In questo
post non attraverseremo l’intero pensiero occidentale così come richiamato da Galimberti, ma molto più
modestamente cercheremo di offrire una sintesi del suo saggio finalizzata a recuperare
altri elementi di riflessione su un tema “il rapporto tra uomo e tecnica” che,
unitamente ai concetti di “progresso” e di “modello di sviluppo”, abbiamo da
tempo posto al centro della nostra attenzione. L’impressionante crescita del
peso della tecnologia in tutti gli aspetti del nostro vivere, i dubbi connessi
a molte delle possibili ulteriori evoluzioni, la necessità di ridefinire, nella
fase di ripresa post pandemica, un diverso modello di sviluppo finalizzato a
sostenibilità ambientale e giustizia sociale, sono infatti elementi, sui quali
da tempo come CircolarMente stiamo riflettendo. Di ciò convinti abbiamo pertanto
concentrato questa sintesi sulle parti del saggio che più strettamente sono
connesse al tema rinunciando, ad entrare nel merito del complesso delle elaborazioni
filosofiche di Heidegger. Lo stesso saggio di Galimberti non ha questa
ambizione, essendo a sua volta concentrato sul tema della tecnica, ed evita di
inserirsi più di tanto nell’acceso dibattito che da tempo, con opinioni fortemente
contrastanti, si agita attorno alla filosofia heideggeriana. Così come sul
rapporto tra di essa e la sua adesione al nazismo, un fatto tanto innegabile
quanto oggetto di differenti interpretazioni. Del saggio di Galimberti
recupereremo quindi per sommi capi alcuni capitoli (Parte Prima = La vita di
Heidegger – Parte seconda = Le opere di Heidegger – Parte Quarta = La critica –
Parte Quinta = Bibliografia ragionata) per concentrarci sulla Parte Terza = Il
pensiero di Heidegger, temi e motivi.
Parte Prima = la vita di Heidegger
1889 = Martin Heidegger nasce in una cittadina del Baden tedesco da una
famiglia cattolica tutt’altro che benestante, ma che gli consente di studiare
al ginnasio e di iscriversi a Filosofia
1913 = Si laurea in filosofia a Friburgo con la tesi “La dottrina del
giudizio nello psicologismo” che, data alle stampe nell’anno successivo, gli fa
ottenere già nel 1915 una libera docenza 1915-16
= presta servizio militare durante la Prima Guerra ma, per sua fortuna, in
una tranquilla postazione nelle retrovie,
1917 = si sposa con Elfride Petri. Ha due figli maschi, il secondo
frutto di una relazione extramatrimoniale di Elfride ma riconosciuto come
legittimo da Heidegger
1919 = diventa assistente di Husserl (Edmund Husserl, 1859-1938, filosofo e matematico, fondatore della
corrente filosofica della fenomenologia) presso l’Università di Friburgo,
dove tiene corsi e seminari su tematiche teologiche. Husserl non esita a
dichiarare che “la
fenomenologia siamo io e Heidegger e nessun altro”
1920 = conosce Jasper (Karl
Jasper, 1883-1969, filosofo e psichiatra) con cui manterrà un rapporto,
anche conflittuale, per tutta la vita
1923-1928 = E’ professore incaricato di filosofia all’Università di
Marburgo. Inizia ad essere conosciuto e stimato in ambito culturale tedesco.
Sono rimaste famose le sua lezioni tenute con metodi innovativi e molto
coinvolgenti
1925 = Conosce Hannah Arendt (1906-1975,
filosofa e politologa, anch’essa costretta, in quanto ebrea, a fuggire dalla Germania negli Stati Uniti) con la quale
vive una importante relazione amorosa e passionale
1927 = Pubblica “Essere e tempo”, l’opera che lo impone come
astro nascente della filosofia tedesca e che segna la rottura con Husserl e la
fenomenologia
1928 = nonostante la rottura succede allo stesso Husserl nella
cattedra di filosofia all’Università di Friburgo
1929 = Contribuisce al suo crescente successo la celebre disputa con
Cassirer (Ernst
Cassirer, 1874-1945, filosofo e storico della filosofia, costretto all’esilio
dal nazismo) sul tema “Kant e il problema della metafisica” dalla quale esce
“vincitore” soprattutto per l’irruenza della sua esposizione
1933 = Viene eletto rettore di Friburgo su proposta di un gruppo di
docenti nazionalsocialisti, subito dopo Heidegger aderisce al Partito Nazista.
