a dire che il concreto risultato di una
prassi istituente di fatto nega il processo che lo ha istituito puntando in
senso opposto al garantirsi stabilità, perché il processo istituente sia produttivo occorre che
dia vita a qualcosa che però acquisisce una realtà esterna al movimento che
l’ha prodotta. L’istituzione è
allora al tempo stesso libertà e necessità, soggetto e oggetto, positivo e
negativo. L’illusione di riuscire in qualche modo a “mediare” questo gioco di
contrasti, ancora coltivata dall’idealismo di Hegel (Friedich
Hegel, 1770-1831, filosofo tedesco), non appena
le istituzioni acquistano maggiore consistenza storica si rivela fallace: lo è già
con la prassi rivoluzionaria di Marx, (1818-1883), lo
è nella visione di Nietzsche (1844-1900)
dello Stato come “mostro freddo”, lo è infine nella stessa idea di Weber
della società capitalistica come “gabbia d’acciaio”. In tutte queste letture il negativo
ha però un peso tale da escluderlo, si mantiene come potenza dialettica in grado di includere il
positivo. Viene però così impedita ogni possibile mediazione e si
congela un situazione senza una via d’uscita che non sia l’irriducibile
contrasto tra il negativo che punta alla conservazione ed il positivo inteso
come sola destituzione del presente: da un lato la progressiva sclerosi istituzionale,
dall’altro la libertà dalle istituzioni, quando invece la via da percorrere è
quella di un nuovo nesso tra istituzioni e libertà
2 – Protesi dell’umano
Ma
l’ineliminabile presenza del negativo rappresenta solo una sorta di eterna condanna
a questa contrapposizione oppure può rappresentare un incentivo per la
trasformazione delle istituzioni? Alcune delle scuole di pensiero novecentesche
si sono misurate con questo dilemma, ad iniziare dalle considerazioni,
piuttosto controverse, portate avanti dalla “antropologia filosofica” di
marca tedesca. Secondo la quale la questione di partenza, in stretta analogia
con il rapporto tra natura e tecnica, consiste nella necessità dell’uomo, per
realizzare i propri bisogni esistenziali e sociali, di ricorrere a dei “filtri istituzionali”. Così come per gestire al
meglio il rapporto con la natura, conscio della limitatezza dei suoi strumenti
naturali, l’uomo si è dotato di protesi tecnologiche, allo stesso modo la
gestione delle tante problematiche del vivere in comunità, in società, non
risolvibile sulla base degli istinti naturali, richiede il ricorso a specifiche
protesi, che altro non sono che le istituzioni.
Un processo articolato che comporta un rischio: così come le protesi
tecnologiche implicano quello della sostituzione della dimensione naturale con
quella artificiale, le istituzioni corrono il rischio di divenire una
dimensione a sé permeata da una logica di continuo processo di smantellamento di sè stesse Una posizione decisamente conservatrice e per
questo fortemente criticata: in un celebre confronto Adorno (Theodor Adorno, 1903-1969, filosofo e sociologo tedesco)
obiettò a Gehlen (1904-1976,
filosofo e sociologo tedesco) il maggiore
rappresentante della antropologia filosofica, che le istituzioni non sono solo protesi, ma il
frutto di un determinato sviluppo storico, perciò il loro destino non dipende
solo dalla loro tenuta , ma al contrario dalla loro disponibilità al mutamento
3 – Istinti ed istituzioni
In linea con
la critica di Adorno una seconda scuola di pensiero, quella francese sorta
attorno a Deleuze (Gilles
Deleuze, 1905-1995, filosofo e sociologo), interpreta
il negativo della prassi istituente in senso esattamente contrario: le
istituzioni non frenano gli istinti umani ma, a certe condizioni, li possono
esaltare positivamente. Deleuze propone questa visione partendo dalla
sconnessione che a suo avviso esiste tra istituzione e legge. Mentre la legge
rinchiude l’azione umana entro obblighi e divieti, incorporando in tal modo il
negativo, l’istituzione le fornisce modelli utili alla sua realizzazione, svolgendo
quindi un ruolo positivo: la tirannia è un regime con molte leggi e poche
istituzioni, la democrazia uno in cui vi sono molte più istituzioni che leggi. La prassi istituente è pertanto molto più
feconda della pura attività legiferante. La visione di Deleuze non sembra però
poter risolvere appieno l’esistenza del negativo che in effetti può tornare a
riaffacciarsi nella stessa prassi istituente là dove non viene
negata la tendenza di ogni istituzione alla propria auto-conservazione. La
lodevole volontà di vedere nelle istituzioni il riconoscimento degli istinti
