Il “Saggio” del mese
GIUGNO 2022
Restiamo
anche questo mese nel filone di approfondimenti sulle tematiche economiche
convinti, come siamo, che soltanto con un diverso modello di sviluppo si
potranno superare disuguaglianze ed emergenza ambientale. Lo scorso mese con lo
studio sul rapporto energia-crescita dell’Hagens Institute abbiamo visto come i
due termini siano in contrapposizione pressochè irrisolvibile, e come le reali
disponibilità di un pianeta dalle risorse finite non possano assolutamente reggere,
già nel breve periodo, i tassi di crescita finora avvenuti. Anche il saggio di
questo mese riflette attorno al tema della crescita, ma da una prospettiva
diversa. Oded Galor, (economista
israeliano, docente di economia presso la Brown University in USA, fondatore della teoria della crescita
unificata)
pur continuando
a concentrare la sua attenzione sulle contraddizioni economiche e sociali attuali
offre spunti di riflessione di sguardo storico più lungo. Nell’ambito della sua
teoria della “crescita unificata” (in
estrema sintesi consiste nella analisi dei processi alla base del concetto di
crescita economica partendo dai dati e dagli aspetti più strettamente economici
ma inserendoli in una visione “unificata” con tutti i fattori storici che hanno
caratterizzato l’intera evoluzione umana)
ripercorre l’intero “viaggio dell’umanità”
per far emergere le ragioni di diversa natura che possano spiegare le
contraddizioni e le differenze che hanno caratterizzato lo sviluppo economico
globale. Accompagna quindi, con taglio specialistico/divulgativo, una ricostruzione storica “alla Harari” (Yuval Noah Harari è uno storico, filosofo, accademico e
saggista israeliano, divenuto famoso per
i suoi due saggi “Sapiens, da animali a Dei” e “Homo deus, breve storia del
futuro”) con
una analisi economica “alla Piketty” (Thomas
Piketty è un economista francese, i cui due saggi “Il Capitale nel XXI secolo”
e “Capitale ed ideologia” sono considerati fondamentali per la ricostruzione
dei meccanismi alla base delle attuali disuguaglianze economiche. Come tali
sono stati sintetizzati, suddivisi su più post stante la loro complessità, in
questo nostro blog) per
tentare di meglio comprendere le diverse traiettorie di sviluppo economico fra
le differenti aree e culture e il crearsi delle disuguaglianze economiche.
Parte
Prima = L’odissea umana
1 – Primi passi = Per molte decine
di migliaia di anni i nostri progenitori Sapiens, nella loro veste di
cacciatori-raccoglitori, non si sono certo posti il problema di quale teoria
economica potesse ispirare il loro modo di soddisfare i bisogni primari di
sussistenza. Hanno piuttosto sfruttato al meglio, e così facendo le hanno
vieppiù sviluppate, due doti evolutive possedute in esclusiva: quella di un
cervello di considerevoli dimensioni e incredibilmente ricco di connessioni
neuroniche/sinaptiche (una dote vincente sul piano della
lotta per la sopravvivenza che non si è estesa più di tanto ad altre specie per
due rilevanti inconvenienti: il cervello è molto energivoro, vale solo il 2%
della massa corporea ma consuma il 20% della sua energia, ed inoltre la
grandezza della scatola cranica che lo contiene rende difficile il parto) e quella della
conformazione delle mani adatta alla fabbricazione e utilizzo di strumenti via
via sempre più raffinati. La combinazione di questi due formidabili fattori ha
progressivamente dato vita ad una prerogativa che ha consentito all’umanità
preistorica di imporsi come specie dominante in tutti i contesti ambientali: la tecnologia.
Entrata, va da sé in forme rudimentali, nella dotazione umana già nella
preistoria è via via divenuta una componente del vivere umano determinante
sotto diversi punti di vista, e tale da meritarsi il rango di primo fattore
produttivo-economico. Un fattore così vincente, già nella lunga fase
dell’uomo cacciatore- raccoglitore, da comportare per l’umanità di allora una
conseguenza che, parallelamente al progresso tecnologico, risulterà non meno
decisiva in tutti i successivi scenari economici: la relazione tra pressione demografica e
disponibilità di risorse. Essere divenuta la specie dominante in
tutti gli habitat naturali occupati ha infatti consentito una costante crescita
della popolazione umana tale da esaurire le risorse naturali disponibili in
loco. Il problema è stato da sempre risolto con una costante “migrazione”,
un incessante fenomeno che, a partire da circa 90.000 ani fa, ha
progressivamente visto l’umanità diffondersi in tutto il pianeta (non
a caso è anche alla base della globale differenziazione linguistica affrontata
nel nostro Saggio dello scorso mese di Aprile “Storia universale delle lingue") Circa 12.000 anni fa,
al termine dell’ultimo periodo glaciale, si assiste ad una svolta epocale: la rivoluzione
agricola, altrimenti detta rivoluzione del neolitico. Nel giro di pochi
millenni in tutto il pianeta (con alcune significative eccezioni,
Africa sub-sahariana e gran parte delle Americhe, come meglio si vedrà in seguito) il fenomeno
migratorio si è fortemente ridotto ed è stato sostituito da insediamenti
stabili basati sulla coltivazione e sull’allevamento. E’ una trasformazione
radicale che investe ogni campo: tecnologico, culturale, religioso, degli usi e
costumi, sociale ed economico. In particolare per quanto concerne l’ambito
produttivo-economico da qui in poi si innesca una crescente specializzazione di mestieri,
con la conseguente emersione di strati sociali distinti, alla base di una crescita della
ricchezza comunitaria (intendendo
per ricchezza il di più a disposizione della comunità rispetto alla pura
sussistenza garantita in precedenza dalla caccia-raccolta e ormai tradotta, con la nascita della moneta, in denaro) tale da produrre un surplus in breve destinato a
sostenere attività e figure sociali fin lì del tutto sconosciute. E’ solo da
qui in poi che si può quindi iniziare a parlare di struttura socio-economica, e
di correlate teorie economiche, una delle quali, quella della stagnazione,
ossia il mistero di standard di vita per millenni rimasti sostanzialmente
immutati, ha un ruolo centrale.