1945 = nella Germania distrutta Heidegger, di fatto culturalmente ed
umanamente emarginato per la sua
adesione al nazismo, cade in una grave crisi psicologica e deve seguire una
terapia psichiatrica
1946 = riprende contatti con l’ambiente filosofico, seppure in
posizione defilata, in particolare avvia una corrispondenza con Sartre (Jean-Paul Sartre, 1905-1980,
filosofo e scrittore), sui temi dell’esistenzialismo e dell’umanesimo
1952 = Rivede la Arendt e lentamente, anche grazie ai nuovi rapporti
con l’esistenzialismo francese, esce dall’isolamento culturale
1955 – 1973 = Si ritira in una sorta di baita rifugio nella Foresta Nera dove
revisiona e approfondisce tutte le sue opere. Il suo autoisolamento è
interrotto solamente per alcune conferenze e brevi viaggi in Grecia e Francia
1976 = Muore a Friburgo
(per chi fosse
interessato ad approfondire accanto a quelli culturali gli aspetti più esistenziali è consigliato un bel libro
“Il tempo degli stregoni” di Eilenberger Volfarm, ed. Feltrinelli, che
ripercorre le vite intrecciate di Heidegger, di Cassirer, di Walter Benjamin e
di Ludvig Wittgenstein)
Parte Seconda = Le opere di Heidegger
(recuperiamo
qui la sintesi di alcuni passaggi contenuti nella Parte Prima relativi alla “atmosfera culturale del suo tempo”. Si
tenga poi conto che in questa parte seconda Galimberti si limita a ripercorrere
l’evoluzione del pensiero di Heidegger attraverso le sue opere più rilevanti
delle quali evidenzia solo i concetti cardine)
Opere giovanili = in prevalenza articoli su riviste filosofiche, e traduzioni
scritte di alcuni seminari, sono tutte quelle che precedono la pubblicazione di
“Essere e tempo”. Spicca “Il concetto di tempo nelle scienze storiche”
un’opera che consente di mettere a fuoco la maturazione del pensiero fin lì
caratterizzato da due aspetti: la critica a Kant e l’adesione alla
fenomenologia di Husserl, un tratto che accompagnerà, anche nella sua
evoluzione in una netta critica, l’intera sua opera filosofica. L’adesione alla
fenomenologia, è basata soprattutto dalla condivisione del metodo di indagine
filosofica che deve puntare a conoscere
i fenomeni esterni che si pongono alla coscienza del soggetto non nella loro
veste empirica ma nel loro essere espressione dell’esperienza che li ha
prodotti. Ne discende la critica all’idea kantiana che alla base della
conoscenza vi sia un soggetto puro, trascendentale (l’IO penso) e non, come in
effetti è, un soggetto storico
Essere e tempo = E’ l’opera per eccellenza di Heidegger che - per quanto
incompiuta, dei tre volumi previsti Heidegger ha dato alle stampe solo la prima
parte - ha segnato buona parte del dibattito filosofico novecentesco. Rappresenta
l’avvio di un percorso filosofico assolutamente originale, e come tale oggetto
di discussioni e controversie, che Heidegger non ha mai definito compiutamente,
ma che ha arricchito con chiarimenti, agganci e passaggi collegati, lungo tutta
la sua produzione filosofica. “Essere e tempo”
nasce dalla radicale critica che Heidegger muove all’intera filosofia
occidentale da Platone in poi. A suo avviso infatti essa ha totalmente
trascurato il tema della vera essenza della “Physis”, che la cultura romana
ha inteso tradurre con “natura” e che egli invece rende con il termine
“essere”,
il quale si manifesta in varie forme, vegetali ed animali, da Heidegger
denominate “enti”.