naturali - che porta ad esempio la sessualità a trovare riconoscimento nell’istituzione
“matrimonio”, oppure l’avidità ad avere campo in quella della “proprietà
privata” – inevitabilmente deve fare i conti con il progressivo loro ingessarsi
in un sistema di divieti e regole. Vale a dire che l’istituzione non può
coincidere perfettamente con l’istinto, essa presuppone una distanza che, anche
se in misura inferiore a quella fissata dalla legge, in qualche modo si carica
di un negativo. E non a caso le istituzioni sono sempre diverse, perché variano in
relazione alla ragione, al costume, ma soprattutto all’immaginazione di chi le
inventa in un determinato contesto
4 – Immaginario sociale
Ed è proprio
il rapporto tra istituzione e immaginazione ad essere al centro del pensiero di
Castoriadis (Cornelius
Castoriadis, 1922-1997, filosofo e psicanalista greco naturalizzato francese).
La sua posizione, esterna sia al pensiero liberale che a quello marxista, pone
in stretta connessione i due termini: immaginare qualcosa significa istituirla, facendo di un
non-essere un essere Questo non significa però che l’immaginario,
nel nostro caso quello sociale, crei l’essere dal nulla, se così fosse di fatto
si ricadrebbe nella concezione teologica della “genesi”. Ora, essendo anche la
natura umana in qualche modo istituita, è da questa primordiale istituzione che
l’immaginazione si è sviluppata per produrre a sua volta istituzioni, come a
dire che: si
istituisce solo a partire dal già istituito.
Neppure la storia può avere di per sé stessa un inizio, un’origine,
perché se mai lo possedesse precederebbe, in una sorta di riproposizione
teleologica della genesi, ogni processo di immaginazione sociale. Il quale può quindi
esistere solo lungo il sottile equilibrio tra essere e divenire, tra storia e
natura, in un contesto perennemente dialettico che, per inverarsi, ancora e
sempre necessita di un negativo capace di fare attrito nel flusso incontrollato del
divenire e per fare ciò di
assumere, a seconda dello specifico contesto, le forme di pratiche rituali,
sociali, politiche, Ma, anche in questo caso,
se è dal confronto/scontro con queste forme del negativo che scatta
l’impulso all’immaginazione, non si annulla
il negativo ma semmai su di esso ci si innesta
IV = Oltre lo Stato
1 – Istituzioni senza sovrano
Queste diverse
correnti di riflessione attorno al tema delle istituzioni testimoniano
attenzioni, soprattutto teoriche, nel concreto processo storico a lungo le
istituzioni sono state considerate meri contenitori dei comportamenti
individuali e collettivi. Classi sociali, modelli economici, trasformazioni
tecnologiche apparivano fattori determinanti delle dinamiche politiche assai
più della prassi istituente. Guardando alla realtà occidentale è
solo con gli anni Sessanta e Settanta che all’attenzione della cultura in senso
lato, e a quella sociale e politica in particolare, si impone come oggetto
ineludibile di analisi l’impetuosa crescita di momenti istituenti che, nelle
forme più variegate - associazioni, circoli, federazioni, assemblee permanenti,
comitati, fondazioni, oppure su versanti opposti lobbies e corporazioni – incidono
in modo significativo sull’insieme delle dinamiche sociali e politiche: lo scenario è
cambiato: le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre più rilevanti nel
definire, orientare, trasformare le agende politiche. E se è pur vero che a lungo l’istituzione per
eccellenza è rimasta quello dello Stato, e delle sue articolazioni, è altrettanto
vero che anche su di esso l’affermarsi di quelle diffuse ha avuto un forte
impatto. In un momento in cui, non a caso, lo Stato sempre meno è riuscito a mantenere
il suo ruolo di titolare delle decisioni politiche nel mutato contesto
globalizzato. E sembra ormai difficile che si possa innescare un percorso
inverso, anche perché problematiche come l’emergenza ambientale, le crisi
economiche, la stessa pandemia, confermano la necessità irreversibile di
momenti decisionali ad un livello superiore a quello statale: lo stesso
fenomeno impropriamente definito “sovranismo” appare più una forma di
resistenza ai processi in corso che una prospettiva capace di intercettare il
futuro. In questo quadro il ruolo
delle istituzioni diffuse acquista a maggior ragione un ruolo decisivo sotto
diversi profili, sia quando esprimono la voglia di cambiamento sia quando, al
contrario, danno voce alla volontà di frenarlo.
