mercoledì 15 giugno 2022

Il "Saggio" del mese - Giugno 2022

 

Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2022

Restiamo anche questo mese nel filone di approfondimenti sulle tematiche economiche convinti, come siamo, che soltanto con un diverso modello di sviluppo si potranno superare disuguaglianze ed emergenza ambientale. Lo scorso mese con lo studio sul rapporto energia-crescita dell’Hagens Institute abbiamo visto come i due termini siano in contrapposizione pressochè irrisolvibile, e come le reali disponibilità di un pianeta dalle risorse finite non possano assolutamente reggere, già nel breve periodo, i tassi di crescita finora avvenuti. Anche il saggio di questo mese riflette attorno al tema della crescita, ma da una prospettiva diversa. Oded Galor, (economista israeliano, docente di economia presso la Brown University in USA,  fondatore della teoria della crescita unificata)


pur continuando a concentrare la sua attenzione sulle contraddizioni economiche e sociali attuali offre spunti di riflessione di sguardo storico più lungo. Nell’ambito della sua teoria della “crescita unificata(in estrema sintesi consiste nella analisi dei processi alla base del concetto di crescita economica partendo dai dati e dagli aspetti più strettamente economici ma inserendoli in una visione “unificata” con tutti i fattori storici che hanno caratterizzato l’intera evoluzione umana) ripercorre l’intero “viaggio dell’umanità” per far emergere le ragioni di diversa natura che possano spiegare le contraddizioni e le differenze che hanno caratterizzato lo sviluppo economico globale. Accompagna quindi, con taglio specialistico/divulgativo,  una ricostruzione storica “alla Harari” (Yuval Noah Harari è uno storico, filosofo, accademico e saggista israeliano, divenuto famoso per i suoi due saggi “Sapiens, da animali a Dei” e “Homo deus, breve storia del futuro”) con una analisi economica “alla Piketty” (Thomas Piketty è un economista francese, i cui due saggi “Il Capitale nel XXI secolo” e “Capitale ed ideologia” sono considerati fondamentali per la ricostruzione dei meccanismi alla base delle attuali disuguaglianze economiche. Come tali sono stati sintetizzati, suddivisi su più post stante la loro complessità, in questo nostro blog) per tentare di meglio comprendere le diverse traiettorie di sviluppo economico fra le differenti aree e culture e il crearsi delle disuguaglianze economiche.


Parte Prima = L’odissea umana

1 – Primi passi = Per molte decine di migliaia di anni i nostri progenitori Sapiens, nella loro veste di cacciatori-raccoglitori, non si sono certo posti il problema di quale teoria economica potesse ispirare il loro modo di soddisfare i bisogni primari di sussistenza. Hanno piuttosto sfruttato al meglio, e così facendo le hanno vieppiù sviluppate, due doti evolutive possedute in esclusiva: quella di un cervello di considerevoli dimensioni e incredibilmente ricco di connessioni neuroniche/sinaptiche (una dote vincente sul piano della lotta per la sopravvivenza che non si è estesa più di tanto ad altre specie per due rilevanti inconvenienti: il cervello è molto energivoro, vale solo il 2% della massa corporea ma consuma il 20% della sua energia, ed inoltre la grandezza della scatola cranica che lo contiene rende difficile il parto) e quella della conformazione delle mani adatta alla fabbricazione e utilizzo di strumenti via via sempre più raffinati. La combinazione di questi due formidabili fattori ha progressivamente dato vita ad una prerogativa che ha consentito all’umanità preistorica di imporsi come specie dominante in tutti i contesti ambientali: la tecnologia. Entrata, va da sé in forme rudimentali, nella dotazione umana già nella preistoria è via via divenuta una componente del vivere umano determinante sotto diversi punti di vista, e tale da meritarsi il rango di primo fattore produttivo-economico. Un fattore così vincente, già nella lunga fase dell’uomo cacciatore- raccoglitore, da comportare per l’umanità di allora una conseguenza che, parallelamente al progresso tecnologico, risulterà non meno decisiva in tutti i successivi scenari economici: la relazione tra pressione demografica e disponibilità di risorse. Essere divenuta la specie dominante in tutti gli habitat naturali occupati ha infatti consentito una costante crescita della popolazione umana tale da esaurire le risorse naturali disponibili in loco. Il problema è stato da sempre risolto con una costante “migrazione”, un incessante fenomeno che, a partire da circa 90.000 ani fa, ha progressivamente visto l’umanità diffondersi in tutto il pianeta (non a caso è anche alla base della globale differenziazione linguistica affrontata nel nostro Saggio dello scorso mese di Aprile “Storia universale delle lingue") Circa 12.000 anni fa, al termine dell’ultimo periodo glaciale, si assiste ad una svolta epocale: la rivoluzione agricola, altrimenti detta rivoluzione del neolitico. Nel giro di pochi millenni in tutto il pianeta (con alcune significative eccezioni, Africa sub-sahariana e gran parte delle Americhe, come meglio si vedrà in seguito) il fenomeno migratorio si è fortemente ridotto ed è stato sostituito da insediamenti stabili basati sulla coltivazione e sull’allevamento. E’ una trasformazione radicale che investe ogni campo: tecnologico, culturale, religioso, degli usi e costumi, sociale ed economico. In particolare per quanto concerne l’ambito produttivo-economico da qui in poi si innesca una crescente specializzazione di mestieri, con la conseguente emersione di strati sociali distinti, alla base di una crescita della ricchezza comunitaria (intendendo per ricchezza il di più a disposizione della comunità rispetto alla pura sussistenza garantita in precedenza dalla caccia-raccolta e ormai tradotta, con la nascita della moneta, in denaro)  tale da produrre un surplus in breve destinato a sostenere attività e figure sociali fin lì del tutto sconosciute. E’ solo da qui in poi che si può quindi iniziare a parlare di struttura socio-economica, e di correlate teorie economiche, una delle quali, quella della stagnazione, ossia il mistero di standard di vita per millenni rimasti sostanzialmente immutati, ha un ruolo centrale.