L’errore della filosofia, e più in generale di tutta la cultura occidentale,
sfociato nel contemporaneo nichilismo, evidenziato in questa sua opera consiste
nel considerare di fatto “l’essere” come un nulla e nel ritenere “l’ente” come
il tutto. Una dimenticanza tutt’altro che trascurabile essendo il tratto
essenziale della cultura dell’Occidente, è infatti a partire da essa che si
costituiscono le scienze, i saperi e le pratiche economiche e sociali. Alla sua
base sta un atteggiamento definibile come “ontico”, ossia che si limita alle forme, ai
caratteri, degli enti, che ha usurpato quello “ontologico”, quello che guarda
alla loro vera essenza e proprio di una corretta dottrina dell’essere che miri alla
ricerca del suo senso ultimo. (ricordiamo che “ontico” e “ontologico” sono stati i termini
della “Parola” di questo mese). Le forme che l’essere assume rappresentano “l’esser-ci”,
la manifestazione dell’essere nel mondo, e creano una coppia di concetti,
parallela a quella ontico-ontologico, che divide la physis tra ciò che è “esistentivo”,
la forma, e ciò che è “esistenziale”, ossia il vero “ex-sistere”,
“stare fuori”
la vera l’estensione nel mondo dell’essere. Lo stesso esser-ci umano
corrisponde a questo vero esistere, e individua l’unico ente che può aspirare
alla comprensione dell’essere mediante un processo che chiama in causa tre
aspetti: “ciò
che si domanda – ciò al quale di domanda – ciò che si trova domandando”.
Ma la prevalenza dell’approccio ontico ha inesorabilmente falsato questo
processo impedendo all’esser-ci uomo di raggiungere gli altri enti come sono “in sé”, ed ha posto, così facendo, le condizioni per l’affermarsi dell’oggettività
della scienza che riduce la valutazione degli enti, dell’intera physis, unicamente
alla loro “utilizzabilità”, alla loro appropriazione e riproducibilità. L’esistenza
autentica dell’uomo, grazie ad un approccio ontologico, dovrebbe invece
consistere in una comprensione genuina dell’esser-ci del mondo. Questo diverso
rapportarsi Heidegger lo chiama “cura”, e consiste nella “responsabilità” (ritorna qui in una diversa veste la nostra “parola” del mese scorso) nel
concreto porsi verso gli altri enti, nel giusto modo in cui ad essi “si risponde”.
Nel realizzare questa “ex-sistenza” autentica l’uomo si imbatte
inevitabilmente nella sua finitezza, nella mancanza di certezza del futuro,
nell’insormontabilità della morte, così maturando un senso costitutivo di “angoscia” di fronte al peso ineludibile
della sua temporalità, il suo essere strettamente collegato al “tempo”.
Galimberti approfondirà nella Parte
Terza i concetti presenti in “Essere e tempo” più connessi al rapporto uomo-tecnica,
limitandosi in questa parte a tracciare le sue linee guida, quelle che però
trovano solo qui forma compiuta. La cesura con le previste due parti successive
non è dovuta ad impedimenti particolari, ma alla difficoltà che Heidegger
troverà nel passare in ispecie alla parte terza, che non a caso avrebbe dovuto
avere titolo “Tempo
ed essere” (la
seconda doveva consistere nella ricostruzione storica dello sviluppo del
pensiero filosofico ontico, in parte rintracciabile in altre sue opera minori), dallo
stesso Heidegger spiegata con la mancanza di un “linguaggio” adatto ad
esprimerla, intendendo con questo non solo il problema di disporre di un
vocabolario diverso da quello della filosofia classica, ma soprattutto quello
di dare forma compiuta ad una “parola” che altro non è che “la parola
dell’essere stesso”. Il tema del linguaggio mancante spiega pertanto
la ragione per cui l’intera attività filosofica di Heidegger successiva alla
pubblicazione di “Essere e tempo”, di fatto una costante riflessione sui temi
che sarebbero dovuti confluire in forma organica in “Tempo ed essere”, non
abbia trovato veste compiuta
Attorno alla metafisica = L’attenzione nata attorno ai temi sollevati da “Essere e tempo”
si tramuta quindi per Heidegger in un impegno ad approfondire e chiarire le
considerazioni in esso svolte. Un primo passaggio è consistito nell’indicare
quale “metafisica”,
quale “andare
oltre (meta) la fisica”, oltre la centralità degli enti,
può essere sviluppata dalle riflessioni di “Essere e tempo”. Heidegger si
misura con questo impegno lungo tutto il ventennio successivo alla sua
pubblicazione, e produce una serie di opere, fra di loro strettamente connesse,
che in qualche modo, seppure mai risistemate in un corpo unico, possono essere
