venerdì 21 gennaio 2022

La crisi climatica è una questione di giustizia sociale

 

E’ da tempo percezione diffusa la stretta relazione fra emergenza climatica ed ambientale e giustizia sociale, la cui ricaduta è verificabile sia all’interno delle singole nazioni sia fra le varie aree del pianeta. Non sempre questa percezione, e le conseguenti possibili reazioni, sono però adeguatamente proporzionate alla reale consistenza dei processi in corso. Il seguente articolo, che fornisce illuminanti dati al riguardo, ci è sembrato utile a colmare almeno in parte questo deficit di conoscenza, in particolare per quanto concerne l’Africa, il continente che per un cumulo di ragioni, storiche e contemporanee, è quello più colpito dalle ricadute ambientali e dalle disuguaglianze economiche e sociali. Una situazione che, storicamente ed attualmente, chiama direttamente in causa l’Europa, Italia ben compresa, e le sue, spesso cieche ed inefficaci, politiche di gestione degli inevitabili conseguenti flussi migratori

La crisi climatica è una questione

di giustizia sociale

Articolo di Francesco Suman (filosofo della scienza, giornalista scientifico, collabora con MicroMega, Nature Italy e Valigia Blu) 

La transizione energetica è probabilmente la sfida più grande che l’umanità abbia mai dovuto affrontare. Il settore energetico da solo è responsabile di oltre i tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra globali che riscaldano il pianeta e stanno causando la crisi climatica. Per ridurle occorrerà rivoluzionare i sistemi con cui produciamo, consumiamo e trasportiamo l’energia. Ma un elemento che troppo spesso si perde nel racconto delle prospettive e delle possibilità delle nuove “economie verdi” è il fatto che la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico, oltre a essere una questione ambientale, sono una partita che va giocata sul terreno della giustizia sociale. I Paesi più poveri soffrono e soffriranno sempre più gli effetti più gravi e drammatici di una crisi climatica che non hanno generato, e che in larghissima parte è stata causata dalle emissioni dei Paesi più ricchi. Greta Thunberg ha chiuso il discorso che ha inaugurato la Youth4Climate, già passato alla storia per il “bla bla bla” con cui ha fatto il verso ai leader mondiali, con un grido di incitazione a cui hanno risposto in coro i 400 giovani delegati giunti a Milano in rappresentanza di quasi 200 Paesi: “what do we want? CLIMATE JUSTICE! When do we want it? NOW!”. Che cosa vogliamo? GIUSTIZIA CLIMATICA! Quando la vogliamo? ORA! Nel suo discorso l’attivista svedese ha ancora una volta posto l’accento proprio su quanto la crisi climatica sia solo un sintomo di una crisi molto più profonda, che va affrontata alla radice: “una crisi di sostenibilità, una crisi sociale, una crisi di disuguaglianza, che risale al colonialismo, e basata sull’idea che alcune persone valgano più di altre e che ritengono di avere il diritto di sfruttare e rubare la terra e le risorse di altre persone”. Per capire appieno le parole di Thunberg basta guardare ai dati. E quelli relativi all’Africa, in particolare, parlano chiaro.