2 – Persi nella stagnazione = Questo mistero è
alla base della famosa, e controversa, teoria malthusiana (Thomas
Malthus, 1766-1834, economista, filosofo, demografo inglese, a
suo avviso ogni aumento della ricchezza di una società si traduce
inevitabilmente in una crescita della popolazione tale da annullarla così
appiattendo la curva generale della crescita), del rapporto tra ricchezza,
il cui aumento è reso possibile dallo sviluppo tecnologico, e popolazione.
I dati aggregati del “viaggio dell’umanità” relativi a questi due
dati, a partire dal 10.000 a.C. fino al 1.600 d.C. (alla vigilia della seconda
rivoluzione epocale quella industriale) attestano in effetti che la prima è
rimasta sostanzialmente stabile, mentre la seconda ha visto una significativa costante
crescita (la popolazione mondiale passa in questo periodo da 5.000.000
a 770.000.000 di persone). Perlomeno per questo lungo periodo in esame la tesi
malthusiana trova quindi innegabili oggettivi riscontri. Un collegato aspetto contraddittorio
è poi fornito dall’analisi comparata di resti umani, dalla quale emerge che, paradossalmente,
l’homo sapiens cacciatore-raccoglitore godeva in generale di una salute
decisamente migliore della stragrande maggioranza dei suoi successori
agricoltori e pastori. Viveva più a lungo, si nutriva meglio, lavorava di meno
e si ammalava di meno per malattie infettive (Jared Diamond ha
scritto a questo riguardo cose molto interessanti nel suo saggio “Armi, acciaio
e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni). Vale a dire che
la definitiva vittoria delle società agricole, capaci di soppiantare totalmente
quelle precedenti, è stata però pagata a caro prezzo dall’umanità, soprattutto
dalla stragrande maggioranza della popolazione esclusa dalla diseguale
ripartizione del surplus di ricchezza comunitaria. Alcuni semplici dati
aiutano a meglio cogliere queste evidenze di quella che è definibile come la lunga era malthusiana
dell’umanità: il salario medio per una giornata di lavoro, espresso
in chili di grano, era di sette chili a Babilonia più di tremila anni fa, di
dodici chili ad Atene duemila anni fa, ma poi di nuovo, agli inizi del 1600, di
soli cinque chili a Parigi e di tre/quattro a Napoli. Non diverso è stato l’andamento
dell’aspettativa di vita media: 30/35 anni attorno a quattromila anni fa, 40
anni ad Atene duemila anni fa, ed ancora compresa in una fascia tra i 30 e 40
anni in Francia ed Inghilterra agli inizi del 1600.
3 - La tempesta sotto la superficie = Quella che è
quindi passata alla storia come la lunga era malthusiana è una situazione che,
fatte salve limitate e temporanee differenze territoriali, ha riguardato
l’intera umanità per il lunghissimo periodo che va dalla rivoluzione del
neolitico alle soglie della modernità (occidentale). Sotto la
superficie di questo lungo torpore economico alcune dinamiche di lunghissimo
periodo si sono comunque mosse, in particolare in una specifica area del
pianeta, l’Europa, per poi emergere circa trecento anni fa. La rivoluzione
industriale europea non ha infatti avuto le caratteristiche di un balzo
improvviso, tutti gli aumenti di produzione, nel primo periodo del
suo manifestarsi tra il 1700 e 1800, sono ancora decisamente graduali,
ma ben presto si rivelano capaci di rompere, per la prima volta, la stasi
malthusiana. Sono decisive per spiegare queste “ruote del cambiamento”, alcune modificazioni,
di quantità e di qualità, intervenute nel fattore “popolazione”. All’alba della
rivoluzione agricola la popolazione mondiale è stimata in meno di 5 milioni di
persone, sale a circa 250 milioni nell’anno zero dell’era cristiana, è stabile
attorno a 300 milioni verso l’anno 1.000, ancora inferiore a 500 milioni verso
il 1500, ma già arriva a sfiorare gli 800 milioni alla fine del 1700. Per la
prima volta però il consistente salto demografico avvenuto fra 1500 e 1700 si
rivela, contrariamente alla teoria malthusiana, un fattore di accelerazione delle
innovazioni, determinato da un correlato aumento della domanda di beni
e servizi, evidenziato da crescenti scambi commerciali, capace
di incentivare una consistente specializzazione dell’offerta. La crescita,
sempre più costante a partire dal 1800 in questa parte del mondo, della
ricchezza generale progressivamente consente il crearsi di un proporzionale
aumento di un surplus, che, anche se per un certo periodo ancora depurato
della persistente spesa improduttiva per il mantenimento di ceti privilegiati, viene
sempre più destinato ad accrescere il generale livello culturale e quindi, con un
processo di costante ed ininterrotta auto-alimentazione, altro progresso
tecnologico e nuovo aumento di ricchezza e surplus. Non meno rilevante è il correlato mutamento
della composizione della popolazione. Tali dinamiche si collegano
infatti ad un costante processo di sviluppo culturale che, sempre a partire dal
1800, innescherà importanti cambiamenti sociali. Si afferma infatti una tendenza,
diffusa ed irreversibile, a privilegiare una minore propensione alla fertilità in
cambio di un “investimento
sul capitale umano”, ossia a puntare su istruzione, formazione, aumento delle
abilità professionali. Con un conseguente formidabile ulteriore
incentivo all’innovazione, al progresso tecnologico, e quindi alla crescita
della ricchezza generale, e per la prima volta, seppure con tempi e modalità tormentati
e contraddittori, ad un deciso miglioramento degli standard di vita. Al termine
di un lungo processo di ben più di un secolo, contraddistinto anche da forti
tensioni sociali e politiche, la stasi malthusiana ha smesso di essere una
regola inaggirabile. Ma nella sola Europa.