viste come la seconda parte di “Essere e tempo”: “Dell’essenza del fondamento” – “Che cos’è
la metafisica” – “Dell’essenza della verità” – “Introduzione alla metafisica” –
“Nietzsche” – “Lettera sull’umanesimo” sono i titoli di queste
opere. Ancora una volta il punto di partenza è rappresentato dall’errore
originario di aver concentrato l’attenzione unicamente sull’ente. Un errore che
Heidegger imputa in primo luogo alla filosofia, ma dal quale non sono indenni
tutte le scienze, che oltretutto non possono che interrogare partendo dal loro
specifico interesse. Succede così che lo stesso ente sia indagato in modo
diverso a seconda se interrogato dalla
chimica, dalla fisica, dalla biologia e via discorrendo. L’insieme delle
risposte però non potrà mai fornire mai una visione completa, essendo l’essenza
di fondo conoscibile solo con un approccio ontologico che guardi al suo
“essere”. E’ in questa impossibilità di pervenire alla vera conoscenza che si amplifica
quel sentimento di “angoscia” già determinata dall consapevolezza della
temporalità dell’esperienza umana. A differenza della paura, che è il temere un
determinato ente, l’angoscia rappresenta quindi il sentimento che rivela il “niente”
che si manifesta quando si rende evidente la nostra incapacità di cogliere la
vera essenza dell’essere. Ma al tempo stesso è solo dall’angoscia, dallo sforzo
di affrontarla, che può nascere la spinta ad un diverso modo di interrogare
l’essere e l’ente. Ed è proprio questa spinta che apre la strada per una nuova
metafisica, la quale deve conseguentemente misurarsi con la domanda che riporta
l’essere al centro della ricerca: “perché c’è l’ente e non il nulla? Che senso ha che ad
“essere” sia l’ente e non il nulla?’”. Segue immediatamente, come
secondo irrinunciabile passo, la forza di rinunciare ad una spiegazione
solamente “causalistica”,
ciò che infatti deve essere indagato non è la causa dell’esser-ci dell’ente ma
il senso ultimo del manifestarsi in esso dell’essere. Ma la scienza è in grado
di rispondere, concentrandosi solo su causa e modalità, solo alla prima parte
della domanda: “perché c’è l’ente’”. Deve
allora essere compito della filosofia, nella veste di una nuova metafisica,
porsi di fronte alla seconda parte: “e non il nulla”, avendo l’ardore, che
sgorga dall’angoscia, di “pensare l’impensato”, ossia di porsi
finalmente le giuste domande ontologiche sull’essere degli enti, evitando
inoltre di ricorrere, in assenza di risposte, ad un “Ente che spieghi tutti gli enti”.
La proclamazione nietzschiana della “morte di Dio” altro non è che la denunzia
dell’impossibilità di tale tentativo che, avendo buona parte della sua
consistenza nell’originaria idea platonica di “bene”, la trascina con sé nel
fallimento sancito dall’attuale nichilismo. Dal quale però è impossibile uscire
se si resta nella metafisica classica la quale in fondo è la sua stessa
matrigna. E’ allora tempo della “svolta”, di recuperare l’impensato, per
tentare di rispondere a “e non il nulla”. La verità per Heidegger altro non può
essere che “alétheia”,
ovvero “ciò
che non è nascosto”, il vero “svelamento” degli enti, ciò che non può venire
dalla scienza, ma solo da una nuova metafisica intesa come un “nuovo inizio”,
come “evento
dell’essere”
Contributi alla filosofia (Dall’Evento) = Non sono
rintracciabili in questa ultima parte della produzione filosofica di Heidegger
altre opere compiute, ma solo brevi saggi non lineari e di complessa relazione
tra di loro. Diverse note a margine della raccolta “Contributi alla filosofia” confermano
il rafforzarsi della sua convinzione a non affidare ogni eventuale passo in
avanti nella ricerca sulla verità, inteso come un emergere, come un “E-vento”
del rinnovato rapporto con l’essere, al linguaggio della vecchia filosofia. Quello
usato in molti di questi saggi diventa però molto complesso e tale da rendere
problematica l’interpretazione di molti passaggi. Heidegger è consapevole di
questa difficoltà linguistica, e della frammentarietà della sua elaborazione,
tanto da non pubblicare in vita i Contributi (lo saranno nella originaria caotica
forma solo nel 1989), fino a riconoscere in una nota a margine che “la parola manca
e nessuna cosa è dove la parola manca”
I quaderni neri = Sono trentatré taccuini, dalla copertina nera, che contengono
sparsi appunti filosofici redatti in modo saltuario dal 1931 al 1969.