Percentuali e responsabilità

Ogni ragionamento sul cambiamento climatico non può che partire dai dati relativi alle cosiddette emissioni storiche. Secondo quanto calcolato dal Global Carbon Project, e rielaborato dal New York Times, i Paesi ricchi che rappresentano il 12% della popolazione mondiale hanno immesso in atmosfera più del 50% dell’anidride carbonica mai prodotta da attività antropica dal 1750 a oggi. Tra questi, gli Stati Uniti da soli raggiungono quasi il 25%, mentre l’Europa, includendo il Regno Unito, supera il 20%. Gli altri sono Giappone (4%), Canada (2%) e Australia (1%). Al di fuori di questa lista si collocano Paesi meno ricchi, ma le cui economie stanno contribuendo in maniera decisiva negli ultimi decenni al riscaldamento globale: la Cina ha raggiunto quasi il 13% delle emissioni storicamente accumulate, la Russia è di poco sotto al 7%, l’India è di poco sopra al 3%. Approssimando un po’, si può dire che il Nord America, l’Europa e l’Asia sono responsabili ciascuna di circa il 30% delle emissioni di CO2 degli ultimi tre secoli. Il riscaldamento globale di 1,1°C verificatosi rispetto all’era preindustriale e certificato dall’ultimo rapporto dell’IPCC (il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite) è per il 90% responsabilità loro. Tutta l’Africa, così come il Sud America, ha contribuito solo per il 3% dell’anidride carbonica storicamente emessa. In più, l’Africa in particolare è un continente particolarmente esposto ai rischi e agli effetti della crisi climatica. Lo ha sottolineato spesso nei suoi interventi anche Vanessa Nakate, giovane attivista dell’Uganda, e lo mostra chiaramente il rapporto dell’IPCC che racconta come già oggi “l’aumento delle temperature di superficie è stato generalmente più rapido in Africa rispetto alla media globale”. L’osservato aumento di ondate di calore sulla terraferma e sul mare, così come la diminuzione di ondate di freddo, sono destinati a continuare nel corso di tutto il secolo con l’avanzare della crisi climatica. La crescita del livello dei mari ha avuto un impatto più severo in Africa negli ultimi tre decenni rispetto alla media globale e continuerà a contribuire a fenomeni di allagamento ed erosione delle coste sabbiose. Più calore in atmosfera significa anche precipitazioni più intense, ma non necessariamente un aumento delle precipitazioni medie annuali: la maggior parte delle regioni dell’Africa dovranno paradossalmente far fronte a più alluvioni causate da eventi meteorologici estremi e al contempo a una maggiore siccità. Quest’ultima è un problema gravissimo specialmente nella parte orientale del continente, dove gli ultimi ghiacciai sembrano destinati a scomparire entro il decennio del 2040. Secondo un rapporto della World Meteorological Organization del 2021, il Kenya, l’Etiopia e la Somalia hanno visto precipitazioni stagionali sotto la media negli ultimi due anni, mentre sono sotto la media da 10 anni in Madagascar, che ha recentemente dichiarato ufficialmente la prima carestia climatica. L’impatto su economie basate in gran parte sull’agricoltura è devastante.

Giustizia climatica

La Nigeria è il maggior produttore di petrolio tra i Paesi africani. Il conflitto del delta del Niger, che vede coinvolti le multinazionali produttrici di petrolio, il governo nigeriano e le popolazioni che vivono in quell’area, prosegue ormai dagli anni Novanta. Anche la Repubblica Democratica del Congo è tra i 10 maggiori produttori di petrolio in Africa, ma negli ultimi anni è diventata l’emblema dello sfruttamento di una risorsa mineraria cruciale per la transizione energetica: il cobalto. In Congo si trova circa il 70% delle riserve mondiali di questo minerale impiegato negli elettrodi di molti sistemi di accumulo, come le batterie agli ioni litio contenute in smartphone, computer e veicoli elettrici. Esistono anche batterie che non impiegano cobalto, come quelle litio-ferro-fosfato o quelle agli ioni sodio (ancora in fase di perfezionamento e sviluppo). Tuttavia secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), la domanda di cobalto potrebbe aumentare di oltre 20 volte da qui al 2040. La miniera di Kinsafu, nella Repubblica Democratica del Congo, una delle più grandi riserve di cobalto e rame del mondo, è stata controllata per più di un decennio dal gigante minerario statunitense Freeport McMoRan, mentre ora è passata nelle mani di una compagnia sostenuta direttamente da Pechino, la China Molybedenum. Quello di Kinsafu è uno dei due più grandi depositi di cobalto che sono passati alla Cina negli ultimi 5 anni. L’altro è quello di Tenke Fungurume, che da solo produce il doppio del cobalto prodotto da qualsiasi altro Paese al mondo. Erogando ingenti finanziamenti statali alle compagnie che operano in Africa, la Cina è arrivata a controllare l’anno scorso 15 delle 19 maggiori miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo. Un’indagine del New York Times ha documentato anche le tensioni che la spartizione di queste risorse provoca in Congo, in Africa e, di riflesso, sui mercati globali. Lo scorso luglio una rivolta vicino a un porto del Sud Africa, da cui gran parte del cobalto estratto viene esportato in Cina e in altri Paesi, ha provocato un improvviso rialzo dei prezzi del metallo, che è continuato nei mesi successivi. Secondo un’analisi di Benchmark Mineral Intelligence, una delle maggiori agenzie che producono report sull’economia dell’elettrico, il prezzo in salita delle batterie impatterà sui produttori di veicoli elettrici che faticheranno a venderli a prezzi competitivi. La IEA stima che già entro il 2030 l’offerta di cobalto potrebbe arrivare a coprire solo l’80% della domanda. Secondo quanto riporta il New York Times, da quando il controllo delle miniere è passato in mani cinesi i problemi di sicurezza sono aumentati. Le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente del cobalto sono più frequenti e non vengono gestite adeguatamente, secondo la testimonianza di chi ha lavorato per oltre un decennio alla miniera di Tenge Fungurume. Per sorvegliare i siti di estrazione, China Molybdenum ha assunto truppe di miliziani armati che non esitano ad aprire il fuoco quando lo reputano necessario. L’azienda cinese avrebbe anche tentato di nascondere casi di incidenti sul lavoro, offrendo ricompense agli infortunati per non parlare. Le attività di estrazione del cobalto in Congo storicamente hanno sfruttato il lavoro minorile, hanno contribuito al finanziamento di conflitti e ad abusi dei diritti umani. Tutto ciò fa del cobalto non solo un minerale critico, ma un vero e proprio “minerale di conflitto”. Inoltre la compagnia cinese non starebbe pagando tutte le royalties sulle estrazioni dovute al governo congolese, che sta considerando di sospendere la concessione, mentre la Cina non starebbe rispettando gli accordi sottoscritti per finanziare la costruzione di strade, ponti, centrali elettriche e altre infrastrutture cruciali per il Paese. Lo schema proposto con il cobalto congolese non sembra diverso da quello già messo in atto negli anni passati con il petrolio drenato da altri Paesi africani: estrazione di risorse in cambio di infrastrutture, corruzione a diversi livelli e tensioni che sfociano in scontri violenti. Per il presidente Tshisekedi il Paese ha uno straordinario potenziale per le energie rinnovabili, sia per quanto riguarda i depositi minerari sia l’energia prodotta dalle centrali idroelettriche. “Ma come possiamo – si chiede Tshisekedi – mettere queste straordinarie risorse a disposizione del mondo, assicurando prima il beneficio dei congolesi e degli africani?”