4 – 5 = Metamorfosi, a tutto vapore = Queste ruote del
cambiamento, teoricamente, sarebbero potute entrare in movimento ovunque,
perché ciò è invece avvenuto in un’area ben definita? Perché solo in Europa si
è definitivamente interrotta la “regola malthusiana” e si è potuti assistere per
la prima volta ad un progresso tecnologico che ha determinato non un aumento
della popolazione a scapito del ricchezza, ma esattamente il suo contrario?
Questo rivoluzionario fenomeno, denominato “transizione demografica”, si innesca in prima
istanza in Europa grazie ad un complesso insieme di fattori di diversa natura (alcuni
dei quali verranno meglio esaminati successivamente), ma, in questo
ripercorrerlo a volo d’aquila, il più importante consiste proprio in quell’ “investimento sul
capitale umano” di cui si è appena detto. Per meglio comprenderlo è
necessario un salto temporale all’indietro. Per tutta l’era malthusiana
l’educazione, l’istruzione, la formazione hanno avuto finalità e
caratteristiche slegate dalla ricaduta produttiva. Ovunque nel mondo e per
migliaia di anni, Europa compresa, hanno mirato, restando inoltre esclusiva di
una parte molto limitata della popolazione, a scopi culturali, spirituali,
religiosi. Non a caso i tassi di alfabetizzazione sono costantemente rimasti
insignificanti: ancora nel Medioevo, nelle limitate isole di maggior istruzione,
la popolazione alfabetizzata non superava il 10%. Qualcosa è però iniziata a cambiare,
proprio in Europa, già alla fine del Medioevo. Il fervore commerciale del
Rinascimento, coniugato con un generale salto culturale, in buona misura anche
connesso allo sviluppo di “mestieri”, porta, non a caso, la civiltà
europea all’avanguardia sul piano tecnologico. Grazie al torchio tipografico di
Gutenberg, venivano stampati nella seconda metà del 1400 qualcosa come tredici
milioni di copie di libri, ma già a metà del 1700 questo numero balza a circa
un miliardo, con una parte significativa composta da “manuali commerciali” espressamente
finalizzati ad ottimizzare la gestione di attività economiche. Non stupisce
quindi che, mentre nel resto del mondo il tasso di alfabetizzazione restava
ancorato al fisiologico 10% di cui si è detto, nel 1800 sia arrivato al 68% nei
Paesi Bassi, al 50% in Gran Bretagna e Belgio, e comunque ad un buon 20% in quasi
tutti gli altri paesi. Ma ciò che più conta, per rispondere alle domande di
partenza, è che per la prima volta nella storia dell’umanità uno sviluppo
culturale, e scientifico in particolare, si rivela capace di innescare un
formidabile sviluppo tecnologico in buona misura finalizzato, nella sua intima
essenza, a ricadute sociali ed economiche. Se la primissima fase della
rivoluzione industriale ancora poggia sull’utilizzo (spietato) di forza lavoro
manuale, di pure e semplici “braccia da lavoro”, la crescente “meccanizzazione”
della produzione, resa possibile proprio dal costante sviluppo culturale,
scientifico e tecnologico, rende sempre più indispensabile anche una manodopera
“qualificata”.
Si è così innescata, già in pieno Ottocento, una “domanda di lavoro professionale”
che diventa un formidabile volano per l’incremento diffuso di istruzione (alfabetizzazione) e
formazione (apprendistato
professionale). Nascono,
inizialmente per iniziative private, scuole primarie e percorsi formativi che
verso la fine dell’Ottocento vengono ricondotte in ambito statale con la
creazione della “scuola
pubblica”. Questo percorso,
promosso dall’intreccio fra interessi produttivi (il termine “profitti”
resta del tutto appropriato) e progresso tecnologico, trova in Europa, e
solo qui, il terreno fertile sorto con il generale risveglio culturale
rinascimentale (per molti studiosi sussiste uno
stretto collegamento con la diffusa reazione alla tragedia della peste nera del
1300).
E si rivela pertanto capace di innescare un cambiamento altrettanto decisivo
sul versante dell’ “offerta” di manodopera, che si evidenzia in
due collegate dinamiche: il progressivo superamento dello scandalo del “lavoro infantile”
(aspetto
che ha contraddistinto l’intera era malthusiana e la prima fase
dell’industrializzazione) determinato proprio
dalla “convenienza
della alfabetizzazione minorile”, ma soprattutto il diffondersi
nelle classi lavoratrici della convinzione che “investire sul capitale umano” (dei
propri figli)
diventava “non
solo possibile
ma una conveniente opportunità ”. Altri correlati fattori hanno
sicuramente avuto un certo peso, in particolare il mutato ruolo familiare delle
donne che, sempre più coinvolte nella produzione industriale, divengono, gioco
forza, meno “prolifiche”, ed inoltre l’aumento delle aspettative di vita e la
riduzione della mortalità infantile che non di meno modificano le strutture familiari.
Sullo sfondo si muove poi l’insieme delle dinamiche sociali e politiche, riconducibili
alla “lotta
di classe” che accompagnerà l’intera fase della industrializzazione
occidentale. Tutti questi rilevanti fenomeni, che nello stesso Occidente hanno ancora
a lungo un impatto ben minore sul mondo agricolo, non si manifestano per nulla,
fino a tutta la prima metà del Novecento, nel resto del pianeta, che resta
quindi ancora schiavo della maledizione malthusiana. La quale solo nella
seconda metà del Novecento lascerà spazio a processi globali di sviluppo
economico, in alcuni casi di portata impressionante, non esenti però ddi limiti
e delle contraddizioni dell’attuale ingiusta struttura globale delle
disuguaglianze socio-economiche.