Pubblicati a partire dal 2014 sono divenuti, per il loro tono intimo e libero
da finalità specifiche, gli scritti di Heidegger che di più hanno alimentato
l’acceso dibattito sul rapporto, suo personale e delle sue idee filosofiche,
con l’ideologia nazista. Esula dalla finalità di questa sintesi entrare nel
merito, e lo stesso Galimberti non si pronuncia apertamente; per dare una idea
di quanto la questione abbia coinvolto il mondo accademico, diviso fra chi
sostiene l’evidenza di uno stretto rapporto e chi lo nega o quantomeno lo
minimizza, ricordiamo, fra i tanti citati nel saggio, i nomi di Victor Farìas,
filosofo cileno, di Maurizio Ferraris, di Donatella Di Cesare, nella fila dei
primi, ed in quella dei secondi Hans-Georg Gadamer, a lungo vicino ad
Heidegger, Gianni Vattimo.
Parte terza: Il pensiero di
Heidegger: temi e motivi
Le parole del pensiero aurorale, il primo inizio = Per meglio
comprendere il giudizio di Heidegger l’attuale predominio della tecnica sull’uomo
è opportuno riprendere alcune delle sue considerazioni sul ruolo giocato in
questo senso dall’errato sviluppo della filosofia occidentale. Non diversamente
da Hegel e Nietzsche, ma per diverse motivazioni, è molto forte il rapporto di
Heidegger con la filosofia presocratica greca da lui giudicata come la forma
corretta di pensiero, il “primo inizio” di una metafisica poi tragicamente
soffocata dall’avvento del platonismo. In stretta coerenza con la sua
attenzione al “linguaggio”
Heidegger recupera le riflessioni del “primo inizio” con un attento recupero
etimologico del significato delle parole
che hanno caratterizzato questa originaria filosofia occidentale. La prima è
proprio “physis”,
non correttamente tradotta dalla cultura romana nella sua generica accezione di
“natura”,
che Heidegger restituisce al suo più profondo significato di “ciò che sboccia
da sé stesso”. In questa lettura, persino poetica, è racchiuso ciò
che deve essere inteso per “essere” e, per estensione, per “differenza
ontologica”. Ciò che sboccia da sé stesso non necessita per
manifestarsi della presenza umana, il suo apparire è un tratto a sé costitutivo
dell’essere, ed è quindi possibile dire che “physis significa il dispiegarsi aprendosi”.
Gli enti, tutti gli enti, altro non sono ciò che si manifesta in questo
aprirsi. Ancora meglio si può quindi affermare che “physis significa l’apparire in tale
dispiegamento”, e ritenere di conseguenza che solo “l’ente è”
perché dell’essere si deve invece dire che “si dà”, ed è in questo suo darsi che l’essere
appare. Ma se l’ente non è l’essere ma solo ciò che l’essere, lasciandosi
accadere, fa apparire diventa lecito sostenere che “physis significa il tenersi in questo
apparire e il dimorarvi” e che l’ente è tale solo “finché”
in esso l’essere si dà. Questo “finché” fissa in modo inesorabile la
temporalità dell’ente e lega indissolubilmente l’essere con il “tempo”,
ma allora “physis
significa il dominare che sbocciando perdura”. Poggia su questa
successione di definizioni di physis la domanda che tutte racchiude: “ma se l’essere è
il dominare ed il perdurare come è potuto accadere il suo assentarsi lungo
tutto il corso della filosofia dell’Occidente?” La risposta è in
Platone e nel suo identificare l’essere di ogni ente con “l’idea di…”, con il “logos” umano
che entra con esso in relazione, il quale ha però in questo modo compresso l’essere
nel suo manifestarsi nell’ente, lo ha interamente assorbito in esso e,
affidandosi al solo approccio ontico, ha creato le condizioni per ridurre
l’ente a mero oggetto. Ma così non era
prima di Platone quando “lògos” non indicava solo il “pensiero che
raccoglie ciò che si mostra” ma anche “parlare”, e parlare significa “far comparire”.