2 – Il diritto dei privati
Anche in
questo mutato contesto l’evoluzione delle norme giuridiche, un campo
erroneamente troppo trascurato dal dibattito culturale-politico, aiuta a
comprendere la posta in gioco visto che, come già evidenziato in precedenza, il
Diritto altro non è che l’espressione di una trama di relazioni presenti nel
corpo sociale ed Il mutamento, o
la conservazione, delle norme di Legge altro non esprime che l’esito di un
confronto, di uno scontro, extra-giuridico. Ed è proprio di riflesso a questo quadro, e
proprio pensando alla prassi istituente, che in campo giuridico si è da tempo
avviato un importante approfondimento sulla opportunità/necessità di definire
un nuovo “diritto”,
indicativamente denominato come “collettivo”, che si collochi a metà tra i due
tradizionali diritti, quello privato e quello pubblico. Per muoversi in questa
direzione occorre mettere al centro dell’attenzione non tanto un soggetto
giuridico terzo, ma l’insieme delle relazioni fra le sfere del pubblico e del
privato in gran misura gestito proprio dalle istituzioni. Si collocherebbe così
in questa dimensione un diritto collettivo, “più che privato e meno che
pubblico”, che dia riconoscimento normativo alla mutua cooperazione di soggetti
organizzati in istituzioni capace quindi di entrare nell’orbita
vivente di quel vasto mondo di beni, di utilità, di fini e di interessi che
hanno per comune denominatore una collettività
3 – Giustizia sovversiva
I tempi di
modifica degli ordinamenti giuridici sono di norma molto lunghi e complessi, ed
è quindi lecito non attendersi svolte immediate, ma dal dibattito su un nuovo
diritto “collettivo” è già emersa la constatazione che questo diverso intreccio
tra società, politica e diritto non necessariamente debba ancora poggiare sulla
centralità dello Stato. Non fosse altro che per il fatto che sempre più spesso
la prassi istituente si misura e si attiva per problematiche che,
conseguentemente all’avvento della dimensione transnazionale, scavalcano
l’ambito dei singoli Stati. Si parla cioè di dinamiche che, collocandosi al di
fuori dei singoli schemi giuridici nazionali, impongono una sorta di costituzionalismo
senza Stato. Una dimensione nuova, né interamente pubblica e né
interamente privata, nella quale far rientrare la complessità delle
problematiche che investono, globalmente, sfere della società contemporanea
quali ad esempio: economia, scienza, tecnologia, ambiente, medicina, trasporti,
istruzione, diritti individuali e di genere. Tutti questi settori presentano
evidenti linee di frattura tra pubblico e privato, tra interessi nazionali e
aggregazioni transnazionali, tra estensione piuttosto che restrizione degli
spazi democratici. Si è di fronte ad una divaricazione così complessa, e per
molti versi fin qui inesplorata, perché chi viene investita non è più una
relazione tra individui, ma una intera comunità se non l’intera umanità, da
rendere impossibile la sua gestione, in questo caso giuridica, avendo al centro
il “singolo individuo”. Purtroppo
però il
linguaggio del diritto dispone ancora solo del lessico della persona.