6 - La terra promessa = Il Novecento segna
quindi la piena e totale affermazione della rivoluzione industriale e segna un
cambiamento radicale nel viaggio dell’umanità, occidentale prima e
successivamente, con tempi e modi non lineari e onnicomprensivi, globale.
Avvenuto attraverso forti contrasti sociali e politici, segnato da guerre di
intensità e portata mai viste, fortemente caratterizzato da contraddizioni e
limiti, è comunque un cambiamento di segno nettamente positivo. Lo è
per gli standard di vita, lo è per salute ed aspettative di vita, lo è per la
dimensione sociale, culturale, spirituale, lo è sul piano delle libertà
individuali e collettive. Il confronto con la lunghissima fase malthusiana non
ammette repliche. I primi due decenni del nuovo millennio stanno però mettendo
in luce nuove problematiche di fondo. Non diversamente dai cambiamenti che
lenti e spesso sotterranei hanno posto fine all’era malthusiana si sono infatti
manifestati nuovi impattanti processi. La produzione industriale classica sta
segnando il passo e le possibili alternative devono ancora dimostrare la loro
potenzialità sostitutiva. L’impressionante crescita demografica, innescata da progresso
tecnologico e miglioramento degli standard di vita, sta rivelando un potenziale
“malthusiano”
ancora tutto da decifrare, a partire da fenomeni come l’inurbamento
incontrollato ed il conseguente formarsi di immense megalopoli, che
rappresentano una nuova dimensione del vivere umano di complicatissima gestione.
Ma sono soprattutto i drammatici segnali di sofferenza che arrivano
dall’ambiente a porre domande radicali finora senza adeguate risposte. Quel che
è certo è che tutte queste criticità sono direttamente collegate ad un elemento
solo all’apparenza puramente “economico: “la crescita”. Il valore che è stato l’indubbio
grimaldello per far saltare la millenaria condanna malthusiana rischia
seriamente di essere divenuto “il problema”.
Coda: risolvere il mistero della crescita = Questo insieme di preoccupate
constatazioni, ed in particolare il fatto che l’indubbio miglioramento dello
standard di vita non sia del tutto egualmente universale, non coinvolga allo
stesso modo tutti gli strati sociali, non appaia più né sostenibile né
irreversibile, impone di ritornare al punto di partenza per ripercorrere il “viaggio
dell’umanità” per individuare la possibile presenza ed incidenza di
specifici “fattori”
capaci di meglio spiegare questa ineguale situazione. E’ questo il tema della Parte Seconda del saggio
Parte
Seconda = Le origini di ricchezza e diseguaglianza
7 – Splendore e miseria = E’ ormai dato
acquisito il permanere delle disuguaglianze economiche fra le diverse aree del
mondo e, all’interno di ognuna di esse, della impressionante concentrazione
della ricchezza nelle mani del decile/centile più ricco (decile
= il dieci % più ricco – centile = l’uno % più ricco) - avvenuta a partire dagli ultimi decenni
dello scorso secolo. E’ pur vero che alcuni paesi asiatici sono riusciti, a
cavallo del nuovo millennio, ad innescare un prodigioso sviluppo che li ha
portati a livelli di benessere del tutto inaspettati anche solo pochi decenni
addietro e ad essere, anche in campo tecnologico, all’avanguardia. Un fenomeno che
non è certo privo di contraddizioni e problematiche, in particolare una
accentuata esasperazione di logiche iper-produttivistiche, in gran misura riconducibili
all’urgenza di lasciarsi per sempre alle spalle il precedente storico ritardo
di sviluppo. Il quale, iniziando ad
entrare nel merito delle sue cause, è sicuramente spiegabile con alcune
dinamiche politico-economiche eredità della lunga fase coloniale e con precise
storture dell’attuale struttura economico-sociale globalizzata. Spiegazioni che,
per quanto corrette, da sole non riescono però a fare piena luce sulle cause
storiche di più lungo periodo che possono aver contribuito a determinare tali
ingiuste storture. Emergono, spostando questa necessaria analisi più “all’indietro”,
almeno due ordini di cause: uno che risale al lento e diseguale maturare dei
fattori base della rivoluzione industriale, ed uno che individua processi di ancora
più antica datazione. Come si è visto nella Parte Prima i fattori che hanno
consentito all’Occidente, in Europa prima e in America poi, di uscire dalla stasi dell’era
malthusiana sono lentamente cresciuti in modo sotterraneo fino al loro pieno
realizzarsi nella seconda metà del Settecento. Ma è soprattutto nell’Ottocento
che la crescita economica di questa parte del mondo si manifesta in tutta la
sua portata: sia sul piano economico interno che su quello dei commerci
mondiali. Se agli inizi del 1800 solo il 2% della produzione mondiale era
destinato alle esportazioni/importazioni poco più di un secolo dopo, nel 1913
alla vigilia della Prima Guerra, si è saliti ad un significativo 21%. In buona
misura gli scambi avvenivano tra i paesi occidentali coinvolti nel processo di
industrializzazione, ma le economie del resto del mondo costituivano un mercato
fondamentale per due distinti flussi fra di loro intrecciati: da una parte i
paesi industrializzati “esportavano” verso di esse beni da loro
prodotti, dall’altra “importavano” prodotti agricoli e materie
prime. Le condizioni di questi duplici flussi, già del loro sbilanciati a
favore dell’Occidente, hanno mantenuto lo spirito predatore del
primo “colonialismo”
imponendo al cosiddetto “Terzo Mondo” una accentuata depredazione delle
ricchezze naturali e inducendolo “cortesemente” a produrre, a prezzi imposti, i
prodotti agricoli necessari allo stesso Occidente. Questo marcato
sbilanciamento ha inoltre implicato che, per tutto l’Ottocento e ancora per
gran parte del Novecento, nel resto del mondo non si siano avviati adeguati processi
di industrializzazione tecnologica, rimasti saldamente monopolio
dell’Occidente, tali da innescare un percorso di uscita dalla stasi malthusiana
analogo a quello avvenuto in Europa ed America. Vale a dire che il ridotto
surplus di ricchezza in Asia, Africa e Sud America ha, fino alla seconda metà
del Novecento, malthusianamente (vedi Parte Prima) consentito soltanto una crescita della
popolazione ed impedito un analogo investimento sul “capitale umano” con
l’inevitabile conseguenza di mantenere fino ai nostri giorni bassissimi
standard di vita. L’impatto di questi processi sulle differenze economiche fra
le diverse aree del mondo è stato quindi devastante. Eppure, per quanto così
significativo, non è ancora sufficiente a spiegare le cause che a monte, quando
l’intera economia globale era ancora nella fase malthusiana, hanno contribuito
a creare le basi del diseguale sviluppo globale. E’ cioè necessario approfondire
l’esistenza di “cause
sottostanti” che consentano di passare dai “fattori prossimi” ai “fattori ultimi”.