Essere e pensiero nella visione del “primo inizio” coincidono quindi e si completano
nella “presenza”.
Non è quindi, come sostiene Platone, l’uomo che possiede l’essere nella forma
di “idea di….”, ma è l’essere, inteso come physis e come essere del pensiero,
ad avere l’uomo. Poggia su questo decisivo fraintendimento l’idea, che da
Platone in poi ha ispirato scienza e filosofia, dell’ “l’uomo che possiede il logos, il pensiero”,
e quindi l’essere nella sua forma di “idea di…” che la verità si riduca ad
essere conoscenza dell’ente. Raggiunta la quale e fatto quindi rientrare l’ente
nell’orizzonte dell’uomo – che si è via via manifestato nella aristotelica “dianoia”
(l’attività del conoscere), nell’ “’intellectus” romano e poi medioevale, nel “cogito”
cartesiano ed infine nella “volontà di potenza” nietzschiana - questi ne acquisisce la piena disponibilità ed
il totale dominio.
L’epoca del dominio tecnico =
Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo
si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più
inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento
del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di
raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò
che sta realmente emergendo nella nostra epoca
Heidegger, “L’abbandono” (1959)
La dimenticanza
dell’essere che dalla filosofia platonica in poi si è inverata, e la conseguente piena acquisizione della
physis, mediante la sua oggettivazione, nella sfera della disponibilità umana, sono
esattamente i presupposti che hanno determinato l’avvento del dominio tecnico.
L’“essenza
della tecnica non è nulla di tecnico” è infatti la dichiarata
convinzione di Heidegger, che nega la presunta contrapposizione tra scienza, e
tecnica, e pensiero umanistico per sostenere
che, esattamente al contrario, ambedue sono in effetti il compimento della
metafisica occidentale subentrata al “primo inizio”. La quale, dimentica
dell’essere, affida quindi al logos umano il predominio sugli enti il cui
“essere” viene da questo stesso onticamente determinato. L’essere
degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro
assegnati all’interno del sistema della tecnica. “Oblio dell’essere” e “”primato della
tecnica” sono pertanto per Heidegger gli aspetti di un’unica vicenda
culturale. A questo presupposto
iniziale, su cui però poggia l’intera storia del pensiero scientifico e
tecnologico, cosa si è poi aggiunto e completato affinché il dominio tecnico si
realizzasse pienamente? Per Heidegger la risposta consiste nel costituirsi, a
partire dalla Modernità, della scienza come “anticipazione matematica”, vale a dire nel
procedere della conoscenza degli enti mediante ipotesi, “anticipazione”,
controllate con il calcolo, “matematica”, che si muovono in una visione della
physis via via confermata, precisata, ampliata proprio grazie alle risposte
fornite dalla physis stessa all’essere in tal modo interrogata, indagata. Kant,
nella sua “Critica della ragion pura” menzionando gli esperimenti di Galileo e
Toriicelli, attesta definitivamente la centralità dell’uomo che progetta e
dispone dell’ente avendolo tradotto in oggetto matematico. Scienza e tecnica
prendono corpo partendo da questo comune presupposto, con la prima che
oggettiva gli enti e la seconda che li rende disponibili all’uso reso possibile
da questa oggettivazione. Ambedue, grazie alla separazione dell’ente
dall’essere sancito dalla metafisica platonica, possono così agire nell’ottica
della “poiesis”,
“il far
venire qualcosa dal nulla”, ossia della “produzione”. La produzione
tecnica in particolare mira a condurre la physis a nuove funzioni diverse da
quelle previste dal sua condizione naturale, operando così una sorta di “alètheia”,
di “svelamento”,
ma artificiale, di quanto nell’ente già
albergava ma celato, nascosto. L’essenza della tecnica per Heidegger non
risiede tanto nel manipolare, nel produrre, quanto nello svelare ciò che sta
nell’ente. Le condizioni per il dominio dell’uomo sulla physis poggiano proprio
su questo svelamento. Esiste poi a suo avviso una differenza fondamentale tra