Accesso all’elettricità e infrastrutture in Africa

Complice la pandemia da COVID-19, la quantità di persone che non ha accesso all’elettricità nei Paesi dell’Africa sub-sahariana è aumentata nel 2020, mentre era in discesa dal 2013. Circa 800 milioni di persone al mondo soffre di quella che è nota come povertà energetica e circa tre quarti di queste (quasi 600 milioni di persone) vivono nell’Africa sub-sahariana. Mediamente un cittadino africano consuma ogni anno meno energia elettrica di quanto non ne consumi un frigorifero negli Stati Uniti o in Europa. Secondo i dati riferiti al 2019 della IEA, in Sud Africa oltre il 94% della popolazione ha accesso all’energia elettrica, mentre questa percentuale scende all’84% in Kenya, che pure dal 2013, quando era al 20%, ha fatto progressi enormi. Grandi passi avanti sono stati fatti anche in Ghana (85%), Senegal (70%), Rwanda (52%) ed Etiopia (50%). Ma la situazione è ancora drammatica in Paesi come il Sud Sudan, dove crolla addirittura all’1,1%, al 3% nella Repubblica Centro Africana, a poco più dell’8% in Congo. Com’è possibile che il Paese che siede sopra i due terzi delle risorse globali di cobalto, un elemento cruciale per la transizione verso un mondo elettrificato e a emissioni zero, sia in grado di fornire elettricità a meno di un decimo dei propri cittadini? Secondo la IEA nel 2030 saranno 660 milioni le persone che non avranno accesso all’elettricità e la metà di queste sarà concentrata in 7 Paesi, 6 africani e 1 asiatico: Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Uganda, Tanzania, Niger, Sudan e Pakistan. Come è evidente, la transizione energetica non si dispiega con un’unica agenda comune a tutti i Paesi del mondo. Se ad esempio i mercati più sviluppati mirano a eliminare le vendite delle auto a motore termico entro il 2035 sostituendole con quelle elettriche, come è stato dichiarato alla COP26 con un accordo firmato da circa 40 Paesi e da una decina di case automobilistiche, le priorità in Africa sono tutt’altre e riguardano la costruzione delle infrastrutture necessarie ad abbattere la povertà energetica, i finanziamenti e il trasferimento delle conoscenze (in gergo diplomatico capacity building) necessarie alla realizzazione di quelle infrastrutture. Per soddisfare l’obiettivo 7.1 dell’agenda 2030 dell’ONU che riguarda l’accesso universale all’energia elettrica e a sistemi di cottura sostenibili, secondo la IEA saranno necessari sforzi di cooperazione internazionale a supporto di politiche che investano 35 miliardi di dollari ogni anno da qui al 2030. Oltre ad ampliare la rete elettrica, rendendola più efficiente e intelligente, sarà fondamentale puntare su soluzioni decentralizzate rese possibili dalle fonti rinnovabili come il fotovoltaico, i cui costi sul mercato si sono drasticamente abbassati nel corso dell’ultimo decennio.  “Queste soluzioni sono particolarmente indicate per le aree rurali e remote dei Paesi africani, dove vivono molte delle persone che ancora sono private dell’accesso all’elettricità” si legge nel rapporto IEA. Oltre agli investimenti sulle infrastrutture, già a partire dalla COP15 di Copenhagen del 2009 i Paesi ricchi avevano promesso a quelli più vulnerabili al cambiamento climatico 100 miliardi di dollari l’anno per far fronte agli effetti catastrofici della crisi climatica, che come abbiamo visto colpisce più duramente proprio i Paesi africani. Nel documento finale della COP26, il “patto sul clima di Glasgow”, viene però riportato: “si nota con profondo rammarico che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”.