Ma può il diritto da solo farsi carico di questo di più di giustizia? E se in
qualche modo fosse tentato di farlo non si sostituirebbe in tal modo alla
politica? Sovvertendo allora l’intera evoluzione della cultura occidentale che
da sempre vede la netta disarticolazione fra lo ius romano, la fonte del
diritto, e la polis greca, la casa della politica. Questa domanda di una nuova giustizia
impone quindi da subito due correlati passaggi. Il primo chiama in causa la
politica che deve, diventando più consapevole della vera posta in gioco,
mettere ordine in questa molteplicità di linguaggi inserendo in quello del
diritto la lingua del diritto “comune”. E, secondo passaggio, in questo
sforzo a cui la politica è chiamata la prima sponda alla quale appoggiarsi sono
proprio le istituzioni che possono costituire gli snodi decisivi in cui i fili del diritto e
della politica, da sempre separati, riprendono ad intrecciarsi in un orizzonte
poststatuale
4 – Oltre lo Stato?
Il declino
della forma Stato nell’epoca della globalizzazione è fenomeno ormai diffuso,
resistono solamente le grandi potenze autosufficienti e in posizione dominante
al centro di una ampia rete di relazioni. Altro discorso è invece quello della
crisi della “sovranità”
che si manifesta in forme molto più complesse e variegate. L’incrocio fra
questi due fenomeni attesta l’evidente contraddizione costituita dal fatto che molti
aspetti riconducibili alla globalizzazione neoliberista, ed al formarsi di
centri di potere sovra-nazionali, si sono paradossalmente realizzati sulla base
di politiche statali mirate in tale direzione. In questo quadro quanto mai
complesso, ed in costante contraddittoria evoluzione, emerge comunque come dato
comune di ogni singola situazione statale e dell’insieme globale delle loro
relazioni, una nuova dialettica fatta di scontro tra poteri e contropoteri. Ogni accelerazione dei processi che pongono in
crisi Stato e sovranità nazionale, attiva infatti forme di reazione, più o meno
compiute e adeguate, a dimostrare che la sostanza dello scontro sociale non è
mutata: seppure frastagliata su piani diversi sempre si articola nel contrapporsi
di poteri e di opposizioni che mirano ad essere reali contropoteri che chiama
le istituzioni, la prassi istituente, ad un nuovo ruolo. Ciò richiede un nuovo impegno istituente
lungo due linee differenziate ma convergenti: la prima è quella di
una nuova e diversa relazione fra istituzioni pubbliche e private, fondata
sulla categoria di interesse “comune” in grado di concretizzarsi in ambito
nazionale e sovra-nazionale. La seconda
è quella di sviluppare una maggiore interrelazione tra le istituzioni classiche
– partiti, sindacati, gruppi parlamentari – e quelle di nuova forma e finalità per
definire e condurre comuni politiche di carattere civile, sociale, ambientale
rivitalizzando in questo modo, proprio con l’innesto al loro interno della
categoria del “comune”, le grandi famiglie politiche novecentesche: liberali,
popolari e socialiste
V – Istituzioni e
biopolitica
1 – Biopolitica
Al termine di
questo percorso attorno al tema delle istituzioni occorre riprendere la questione
di partenza: la
relazione enigmatica tra istituzione e vita umana alla quale, va detto,
la cultura contemporanea, e la filosofia politica in particolare, qui esaminate
non sembrano aver fornito risposte convincenti. Qualcosa è mutato con l’avvento
della “biopolitica”
uno dei paradigmi politici più utilizzati in questi ultimi anni. In quale
misura il rapporto tra biopolitica e istituzioni può fornire indicazioni utili
a risolvere tale relazione enigmatica? Queste domande consentono un preciso collegamento
con la stessa vicenda pandemica. Covid19 ha attaccato la nostra vita ed ha
imposto provvedimenti di chiara natura biopolitica, ma al tempo stesso, come si
è visto, è stato possibile affrontarlo solo grazie al ruolo decisivo delle
istituzioni. Eppure non sembra che, anche in una situazione emergenziale come
questa, si sia realizzata tra di loro una vera integrazione. Da dove nasce
questa persistente sensazione di eterogeneità? Non
convince la convinzione diffusa che la biopolitica, nella versione che di essa
