Il “Saggio” del mese
NOVEMBRE 2021
C’è un “non detto”, perché dato per scontato, per immutabile,
nella quasi totalità delle riflessioni economiche e politiche, comprese quelle
al centro dell’attuale dibattito sulla ripresa post-pandemica (Recovery
Fund/PNRR) e sulla “green economy”: che tutto quanto realizzabile in campo
economico/produttivo non possa non avvenire che seguendo le logiche della
“economia di mercato capitalistico”, il sistema economico e produttivo che ha
progressivamente uniformato l’economia globale, in particolare nella sua
recente concezione ideologica “neo-liberista”. Vale a dire la narrazione che,
dagli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso, è riuscita ad imporre
globalmente l’idea che l’economia non possa che essere “capitalistica”, essendo
l’unica forma che abbia una sua coerenza interna perché poggia su vere e
proprie “leggi economiche”. In parole povere il famoso TINA (There Is No Alternative, non c’è alternativa) di
thatcheriana memoria. La svolta neo-liberista, fin qui ampiamente vincente,
sembra avere di fatto azzerato l’ampio dibattito che ha accompagnato il
capitalismo fin dal suo sorgere spesso sottoponendolo ad un esercizio critico capace
di evidenziare le sue intrinseche contraddizioni. Il fronte dei suoi oppositori,
da sempre sostanzialmente diviso fra chi ne sollecita il totale superamento
piuttosto che la sua, più o meno radicale, riforma, sembra infatti essersi
rassegnato a restare una flebile voce. Non mancano, nel campo delle teorie
economiche, voci autorevoli che tentano di riaprire i giochi visti gli evidenti
guasti prodotti dalla globalizzazione neoliberista, come ad esempio quelle dei
premi Nobel per l’economia Paul Krugman e Joseph Stiglitz, di Thomas Piketty e
di Mariana Mazzuccato. Ma ancora adesso, nella
decisiva fase in cui il mondo intero è chiamato a delineare un modello di sviluppo capace di rimediare
ai danni pandemici e soprattutto di affrontare la crisi ambientale e climatica alla
radice della sua genesi, il “non detto” e “Tina” non sembrano conoscere
adeguate opposizioni. Il saggio scelto per questo mese di Novembre ha invece lo
scopo opposto di rompere questo silenzio e di far comprendere che, al
contrario, alternative possono esistere. Che è cioè possibile vedere nell’economia
di mercato capitalistico un “normale” prodotto del divenire storico, e quindi come
tale “normalmente” modificabile, se non persino superabile, come qualsiasi
altro ogni fenomeno storico umano.
il cui autore è Fred Block (1947 - sociologo americano, professore di di
sociologia presso l'Università della California Block , editorialista
e saggista, considerato come uno dei principali sociologi economici e politici
del mondo, legato al pensiero di Karl Polanyi ed in stretto rapporto di
collaborazione con Mariana Mazzucato)
che per perseguire questo scopo si propone, come evidenziato nel
sottotitolo, di rendere manifesta “l’illusione”
che a suo avviso caratterizza il capitalismo neoliberista. E’ evidente il
richiamo al titolo dell’opera di Sigmund Freud “L’avvenire di un’illusione”,
che si riferiva però al ruolo della religione. E come per Freud anche per Block
il termine “illusione” non intende necessariamente qualcosa di falso, ma
piuttosto una forma di pensiero ….. accettata per
convenzione, non sottoposta alla critica della ragione libera, e come tale
tramandata ……
L’illusione capitalistica, inquadramenti generali
La natura
dell’illusione capitalistica
Per “illusione capitalistica” si deve
intendere …… quell’insieme
di credenze e supposizioni che costituiscono le fondamenta della retorica
attorno al discorso pubblico sulla politica economica nel dibattito
contemporaneo …. Il collante che tiene unite queste credenze e
supposizioni consiste nell’idea che il capitalismo sia un sistema autonomo e
totalmente autosufficiente, perché basato su una logica, e su correlate leggi,
capace di una forte tenuta e stabilità. Questa idea si articola su quattro
concatenati corollari:
l’economia capitalistica è dotata di
una autonomia tale da permettere piena manovra alla sua logica. Questa
autonomia va intesa come baluardo invalicabile per il potere politico pubblico
esiste quindi una tensione costante
fra democrazia, come sistema di individuazione del potere politico, e
capitalismo
gli individui devono però far
prevalere, sempre e comunque, il proprio interesse personale ed il diritto alla
ricchezza
questa atomizzazione degli interessi
crea un sistema micro-economico in gran misura soggetto a casualità e quindi, a
maggior ragione, impermeabile a forme di eccessiva regolamentazione
Una possibile definizione di capitalismo, che
punti ad estrapolare i tratti comuni nelle tante versioni che si sono succedute
e che sia capace di sintetizzare quanto sopra, può allora limitarsi ad essere
quella di ….. un
sistema economico/sociale nel quale i detentori della proprietà privata
competono tra loro sul mercato ……
Ne deriva allora una sorta di ……. determinismo
economico ….. in cui l’intero
sistema di relazioni sociali è definito, determinato per l’appunto, dalla
componente economica. Se la natura dell’attuale illusione capitalistica, nella forma assunta negli ultimi quattro/cinque decenni, può essere
così sintetizzata diventa da subito evidente la sua totale incongruità con il
reale percorso storico che vede il capitalismo, sia a livello globale sia a
livello dei singoli paesi, essere al contrario un ……. sistema totalmente privo di carattere
unitario e di logica interna …..