Responsabilità comuni ma differenziate

Se come si è detto Paesi appartenenti a fasce economiche diverse hanno differenti priorità nella realizzazione della transizione energetica, viene da chiedersi se il meccanismo diplomatico e politico adottato dalla conferenza delle parti dell’ONU, ovvero quello di produrre un unico documento condiviso da quasi 200 Paesi, sia il metodo più adatto a fronteggiare le sfide del cambiamento climatico e della giustizia climatica. O meglio, viene da chiedersi se il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, formalizzato dall’UNFCCC già nel 1992 a Rio de Janeiro, inserito nel Protocollo di Kyoto nel 1997 e ribadito nell’accordo di Parigi del 2015, trovi la sua migliore attuazione nella sottoscrizione di un unico documento valido per quasi 200 Paesi. Proprio riguardo al testo del Patto sul clima sottoscritto il 13 novembre a Glasgow, ha fatto notizia e scalpore il veto posto all’ultimo momento dall’India riguardo all’eliminazione (phase-out) del carbone, spingendo per la sostituzione del termine, al paragrafo 36, con uno più morbido: riduzione graduale (phase-down). Come ricordavamo in apertura, l’India ha contribuito per circa il 3% di tutte le emissioni mai rilasciate in atmosfera dall’era pre-industriale a oggi, è considerato un Paese in via di sviluppo, e in quanto tale chiede di poter sviluppare la propria economia attingendo a una fonte primaria di energia, il carbone, che nel 2020 rappresentava il 44% del suo mix energetico nazionale. Pochi giorni prima, sempre alla COP26 di Glasgow, circa 40 Paesi avevano siglato una dichiarazione che mirava a eliminare l’uso del carbone. Tra i firmatari c’erano Paesi come la Polonia che genera circa il 70% della propria energia elettrica dal carbone. Non c’erano però Cina e India, ovvero i due più grandi consumatori di carbone al mondo, ma nemmeno Stati Uniti e Australia. Non avevano firmato quella dichiarazione sul carbone nemmeno molti Paesi africani che dal combustibile solido dipendono per la generazione di elettricità. Intervistato dal Guardian durante lo svolgimento della COP26, Tanguy Gahouma-Bekale, a capo del gruppo africano per le negoziazioni sul cambiamento climatico, ha commentato che l’impegno sul carbone è un importante passo avanti, ma le nazioni in via di sviluppo hanno bisogno di più tempo: “Se vogliamo raggiungere con successo gli obiettivi posti dall’accordo di Parigi dobbiamo abbandonare tutti i combustibili fossili e il carbone è tra quelli. Ma la nostra situazione in Africa è diversa. Stiamo ancora percorrendo la strada dello sviluppo. Non possiamo drasticamente abbandonare il carbone e il petrolio. Per ora dobbiamo usarli per eradicare la povertà e garantire l’accesso all’energia. Avremo bisogno di supporto nella transizione. E abbiamo bisogno di essere flessibili. Per i prossimi 5 o 10 anni, dobbiamo portare avanti carbone e rinnovabili insieme, in modo che la transizione sia morbida”. Dietro le colpe date all’India per aver annacquato il passaggio in merito alla riduzione del carbone si celano dunque da una parte le esigenze di crescita dei Paesi in via di sviluppo, ma dall’altra gli interessi dei Paesi più ricchi (vedi Usa, ma anche Cina) che non hanno alcuna intenzione di concedere il minimo vantaggio ai concorrenti. La stesura di un unico documento condiviso da Paesi con esigenze molto diverse fra loro rischia allora di alimentare la strategia attendista del “prima agisci tu, poi io”, descritta anche in un recente articolo di Valigia Blu sulle tattiche del negazionismo, che nei fatti non fa altro che ritardare le azioni contro il cambiamento climatico. Nell’assecondare le richieste, per certi versi legittime, dei Paesi in via di sviluppo, quelli più ricchi ottengono un alibi dietro cui nascondersi. Alcune cose è bene che siano condivise da tutti i Paesi, come i criteri e le modalità di condivisione e monitoraggio delle emissioni che finalmente sono stati concordati alla COP26, altre forse dovrebbero incarnare in maniera più esplicita il principio delle responsabilità differenziate. È tempo che chi ha recato perdite e danni (loss and damage) ai Paesi più vulnerabili non solo li risarcisca con sostegni finanziari adeguati, ma che si impegni per primo a ridurre le proprie emissioni.