Dietro a questi ultimi potrebbero infatti sussistere “fattori geografici” – “fattori
culturali” – “fattori istituzionali”
8 – Le impronte delle istituzioni = Nell’ambito degli
studi politico-economici le “istituzioni”, le forme organizzate e stabili
del potere, sono suddivise fra “estrattive”, quelle tese a mantenere lo status
quo anche a costo di perpetuare disuguaglianze ed ingiustizie socio-economiche,
e “inclusive”,
quelle invece mirate ad una ampia articolazione del potere e a favorire
sviluppo economico e mobilità sociale. Per quanto non possa essere intesa come
regola fissa, storicamente non mancano infatti casi di “dittature” capaci di svolgere un
ruolo propulsivo in campo economico, è comunque opinione condivisa che il
processo di miglioramento economico, il più diffuso possibile, sia stato
storicamente prerogativa di istituzioni inclusive. Più in generale va detto che
il rapporto tra istituzioni e processi economici è sempre stato così complesso
ed articolato da richiedere valutazioni mirate per ogni singola situazione, e
che il ruolo delle istituzioni, per quanto importante, da solo non riesce a spiegare
in modo esaustivo l’innesco e lo sviluppo di determinate traiettorie
economiche. Sono infatti sempre intervenuti, in aggiunta all’azione istituzionale,
altri fattori, altri protagonisti, che non meno hanno avuto un ruolo decisivo. Lo
testimonia la svolta istituzionale avvenuta in Gran Bretagna a cavallo del
1600/1700 verso decise caratteristiche di inclusività. Tale svolta, passata
alla storia come la “gloriosa rivoluzione” e fondamentale per il
successivo innescarsi della rivoluzione industriale, è segnata dalla sconfitta,
per mano di Guglielmo d’Orange poi Re Guglielmo III, del precedente legittimo
monarca Guglielmo II, accusato dalla nobiltà protestante di una inaccettabile conversione
al cattolicesimo romano. Si è trattata quindi di una disputa interna al potere
sorta per ragioni ideologiche religiose, ma che è di fatto diventata anche il
volano per una successiva trasformazione della struttura economica. Sempre
restando alla situazione inglese non di meno hanno inciso altre precedenti vicende
non istituzionali: la famosa peste nera del 1300, che ha colpito duramente
l’intera Europa, ha ucciso quasi il 40% degli abitanti delle isole britanniche ed
ha di fatto privato l’aristocrazia terriera della metà della manodopera
agricola. E’ giudizio storico condiviso che questa pandemia, in Gran Bretagna,
e allo stesso modo nel resto dell’Europa, abbia innescato, con il suo tremendo
impatto, trasformazioni istituzionali ed economiche, soprattutto aprendo
inaspettati spazi a nuove iniziative imprenditoriali ed a nuovi soggetti
sociali ed economici. Al contrario invece queste stesse difficoltà economiche inglesi
ed europee hanno al contempo incentivato le esportazioni agricole russe rafforzando
così, per molti successivi secoli, il potere feudale dell’aristocrazia terriera
russa ed il carattere estrattivo delle sue istituzioni. E quindi se in generale
è possibile sostenere che i paesi che per primi si sono avviati verso il
superamento della stasi malthusiana sono tendenzialmente quelli che in
contemporanea hanno adottato istituzioni “inclusive” sembra perlomeno una
forzatura sostenere che la democrazia è, da sola, la causa della crescita.
La lunga vicenda del colonialismo e delle eredità, all’apparenza “democratiche”,
lasciate nelle diverse aree del mondo sembra rafforzare questa opinione. I
processi istituzionali possono poi subire l’incidenza di altri fattori, quale
ad esempio l’intreccio tra condizioni climatiche ed igienico-sanitarie. Sembra
infatti sostenibile che la diversa evoluzione post-coloniale tra i paesi
colonizzati dal “common
law” britannico e quelli delle ex colonie spagnole e portoghesi sia
dovuta non solo alla diversità istituzionale delle potenze colonizzatrici, ma
anche alle diversità climatiche che nei paesi colonizzati dall’Inghilterra, in
generale più verso Nord, erano più favorevoli a coltivazioni gestibili da
piccole fattorie, e quindi ad un maggiore spirito di iniziativa individuale, mentre
in quelli colonizzati da Spagna e Portogallo, più a Sud, erano più redditizie
coltivazioni su scala di latifondo del tutto alternative alla formazione di
nuovi ceti socio-economici. Inoltre in queste stesse aree la connaturata più
forte incidenza di malattie epidemiche ha non di meno impedito, gravando su
natalità e vita media, il crearsi di condizioni minime per quel’ “investimento sul
capitale umano” di cui si è detto, molto più possibili invece nelle
prime. Un’altra importante indicazione viene poi dalla situazione africana: i
disastri lasciati dallo sfruttamento coloniale, aggravati dalla creazione di
istituzioni statali del tutto artificiali e scollegate dalle vicende storiche
locali, sono stati più in fretta e meglio recuperati, in modo trans-nazionale,
nelle aree dove i legami etnici, culturali, linguistici, collegabili alle
antiche istituzioni pre-coloniali, hanno consentito di avviare processi comuni
di crescita economica. E’ quindi oggettivamente possibile sostenere che il peso
delle istituzioni (intese in senso ampio: molti
rallentamenti anche nel processo di sviluppo economico occidentale si spiegano con
l’opposizione strumentale di istituzioni come le “gilde”, come le corporazioni
di mestiere, messa in atto per conservare i propri privilegi) sui processi
economici è indubbiamente sempre stato un fattore importante, ma meglio
compreso se messo correttamente in relazione con concomitanti altri fattori,
uno dei quali è sicuramente quello culturale.