la “téchne”
antica e la tecnica moderna basata sulla anticipazione matematica. Se la prima
chiedeva alla natura di produrre qualcosa usando particolari accorgimenti,
inducendola quindi a liberare da sé stessa il prodotto, la seconda punta invece
ad estrarre, a possedere e ad accumulare, tutta la forza genetica presente
negli enti. La téchne dispiegava la forza della natura in direzioni volute, la
tecnica moderna la accumula per disporne in base ai propri piani, tratta cioè
la physis come un fondo a disposizione: “l’aria non è più vento in poppa, ma ossigeno ed altri
gas, il suolo non è più fecondità naturale, ma agricoltura meccanizzata e
programmata, i monti sono cave, il sottosuolo serbatoio di petrolio e minerali”. Se la téchne ancora stava nell’abbraccio
della physis e nel suo naturale, ancorchè sollecitato, svelarsi, la tecnica
decide in modo autonomo ciò che deve essere svelato e le modalità dello
svelamento. Il vero obiettivo, la vera essenza, della tecnica, un carattere
costitutivo al quale non pare poter finora sfuggire, consiste in effetti nel
realizzare la piena e definitiva disponibilità dell’intera natura, di tutti gli
enti. Così facendo, e così essendo divenuta, la tecnica ha dissolto la stessa
oggettività scientifica ed ha convertito l’iniziale domanda alla base della
scienza, “che
cos’è la natura?”, nella domanda “che cos’è la conoscenza?”. La
microfisica, resa possibile solo dalla perfezione degli strumenti tecnologici,
non indaga più “ciò
che è e dove è” ma “ciò che si vede”. Nei fantascientifici
laboratori sotterranei ciò che si vuole vedere è la luce di collisioni
provocate ad arte. La conoscenza è divenuta quindi per certi versi un artifizio
tecnologico che rende problematico lo stesso poter dire se le leggi che si
stabiliscono per gli osservabili possano valere anche per gli inosservabili. Ed
allora con il superamento della oggettività uomo e physis non si fronteggiano
più come soggetto ed oggetto, “che cos’è la natura?”, ma sono divenuti i
protagonisti di una conoscenza, “che cos’è la conoscenza?”, condizionata dal
loro reciproco disporsi. Lo stesso svelamento dell’ente ha evidentemente, con
il crescere del dominio della tecnica, assunto altre forme. Per Heidegger
infatti è bene non dimenticare che l’ambizione umana di svelamento della
natura, affidato per l’appunto a scienza e tecnica, è espressione della stessa
“natura” dell’uomo, del suo primordiale “esser-ci” in questo mondo. Ed allora si può
comprendere che non in questo “istinto” consiste l’errore dell’approccio ontico
agli enti, ma nella presunzione dell’uomo, alimentata dallo sviluppo impetuoso
della tecnica, di poter essere dispensato
da questa sua co-appartenenza alla physis, nel poter fare conseguentemente
affidamento sul solo “pensiero calcolante della anticipazione matematica”. Un presuntuoso affidarsi che non solo ha implicato
l’incompleta comprensione dello svelamento, ma che, con il ruolo ormai
determinante della tecnica nel suo rapporto con physis, ha creato le condizioni
del rischio che l’uomo stesso sia ridotto a semplice strumento della tecnica
stessa ormai assurta a valore in sè. Per Heidegger l’unica possibilità di
sfuggire a questo pericolo è quella di affiancare al “pensiero puramente
calcolante” un “pensiero
meditante” in grado di far emergere l’esistenza di questo rischio, di
darne contezza, e di avviare di conseguenza un percorso di ricongiungimento
alla originaria unione di pensiero ed essere, e di re-inserire la tecnica in un
rinnovato rapporto equilibrato tra uomo e physis. “Il pericolo è nella perdita del senso a cui
ogni cosa va soggetta quando la sua essenza non rinvia più all’essere ma al
progetto che, calcolandola, l’ha posta in essere”. Il richiamo di
Heidegger al ruolo di un “pensiero meditante” non sembra però che sia stato
raccolto dall’umanità contemporanea. Già nel 1966 lo stesso Heidegger lo
riconosceva sconsolato. E di fronte a sé non aveva che i primi segnali dell’ulteriore
incredibile incremento “quantitativo” della tecnica che ha trascinato