2 – Persi nella stagnazione = Questo mistero è alla base della famosa, e controversa, teoria malthusiana (Thomas Malthus, 1766-1834, economista, filosofo, demografo inglese, a suo avviso ogni aumento della ricchezza di una società si traduce inevitabilmente in una crescita della popolazione tale da annullarla così appiattendo la curva generale della crescita), del rapporto tra ricchezza, il cui aumento è reso possibile dallo sviluppo tecnologico, e popolazione. I dati aggregati del “viaggio dell’umanità” relativi a questi due dati, a partire dal 10.000 a.C. fino al 1.600 d.C. (alla vigilia della seconda rivoluzione epocale quella industriale) attestano in effetti che la prima è rimasta sostanzialmente stabile, mentre la seconda ha visto una significativa costante crescita (la popolazione mondiale passa in questo periodo da 5.000.000 a 770.000.000 di persone). Perlomeno per questo lungo periodo in esame la tesi malthusiana trova quindi innegabili oggettivi riscontri. Un collegato aspetto contraddittorio è poi fornito dall’analisi comparata di resti umani, dalla quale emerge che, paradossalmente, l’homo sapiens cacciatore-raccoglitore godeva in generale di una salute decisamente migliore della stragrande maggioranza dei suoi successori agricoltori e pastori. Viveva più a lungo, si nutriva meglio, lavorava di meno e si ammalava di meno per malattie infettive (Jared Diamond ha scritto a questo riguardo cose molto interessanti nel suo saggio “Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni). Vale a dire che la definitiva vittoria delle società agricole, capaci di soppiantare totalmente quelle precedenti, è stata però pagata a caro prezzo dall’umanità, soprattutto dalla stragrande maggioranza della popolazione esclusa dalla diseguale ripartizione del surplus di ricchezza comunitaria. Alcuni semplici dati aiutano a meglio cogliere queste evidenze di quella che è definibile come la lunga era malthusiana dell’umanità: il salario medio per una giornata di lavoro, espresso in chili di grano, era di sette chili a Babilonia più di tremila anni fa, di dodici chili ad Atene duemila anni fa, ma poi di nuovo, agli inizi del 1600, di soli cinque chili a Parigi e di tre/quattro a Napoli. Non diverso è stato l’andamento dell’aspettativa di vita media: 30/35 anni attorno a quattromila anni fa, 40 anni ad Atene duemila anni fa, ed ancora compresa in una fascia tra i 30 e 40 anni in Francia ed Inghilterra agli inizi del 1600.

3 - La tempesta sotto la superficie = Quella che è quindi passata alla storia come la lunga era malthusiana è una situazione che, fatte salve limitate e temporanee differenze territoriali, ha riguardato l’intera umanità per il lunghissimo periodo che va dalla rivoluzione del neolitico alle soglie della modernità (occidentale). Sotto la superficie di questo lungo torpore economico alcune dinamiche di lunghissimo periodo si sono comunque mosse, in particolare in una specifica area del pianeta, l’Europa, per poi emergere circa trecento anni fa. La rivoluzione industriale europea non ha infatti avuto le caratteristiche di un balzo improvviso, tutti gli aumenti di produzione, nel primo periodo del suo manifestarsi tra il 1700 e 1800, sono ancora decisamente graduali, ma ben presto si rivelano capaci di rompere, per la prima volta, la stasi malthusiana. Sono decisive per spiegare queste “ruote del cambiamento”, alcune modificazioni, di quantità e di qualità, intervenute nel fattore “popolazione”. All’alba della rivoluzione agricola la popolazione mondiale è stimata in meno di 5 milioni di persone, sale a circa 250 milioni nell’anno zero dell’era cristiana, è stabile attorno a 300 milioni verso l’anno 1.000, ancora inferiore a 500 milioni verso il 1500, ma già arriva a sfiorare gli 800 milioni alla fine del 1700. Per la prima volta però il consistente salto demografico avvenuto fra 1500 e 1700 si rivela, contrariamente alla teoria malthusiana, un fattore di accelerazione delle innovazioni, determinato da un correlato aumento della domanda di beni e servizi, evidenziato da crescenti scambi commerciali, capace di incentivare una consistente specializzazione dell’offerta. La crescita, sempre più costante a partire dal 1800 in questa parte del mondo, della ricchezza generale progressivamente consente il crearsi di un proporzionale aumento di un surplus, che, anche se per un certo periodo ancora depurato della persistente spesa improduttiva per il mantenimento di ceti privilegiati, viene sempre più destinato ad accrescere il generale livello culturale e quindi, con un processo di costante ed ininterrotta auto-alimentazione, altro progresso tecnologico e nuovo aumento di ricchezza e surplus. Non meno rilevante è il correlato mutamento della composizione della popolazione. Tali dinamiche si collegano infatti ad un costante processo di sviluppo culturale che, sempre a partire dal 1800, innescherà importanti cambiamenti sociali. Si afferma infatti una tendenza, diffusa ed irreversibile, a privilegiare una minore propensione alla fertilità in cambio di un “investimento sul capitale umano”, ossia a puntare su istruzione, formazione, aumento delle abilità professionali. Con un conseguente formidabile ulteriore incentivo all’innovazione, al progresso tecnologico, e quindi alla crescita della ricchezza generale, e per la prima volta, seppure con tempi e modalità tormentati e contraddittori, ad un deciso miglioramento degli standard di vita. Al termine di un lungo processo di ben più di un secolo, contraddistinto anche da forti tensioni sociali e politiche, la stasi malthusiana ha smesso di essere una regola inaggirabile. Ma nella sola Europa.