9 – Il fattore culturale = In questo
specifico ambito per “cultura” si devono intendere, in aggiunta ai
risultati della “produzione
culturale”, valori e norme comportamentali condivisi, credenze e
idealità prevalenti in un determinato ambito umano e in questo trasmessi da una
generazione all’altra. L’esperienza storica più citata per sostenere
l’influenza di questi “fattori culturali” sui processi economici
resta quella evidenziata da Max Weber sul rapporto tra “etica protestante” e “spirito del
capitalismo”. La tesi di Weber, che affianca e in parte sostituisce
la visione marxista che pone al centro della storia le forze materiali della
produzione, vede nell’idea protestante, e calvinista in particolare, di un rapporto
con Dio vissuto dal credente con un percorso individuale di messa a frutto dei personali
doni ricevuti la base della predisposizione alla diligenza sul lavoro e quindi la
fonte dello spirito imprenditoriale capitalistico. Le contrastanti opinioni
raccolte da questa tesi si sono in sostanza giocate attorno al tema del
rapporto tra tratti
culturali e tratti personali, questione quanto mai complessa e
articolata, quel che è però comunemente condiviso è il ruolo della componente
culturale, qualunque veste essa abbia, nel determinare determinanti diversità
di comportamento sociale individuali e di gruppo. Un aspetto attestato anche dalla
lunga vicenda storica ebraica la quale evidenzia in modo esemplare quanto la
condivisione di fattori culturali, in questo caso religiosi, possa
rappresentare un tratto di coesione sociale e al tempo stesso una “predisposizione”
a ricadute di ordine economico. Il fatto che nella cultura ebraica sia un
obbligo religioso millenario (ben prima quindi che anche il
protestantesimo lo affermasse) la lettura dei libri sacri, implicando
così un alto indice di alfabetizzazione, ha di fatto rappresentato un “investimento sul
capitale umano” che ha differenziato gli ebrei nella capacità di
esercitare specifici mestieri ed attività economiche. Dimostrando in
particolare che la comparsa/modifica di un fattore culturale può avere fonti diverse,
anche casuali, ma che sono decisive la sua sopravvivenza sul lungo periodo e la
sua diffusione. Vale a dire che, quando persistono nelle tradizioni di un
popolo, anche le “culture”, non diversamente dagli adattamenti
evoluzionistici biologici e genetici, possono svolgere un “ruolo evolutivo” determinato
dalla loro capacità di risultare “vincenti” in una specifica nicchia sociale per
un tempo adeguato. Su queste basi generali diventa possibile capire meglio
anche quale specifico fattore culturale possa essere intervenuto, e da quali
mutamenti esso sia stato a sua volta prodotto, nell’agevolare la transizione
demografica europea. Considerando che ogni cultura trascina con sé una
propensione al “conservatorismo”,
una sorta di ritrosia al cambiamento, e che i mutamenti culturali, strettamente connessi ai cambiamenti tecnologici (sempre intesi in senso lato), si realizzano di norma con lenta progressione, e quindi non sempre possiedono una adeguata forza
d’urto per intaccare il conservatorismo della cultura nella quale si
manifestano. Ma allorquando il cambiamento tecnologico avviene rapidamente, e
in profondità, generando in tempi brevi progressi sociali ed economici “vincenti e
convincenti”, anche la battaglia culturale con il conservatorismo può essere
vinta. Ed è esattamente questo che è sostanzialmente avvenuto in Europa all’alba
della rivoluzione industriale, completato dalla comparsa sulla scena sociale ed
economica di un ceto sociale fondato sui nuovi valori. Un ceto che, sull’onda
del nuovo fattore culturale, diventa il principale protagonista dell’affermarsi
della “cultura
della crescita” che da lì in poi caratterizza in profondità l’intera
cultura economica occidentale. La capacità dei tratti culturali di diffondersi
sia verticalmente, tra una generazione e l’altra, che orizzontalmente,
attraverso l’apprendimento, l’imitazione, l’educazione incide poi sulla loro
velocità “evoluzionistica”
rendendola decisamente superiore a quella biologica e genetica. Diversi esempi
storici consentono di cogliere nella realtà storica la diversità di evoluzione
economica determinata da fattori culturali sottostanti. Quello che di più può
interessarci è rappresentato proprio dal diverso percorso di evoluzione sociale
ed economica avvenuta in Italia fra le regioni del Nord e quelle del Sud dopo
l’unificazione statale. Le analisi fatte al riguardo da Edward Banfield (1916-1999, politologo statunitense) e da Robert Putnam (1941,
politologo statunitense) evidenziano come questa specifica diversità possa
essere spiegata con il fattore culturale “legami familiari”: molto più forte nelle
regioni del Sud, con conseguente impatto negativo sulla “fiducia sociale” alla base delle
relazioni economiche, e con quello, correlato, della “cultura delle istituzioni”, al contrario molto
più forte nell’Italia del Nord in quanto eredità dell’esperienza storica dei
Comuni e delle autonomie locali. Se quindi l’incrocio tra fattori culturali,
crescita e prosperità economica, progresso tecnologico, evoluzione delle
istituzioni resta un fenomeno complesso, è storicamente evidente che quando
riesce ad innescarsi in una area specifica ed in un determinato contesto
storico si dimostra in grado di ri-alimentarsi in una continua spirale a
crescere.