Eppure il risultato con il quale dobbiamo ancora oggi misurarci è il prevalere
diffuso, anche nel campo dei potenziali oppositori, dell’opinione esattamente
opposta a quanto attestato dalla realtà: …… il capitalismo è unitario, un unicum organico dotato di
immutabile e invincibile coerenza interna
Le origini dell’illusione
Dove e quando questa
illusione si è formata? chi ne è stato
l’artefice? Sul dove e quando non ci sono dubbi: negli USA nella seconda metà
del secolo scorso. Preceduta dalla paradossale evoluzione del termine “capitalismo”.
Negli USA, diversamente dal contesto europeo in cui la più solida tradizione
marxista lo aveva da tempo inserito a pieno titolo nel vocabolario economico e
politico, questa
parola ha conosciuto un lungo, e per molti versi incomprensibile, ostracismo probabilmente
perché da sempre troppo strettamente associata al “pericolo comunista”.
Ancora nei primi anni Sessanta gli stessi nascenti movimenti di rivolta
giovanile ritenevano opportuno non citarla esplicitamente per timore di
innescare sordi pregiudizi. Non a caso quindi la sua riabilitazione non è stata
opera della sinistra americana ma, per l’appunto paradossalmente, di un gruppo
di intellettuali di destra con in prima fila l’economista Milton Friedman (1912-2006,
economista statunitense), a ragione considerato uno dei padri fondatori del
neoliberismo, l’editore Malcom Forbes (1919-1990), proprietario del
“Forbes magazine”, e dell’intellettuale Irving Kristol (1920-2009). Nell’ambito del
più generale processo neoliberista di riaffermazione dei valori puri del
mercato il termine “capitalismo” venne di fatto provocatoriamente recuperato
proprio per riaffermare la sua intrinseca validità. A Marx che aveva
scientificamente definito la struttura capitalistica dell’economia di mercato
si replicava che proprio
la natura strutturale del capitalismo messa in luce da Marx lo rendeva il
miglior sistema economico e sociale ed il termine che la definiva meritava
quindi di essere orgogliosamente citato. E’ evidente che l’affermarsi
della “illusione capitalistica” è stato un processo articolato nel quale sono via
via confluite, fra i tanti fattori costitutivi, elaborazioni teoriche, scelte
politiche, affermazioni elettorali, manipolazioni mediatiche, debolezze del
fronte opposto, ma se si deve collocare, temporalmente e geograficamente, con
una certa esattezza simbolica la sua nascita è a questo specifico passaggio che
si deve guardare. Perché è già qui, nella sua dichiarazione di intenti e nelle
motivazioni messe in campo, che si può individuare la rivendicazione, divenuta
poi vincente, di essere un sistema strutturato, unitario, coerente, infallibile
e quindi insostituibile
L’illusione di una unità autonoma e coerente
Le
presunti inattaccabili basi sui quali poggia l’avvenuta affermazione, a destra
come a sinistra, dell’illusione capitalistica richiedono di essere analizzati
in modo specifico, ad iniziare dalla convinzione che…. la parola capitalismo rimandi ad una teoria
sociale che considera l’economia di mercato una entità autonoma e coerente …… e come tale in grado di sviluppare una propria
strutturale logica interna, tale da indirizzare uniformemente tutte le attività
economiche, produttive, finanziarie. Questa convinzione è però totalmente
smentita dalla concreta evoluzione storica, la quale dimostra, al contrario,
che il mercato non è mai stato una entità così a sé stante da risultare
impermeabile a quanto succede negli altri ambiti della società. …. ogni operazione
di mercato si fonda su un combinato disposto di azioni che guarda all’interesse
economico ma che, incidendo su tutti gli aspetti del vivere individuale e
sociale, risente delle norme e delle consuetudini che li regolano ……
Il mercato non è quindi, a puro titolo esemplificativo, per nulla impermeabile
ai sistemi giuridici, ed al loro normare le relazioni umane comprese quelle
economiche. E tanto meno può esserlo dal generale quadro dei rapporti di forza
sociali capace di orientare l’andamento dell’economia in direzioni diverse
determinando le logiche che lo ispirano. Quand’anche fosse possibile un certo
grado di impermeabile autonomia questa, nel concreto processo storico, si è da
sempre articolata in differenti forme ispirate dalle specifiche logiche economiche
operanti in ogni singolo contesto. E quindi. …. se i singoli mercati, come la storia