4 – 5 = Metamorfosi, a tutto vapore = Queste ruote del cambiamento, teoricamente, sarebbero potute entrare in movimento ovunque, perché ciò è invece avvenuto in un’area ben definita? Perché solo in Europa si è definitivamente interrotta la “regola malthusiana” e si è potuti assistere per la prima volta ad un progresso tecnologico che ha determinato non un aumento della popolazione a scapito del ricchezza, ma esattamente il suo contrario? Questo rivoluzionario fenomeno, denominato “transizione demografica”, si innesca in prima istanza in Europa grazie ad un complesso insieme di fattori di diversa natura (alcuni dei quali verranno meglio esaminati successivamente), ma, in questo ripercorrerlo a volo d’aquila, il più importante consiste proprio in quell’ “investimento sul capitale umano” di cui si è appena detto. Per meglio comprenderlo è necessario un salto temporale all’indietro. Per tutta l’era malthusiana l’educazione, l’istruzione, la formazione hanno avuto finalità e caratteristiche slegate dalla ricaduta produttiva. Ovunque nel mondo e per migliaia di anni, Europa compresa, hanno mirato, restando inoltre esclusiva di una parte molto limitata della popolazione, a scopi culturali, spirituali, religiosi. Non a caso i tassi di alfabetizzazione sono costantemente rimasti insignificanti: ancora nel Medioevo, nelle limitate isole di maggior istruzione, la popolazione alfabetizzata non superava il 10%. Qualcosa è però iniziata a cambiare, proprio in Europa, già alla fine del Medioevo. Il fervore commerciale del Rinascimento, coniugato con un generale salto culturale, in buona misura anche connesso allo sviluppo di “mestieri”, porta, non a caso, la civiltà europea all’avanguardia sul piano tecnologico. Grazie al torchio tipografico di Gutenberg, venivano stampati nella seconda metà del 1400 qualcosa come tredici milioni di copie di libri, ma già a metà del 1700 questo numero balza a circa un miliardo, con una parte significativa composta da “manuali commerciali” espressamente finalizzati ad ottimizzare la gestione di attività economiche. Non stupisce quindi che, mentre nel resto del mondo il tasso di alfabetizzazione restava ancorato al fisiologico 10% di cui si è detto, nel 1800 sia arrivato al 68% nei Paesi Bassi, al 50% in Gran Bretagna e Belgio, e comunque ad un buon 20% in quasi tutti gli altri paesi. Ma ciò che più conta, per rispondere alle domande di partenza, è che per la prima volta nella storia dell’umanità uno sviluppo culturale, e scientifico in particolare, si rivela capace di innescare un formidabile sviluppo tecnologico in buona misura finalizzato, nella sua intima essenza, a ricadute sociali ed economiche. Se la primissima fase della rivoluzione industriale ancora poggia sull’utilizzo (spietato) di forza lavoro manuale, di pure e semplici “braccia da lavoro”, la crescente “meccanizzazione” della produzione, resa possibile proprio dal costante sviluppo culturale, scientifico e tecnologico, rende sempre più indispensabile anche una manodopera “qualificata”. Si è così innescata, già in pieno Ottocento, una “domanda di lavoro professionale” che diventa un formidabile volano per l’incremento diffuso di istruzione (alfabetizzazione) e formazione (apprendistato professionale). Nascono, inizialmente per iniziative private, scuole primarie e percorsi formativi che verso la fine dell’Ottocento vengono ricondotte in ambito statale con la creazione della “scuola pubblica”.  Questo percorso, promosso dall’intreccio fra interessi produttivi (il termine “profitti” resta del tutto appropriato) e progresso tecnologico, trova in Europa, e solo qui, il terreno fertile sorto con il generale risveglio culturale rinascimentale (per molti studiosi sussiste uno stretto collegamento con la diffusa reazione alla tragedia della peste nera del 1300). E si rivela pertanto capace di innescare un cambiamento altrettanto decisivo sul versante dell’ “offerta” di manodopera, che si evidenzia in due collegate dinamiche: il progressivo superamento dello scandalo del “lavoro infantile(aspetto che ha contraddistinto l’intera era malthusiana e la prima fase dell’industrializzazione) determinato proprio dalla “convenienza della alfabetizzazione minorile”, ma soprattutto il diffondersi nelle classi lavoratrici della convinzione che “investire sul capitale umano(dei propri figli) diventava “non solo possibile ma una conveniente opportunità ”. Altri correlati fattori hanno sicuramente avuto un certo peso, in particolare il mutato ruolo familiare delle donne che, sempre più coinvolte nella produzione industriale, divengono, gioco forza, meno “prolifiche”, ed inoltre l’aumento delle aspettative di vita e la riduzione della mortalità infantile che non di meno modificano le strutture familiari. Sullo sfondo si muove poi l’insieme delle dinamiche sociali e politiche, riconducibili alla “lotta di classe” che accompagnerà l’intera fase della industrializzazione occidentale. Tutti questi rilevanti fenomeni, che nello stesso Occidente hanno ancora a lungo un impatto ben minore sul mondo agricolo, non si manifestano per nulla, fino a tutta la prima metà del Novecento, nel resto del pianeta, che resta quindi ancora schiavo della maledizione malthusiana. La quale solo nella seconda metà del Novecento lascerà spazio a processi globali di sviluppo economico, in alcuni casi di portata impressionante, non esenti però ddi limiti e delle contraddizioni dell’attuale ingiusta struttura globale delle disuguaglianze socio-economiche. 