Economia circolare

La transizione energetica, la sua riuscita e la sua durata, non solo sono cruciali per le sorti delle generazioni a venire, ma costituiscono anche un’occasione di riscatto per Paesi come quelli africani che storicamente sono sempre stati usati come miniera delle economie avanzate del pianeta. Una maggiore autonomia energetica del continente africano si potrà raggiungere però solo ad alcune condizioni. La prima è una produzione dell’energia decentralizzata e localizzata che le fonti di energia rinnovabile come il fotovoltaico possono in linea di principio garantire, specialmente in quelle aree rurali poco connesse alla rete. La seconda è che il sistema energetico del domani sia davvero diverso dal “petrolitico” che ha caratterizzato il Ventesimo secolo (l’era del petrolio): dovrà diventare sempre meno dipendente dall’attività estrattiva. Per l’Occidente esistono anche motivi di “pragmatismo geopolitico” che dovrebbero spingere a cambiare strada. Ad oggi l’Unione Europea importa la stragrande maggioranza dei minerali impiegati nelle batterie: litio, manganese, cobalto, grafite e nickel i principali. Secondo il rapporto sui minerali critici pubblicato a maggio 2021 dalla IEA, la domanda di litio potrebbe aumentare fino a 40 volte da qui al 2040, quella dei componenti degli elettrodi (oltre al cobalto, nickel e grafite) di circa 20 volte, quella delle cosiddette terre rare di 7 volte. La dipendenza da pochi Paesi che dominano la filiera produttiva (la Cina, per quanto riguarda la lavorazione dei minerali critici alla transizione energetica) o da Paesi che soffrono una grave instabilità politica (come la Repubblica Democratica del Congo) rischia far oscillare pesantemente i prezzi di mercato, inceppare le forniture, rallentare la transizione stessa e alimentare conflitti nelle regioni in cui quei minerali vengono estratti. Anche per tutte queste ragioni sarà allora fondamentale riutilizzare i minerali che già sono stati estratti dal sottosuolo. Per far questo occorre investire in ricerca, sviluppo e progettare filiere produttive che tengano conto dell’intero ciclo di vita del prodotto e dei materiali che lo compongono. Prima ancora di una questione ecologica e ambientale, il riciclo dei minerali estratti, e utilizzati ad esempio nelle batterie, è una questione di sicurezza geopolitica ed economica. In ultima analisi, è una questione di giustizia sociale, di giustizia climatica. L’economia circolare è un paradigma che non può più essere rimandato.

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