10/11 – L’ombra della geografia = Non meno determinanti sono le ovvie influenze “dirette”
del fattore “geografia”
sui processi economici, anche se talvolta tendono a manifestarsi in modi sorprendenti.
Un esempio davvero epocale per capirlo: in Africa centrale la rivoluzione agricola,
resa possibile da quella strettamente connessa dell’allevamento, si è
manifestata con notevole ritardo segnando un handicap economico mai
completamente recuperato. Una delle spiegazioni consiste proprio nel suo clima
umido e caldo che sostiene un impressionante e inospitale sviluppo forestale,
ma che soprattutto è l’habitat ideale per la mosca tse-tse la quale infesta con
un letale parassita tutte le bestie di allevamento impedendone la diffusione.
Più in generale la prossimità al mare ed a corsi d’acqua navigabili, la
presenza di risorse naturali e di minerali, la conformazione orografica, sono
alcuni dei fattori geografici che bene illustrano l’influenza del fattore
geografia. Non meno decisive sono poi le influenze “indirette”, ossia quelle che
hanno un impatto sui processi economici mediato dalla loro influenza su altri
fattori. Ad esempio la conformazione geografica delle civiltà cinesi ed
ottomane - molto omogenea perché in prevalenza priva di ostacoli naturali, e
quindi con un alto indice di “connettività geografica”, e con un regime
delle acque costante essendo legato a grandi fiumi, ha agevolato, per certi
versi persino imposto, un forte processo di centralizzazione del potere che si
è poi caratterizzato come “istituzione estrattiva”, rallentandone lo
sviluppo economico. La frammentazione politica europea, nata subito dopo la
fine dell’Impero romano e costituzionalmente più predisposta alla “competizione
economica”, ha al contrario spiegazioni geografiche esattamente
opposte: molti ostacoli naturali e la dipendenza, per la disponibilità di
acqua, dal regime non governabile delle precipitazioni. Non diversamente anche
un tratto tipicamente “culturale” come la presenza diffusa, in una
società, di una “mentalità
orientata al futuro”, presupposto fondamentale come si è visto per
lo sviluppo economico, ha una stretta relazione con il fattore “geografia”. Là
dove le colture o non sono potute sorgere o non consentono rendimenti adeguati,
come in Africa o nel Sud America, ed hanno così imposto comportamenti più orientati
alla pura sopravvivenza quotidiana, è stata ovviamente molto più difficoltosa
la formazione di una tale mentalità. La tipologia delle coltivazioni,
altrettanto determinata dalle condizioni geografiche, ha a sua volta un peso
diretto sui processi economici: quando la geografia consente, come per il riso,
quelle su larga scala, grazie a centralizzati e coordinati sistemi di
irrigazione, da una parte possono formarsi, con un impatto alla lunga negativo,
grandi imperi estrattivi, ma dall’altra, imponendo la condivisa gestione di un
bene comune indispensabile, possono
divenire un ottimo incubatore per il formarsi di culture
collettivistiche orientate alla coesione sociale. L’analisi storica su tempi
lunghi evidenzia inoltre alcune sorprendenti relazioni, come quella fra
geografia e sviluppo della manodopera femminile, elemento non meno fondamentale
per l’uscita dell’Europa dalla traiettoria malthusiana. E’ ormai opinione
condivisa in ambito storico che sia stata fondamentale per la formazione di una
“mentalità di
genere” la diversità, determinata dalle condizione geografiche, fra
coltivazioni gestite con uso esteso dell’aratro, lavoro quasi esclusivamente
maschile, con le donne conseguentemente relegate ai lavori domestici, e quelle
più basate su lavori condivisibili, come zappatura e rastrellatura, con le
donne al contrario già più coinvolte nel lavoro “fuori casa”. Ma l’esempio
storico che di più e meglio, perché su ampia scala, evidenzia il peso del “fattore
geografia” consiste nel processo storico di nascita e diffusione della
rivoluzione neolitica dell’agricoltura. La scoperta di alcuni reperti attesta
che, ben prima (fino a ben 20.000 anni fa!) della sua nascita
ufficiale (12.000 anni fa), nella Mezzaluna fertile erano già iniziate
esperienze di “coltivazione”,
favorite dalla presenza in loco di tipi di cereali più facilmente coltivabili e
di animali da lavoro più addomesticabili. Vale a dire che è la positiva biodiversità
tipica di questa parte del pianeta, determinata dalle sue specifiche condizioni
geografiche, che spiega questi primi tentativi, ma soprattutto la loro
successiva completa affermazione. Non a caso condizioni molto simili
consentiranno, duemila anni dopo, una analoga rivoluzione agricola, avvenuta in
modo del tutto indipendente, nel Sud-est asiatico. Non solo: il già citato Jared Diamond ha
messo opportunamente in luce il ruolo della “diversità di orientamento geografico”
tra l’Eurasia, estesa lungo l’asse orizzontale est-ovest, e l’Africa e l’intera
America più estese al contrario lungo un asso verticale nord-sud. Quest’ultimo
orientamento comporta una più accentuata diversità climatica, mentre il clima
dell’Eurasia ha caratteristiche più omogenee, che possono quindi bene spiegare
il privilegio, nella fascia ideale, della maggiore fertilità e la conseguente
nascita/diffusione dell’economia agricola. Il fattore geografia, in modo
diretto o indiretto, ha quindi implicato un insieme di “congiunture critiche” che hanno costituito
un elemento fondamentale, in negativo piuttosto che in positivo, per la nascita
e la stabilizzazione su tempi lunghi di processi e mentalità “economiche”.
12 – L’esodo dall’Africa = L’ultimo fattore storico che ha un indubbio peso
sull’intero “viaggio
dell’umanità” risale molto indietro fino alle modalità dell’esodo di
Homo sapiens dall’Africa Orientale, là dove era comparso almeno 200.000 (alcuni
studi lo retrodatano a 300.000 anni fa) e là dove si è forgiato, per almeno
100.000/150.000 anni, il suo patrimonio genetico e le sue forme mentis
ancestrali, i due aspetti che formano una caratteristica costitutiva umana: “l’eterogeneità”.