con sè, un radicale cambiamento “qualitativo”. Incremento e cambiamento che
Galimberti, in luogo di Heidegger, valuta e giudica in prima persona usando le sue
categorie analitiche. “oggi la tecnica, per effetto del suo incremento e della
sua diffusione, non è più uno strumento
nelle mani dell’uomo, ma il suo ambiente,
la sua dimora. La tecnica ha ormai
ridotto l’uomo a suo funzionario”. Come aveva intuito Heidegger nel
sostenere che “la
tecnica ha come scopo l’assenza di scopo”, essa ormai mira
esclusivamente al proprio potenziamento, al proprio imporsi come unico ordine
del mondo, in cui “l’efficacia” è divenuta l’unico criterio di
verità. Un ordine entro il quale Gùnther Anders
(1902-1992, filosofo tedesco allievo di Heidegger)
ritiene che ormai ”la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla
nostra capacità di prevederne gli effetti”. Si è fatto ormai
urgentemente indispensabile Il ripristino di un pensiero meditante, che potrà
però darsi solo se a fronteggiare la tecnica si porrà una nuova metafisica, una
nuova filosofia ed una diversa ontologia, davvero capaci di dare forma ad “nuovo inizio”
L’opera d’arte e la produzione poetica =
Si è già detto della pressante ricerca che Heidegger fa, nell’ultima parte
della sua ricerca filosofica, di un linguaggio in grado di esprimere il questo
“nuovo inizio”. Questa ricerca non sembra essere stata completata, non a caso è lo stesso Heidegger a spiegare la
mancata stesura della Parte Terza di “Essere e tempo” proprio per
l’indisponibilità di un linguaggio, filosofico, per la “mancanza della parola adatta”.
Nasce da questo fallimento la sua ammirazione per l’arte, e per la poesia in
particolare. Per la loro dote di usare cose, e parole, al fine di raggiungere
la “verità”,
lo “svelamento” dell’essere distorto dalla tecnica. Ogni opera d’arte diventa
allora per Heidegger “poesia”, diventa il riappropriarsi del
linguaggio poetico che “non si manifesta nell’aperto, ma apre l’apertura”
L’altro inizio: una regione totalmente diversa =
L’ultima fase della sua produzione filosofica ruota attorno ad una riflessione
(auto)definita “esercizio
ermeneutico”, sempre basato sul costante misurarsi con l’interpretazione
della “parola”, che Heidegger sposta dalla pura interpretazione, l’ermeneutica,
all’ “ascolto”.
Si tratta di una riflessione complessa, di cui non possibile dare conto
sinteticamente in questo post, che lo porta ad un impressionante lavro di ricostruzione
etimologica di tutte le parole che di più, a suo avviso, si connettono all’essere
(nel precedente paragrafo sono riportate alcune limitatissime
testimonianze di questo lavorio attorno al significato originario di alcune
parole). E che costituisce per Heidegger l’ulteriore conferma che il “passaggio dalla
scienza al pensiero” non può essere un percorso lineare, ma un vero
e proprio “salto”
in una “regione
diversa”. Nella quale dimora un pensiero completamente diverso da
quello che da Platone in poi ha ridotto il pensare umano alla conoscenza ontica
degli enti finalizzata al loro controllo. Un pensiero quindi che non ha le
finalità “prensili”
della civiltà occidentale che su di esse si è costruita, ma che, con un salto “all’indietro”,
torni al “primo inizio” allo stupore ed alla curiosità verso l’essere del
pensiero presocratico. Consiste in questo primo passo quell’e-vento che
costituisce il presupposto inziale dell’irrinunciabile avvio del “pensiero
meditante”.
Parte
quarta: la critica + Parte quinta: bibliografia ragionata
Per non
appesantire questa sintesi, che temiamo possa già così essere comunque complessa, non riassumiamo queste
ultime due parti del saggio di Galimberti dedicate a ripercorrere i filoni
interpretativi dell’opera di Heidegger – sostanzialmente suddivisi tra
l’interpretazione esistenzialista (Sartre ed altri), quella ontologica
(Emmanuel Levinas ed altri), quella ermeneutica (Hans-Georg Gadamer, Gianni
Vattimo ed altri) – e una proposta di testi scelti nella sterminata
bibliografia che da decenni, senza sosta, riprende e approfondisce i temi della
riflessione filosofica heideggeriana.