6 - La terra promessa = Il Novecento segna quindi la piena e totale affermazione della rivoluzione industriale e segna un cambiamento radicale nel viaggio dell’umanità, occidentale prima e successivamente, con tempi e modi non lineari e onnicomprensivi, globale. Avvenuto attraverso forti contrasti sociali e politici, segnato da guerre di intensità e portata mai viste, fortemente caratterizzato da contraddizioni e limiti, è comunque un cambiamento di segno nettamente positivo. Lo è per gli standard di vita, lo è per salute ed aspettative di vita, lo è per la dimensione sociale, culturale, spirituale, lo è sul piano delle libertà individuali e collettive. Il confronto con la lunghissima fase malthusiana non ammette repliche. I primi due decenni del nuovo millennio stanno però mettendo in luce nuove problematiche di fondo. Non diversamente dai cambiamenti che lenti e spesso sotterranei hanno posto fine all’era malthusiana si sono infatti manifestati nuovi impattanti processi. La produzione industriale classica sta segnando il passo e le possibili alternative devono ancora dimostrare la loro potenzialità sostitutiva. L’impressionante crescita demografica, innescata da progresso tecnologico e miglioramento degli standard di vita, sta rivelando un potenziale “malthusiano” ancora tutto da decifrare, a partire da fenomeni come l’inurbamento incontrollato ed il conseguente formarsi di immense megalopoli, che rappresentano una nuova dimensione del vivere umano di complicatissima gestione. Ma sono soprattutto i drammatici segnali di sofferenza che arrivano dall’ambiente a porre domande radicali finora senza adeguate risposte. Quel che è certo è che tutte queste criticità sono direttamente collegate ad un elemento solo all’apparenza puramente “economico: “la crescita”. Il valore che è stato l’indubbio grimaldello per far saltare la millenaria condanna malthusiana rischia seriamente di essere divenuto “il problema”.

Coda: risolvere il mistero della crescita = Questo insieme di preoccupate constatazioni, ed in particolare il fatto che l’indubbio miglioramento dello standard di vita non sia del tutto egualmente universale, non coinvolga allo stesso modo tutti gli strati sociali, non appaia più né sostenibile né irreversibile, impone di ritornare al punto di partenza per ripercorrere il “viaggio dell’umanità” per individuare la possibile presenza ed incidenza di specifici “fattori” capaci di meglio spiegare questa ineguale situazione. E’ questo il tema della Parte Seconda del saggio

Parte Seconda = Le origini di ricchezza e diseguaglianza

7 – Splendore e miseria = E’ ormai dato acquisito il permanere delle disuguaglianze economiche fra le diverse aree del mondo e, all’interno di ognuna di esse, della impressionante concentrazione della ricchezza nelle mani del decile/centile più ricco (decile = il dieci % più ricco – centile = l’uno % più ricco) -  avvenuta a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo. E’ pur vero che alcuni paesi asiatici sono riusciti, a cavallo del nuovo millennio, ad innescare un prodigioso sviluppo che li ha portati a livelli di benessere del tutto inaspettati anche solo pochi decenni addietro e ad essere, anche in campo tecnologico, all’avanguardia. Un fenomeno che non è certo privo di contraddizioni e problematiche, in particolare una accentuata esasperazione di logiche iper-produttivistiche, in gran misura riconducibili all’urgenza di lasciarsi per sempre alle spalle il precedente storico ritardo di sviluppo.  Il quale, iniziando ad entrare nel merito delle sue cause, è sicuramente spiegabile con alcune dinamiche politico-economiche eredità della lunga fase coloniale e con precise storture dell’attuale struttura economico-sociale globalizzata. Spiegazioni che, per quanto corrette, da sole non riescono però a fare piena luce sulle cause storiche di più lungo periodo che possono aver contribuito a determinare tali ingiuste storture. Emergono, spostando questa necessaria analisi più “all’indietro”, almeno due ordini di cause: uno che risale al lento e diseguale maturare dei fattori base della rivoluzione industriale, ed uno che individua processi di ancora più antica datazione. Come si è visto nella Parte Prima i fattori che hanno consentito all’Occidente, in Europa prima e in  America poi, di uscire dalla stasi dell’era malthusiana sono lentamente cresciuti in modo sotterraneo fino al loro pieno realizzarsi nella seconda metà del Settecento. Ma è soprattutto nell’Ottocento che la crescita economica di questa parte del mondo si manifesta in tutta la sua portata: sia sul piano economico interno che su quello dei commerci mondiali. Se agli inizi del 1800 solo il 2% della produzione mondiale era destinato alle esportazioni/importazioni poco più di un secolo dopo, nel 1913 alla vigilia della Prima Guerra, si è saliti ad un significativo 21%. In buona misura gli scambi avvenivano tra i paesi occidentali coinvolti nel processo di industrializzazione, ma le economie del resto del mondo costituivano un mercato fondamentale per due distinti flussi fra di loro intrecciati: da una parte i paesi industrializzati “esportavano” verso di esse beni da loro prodotti, dall’altra “importavano” prodotti agricoli e materie prime. Le condizioni di questi duplici flussi, già del loro sbilanciati a favore dell’Occidente, hanno mantenuto lo spirito predatore del primo “colonialismo” imponendo al cosiddetto “Terzo Mondo” una accentuata depredazione delle ricchezze naturali e inducendolo “cortesemente” a produrre, a prezzi imposti, i prodotti agricoli necessari allo stesso Occidente. Questo marcato sbilanciamento ha inoltre implicato che, per tutto l’Ottocento e ancora per gran parte del Novecento, nel resto del mondo non si siano avviati adeguati processi di industrializzazione tecnologica, rimasti saldamente monopolio dell’Occidente, tali da innescare un percorso di uscita dalla stasi malthusiana analogo a quello avvenuto in Europa ed America. Vale a dire che il ridotto surplus di ricchezza in Asia, Africa e Sud America ha, fino alla seconda metà del Novecento, malthusianamente (vedi Parte Prima) consentito soltanto una crescita della popolazione ed impedito un analogo investimento sul “capitale umano” con l’inevitabile conseguenza di mantenere fino ai nostri giorni bassissimi standard di vita. L’impatto di questi processi sulle differenze economiche fra le diverse aree del mondo è stato quindi devastante. Eppure, per quanto così significativo, non è ancora sufficiente a spiegare le cause che a monte, quando l’intera economia globale era ancora nella fase malthusiana, hanno contribuito a creare le basi del diseguale sviluppo globale. E’ cioè necessario approfondire l’esistenza di “cause sottostanti” che consentano di passare dai “fattori prossimi” ai “fattori ultimi”. Dietro a questi ultimi potrebbero infatti sussistere “fattori geografici” – “fattori culturali” – “fattori istituzionali