attesta, non condividono nella pratica reale la stessa logica diventa
impossibile invocare l’esistenza di un unico, unitario ed autonomo sistema
economico ….. In realtà non di sistema autonomo e coerente si deve
parlare ma della fortissima influenza che questa separatezza del mercato, tanto
vantata quanto non riscontrabile nella realtà, ha avuto, ed ha, sul suo rapporto
con la sfera “Stato”, il quale, in linea generale, effettivamente si è sempre
mosso troppo condizionato dal presupposto, di essere …… sostanzialmente esterno al sistema
economico ….. Un presupposto
che ha natura totalmente teorica essendo il frutto di un lungo processo di
elaborazione – che prende avvio dal pensiero filosofico di John Locke (1632-1704, filosofo inglese)
per completarsi e rafforzarsi in successive teorie, ad esempio, in quelle economiche
di Friedrich von Hayek (1899-1992, economista tedesco) uno dei
padri putativi dell’attuale neoliberismo - di una precisa concezione dei rapporti
economici, visti come una dimensione spontanea, insita nella natura umana, tale
da precedere l’esistenza stessa dello Stato. Uscendo però dal mondo
delle opinabili idee e tornando ad uno sguardo sul concreto procedere dei
processi economici emerge un quadro decisamente diverso, nel quale gli attori
economici sono ispirati, più che da presunte istintuali verità ideali, dalle specifiche
culture e contesti nei quali concretamente operano. Un esempio eclatante in
questo senso viene dal caso della Russia dopo il collasso del sistema sovietico
nel 1991 allorquando, in un paese totalmente privo di familiarità con le
logiche del mercato, le istituzioni economiche mondiali decisero di adottare
una “terapia
shock” di rapida introduzione dei meccanismi di mercato, quelli
stessi maturati nel paesi occidentali con lunghi e complessi processi di
assimilazione. (un
modo di procedere riscontrabile non solo in campo economico, si pensi alle
tragiche conseguenze della “esportazione della democrazia” in paesi con culture
del tutto diverse) Il risultato, ben noto, è stato il violento formarsi di un
mercato oligarchico con un livello di disuguaglianza economica senza pari nel
mondo, reso possibile non dall’affermarsi spontaneo di logiche “autonome e
coerenti” ma dal vuoto di potere politico e soprattutto dal crollo di tutte le
relazioni sociali. L’esemplare vicenda russa chiama in causa l’attuale intero
sistema capitalistico globale, che la narrazione a sostegno dell’illusione
capitalistica descrive come una sorta di …… organismo vivente in grado di raggiungere e dominare ogni
angolo del pianeta …. Ma a questo
aspetto, divenuto peraltro innegabile negli ultimi decenni, non corrisponde
affatto una sua caratteristica di “autonomia e coerenza”. Quasi mai l’economia globale ha seguito
percorsi lineari e a sé stanti, fin dal primo suo delinearsi è sempre stata
caratterizzata dall’esistenza di una potenza egemone. L’Inghilterra
prima, gli USA dopo - la Cina domani? - si sono costituiti come detentori del
potere di fissare regole, spazi di competenza, forme dei poteri locali, rotte
commerciali, l’intera gamma dei fattori che definiscono un sistema di mercato.
(non a caso
le attuali contraddizioni a livello globale derivano anche dalla incertezza
dovuta alla mancanza di una solida leadership, ovvero dalla lotta fra Usa e
Cina per esserlo) Che dire inoltre della impressionante influenza
che sulle logiche di sistema sta determinando la continua corsa alle innovazioni
tecnologiche capaci non solo di
rappresentare il vero nuovo deus ex machina dell’intera impalcatura economica, ma
di imporre nuove logiche di sistema strettamente connesse a nuovi decisori
globali? Basta pensare al crescente peso dell’economia “immateriale” che si muove, mossa da proprie logiche interne,
lungo percorsi che non rispondono più a quelle classiche di “autonomia e
coerenza”, peraltro, come si è visto, del tutto presunte. In conclusione …..non appare per
nulla suffragata da riscontri storici reali l’illusione di concepire l’economia
di mercato come un’entità naturale, preesistente alla nascita dello Stato
moderno, slegata, in quanto autonoma e coerente, dall’insieme delle relazioni sociali e delle
sue istituzioni e procedure, in grado quindi di funzionare secondo immutabili
logiche interne indipendenti dai sistemi produttivi.