ha dato Foucault (Michel
Foucault, 1926-1984, filosofo e sociologo francese), stabilisca
di fatto un rapporto così diretto e stretto tra politica e vita tale da non
necessitare della mediazione di istituzioni: Questa convinzione si basa sull’idea
di Foucault che la biopolitica non si rapporti più ai cittadini intesi come
soggetti giuridici, ma a loro come esseri viventi e che, per sottoporli a
controllo sociale, non servano più “leggi”, le quali implicano la presenza di
istituzioni, ma “norme”
messe in atto da “apparati”, ad esempio medici e amministrativi, che puntano
più a normalizzare che a sanzionare. Ma ancora una volta ciò che colpisce è la disgiunzione che ne
deriva tra la sfera della vita e quella del diritto. Oltretutto anche
le “norme” per essere efficaci necessitano di istituzioni, ovvero di tutte le
articolazioni istituite dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della
sanità, piuttosto che della famiglia, della religione, della sessualità. Il
problema quindi non è risolto sostituendo al termine istituzione quello di
apparato. Si cela qui un limite della visione di Foucault che vede le due polarità
della biopolitica, il bios e la politica, esaminate separatamente per poi però ricongiungerle
in una maniera forzata che finisce per sovrapporre l’una all’altra. Con
la conseguenza di rendere concettualmente impossibile l’intero rapporto tra
biopolitica e istituzioni.
2 – Doppia nascita
L’idea di
Foucault di una vita che può esprimersi solo fuori dalle istituzioni, viste
come una gabbia oppressiva, trova una sponda esattamente opposta in quella di
Hannah Arendt (Hannah
Arendt, 1906/1975, filosofa e politologa tedesca poi naturalizzata statunitense)
che vede al contrario le istituzioni minacciate dalla pressione della vita. A
suo avviso l’agire politico altro non è che un incessante crearsi di
istituzioni non riducibili alla centralità del potere costituito. Al centro
della sua attenzione sta quindi la prassi istituente, la vera matrice della
storia, per il suo essere sempre l’inizio di qualcosa di nuovo. Che non è però riducibile al ciclo della vita
naturale, alla nascita biologica, ma al contrario alla volontà di sottrarsi
alla naturalità ed ai suoi cicli. La prassi istituente diventa una sorta di
seconda nascita che differisce dalla prima ed ha significato proprio in tale
differenza. La politica è
un’attività umana feconda solo quando riesce a sottrarsi all’urgenza della
vita. Le rivoluzioni, come quella francese, sono state vincenti finché sono
state al riparo dalla pressione dei bisogni naturali, fino a quando hanno retto
all’urgenza delle esigenze primarie, che hanno imposto la fine della prassi
istituente e l’instaurazione, liberticida, di istituzione durature, di un
potere sovrano. all’origine
di questa divaricazione sta la concezione cristiana della sacralità della vita
diventata il bene supremo a cui ogni altro va sacrificato. Per ragioni esattamente opposte anche in questa
visione non sembra esservi soluzione al rapporto tra vita e istituzioni, l’una
è irriducibile alle altre per Foucault, ovvero queste lo sono alla vita per la
Arendt
3 – Diritto impersonale
Al termine
dell’intero percorso nel dibattito culturale novecentesco attorno al tema del
rapporto tra vita e istituzioni non sembra quindi che siano emerse adeguate
idee per il superamento della loro relazione enigmatica. La sola strada
percorribile sembra allora quella, facendo comunque tesoro di quanto di utile è
emerso in questo dibattito, di costruire un duplice movimento: delle
istituzioni verso la vita e della vita verso le istituzioni. Il
primo movimento chiama necessariamente in causa la politica e la sua capacità
di attivare un profondo ripensamento del “Diritto” finalizzato ad un chiaro incorporamento in
esso del fatto sociale, perché la vita del
diritto è anche vita nel diritto.
Può in questo senso essere utile recuperare il concetto di “diritto
comune” di cui si è detto sciogliendo però una sua intrinseca contraddizione:
il “diritto” inteso nella sua accezione classica è sempre un insieme di
prerogative di alcuni nei confronti di altri, mentre “comune” può essere tale
solo se non prevede prerogative particolari.
