E’ da tempo percezione diffusa la stretta relazione fra emergenza climatica ed ambientale e giustizia sociale, la cui ricaduta è verificabile sia all’interno delle singole nazioni sia fra le varie aree del pianeta. Non sempre questa percezione, e le conseguenti possibili reazioni, sono però adeguatamente proporzionate alla reale consistenza dei processi in corso. Il seguente articolo, che fornisce illuminanti dati al riguardo, ci è sembrato utile a colmare almeno in parte questo deficit di conoscenza, in particolare per quanto concerne l’Africa, il continente che per un cumulo di ragioni, storiche e contemporanee, è quello più colpito dalle ricadute ambientali e dalle disuguaglianze economiche e sociali. Una situazione che, storicamente ed attualmente, chiama direttamente in causa l’Europa, Italia ben compresa, e le sue, spesso cieche ed inefficaci, politiche di gestione degli inevitabili conseguenti flussi migratori
La crisi
climatica è una questione
di
giustizia sociale
Articolo di Francesco
Suman (filosofo della scienza, giornalista
scientifico, collabora con MicroMega, Nature Italy e Valigia Blu)
La transizione energetica è probabilmente la sfida più grande che l’umanità
abbia mai dovuto affrontare. Il settore energetico da solo è responsabile di
oltre i tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra globali che
riscaldano il pianeta e stanno causando la crisi climatica. Per ridurle
occorrerà rivoluzionare i sistemi con cui produciamo, consumiamo e trasportiamo
l’energia. Ma un elemento che troppo spesso si perde nel racconto delle
prospettive e delle possibilità delle nuove “economie verdi” è il fatto che la
transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico, oltre a essere una
questione ambientale, sono una partita che va giocata sul terreno della
giustizia sociale. I Paesi più poveri soffrono e soffriranno sempre più gli
effetti più gravi e drammatici di una crisi climatica che non hanno generato, e
che in larghissima parte è stata causata dalle emissioni dei Paesi più ricchi. Greta
Thunberg ha chiuso il discorso che ha inaugurato la Youth4Climate, già passato
alla storia per il “bla bla bla” con cui ha fatto il verso ai leader mondiali,
con un grido di incitazione a cui hanno risposto in coro i 400 giovani delegati
giunti a Milano in rappresentanza di quasi 200 Paesi: “what do we want? CLIMATE
JUSTICE! When do we want it? NOW!”. Che cosa vogliamo? GIUSTIZIA CLIMATICA!
Quando la vogliamo? ORA! Nel suo discorso l’attivista svedese ha ancora una
volta posto l’accento proprio su quanto la crisi climatica sia solo un sintomo
di una crisi molto più profonda, che va affrontata alla radice: “una crisi di
sostenibilità, una crisi sociale, una crisi di disuguaglianza, che risale al
colonialismo, e basata sull’idea che alcune persone valgano più di altre e che
ritengono di avere il diritto di sfruttare e rubare la terra e le risorse di
altre persone”. Per capire appieno le parole di Thunberg basta guardare ai
dati. E quelli relativi all’Africa, in particolare, parlano chiaro.