L’illusione che la democrazia sia una minaccia per l’economia
Dalla
prima illusione discende, come inevitabile corollario della presunta autonomia
funzionale, il difficile rapporto del capitalismo con la democrazia. Così è
stato, superato e vinto il contrasto con l’ancien régime, fin dagli albori
della nascita del mercato capitalistico con il prolungato ostruzionismo verso
l’estensione del diritto di voto a lungo ritenuto privilegio di censo esclusivo
delle classi alte. La ragione che spiega questa diffidenza è sempre consistita
nel timore che l’estensione dei diritti democratici potesse portare a governi e
politiche che, rispondendo al volere della maggioranza, potessero limitare l’autonomia
stessa del mercato, mentre, opinione rimasta immutata fino ai giorni nostri,
secondo la vulgata capitalistica …… i governi e le istituzioni rappresentative dovrebbero
rispondere ai bisogni dell’economia di mercato, non agli elettori ….. Non si è peraltro trattato di sola teoria,
l’intero percorso storico del capitalismo è costellato di prevaricazioni e di
restringimenti, anche pesanti, delle pratiche democratiche. Un corollario contemporaneo
di questa tesi consiste, ad esempio, nella diffusa ostinazione ad imporre per
via legislativa il pareggio di bilancio, piuttosto che, come nel caso della crisi
del debito pubblico greco, esempio fra i tanti citabili, nell’imposizione dello
smantellamento pressochè totale del welfare. Eppure anche in questo caso ….. le evidenze
storiche mostrano che la democrazia non è per nulla ostativa allo sviluppo
economico e dello stesso mercato capitalistico….. Con l’unica
eccezione dell’attuale regime politico ed economico cinese, per il quale peraltro
la scommessa su quali sviluppi avrà nel futuro è ancora tutta da giocare,
nessun paese a democrazia limitata, se non cancellata, è riuscito ad assicurare
una crescita costante ed un benessere diffuso. Il soffocamento dei diritti
democratici ha sempre comportato una asfissia degli stessi rapporti economici
piuttosto che, per quelli sottoposti ad autentiche dittature, l’inevitabile
sbocco in situazioni di aperto conflitto, basti pensare a fascismo e nazismo, o
di inarrestabile insofferenza popolare, come nell’URSS. Esiste inoltre una
fondamentale prerogativa della democrazia, quella di essere ….. un importante
freno per le derive oligarchiche del mercato …... Ancora una volta infatti la storia ci
consegna una innegabile constatazione ….. l’esistenza di due distinti sistemi di mercato …… Ambedue coerenti con la classica struttura del
capitalismo, ed indipendentemente dagli specifici contesti spaziali e
temporali, si manifestano come un fisiologico sviluppo delle logiche del
mercato. Il primo è quello espresso dalle tendenze innovative del mercato,
dalle imprese che, giocando su nuovi sistemi produttivi piuttosto che su nuovi
prodotti, puntano a conquistare fette di mercato, il secondo, rappresentato
invece da quelle che, già godendo di posizioni predominanti, tentano di
consolidare questo vantaggio anche ricorrendo a pratiche ostative al libero
manifestarsi della concorrenza. Il primo, proprio per le sue caratteristiche innovative
ed espansive, richiede il pieno esercizio della libertà di mercato e quindi un
collegato regime di ampia democrazia, il secondo al contrario, proprio per la
sua necessità di ricorrere a strumenti di consolidamento della status quo, mira
ad una sostanziale restrizione dei margini di manovra sul mercato e ad un
sistema politico funzionale a queste tendenze conservative. Tecnicamente
definibile come “mercato
oligarchico” è comunque destinato, sul lungo periodo, ad esprimere
minore tassi di crescita a causa del suo limitato interesse agli investimenti
innovativi e del collegato inevitabile blocco della stessa leva della domanda.
Il pieno esercizio della democrazia rappresenta allora una
fondamentale barriera alle tendenze oligarchiche ed il contesto ottimale per la
salute generale del mercato e per le sue possibilità di sviluppo. Il contrasto
tra questi due sistemi di mercato sembra essere, al di là di ogni illusione
capitalistica, una tendenza insopprimibile, lo dimostra chiaramente la parabola
delle imprese tecnologiche e della Rete: nate come espressione di una
rivoluzionaria innovazione, anche ispirata da uno spirito libertario e
anticonformista, si sono rapidamente trasformate, avendo raggiunto livelli
incredibili di quote di mercato, in autentiche oligarchie capaci di
cannibalizzare ogni nuovo salto tecnologico e di condizionare pesantemente i
poteri politici nazionali e sovrannazionali. A dispetto dell’illusione della
inconciliabilità fra mercato e democrazia, il pieno realizzarsi di quest’ultima
rappresenta l’unico freno alle degenerazioni oligarchiche e la dimensione
ottimale per una piena dinamicità economica
L’illusione che l’avidità sia un bene
Un’altra
consolidata illusione capitalistica è rappresentata dalla convinzione che l’economia di mercato
funzioni al meglio in condizioni di completa libertà di iniziativa degli
individui nel perseguimento dei propri interessi economici. Un
autentico assioma che, collegandosi alla precedente illusione che il mercato
capitalistico sia un sistema coerente e autoregolato, lo ritiene in grado di
riportare automaticamente all’interesse generale ogni comportamento individuale
finalizzato al profitto. Per i soggetti economici non deve quindi sussistere
altro compito che non sia quello di massimizzare i profitti e perché ciò
avvenga lo Stato deve astenersi dal porre limiti e freni a tale finalità.