E’ allora necessario un ulteriore passo in avanti: per identificare nuove e diverse linee di
incontro tra istituzioni e vita più che di “diritto comune” si dovrebbe parlare
di “diritto impersonale”, un concetto che meglio segna lo
scavalcamento sia del “diritto privato” che del “diritto pubblico”. “Impersonale”
può, diversamente da “comune” indicare un diritto che superi il paradigma fin
qui basilare dell’individualità, ma senza poi convergere in una indistinta
nozione di socialità, di collettività: l’io e il noi, entrambi prima persona singolare e
plurale, vanno sostituiti con la terza persona dell’egli. O meglio ancora dell’esso, una versione ancor più
impersonale capace di andare oltreal’ antropocentrismo. In una dimensione
giuridica così strutturata tutte le istituzioni, e la prassi istituente,
sarebbero meglio predisposte a recepire le istanze della vita intesa nel senso
più ampio possibile, di dare davvero corso alla “institutio vitae”
4 – Istituire la vita
A questo
movimento delle istituzioni verso la vita deve corrispondere quello della vita,
del bios in senso inverso. E non a caso si parla di bios, e non di zoe, si
parla cioè non della sola “materia” vivente, ma di una vita umana che è da
sempre “istituita” in un tessuto articolato di relazioni, di pensieri, di
linguaggi, di simboli, di cultura, da cui non si può prescindere. Lo stesso
termine di “nuda vita” non si presta ad essere inteso nella sua estrema
interpretazione di prevalenza della materia vivente, ma semmai di una possibile
sudditanza delle ragioni della vita istituita rispetto alle esigenze impellenti
di quella organica: non è mai esistito un uomo puramente naturale, così la
vita, fin quando non è spenta, resta pur sempre una forma di vita nel senso
pieno del termine. Eppure esistono purtroppo nella storia e nella
cultura umana situazioni in cui ciò viene negato: lo sono ad esempio le
manifestazioni di razzismo, il ridurre la vita al colore della pelle, le
proclamazioni nazionalistiche dello “spazio vitale” che possono sfociare nel
genocidio. Ma lo è lo stesso disastro ambientale frutto di un cieco
antropocentrismo che in nome della vita umana sacrifica quella dell’intero
pianeta. Ed è proprio in contrasto a
queste degenerazioni che si pongono il pensiero e la prassi istituente capaci
di guardare ad una esistenza umana inscritta nel tessuto
della propria storicità. Alla categoria dell’impersonale deve allora
corrispondere dalla parte della vita, nel movimento opposto verso la coincidenza
di vita e istituzioni il porre l’accento sulla differenza che fa di ogni vita
qualcosa di irriducibilmente singolare: una
vita, quella vita. Per rispettare e valorizzare le differenze
servono le istituzioni, momenti di comune aggregazione di volontà che mirano a
salvaguardarle dal pensiero unico, dall’appiattimento in sistemi giuridici, dai
dispositivi sociali ed economici, dal peso di interessi egoistici. In questo
quadro anche la stessa categoria della biopolitica va ripensata per superare la
divaricazione fra il vederla come un potere assoluto sulla vita ed il volerla
vivere illusoriamente libera da ogni potere
Epilogo
Quanto qui
proposto sul piano teorico è già anticipato nella realtà dal proliferare di
istituzioni esterne, e spesso alternative, a quelle formali dello Stato. La
pandemia non fermerà, sul tempo lungo, questo processo di superamento del
paradigma della sovranità: ne sono segnali evidenti, accanto ai temi
tradizionali …. la
centralità attribuita ai corpi viventi, la segmentazione della popolazione in
base all’età, al genere, alle condizioni di salute, il rapporto tra politica e
medicina …… I movimenti che li sostengono possono realizzarsi solo
istituzionalizzandosi per acquisire più forza e durata e così riportando in
primo piano ….. l’istitutio vitae, nel doppio senso di vitalizzare le
istituzioni e di restituire alla vita quei tratti istituenti che la spingono
oltre la mera materia biologica …..
Nessun commento:
Posta un commento