Percentuali e responsabilità
Ogni ragionamento sul cambiamento climatico non può che partire dai dati
relativi alle cosiddette emissioni storiche. Secondo quanto calcolato dal Global Carbon Project, e rielaborato
dal New York
Times, i Paesi ricchi che rappresentano il 12% della popolazione mondiale hanno
immesso in atmosfera più del 50% dell’anidride carbonica mai prodotta da
attività antropica dal 1750 a oggi. Tra questi, gli Stati Uniti da soli
raggiungono quasi il 25%, mentre l’Europa, includendo il Regno Unito, supera il
20%. Gli altri sono Giappone (4%), Canada (2%) e Australia (1%). Al di fuori di
questa lista si collocano Paesi meno ricchi, ma le cui economie stanno
contribuendo in maniera decisiva negli ultimi decenni al riscaldamento globale:
la Cina ha raggiunto quasi il 13% delle emissioni storicamente accumulate, la
Russia è di poco sotto al 7%, l’India è di poco sopra al 3%. Approssimando un
po’, si può dire che il Nord America, l’Europa e l’Asia sono responsabili ciascuna di circa il 30% delle
emissioni di CO2 degli ultimi tre secoli. Il riscaldamento globale di 1,1°C
verificatosi rispetto all’era preindustriale e certificato dall’ultimo
rapporto dell’IPCC (il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni
Unite) è per il 90% responsabilità loro. Tutta l’Africa, così come il Sud
America, ha contribuito solo per il 3% dell’anidride carbonica storicamente
emessa. In più, l’Africa in particolare è un continente particolarmente esposto
ai rischi e agli effetti della crisi climatica. Lo ha sottolineato spesso nei
suoi interventi anche Vanessa Nakate, giovane attivista dell’Uganda, e lo
mostra chiaramente il rapporto dell’IPCC che racconta come già oggi “l’aumento
delle temperature di superficie è stato generalmente più rapido in Africa
rispetto alla media globale”. L’osservato aumento di ondate di calore sulla
terraferma e sul mare, così come la diminuzione di ondate di freddo, sono
destinati a continuare nel corso di tutto il secolo con l’avanzare della crisi
climatica. La crescita del livello dei mari ha avuto un impatto più severo in
Africa negli ultimi tre decenni rispetto alla media globale e continuerà a
contribuire a fenomeni di allagamento ed erosione delle coste sabbiose. Più
calore in atmosfera significa anche precipitazioni più intense, ma non
necessariamente un aumento delle precipitazioni medie annuali: la maggior parte
delle regioni dell’Africa dovranno paradossalmente far fronte a più alluvioni
causate da eventi meteorologici estremi e al contempo a una maggiore siccità.
Quest’ultima è un problema gravissimo specialmente nella parte orientale del
continente, dove gli ultimi ghiacciai sembrano destinati a scomparire entro il
decennio del 2040. Secondo un rapporto della World
Meteorological Organization del 2021, il Kenya,
l’Etiopia e la Somalia hanno visto precipitazioni stagionali sotto la media
negli ultimi due anni, mentre sono sotto la media da 10 anni in Madagascar, che
ha recentemente dichiarato ufficialmente la prima carestia climatica. L’impatto
su economie basate in gran parte sull’agricoltura è devastante.
Giustizia climatica
La Nigeria è il maggior produttore di petrolio tra i Paesi
africani. Il conflitto del delta del Niger, che vede coinvolti le multinazionali
produttrici di petrolio, il governo nigeriano e le popolazioni che vivono in
quell’area, prosegue ormai dagli anni Novanta. Anche la Repubblica Democratica
del Congo è tra i 10 maggiori produttori di petrolio in Africa, ma negli ultimi
anni è diventata l’emblema dello sfruttamento di una risorsa mineraria cruciale
per la transizione energetica: il cobalto. In Congo si trova circa il 70% delle
riserve mondiali di questo minerale impiegato negli elettrodi di molti sistemi
di accumulo, come le batterie agli ioni litio contenute in smartphone, computer
e veicoli elettrici. Esistono anche batterie che non impiegano cobalto, come
quelle litio-ferro-fosfato o quelle agli ioni sodio (ancora in fase di
perfezionamento e sviluppo). Tuttavia secondo l’Agenzia
Internazionale dell’Energia (IEA), la domanda di cobalto potrebbe
aumentare di oltre 20 volte da qui al 2040. La miniera di Kinsafu, nella
Repubblica Democratica del Congo, una delle più grandi riserve di cobalto e
rame del mondo, è stata controllata per più di un decennio dal gigante
minerario statunitense Freeport McMoRan, mentre ora è passata nelle mani di una
compagnia sostenuta direttamente da Pechino, la China Molybedenum. Quello di
Kinsafu è uno dei due più grandi depositi di cobalto che sono passati alla Cina
negli ultimi 5 anni. L’altro è quello di Tenke Fungurume, che da solo produce
il doppio del cobalto prodotto da qualsiasi altro Paese al mondo. Erogando
ingenti finanziamenti statali alle compagnie che operano in Africa, la Cina è
arrivata a controllare l’anno scorso 15 delle 19 maggiori miniere di cobalto
della Repubblica Democratica del Congo. Un’indagine del New York
Times ha documentato anche le tensioni che la spartizione di queste risorse
provoca in Congo, in Africa e, di riflesso, sui mercati globali. Lo scorso
luglio una rivolta vicino a un porto del Sud Africa, da cui gran parte del
cobalto estratto viene esportato in Cina e in altri Paesi, ha provocato un
improvviso rialzo dei prezzi del metallo, che è continuato nei mesi successivi.