8 – Le impronte delle istituzioni = Nell’ambito degli studi politico-economici le “istituzioni”, le forme organizzate e stabili del potere, sono suddivise fra “estrattive”, quelle tese a mantenere lo status quo anche a costo di perpetuare disuguaglianze ed ingiustizie socio-economiche, e “inclusive”, quelle invece mirate ad una ampia articolazione del potere e a favorire sviluppo economico e mobilità sociale. Per quanto non possa essere intesa come regola fissa, storicamente non mancano infatti casi di “dittature” capaci di svolgere un ruolo propulsivo in campo economico, è comunque opinione condivisa che il processo di miglioramento economico, il più diffuso possibile, sia stato storicamente prerogativa di istituzioni inclusive. Più in generale va detto che il rapporto tra istituzioni e processi economici è sempre stato così complesso ed articolato da richiedere valutazioni mirate per ogni singola situazione, e che il ruolo delle istituzioni, per quanto importante, da solo non riesce a spiegare in modo esaustivo l’innesco e lo sviluppo di determinate traiettorie economiche. Sono infatti sempre intervenuti, in aggiunta all’azione istituzionale, altri fattori, altri protagonisti, che non meno hanno avuto un ruolo decisivo. Lo testimonia la svolta istituzionale avvenuta in Gran Bretagna a cavallo del 1600/1700 verso decise caratteristiche di inclusività. Tale svolta, passata alla storia come la “gloriosa rivoluzione” e fondamentale per il successivo innescarsi della rivoluzione industriale, è segnata dalla sconfitta, per mano di Guglielmo d’Orange poi Re Guglielmo III, del precedente legittimo monarca Guglielmo II, accusato dalla nobiltà protestante di una inaccettabile conversione al cattolicesimo romano. Si è trattata quindi di una disputa interna al potere sorta per ragioni ideologiche religiose, ma che è di fatto diventata anche il volano per una successiva trasformazione della struttura economica. Sempre restando alla situazione inglese non di meno hanno inciso altre precedenti vicende non istituzionali: la famosa peste nera del 1300, che ha colpito duramente l’intera Europa, ha ucciso quasi il 40% degli abitanti delle isole britanniche ed ha di fatto privato l’aristocrazia terriera della metà della manodopera agricola. E’ giudizio storico condiviso che questa pandemia, in Gran Bretagna, e allo stesso modo nel resto dell’Europa, abbia innescato, con il suo tremendo impatto, trasformazioni istituzionali ed economiche, soprattutto aprendo inaspettati spazi a nuove iniziative imprenditoriali ed a nuovi soggetti sociali ed economici. Al contrario invece queste stesse difficoltà economiche inglesi ed europee hanno al contempo incentivato le esportazioni agricole russe rafforzando così, per molti successivi secoli, il potere feudale dell’aristocrazia terriera russa ed il carattere estrattivo delle sue istituzioni. E quindi se in generale è possibile sostenere che i paesi che per primi si sono avviati verso il superamento della stasi malthusiana sono tendenzialmente quelli che in contemporanea hanno adottato istituzioni “inclusive” sembra perlomeno una forzatura sostenere che la democrazia è, da sola, la causa della crescita. La lunga vicenda del colonialismo e delle eredità, all’apparenza “democratiche”, lasciate nelle diverse aree del mondo sembra rafforzare questa opinione. I processi istituzionali possono poi subire l’incidenza di altri fattori, quale ad esempio l’intreccio tra condizioni climatiche ed igienico-sanitarie. Sembra infatti sostenibile che la diversa evoluzione post-coloniale tra i paesi colonizzati dal “common law” britannico e quelli delle ex colonie spagnole e portoghesi sia dovuta non solo alla diversità istituzionale delle potenze colonizzatrici, ma anche alle diversità climatiche che nei paesi colonizzati dall’Inghilterra, in generale più verso Nord, erano più favorevoli a coltivazioni gestibili da piccole fattorie, e quindi ad un maggiore spirito di iniziativa individuale, mentre in quelli colonizzati da Spagna e Portogallo, più a Sud, erano più redditizie coltivazioni su scala di latifondo del tutto alternative alla formazione di nuovi ceti socio-economici. Inoltre in queste stesse aree la connaturata più forte incidenza di malattie epidemiche ha non di meno impedito, gravando su natalità e vita media, il crearsi di condizioni minime per quel’ “investimento sul capitale umano” di cui si è detto, molto più possibili invece nelle prime. Un’altra importante indicazione viene poi dalla situazione africana: i disastri lasciati dallo sfruttamento coloniale, aggravati dalla creazione di istituzioni statali del tutto artificiali e scollegate dalle vicende storiche locali, sono stati più in fretta e meglio recuperati, in modo trans-nazionale, nelle aree dove i legami etnici, culturali, linguistici, collegabili alle antiche istituzioni pre-coloniali, hanno consentito di avviare processi comuni di crescita economica. E’ quindi oggettivamente possibile sostenere che il peso delle istituzioni (intese in senso ampio: molti rallentamenti anche nel processo di sviluppo economico occidentale si spiegano con l’opposizione strumentale di istituzioni come le “gilde”, come le corporazioni di mestiere, messa in atto per conservare i propri privilegi) sui processi economici è indubbiamente sempre stato un fattore importante, ma meglio compreso se messo correttamente in relazione con concomitanti altri fattori, uno dei quali è sicuramente quello culturale.