Esistono almeno due filoni di argomentazioni contrarie a questo assunto
divenuto una delle bandiere dell’attuale neoliberismo. Il primo, che si muove
sul piano teorico, consiste nelle numerose, ed influenti, prese di posizione
che, nello stesso campo capitalistico, hanno criticato questa esaltazione
dell’avidità. A partire da Adam Smith (1723-1790,
economista e filosofo scozzese) celebrato,
per il suo saggio “La ricchezza delle nazioni” come il “santo
patrono” del libero mercato, il quale completa, a formare un unicum non separabile,
questa sua fondamentale opera con un altro saggio, “Teoria dei sentimenti morali”,
in cui sostiene che premessa imprescindibile per l’ordine sociale è la
condivisione diffusa di valori morali che pongano un freno a sentimenti come
avidità, eccesso di ambizione e presunzione. Ancora più articolata è
la presa di posizione di Max Weber (1864-1920,
sociologo, filosofo ed economista tedesco) che con la
sua definizione di “capitalismo razionale” pone al centro delle
dinamiche sociali uno spirito capitalistico fortemente permeato di motivazioni
etiche derivanti dallo spirito protestante e calvinista. Il secondo filone, che
ancora una volta si basa sui concreti processi storici, avvalora queste prese
di posizione teoriche evidenziando i gravi guasti allo stesso corretto e
lineare procedere del mercato là dove vengano a mancare, o non siano fatti
adeguatamente rispettare, limiti normativi all’eccesso di massimizzazione dei
profitti. Nel nutrito elenco di crisi economiche innescate proprio dal
comportamento “avventuriero” (con
questo termine Max Weber definisce la forma di capitalismo alternativa a quello
“razionale”) di imprese e soggetti economici ossessivamente concentrate sulla
realizzazione di guadagni, tanto elevati quanto rischiosi, spicca sicuramente
quella del 2007/2008. Questa crisi sistemica globale, che ha evidenziato tutte
le profonde contraddizioni ed ingiustizie del neoliberismo e dalla quale ancora
oggi l’economia mondiale stenta a riprendersi, è stata innescata
dall’incontrollato proliferare di speculazioni finanziarie, quando non
autentiche truffe, basate sulla consapevole vendita di “titoli deteriorati”. Questo
incontrollato fenomeno ha avuto luogo anche grazie ai cambiamenti permissivi
introdotti, sulla spinta pressante del neoliberismo a partire dagli anni
Ottanta, nei sistemi politici e giuridici finalizzati proprio a rimuovere ogni
possibile ostacolo alla massimizzazione dei profitti, cancellando la precedente
severa impalcatura politica e giuridica alla base della straordinaria ed
irripetuta “età
dell’oro capitalistica” del trentennio 1950-1960-1970. Sullo sfondo
di questa rivoluzione involutiva aleggia l’idea, già vista in precedenza, che
Stato ed istituzioni … debbano assecondare i bisogni dell’economia di mercato
….. non applicando ad
imprese e soggetti economici quelle norme di limitazione delle sfere d’azione e
di rispetto di codici etici che sono peraltro applicate all’insieme di tutte le
altre categorie professionistiche. Un autentico paradosso illusorio che la
storia ha ben messo in evidenza: …. in nome dell’efficienza economica i teorici del libero
mercato ad oltranza hanno creato le condizioni per spingere l’economia verso
l’improduttività …. Nessun
dato economico, nessuna analisi comparata, ha infatti evidenziato nei decenni
successivi i “trenta gloriosi 1950-1960-1970”, quelli di maggior peso della
regolamentazione globale del mercato, un pari sviluppo ed aumento
dell’efficienza e della redditività economica. L’attuale persistente prevalere
dell’assoluta fede neoliberista nella “teoria della casualità”, e della collegata
visione “microeconomica”
che vedono nel mercato nulla di più dell’insieme delle azioni individuali,
mosse dal proprio tornaconto economico nel gioco domanda/offerta, non è in
nulla confortato dai reali riscontri economici. Questo approccio “bottom–up, dal
basso verso l’alto”, negando ogni possibile ruolo regolatore alle
istituzioni politiche e sancendo così il diritto all’avidità individuale di
prevaricare sull’interesse generale, è alla base non solo del disastro
ambientale e della accresciuta ingiustizia sociale, ma anche del declinante
andamento dell’economia globale. Ogni qual volta l’economia, e la politica ad essa
succube, non si pongono domande sulle finalità etiche del loro procedere ci si
incammina inesorabilmente sulla strada della predazione e della stessa perdita
di produttività
L’illusione di un sistema immutabile
Non
meno inaccettabile è l’illusione che il capitalismo sia dotato di logiche,
meccanismi, ed istituzioni in grado di restare, nella loro intima essenza,
immutabili nel tempo. E cioè che esso sia così strutturalmente fondato sulle
sue fondamentali caratteristiche di base – proprietà privata, produzione e
vendita di beni e servizi in un mercato concorrenziale nel quale gli operatori
economici puntano a realizzare il massimo possibile del tornaconto economico – da restare
sostanzialmente stabile e inalterato nel tempo. Secondo questa
illusione possono sì mutare forme dei processi produttivi, tecnologie, ampiezza
dei mercati, ma, vigendo una sorta di
parallelismo con lo sviluppo biologico, non muterebbe il DNA originario del mercato capitalistico.
Ancora una volta chiamando impropriamente in causa la visione marxista dello
sviluppo delle organizzazioni sociali definite dalla forma di possesso dei
mezzi di produzione, la successione degli stadi economico/sociali avrebbe sin
qui seguito un percorso evolutivo che ha nel capitalismo il suo apogeo storico.