Per comprenderlo è innanzitutto necessario distinguere questa eterogeneità
ancestrale da quella delle attuali società umane, frutto molto più recente, che
su di essa si è sovrapposto, dell’insieme dei processi che hanno caratterizzato
la nascita e lo sviluppo della civiltà umana a partire dalla rivoluzione agricola.
Si tratta cioè dell’originario patrimonio di eterogeneità culturale,
linguistica, comportamentale, fisica e genetica, del gruppo etnico sapiens
dell’Africa Orientale, e quindi come tale rintracciabile, in forme più o meno
accentuate, in tutta l’umanità passata e presente. Un patrimonio che infatti ha
visto diminuire quello originario ad ogni ulteriore
migrazione, dopo quelle primordiali di 90.000 e 60.000 anni fa, che ha vieppiù suddiviso
il ceppo sapiens. L’insieme delle rilevazioni antropologiche e genetiche
attestano senza ombra di dubbio che i gruppi etnici più eterogenei, ovvero
quelli che hanno mantenuto una più alta dote dell’originaria eterogeneità, sono
quelli che si sono insediati stabilmente nelle zone più vicine all’Africa
Orientale. Al contrario quelli che di più hanno disperso tale dote sono i
gruppi che, dopo numerose scissioni migratorie, hanno completato la diffusione
sapiens sul pianeta, ovvero le comunità indigene dell’America Centrale e
Meridionale. E’ quindi la “distanza migratoria” che misura il livello
residuo della originaria eterogeneità. La quale ha, in questo modo, conformato,
ma con diversa gradualità, le caratteristiche sociali, culturali,
comportamentali, delle diverse società umane fino alla nascita della civiltà circa
12.000/10.000 anni fa. Ma in che modo questo livello di eterogeneità può aver
inciso sulla “predisposizione
naturale” all’innovazione tecnologica e alla collegata maggiore
prosperità, in aggiunta ed a completamento di tutti gli altri fattori fin qui
esaminati? Le evidenze sul campo di cui si è detto hanno anche evidenziato che
il raggiungimento del livello ottimale di coesione sociale, quello più
collegabile alla predisposizione all’innovazione tecnologica della rivoluzione
del Neolitico, si è realizzato, là dove e quando, il corrispondente livello di
eterogeneità si è situato ad un livello intermedio, non troppo alto, e quindi freno all’integrazione sociale e fonte di
contrasti, ma neppure troppo basso, con il rischio di un eccesso di sterile
uniformità sociale e culturale. E’ peraltro lo stesso meccanismo rilevabile ancora
ai nostri giorni che vedono le nazioni, le società, con un livello intermedio
di eterogeneità, meglio predisposte, per le stesse identiche motivazioni, al
cambiamento tecnologico e alla sua positiva ricaduta sui processi economici. Così
come costituisce una delle principali spiegazioni dell’ascesa e del declino di
tutte le civiltà storiche che si sono via via succedute.
Coda: venire a capo del mistero della disuguaglianza = Dall’insieme delle
considerazioni sviluppate in questa seconda parte emerge che sulla traiettoria
del progresso tecnologico ed economico umano i fattori geografico ed eterogeneità
sono quelli che di più hanno agito “in profondità”, e i fattori culturale ed
istituzionale quelli che di più hanno ne hanno dettato la “velocità”. Ma soprattutto emerge
una grave sottovalutazione della loro incidenza in tutte le politiche ed i
processi economici globali. Se è pur vero che l’attuale struttura delle
disuguaglianze fra aree del mondo e fra soggetti sociali è in gran misura
determinata dalle storture sistemiche determinate dalla globalizzazione
neo-liberista, sulle quali quindi è indispensabile intervenire, è altrettanto
vero che tale sottovalutazione rischia di compromettere ogni azione correttiva.
Non a caso tutte le politiche raccomandate dalle istituzioni economiche
dell’Occidente (Fondo Monetario, Banca Mondiale,
Ocse in testa)
si sono limitate a proporre una sorta di imitazione di quelle che sono state, e
sono, alla base dello sviluppo occidentale, nella più totale dimenticanza dei
fattori che, come si è visto, non a caso qui e solo qui l’hanno consentito. Là
dove, per un insieme di circostanze favorevoli, sono riuscite ad innescare
percorsi di crescita, anche consistenti, ne hanno, inevitabilmente, riprodotto
anche tutti gli svantaggi e le storture sistemiche. E buona parte del mondo
resta tuttora esclusa dalle traiettorie di uscita dalla condanna malthusiana a
dimostrazione che questa sorta di “copia ed incolla” da solo non è in grado di
garantire risultati realmente efficaci e “giusti”. Conoscere e tenere nella
giusta considerazione l’incidenza di questi fattori, emersi nel corso del lungo
“viaggio
dell’umanità” diventa quindi indispensabile. Lo è altrettanto porre
al centro di ogni sforzo la vera molla dello sviluppo già avvenuto e di quello
diffuso e giusto che si intende perseguire: l’investimento sul capitale umano. Educazione,
parità di genere, pluralismo, rispetto delle differenze, sono elementi basilari
per questo investimento, mirato che sia a sanare le disuguaglianza tra aree
piuttosto che tra ceti sociali. Nel percorso della rivoluzione industriale, e
del collegato superamento della condanna malthusiana, forze e processi quali
l’innovazione tecnologica, la formazione di capitale umano, il declino della
fertilità, l’attenzione verso la giustizia sociale, hanno svolto un ruolo
decisivo. Restano ancora centrali per affrontare e risolvere anche degrado
ambientale ed emergenza climatica, i risultati non casuali di un’idea di
benessere diseguale ed ingiusto troppo condizionato da quella “cultura della
crescita” di cui si è detto.
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