9 – Il fattore culturale = In questo specifico ambito per “cultura” si devono intendere, in aggiunta ai risultati della “produzione culturale”, valori e norme comportamentali condivisi, credenze e idealità prevalenti in un determinato ambito umano e in questo trasmessi da una generazione all’altra. L’esperienza storica più citata per sostenere l’influenza di questi “fattori culturali” sui processi economici resta quella evidenziata da Max Weber sul rapporto tra “etica protestante” e “spirito del capitalismo”. La tesi di Weber, che affianca e in parte sostituisce la visione marxista che pone al centro della storia le forze materiali della produzione, vede nell’idea protestante, e calvinista in particolare, di un rapporto con Dio vissuto dal credente con un percorso individuale di messa a frutto dei personali doni ricevuti la base della predisposizione alla diligenza sul lavoro e quindi la fonte dello spirito imprenditoriale capitalistico. Le contrastanti opinioni raccolte da questa tesi si sono in sostanza giocate attorno al tema del rapporto tra tratti culturali e tratti personali, questione quanto mai complessa e articolata, quel che è però comunemente condiviso è il ruolo della componente culturale, qualunque veste essa abbia, nel determinare determinanti diversità di comportamento sociale individuali e di gruppo. Un aspetto attestato anche dalla lunga vicenda storica ebraica la quale evidenzia in modo esemplare quanto la condivisione di fattori culturali, in questo caso religiosi, possa rappresentare un tratto di coesione sociale e al tempo stesso una “predisposizione” a ricadute di ordine economico. Il fatto che nella cultura ebraica sia un obbligo religioso millenario (ben prima quindi che anche il protestantesimo lo affermasse) la lettura dei libri sacri, implicando così un alto indice di alfabetizzazione, ha di fatto rappresentato un “investimento sul capitale umano” che ha differenziato gli ebrei nella capacità di esercitare specifici mestieri ed attività economiche. Dimostrando in particolare che la comparsa/modifica di un fattore culturale può avere fonti diverse, anche casuali, ma che sono decisive la sua sopravvivenza sul lungo periodo e la sua diffusione. Vale a dire che, quando persistono nelle tradizioni di un popolo, anche le “culture”, non diversamente dagli adattamenti evoluzionistici biologici e genetici, possono svolgere un “ruolo evolutivo” determinato dalla loro capacità di risultare “vincenti” in una specifica nicchia sociale per un tempo adeguato. Su queste basi generali diventa possibile capire meglio anche quale specifico fattore culturale possa essere intervenuto, e da quali mutamenti esso sia stato a sua volta prodotto, nell’agevolare la transizione demografica europea. Considerando che ogni cultura trascina con sé una propensione al “conservatorismo”, una sorta di ritrosia al cambiamento, e che i mutamenti culturali, strettamente connessi ai cambiamenti tecnologici (sempre intesi in senso lato), si realizzano di norma con lenta progressione, e quindi non sempre possiedono una adeguata forza d’urto per intaccare il conservatorismo della cultura nella quale si manifestano. Ma allorquando il cambiamento tecnologico avviene rapidamente, e in profondità, generando in tempi brevi progressi sociali ed economici “vincenti e convincenti”, anche la battaglia culturale con il conservatorismo può essere vinta. Ed è esattamente questo che è sostanzialmente avvenuto in Europa all’alba della rivoluzione industriale, completato dalla comparsa sulla scena sociale ed economica di un ceto sociale fondato sui nuovi valori. Un ceto che, sull’onda del nuovo fattore culturale, diventa il principale protagonista dell’affermarsi della “cultura della crescita” che da lì in poi caratterizza in profondità l’intera cultura economica occidentale. La capacità dei tratti culturali di diffondersi sia verticalmente, tra una generazione e l’altra, che orizzontalmente, attraverso l’apprendimento, l’imitazione, l’educazione incide poi sulla loro velocità “evoluzionistica” rendendola decisamente superiore a quella biologica e genetica. Diversi esempi storici consentono di cogliere nella realtà storica la diversità di evoluzione economica determinata da fattori culturali sottostanti. Quello che di più può interessarci è rappresentato proprio dal diverso percorso di evoluzione sociale ed economica avvenuta in Italia fra le regioni del Nord e quelle del Sud dopo l’unificazione statale. Le analisi fatte al riguardo da Edward Banfield (1916-1999, politologo statunitense) e da Robert Putnam (1941, politologo statunitense) evidenziano come questa specifica diversità possa essere spiegata con il fattore culturale “legami familiari”: molto più forte nelle regioni del Sud, con conseguente impatto negativo sulla “fiducia sociale” alla base delle relazioni economiche, e con quello, correlato, della  “cultura delle istituzioni”, al contrario molto più forte nell’Italia del Nord in quanto eredità dell’esperienza storica dei Comuni e delle autonomie locali. Se quindi l’incrocio tra fattori culturali, crescita e prosperità economica, progresso tecnologico, evoluzione delle istituzioni resta un fenomeno complesso, è storicamente evidente che quando riesce ad innescarsi in una area specifica ed in un determinato contesto storico si dimostra in grado di  ri-alimentarsi in una continua spirale a crescere.