All’interno
di questa visione evoluzionistica si
preciserebbe e prenderebbe poi forma quella, non a caso definita “essenzialismo”, che
individua nella formazione di società complesse quelle caratteristiche, per
l’appunto “essenziali”,
capaci di definire una sorta di codice genetico socio-economico di quello
stadio evolutivo. Entrambe queste concezioni non hanno retto allo sviluppo sia
delle teorie evoluzionistiche sia di quelle di formazione e sviluppo del DNA: basandosi
da tempo le prime su un percorso casuale
a balzi, tutt’altro che lineare, le seconde su meccanismi molto complessi di
costante accensione/spegnimento dei geni molto influenzati dalle relazioni fra
organismo ed ambiente. Non esistono quindi, anche accettando questo forzato
parallelismo biologico, condizioni tali da sancire una inattaccabile
immutabilità temporale. E tanto meno sembra possibile fondare questa
presunta immutabilità sulla genericità degli assiomi di base che definirebbero
tale essenza ultima del capitalismo, Se si analizzano obiettivamente le forme
storiche di organizzazione del mercato capitalistico si colgono differenze
strutturali nel modo di organizzare la proprietà privata, ed in quello di
realizzazione dei profitti, così marcate da rendere improponibile l’illusione
di una sua immutabilità temporale. Allo stesso modo l’organizzazione dei
processi produttivi, soprattutto con l’introduzione spinta delle recenti
innovazioni tecnologiche, è mutata in modo considerevole inserendo nel classico rapporto
imprenditori/dipendenti un terzo decisivo soggetto, “le macchine”,
capace di incidere in misura decisiva. Ma anche restando al solo rapporto
lavoratori/capitalismo non è proprio possibile negare l’evoluzione radicale avvenuta
nel suo modo di articolarsi. Certo la conflittualità antagonista fra i due
soggetti è un dato costante, ma i due classici modi con i quali il capitalismo ha da
sempre impostato le sue strategie produttive, uno più autoritario e coercitivo
ed uno più collaborativo e dialogante, si sono alternati,
temporalmente e geograficamente, in forme così diversificate da impedire la
constatazione di immutabilità. Sostenere che entrambi questi modi sono
compiutamente definibili come “capitalistici” rischia di non cogliere una loro diversità
così profonda da delineare due sistemi sociali del tutto alternativi. Si pensi,
ad esempio, a come il sistema produttivo “capitalistico” si è concretizzato nel
corso del tempo in Germania, e nei paesi del Nord Europa, piuttosto che negli
USA, molto più conflittuale quest’ultimo e molto più cooperativo, nelle stesse
forme giuridiche di “proprietà dei mezzi di produzione” (nei Consigli di Amministrazione di buona parte delle imprese
tedesche siedono con titolo di voto rappresentanti dei lavoratori),
il primo. Limitarsi a definire entrambi capitalistici non rende giustizia ad
una diversità di fondo che è maturata in modo quanto mai significativo a
partire dal secondo dopoguerra. Esiste inoltre un’altra ragione, persino più
strutturale, per diffidare del concetto di immutabilità del sistema
capitalistico: legata alle recenti innovazioni tecnologiche essa consiste
nella forma complessiva della società collegabile a quella della produzione.
Il concetto di società “post-industriale”
non rende pienamente il mutamento di fondo avvenuto. Se nella successione
storica i termini di “società agricola” e di “società industriale” rendevano
immediatamente evidente i modi di produrre e le forme dell’economia, quello di
“post-industriale” non offre la stessa chiarezza identificativa. Se è pur vero
che, al momento, il processo di trasformazione è ancora in una fase di
completamento, e se quindi è ancora prematura una definizione compiutamente
esaustiva, nell’ambito delle scienze sociali si sta consolidando quella di “società dell’abitare”.
Ovvero di una società che si definisce e si articola nel legame con il territorio
in cui si abita e in cui si consuma la quasi totalità del tempo di vita, e dove
non necessariamente insistono i luoghi di produzione. Non si tratta
di un normale fenomeno di pendolarismo, ma piuttosto di forme di produzione, va
da sé pienamente rientranti nel termine “capitalismo”, che, in aggiunta a
quelle tecnologicamente trasferibili via Rete ed a quelle, definibili come
“pesanti” ormai suddivise su scala globale, si sviluppano proprio in relazione
al territorio sul quale insistono. E’ il vastissimo mondo dei servizi, delle
attività para-artigianali, delle piccole e medie industrie di prodotti a scala
locale, di assistenza e manutenzione, della agricoltura a km zero, delle
imprese di sviluppo e ricerca. Questi piccoli mondi capitalistici stanno sempre
più riempendo il termine generico di “post-industriale” e, soprattutto,
definiscono un “sistema capitalistico” completamente differente da quelli che
lo hanno preceduto. E che possono contribuire a dare forma diversa anche al terreno di
scontro che da sempre accompagna lo sviluppo storico del sistema capitalistico:
quello del “potere di classe”. Sullo sfondo di un quadro delle
disuguaglianze economiche e sociali che hanno raggiunto livelli inaccettabili,
con una percentuale incredibile di ricchezza concentrata nelle mani di
percentuali risibili di popolazione, si stanno definendo risposte globali che,
accanto alla lotta per una diversa giustizia sociale collegata a quella
ambientale, guardano proprio alla loro concretizzazione nei luoghi, nei
territori, della “società dell’abitare”. Sarà anche questa, al termine del suo
percorso, una testimonianza della inconsistenza dell’illusione di un
capitalismo immutabile.