Secondo un’analisi di Benchmark
Mineral Intelligence, una delle maggiori agenzie che producono report sull’economia
dell’elettrico, il prezzo in salita delle batterie impatterà sui produttori di
veicoli elettrici che faticheranno a venderli a prezzi competitivi. La IEA
stima che già entro il 2030 l’offerta di cobalto potrebbe arrivare a coprire
solo l’80% della domanda. Secondo quanto riporta il New York Times,
da quando il controllo delle miniere è passato in mani cinesi i problemi di
sicurezza sono aumentati. Le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente
del cobalto sono più frequenti e non vengono gestite adeguatamente, secondo la
testimonianza di chi ha lavorato per oltre un decennio alla miniera di Tenge
Fungurume. Per sorvegliare i siti di estrazione, China Molybdenum ha assunto
truppe di miliziani armati che non esitano ad aprire il fuoco quando lo
reputano necessario. L’azienda cinese avrebbe anche tentato di nascondere casi
di incidenti sul lavoro, offrendo ricompense agli infortunati per non parlare.
Le attività di estrazione del cobalto in Congo storicamente hanno sfruttato il
lavoro minorile, hanno contribuito al finanziamento di conflitti e ad abusi dei
diritti umani. Tutto ciò fa del cobalto non solo un minerale critico, ma un
vero e proprio “minerale di conflitto”. Inoltre la compagnia cinese non
starebbe pagando tutte le royalties sulle estrazioni dovute al governo
congolese, che sta considerando di sospendere la concessione, mentre la Cina
non starebbe rispettando gli accordi sottoscritti per finanziare la costruzione
di strade, ponti, centrali elettriche e altre infrastrutture cruciali per il
Paese. Lo schema proposto con il cobalto congolese non sembra diverso da quello
già messo in atto negli anni passati con il petrolio drenato da altri Paesi
africani: estrazione di risorse in cambio di infrastrutture, corruzione a
diversi livelli e tensioni che sfociano in scontri violenti. Per il presidente
Tshisekedi il Paese ha uno straordinario potenziale per le energie rinnovabili,
sia per quanto riguarda i depositi minerari sia l’energia prodotta dalle
centrali idroelettriche. “Ma come possiamo – si chiede Tshisekedi – mettere
queste straordinarie risorse a disposizione del mondo, assicurando prima il
beneficio dei congolesi e degli africani?”
Accesso all’elettricità e infrastrutture in Africa
Complice la pandemia da COVID-19, la quantità di persone che non ha accesso
all’elettricità nei Paesi dell’Africa sub-sahariana è aumentata nel 2020,
mentre era in discesa dal 2013. Circa 800 milioni di persone al mondo soffre di
quella che è nota come povertà energetica e circa tre quarti di queste (quasi 600
milioni di persone) vivono nell’Africa sub-sahariana. Mediamente un cittadino africano consuma ogni anno meno
energia elettrica di quanto non ne consumi un frigorifero negli Stati Uniti o
in Europa. Secondo i dati riferiti
al 2019 della IEA, in Sud Africa oltre il 94% della popolazione ha accesso all’energia
elettrica, mentre questa percentuale scende all’84% in Kenya, che pure dal
2013, quando era al 20%, ha fatto progressi enormi. Grandi passi avanti sono
stati fatti anche in Ghana (85%), Senegal (70%), Rwanda (52%) ed Etiopia (50%).
Ma la situazione è ancora drammatica in Paesi come il Sud Sudan, dove crolla
addirittura all’1,1%, al 3% nella Repubblica Centro Africana, a poco più
dell’8% in Congo. Com’è possibile che il Paese che siede sopra i due terzi
delle risorse globali di cobalto, un elemento cruciale per la transizione verso
un mondo elettrificato e a emissioni zero, sia in grado di fornire elettricità
a meno di un decimo dei propri cittadini? Secondo la IEA nel 2030 saranno 660 milioni
le persone che non avranno accesso all’elettricità e la metà di queste sarà
concentrata in 7 Paesi, 6 africani e 1 asiatico: Repubblica Democratica del
Congo, Nigeria, Uganda, Tanzania, Niger, Sudan e Pakistan. Come è evidente, la
transizione energetica non si dispiega con un’unica agenda comune a tutti i
Paesi del mondo. Se ad esempio i mercati più sviluppati mirano a eliminare le
vendite delle auto a motore termico entro il 2035 sostituendole con quelle
elettriche, come è stato dichiarato
alla COP26 con un accordo firmato da circa 40 Paesi e da una decina di case
automobilistiche, le priorità in Africa sono tutt’altre e riguardano la
costruzione delle infrastrutture necessarie ad abbattere la povertà energetica,
i finanziamenti e il trasferimento delle conoscenze (in gergo diplomatico capacity
building) necessarie alla realizzazione di quelle infrastrutture. Per
soddisfare l’obiettivo 7.1 dell’agenda 2030 dell’ONU che riguarda l’accesso
universale all’energia elettrica e a sistemi di cottura sostenibili, secondo la
IEA saranno necessari sforzi di cooperazione internazionale a supporto di
politiche che investano 35 miliardi di dollari ogni anno da qui al 2030. Oltre
ad ampliare la rete elettrica, rendendola più efficiente e intelligente, sarà
fondamentale puntare su soluzioni decentralizzate rese possibili dalle fonti
rinnovabili come il fotovoltaico, i cui costi sul mercato si sono drasticamente
abbassati nel corso dell’ultimo decennio.