10/11 – L’ombra della geografia = Non meno determinanti sono le ovvie influenze “dirette” del fattore “geografia” sui processi economici, anche se talvolta tendono a manifestarsi in modi sorprendenti. Un esempio davvero epocale per capirlo: in Africa centrale la rivoluzione agricola, resa possibile da quella strettamente connessa dell’allevamento, si è manifestata con notevole ritardo segnando un handicap economico mai completamente recuperato. Una delle spiegazioni consiste proprio nel suo clima umido e caldo che sostiene un impressionante e inospitale sviluppo forestale, ma che soprattutto è l’habitat ideale per la mosca tse-tse la quale infesta con un letale parassita tutte le bestie di allevamento impedendone la diffusione. Più in generale la prossimità al mare ed a corsi d’acqua navigabili, la presenza di risorse naturali e di minerali, la conformazione orografica, sono alcuni dei fattori geografici che bene illustrano l’influenza del fattore geografia. Non meno decisive sono poi le influenze “indirette”, ossia quelle che hanno un impatto sui processi economici mediato dalla loro influenza su altri fattori. Ad esempio la conformazione geografica delle civiltà cinesi ed ottomane - molto omogenea perché in prevalenza priva di ostacoli naturali, e quindi con un alto indice di “connettività geografica”, e con un regime delle acque costante essendo legato a grandi fiumi, ha agevolato, per certi versi persino imposto, un forte processo di centralizzazione del potere che si è poi caratterizzato come “istituzione estrattiva”, rallentandone lo sviluppo economico. La frammentazione politica europea, nata subito dopo la fine dell’Impero romano e costituzionalmente più predisposta alla “competizione economica”, ha al contrario spiegazioni geografiche esattamente opposte: molti ostacoli naturali e la dipendenza, per la disponibilità di acqua, dal regime non governabile delle precipitazioni. Non diversamente anche un tratto tipicamente “culturale” come la presenza diffusa, in una società, di una “mentalità orientata al futuro”, presupposto fondamentale come si è visto per lo sviluppo economico, ha una stretta relazione con il fattore “geografia”. Là dove le colture o non sono potute sorgere o non consentono rendimenti adeguati, come in Africa o nel Sud America, ed hanno così imposto comportamenti più orientati alla pura sopravvivenza quotidiana, è stata ovviamente molto più difficoltosa la formazione di una tale mentalità. La tipologia delle coltivazioni, altrettanto determinata dalle condizioni geografiche, ha a sua volta un peso diretto sui processi economici: quando la geografia consente, come per il riso, quelle su larga scala, grazie a centralizzati e coordinati sistemi di irrigazione, da una parte possono formarsi, con un impatto alla lunga negativo, grandi imperi estrattivi, ma dall’altra, imponendo la condivisa gestione di un bene comune indispensabile, possono  divenire un ottimo incubatore per il formarsi di culture collettivistiche orientate alla coesione sociale. L’analisi storica su tempi lunghi evidenzia inoltre alcune sorprendenti relazioni, come quella fra geografia e sviluppo della manodopera femminile, elemento non meno fondamentale per l’uscita dell’Europa dalla traiettoria malthusiana. E’ ormai opinione condivisa in ambito storico che sia stata fondamentale per la formazione di una “mentalità di genere” la diversità, determinata dalle condizione geografiche, fra coltivazioni gestite con uso esteso dell’aratro, lavoro quasi esclusivamente maschile, con le donne conseguentemente relegate ai lavori domestici, e quelle più basate su lavori condivisibili, come zappatura e rastrellatura, con le donne al contrario già più coinvolte nel lavoro “fuori casa”. Ma l’esempio storico che di più e meglio, perché su ampia scala, evidenzia il peso del “fattore geografia” consiste nel processo storico di nascita e diffusione della rivoluzione neolitica dell’agricoltura. La scoperta di alcuni reperti attesta che, ben prima (fino a ben 20.000 anni fa!) della sua nascita ufficiale (12.000 anni fa), nella Mezzaluna fertile erano già iniziate esperienze di “coltivazione”, favorite dalla presenza in loco di tipi di cereali più facilmente coltivabili e di animali da lavoro più addomesticabili. Vale a dire che è la positiva biodiversità tipica di questa parte del pianeta, determinata dalle sue specifiche condizioni geografiche, che spiega questi primi tentativi, ma soprattutto la loro successiva completa affermazione. Non a caso condizioni molto simili consentiranno, duemila anni dopo, una analoga rivoluzione agricola, avvenuta in modo del tutto indipendente, nel Sud-est asiatico.  Non solo: il già citato Jared Diamond ha messo opportunamente in luce il ruolo della “diversità di orientamento geografico” tra l’Eurasia, estesa lungo l’asse orizzontale est-ovest, e l’Africa e l’intera America più estese al contrario lungo un asso verticale nord-sud. Quest’ultimo orientamento comporta una più accentuata diversità climatica, mentre il clima dell’Eurasia ha caratteristiche più omogenee, che possono quindi bene spiegare il privilegio, nella fascia ideale, della maggiore fertilità e la conseguente nascita/diffusione dell’economia agricola. Il fattore geografia, in modo diretto o indiretto, ha quindi implicato un insieme di “congiunture critiche” che hanno costituito un elemento fondamentale, in negativo piuttosto che in positivo, per la nascita e la stabilizzazione su tempi lunghi di processi e mentalità “economiche”.