L’illusione di un ordine globale organizzato dal capitalismo
L’ultima
illusione, fortemente coltivata e vantata dal capitalismo, è la logica
conseguenza delle altre fin qui esaminate. Un sistema di mercato perfettamente
autonomo dal resto del contesto sociale, coerente nelle sua logiche, capace di muoversi
anche in assenza di democrazia, basato sull’interesse privato, il sentire più
diffuso e condiviso nel mondo, e quindi geneticamente destinato
all’immutabilità eterna, possiede tutti i titoli per ambire ad essere l’ordine
globale. E’ un concetto perfettamente espresso da Thomas Friedman (1953,
saggista ed editorialista per il New York Times) con un paradosso neanche tanto
ironico ……. non
esistono due nazioni in cui sia presente McDonald’s che si facciano guerra
…… Una affermazione quanto meno azzardata se solo si pensa ai conflitti,
purtroppo non solo commerciali, che da secoli vedono coinvolti paesi
“capitalistici”, ma che merita comunque di essere valutata nel dettaglio. La
storia, ancora una volta maestra di vita, insegna che il mercato, inteso nella sua accezione più
ampia di circolazione di merci, non è mai stato in grado di organizzare, da
solo, l’insieme delle relazioni sociali ed ancor meno quello delle relazioni
economiche sul piano globale. Come già evidenziato in precedenza
l’illusoria fiducia nella capacità del capitalismo di essere autonomo e
coerente ha da sempre comportato l’errata negazione del ruolo delle
istituzioni, e delle specifiche leggi che le ispirano. Un errore che è ancora
più grave se riportato su scala globale. Un fenomeno, diffuso in tutte le economie, è un esempio
illuminante del nesso contraddittorio tra interessi privati e relazioni tra
nazioni: la fuga dei capitali. Di norma non appena un determinato
paese accentua la pressione fiscale, ovvero al contrario la riduce, si assiste
ad un intenso movimento di capitali in entrata piuttosto che in uscita. Una
situazione perfettamente lineare per le logiche capitalistiche ma capace di
comportare pesanti ripercussioni sulle singole situazioni nazionali, non a caso
quindi la storia racconta di accordi e di regolamenti finalizzati a porre sotto
controllo i movimenti transnazionali di capitali evitando così, grazie al ruolo
delle istituzioni, storture ed eccessi speculativi. Si tratta cioè di un
sistema di regole che consente agli stessi singoli sistemi capitalistici
nazionali di svilupparsi e che, così facendo, evidenzia l’incapacità delle
logiche capitalistiche, lasciate libere di esprimersi, di produrre un efficace
ordine globale. Sullo
sfondo di questa illusione sta in effetti l’errata convinzione, per certi versi
avvalorata dallo stesso marxismo, che il capitalismo si sia progressivamente
espanso sino a condizionare l’intero sistema economico globale unicamente
grazie allo spontaneo emergere, per emulazione delle nazioni capitalistiche
vincenti, delle logiche di mercato. Dimenticando il ruolo di
imposizione forzata, ovvero di condizionamento oppressivo di ogni possibile
alternativa, messo in atto, fin dal sorgere del sistema di mercato, dalle
nazioni economicamente egemoni; si pensi alle politiche in questo
senso dell’Inghilterra prima e degli USA poi attuate, non raramente con
pressioni violente, non per un ideale di ordine capitalistico globale ma per i
propri interessi nazionali. L’intero percorso storico di affermazione globale del
sistema di mercato capitalistico si è in effetti articolato attorno a tre
interdipendenti processi: nascita ed affermazione di imprese finalizzate al
profitto, il consolidarsi attorno ad esse delle istituzioni nazionali, ed
infine il sistema di regole, in costante evoluzione, volte a regolare i
rapporti economici internazionali. L’intreccio delle relazioni fra
questi tre processi, distinti e correlati al tempo stesso, è inevitabilmente
molto complesso e molto variabile. Il suo concretizzarsi fino ai giorni nostri
evidenzia la sostanziale impossibilità, sulla base delle attuali logiche di
mercato, di costruire un ordine globale minimamente armonico, coerente e quindi
duraturo, mettendo invece in luce una successione continua di stadi, molto
differenziati tra di loro, determinati dal contingente peso specifico di queste
tre componenti. La
stessa evoluzione dei movimenti di opposizione al capitalismo è stata
analogamente molto condizionata da questo complesso intreccio tanto da
dimostrarsi, smentendo l’errata profezia di Marx, incapace di muoversi secondo
logiche realmente globali. In questo quadro che smentisce
completamente l’illusione capitalistica di essere ordine globale sulla sola base
delle proprie logiche, ma che al contempo ha finora constatato l’incapacità
delle varie opposizioni al capitalismo di offrire una alternativa capace di
raccoglierle in un orizzonte unico, una possibilità di effettiva svolta può però essere
fornita dal carattere di inaggirabile globalità dell’emergenza ambientale e