“Queste soluzioni sono particolarmente indicate per le aree rurali e
remote dei Paesi africani, dove vivono molte delle persone che ancora sono
private dell’accesso all’elettricità” si legge nel rapporto IEA. Oltre agli
investimenti sulle infrastrutture, già a partire dalla COP15 di Copenhagen del
2009 i Paesi ricchi avevano promesso a quelli più vulnerabili al cambiamento
climatico 100 miliardi di dollari l’anno per far fronte agli effetti
catastrofici della crisi climatica, che come abbiamo visto colpisce più
duramente proprio i Paesi africani. Nel documento finale della COP26, il “patto
sul clima di Glasgow”, viene però riportato: “si nota con profondo rammarico
che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in
favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza
nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”.
Responsabilità comuni ma differenziate
Se come si è detto Paesi appartenenti a fasce economiche diverse hanno
differenti priorità nella realizzazione della transizione energetica, viene da
chiedersi se il meccanismo diplomatico e politico adottato dalla conferenza
delle parti dell’ONU, ovvero quello di produrre un unico documento condiviso da
quasi 200 Paesi, sia il metodo più adatto a fronteggiare le sfide del
cambiamento climatico e della giustizia climatica. O meglio, viene da chiedersi
se il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, formalizzato
dall’UNFCCC già nel 1992 a Rio de Janeiro, inserito nel Protocollo di Kyoto nel
1997 e ribadito nell’accordo di Parigi del 2015, trovi la sua migliore
attuazione nella sottoscrizione di un unico documento valido per quasi 200
Paesi. Proprio riguardo al testo del Patto sul clima sottoscritto il 13
novembre a Glasgow, ha fatto notizia e scalpore il veto posto all’ultimo
momento dall’India riguardo all’eliminazione (phase-out) del carbone,
spingendo per la sostituzione del termine, al paragrafo 36, con uno più
morbido: riduzione graduale (phase-down). Come ricordavamo in apertura,
l’India ha contribuito per circa il 3% di tutte le emissioni mai rilasciate in
atmosfera dall’era pre-industriale a oggi, è considerato un Paese in via di
sviluppo, e in quanto tale chiede di poter sviluppare la propria economia
attingendo a una fonte primaria di energia, il carbone, che nel 2020
rappresentava il 44% del suo mix energetico nazionale. Pochi giorni
prima, sempre alla COP26 di Glasgow, circa 40 Paesi avevano siglato una dichiarazione che
mirava a eliminare l’uso del carbone. Tra i firmatari c’erano Paesi come la
Polonia che genera circa il 70% della propria energia elettrica dal carbone.
Non c’erano però Cina e India, ovvero i due più grandi consumatori di carbone
al mondo, ma nemmeno Stati Uniti e Australia. Non avevano firmato quella
dichiarazione sul carbone nemmeno molti Paesi africani che dal combustibile
solido dipendono per la generazione di elettricità. Intervistato dal Guardian durante lo svolgimento della
COP26, Tanguy Gahouma-Bekale, a capo del gruppo africano per le negoziazioni
sul cambiamento climatico, ha commentato che l’impegno sul carbone è un
importante passo avanti, ma le nazioni in via di sviluppo hanno bisogno di più
tempo: “Se vogliamo raggiungere con successo gli obiettivi posti dall’accordo
di Parigi dobbiamo abbandonare tutti i combustibili fossili e il carbone è tra
quelli. Ma la nostra situazione in Africa è diversa. Stiamo ancora percorrendo
la strada dello sviluppo. Non possiamo drasticamente abbandonare il carbone e
il petrolio. Per ora dobbiamo usarli per eradicare la povertà e garantire
l’accesso all’energia. Avremo bisogno di supporto nella transizione. E abbiamo
bisogno di essere flessibili. Per i prossimi 5 o 10 anni, dobbiamo portare
avanti carbone e rinnovabili insieme, in modo che la transizione sia morbida”. Dietro
le colpe date all’India per aver annacquato il passaggio in merito alla
riduzione del carbone si celano dunque da una parte le esigenze di crescita dei
Paesi in via di sviluppo, ma dall’altra gli interessi dei Paesi più ricchi
(vedi Usa, ma anche Cina) che non hanno alcuna intenzione di concedere il
minimo vantaggio ai concorrenti. La stesura di un unico documento condiviso da
Paesi con esigenze molto diverse fra loro rischia allora di alimentare la
strategia attendista del “prima agisci tu, poi io”, descritta anche in un
recente articolo di Valigia Blu sulle
tattiche del negazionismo, che nei fatti non fa altro che ritardare le azioni
contro il cambiamento climatico. Nell’assecondare le richieste, per certi versi
legittime, dei Paesi in via di sviluppo, quelli più ricchi ottengono un alibi
dietro cui nascondersi. Alcune cose è bene che siano condivise da tutti i
Paesi, come i criteri e le modalità di condivisione e monitoraggio delle
emissioni che finalmente sono stati concordati alla COP26, altre forse
dovrebbero incarnare in maniera più esplicita il principio delle responsabilità
differenziate. È tempo che chi ha recato perdite e danni (loss and damage)
ai Paesi più vulnerabili non solo li risarcisca con sostegni finanziari
adeguati, ma che si impegni per primo a ridurre le proprie emissioni.
Economia circolare
La transizione energetica, la sua riuscita e la sua durata, non solo sono cruciali
per le sorti delle generazioni a venire, ma costituiscono anche un’occasione di
riscatto per Paesi come quelli africani che storicamente sono sempre stati
usati come miniera delle economie avanzate del pianeta. Una maggiore autonomia
energetica del continente africano si potrà raggiungere però solo ad alcune
condizioni. La prima è una produzione dell’energia decentralizzata e
localizzata che le fonti di energia rinnovabile come il fotovoltaico possono in
linea di principio garantire, specialmente in quelle aree rurali poco connesse
alla rete. La seconda è che il sistema energetico del domani sia davvero
diverso dal “petrolitico” che ha caratterizzato il Ventesimo secolo (l’era del
petrolio): dovrà diventare sempre meno dipendente dall’attività estrattiva. Per
l’Occidente esistono anche motivi di “pragmatismo geopolitico” che dovrebbero
spingere a cambiare strada. Ad oggi l’Unione Europea importa la
stragrande maggioranza dei minerali impiegati nelle batterie:
litio, manganese, cobalto, grafite e nickel i principali. Secondo il rapporto sui
minerali critici pubblicato a maggio 2021 dalla IEA, la domanda di litio potrebbe
aumentare fino a 40 volte da qui al 2040, quella dei componenti degli elettrodi
(oltre al cobalto, nickel e grafite) di circa 20 volte, quella delle cosiddette
terre rare di 7 volte. La dipendenza da pochi Paesi che dominano la
filiera produttiva (la Cina, per quanto riguarda la lavorazione dei minerali
critici alla transizione energetica) o da Paesi che soffrono una grave
instabilità politica (come la Repubblica Democratica del Congo) rischia far
oscillare pesantemente i prezzi di mercato, inceppare le forniture, rallentare
la transizione stessa e alimentare conflitti nelle regioni in cui quei minerali
vengono estratti. Anche per tutte queste ragioni sarà allora fondamentale
riutilizzare i minerali che già sono stati estratti dal sottosuolo. Per far
questo occorre investire in ricerca, sviluppo e progettare filiere produttive
che tengano conto dell’intero ciclo di vita del prodotto e dei materiali che lo
compongono. Prima ancora di una questione ecologica e ambientale, il riciclo
dei minerali estratti, e utilizzati ad esempio nelle batterie, è una questione
di sicurezza geopolitica ed economica. In ultima analisi, è una questione di
giustizia sociale, di giustizia climatica. L’economia circolare è un paradigma
che non può più essere rimandato.
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