climatica. Questa battaglia può
essere vinta solo attuando comuni programmi di trasformazione delle modalità
produttive, dei sistemi energetici, e dell’intero sistema delle relazioni
economiche globali, offrendo così un comune terreno di elaborazione ed
attuazione di reali cambiamenti. Se non è per nulla scontato che questo possa
avvenire nel campo delle logiche capitalistiche, se molto sarà deciso
dall’evoluzione della crescente contrapposizione fra USA e Cina per la
conquista dell’egemonia mondiale, al contrario il fronte variegato di chi
propone possibili concrete alternative appare da subito obbligato a muoversi in
tale direzione
Oltre le illusioni
…. rifiutare questo universo di illusioni è sempre più urgente …… lo è per la valenza delle svolte non più rinviabili in materia di compatibilità ambientale e di giustizia sociale, e lo è, a maggior ragione, perché l’illusione capitalistica è stata finora un elemento di freno in tutte le politiche economiche nazionali e globali, per ultime in quelle che sono seguite alla crisi sistemica del 2007/2008. Nelle quali, accanto alle prevedibili pressioni da parte dei centri di potere economico, allo scontato allineamento della quasi totalità dei ceti politici e di governo, e alle indicazioni ottusamente rigorose dei modelli teorici mainstream delle scuole di pensiero neoliberista (analizzate nel nostro “Saggio del mese” di Agosto 2021 dedicato a “Il mercato rende liberi” di Mauro Gallegati), non è emersa, nonostante l’evidenza delle cause della crisi, alcuna volontà di uscire dagli schemi consolidati. Va da sé che questo rifiuto non può da solo tradursi automaticamente in scelte concrete, ma acquisirlo in modo chiaro e diffuso può eliminare un determinante condizionamento ideologico. E quindi tempo di avere piena consapevolezza che il capitalismo, in quanto tale, non è un sistema economico e sociale così coerente, autonomo, ed immutabile, da non poter essere profondamente cambiato nei suoi presupposti di base. Le logiche di fondo che lo ispirano non sono solo caratterizzate dalle presunzioni illusorie qui esaminate ma sono ormai insostenibili rispetto alla loro compatibilità ambientale. L’insieme delle illusioni capitalistiche ha infatti come inevitabile sbocco concreto quello di una crescita quantitativa infinita, un trend manifestamente impossibile e distruttivo. Denunciare l’illusione capitalistica è un aspetto decisivo per passare ad una idea di crescita qualitativa, che punti ad una maggiore giustizia distributiva strettamente connessa ad una idea di “benessere” che non può più coincidere con la sola produzione di beni materiali. Non mancano poi elaborazioni, che discendono da questa denuncia, in grado di fornire indicazioni concrete per le scelte di più rilevante impatto, ad esempio quelle di:
trasferire la
creazione di credito finanziario unicamente in mani pubbliche, nazionali e
sovranazionali, consegnandolo successivamente a banche di sviluppo che puntino
ad equilibrare il flusso di ricchezza tra paesi ricchi e paesi poveri
riformare
radicalmente le regole del commercio mondiale
iniziare a
creare un piano di reddito garantito globale finalizzato ad omogenizzare i
livelli salariali di base, sia a livello locale che globale,
modificare
radicalmente le politiche fiscali introducendo sistemi di tassazioni con forte
carattere di progressività
sostenere
innovazioni produttive finalizzate ad una reale sostenibilità ambientale
coinvolgendo, su scala globale, i territori come primi protagonisti della
svolta.
Questo
patrimonio di elaborazioni per essere tradotto in scelte concrete richiede però
che in tutti i momenti decisionali prevalgano atteggiamenti disponibili al
cambiamento, e questo può avvenire solo se si sarà realizzato davvero il
rifiuto dell’illusione capitalistica.
……
una società
costruita attorno a mercati che si autoregolano non è mai esistita. Ogni
società fondata sul libero mercato è un complesso ibrido, costituito da
soggetti privati e da enti ed istituzioni pubbliche, a realizzare un delicato
compromesso tra la facoltà di perseguire l’interesse privato ed il diritto di
porre limiti a tale facoltà. E’ quindi possibile scegliere quale modello di
sviluppo intraprendere e ricostruire un’economia di mercato compatibile con i
valori della democrazia, dell’uguaglianza e della sostenibilità ambientale.
Fuori dalla maglie strette dell’illusione capitalistica si prospetta un mondo
di possibilità percorribili ……
P.S.
= il saggio di Fred Block è del 2018 (pubblicato in Italia solo nel 2021) ed è
pertanto precedente alla crisi pandemica ed alla recente accelerazione del
dibattito sulle politiche legate all’emergenza ambientale. Le sue osservazioni
acquistano comunque maggiore valenza in questa decisiva fase che impone scelte
radicali, coraggiose, e davvero innovative.
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