12 – L’esodo dall’Africa = L’ultimo fattore storico che ha un indubbio peso sull’intero “viaggio dell’umanità” risale molto indietro fino alle modalità dell’esodo di Homo sapiens dall’Africa Orientale, là dove era comparso almeno 200.000 (alcuni studi lo retrodatano a 300.000 anni fa) e là dove si è forgiato, per almeno 100.000/150.000 anni, il suo patrimonio genetico e le sue forme mentis ancestrali, i due aspetti che formano una caratteristica costitutiva umana: “l’eterogeneità”. Per comprenderlo è innanzitutto necessario distinguere questa eterogeneità ancestrale da quella delle attuali società umane, frutto molto più recente, che su di essa si è sovrapposto, dell’insieme dei processi che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo della civiltà umana a partire dalla rivoluzione agricola. Si tratta cioè dell’originario patrimonio di eterogeneità culturale, linguistica, comportamentale, fisica e genetica, del gruppo etnico sapiens dell’Africa Orientale, e quindi come tale rintracciabile, in forme più o meno accentuate, in tutta l’umanità passata e presente. Un patrimonio che infatti ha visto diminuire quello originario ad ogni ulteriore migrazione, dopo quelle primordiali di 90.000 e 60.000 anni fa, che ha vieppiù suddiviso il ceppo sapiens. L’insieme delle rilevazioni antropologiche e genetiche attestano senza ombra di dubbio che i gruppi etnici più eterogenei, ovvero quelli che hanno mantenuto una più alta dote dell’originaria eterogeneità, sono quelli che si sono insediati stabilmente nelle zone più vicine all’Africa Orientale. Al contrario quelli che di più hanno disperso tale dote sono i gruppi che, dopo numerose scissioni migratorie, hanno completato la diffusione sapiens sul pianeta, ovvero le comunità indigene dell’America Centrale e Meridionale. E’ quindi la “distanza migratoria” che misura il livello residuo della originaria eterogeneità. La quale ha, in questo modo, conformato, ma con diversa gradualità, le caratteristiche sociali, culturali, comportamentali, delle diverse società umane fino alla nascita della civiltà circa 12.000/10.000 anni fa. Ma in che modo questo livello di eterogeneità può aver inciso sulla “predisposizione naturale” all’innovazione tecnologica e alla collegata maggiore prosperità, in aggiunta ed a completamento di tutti gli altri fattori fin qui esaminati? Le evidenze sul campo di cui si è detto hanno anche evidenziato che il raggiungimento del livello ottimale di coesione sociale, quello più collegabile alla predisposizione all’innovazione tecnologica della rivoluzione del Neolitico, si è realizzato, là dove e quando, il corrispondente livello di eterogeneità si è situato ad un livello intermedio, non troppo alto, e quindi  freno all’integrazione sociale e fonte di contrasti, ma neppure troppo basso, con il rischio di un eccesso di sterile uniformità sociale e culturale. E’ peraltro lo stesso meccanismo rilevabile ancora ai nostri giorni che vedono le nazioni, le società, con un livello intermedio di eterogeneità, meglio predisposte, per le stesse identiche motivazioni, al cambiamento tecnologico e alla sua positiva ricaduta sui processi economici. Così come costituisce una delle principali spiegazioni dell’ascesa e del declino di tutte le civiltà storiche che si sono via via succedute.

Coda: venire a capo del mistero della disuguaglianza = Dall’insieme delle considerazioni sviluppate in questa seconda parte emerge che sulla traiettoria del progresso tecnologico ed economico umano i fattori geografico ed eterogeneità sono quelli che di più hanno agito “in profondità”, e i fattori culturale ed istituzionale quelli che di più hanno ne hanno dettato la “velocità”. Ma soprattutto emerge una grave sottovalutazione della loro incidenza in tutte le politiche ed i processi economici globali. Se è pur vero che l’attuale struttura delle disuguaglianze fra aree del mondo e fra soggetti sociali è in gran misura determinata dalle storture sistemiche determinate dalla globalizzazione neo-liberista, sulle quali quindi è indispensabile intervenire, è altrettanto vero che tale sottovalutazione rischia di compromettere ogni azione correttiva. Non a caso tutte le politiche raccomandate dalle istituzioni economiche dell’Occidente (Fondo Monetario, Banca Mondiale, Ocse in testa) si sono limitate a proporre una sorta di imitazione di quelle che sono state, e sono, alla base dello sviluppo occidentale, nella più totale dimenticanza dei fattori che, come si è visto, non a caso qui e solo qui l’hanno consentito. Là dove, per un insieme di circostanze favorevoli, sono riuscite ad innescare percorsi di crescita, anche consistenti, ne hanno, inevitabilmente, riprodotto anche tutti gli svantaggi e le storture sistemiche. E buona parte del mondo resta tuttora esclusa dalle traiettorie di uscita dalla condanna malthusiana a dimostrazione che questa sorta di “copia ed incolla” da solo non è in grado di garantire risultati realmente efficaci e “giusti”. Conoscere e tenere nella giusta considerazione l’incidenza di questi fattori, emersi nel corso del lungo “viaggio dell’umanità” diventa quindi indispensabile. Lo è altrettanto porre al centro di ogni sforzo la vera molla dello sviluppo già avvenuto e di quello diffuso e giusto che si intende perseguire: l’investimento sul capitale umano. Educazione, parità di genere, pluralismo, rispetto delle differenze, sono elementi basilari per questo investimento, mirato che sia a sanare le disuguaglianza tra aree piuttosto che tra ceti sociali. Nel percorso della rivoluzione industriale, e del collegato superamento della condanna malthusiana, forze e processi quali l’innovazione tecnologica, la formazione di capitale umano, il declino della fertilità, l’attenzione verso la giustizia sociale, hanno svolto un ruolo decisivo. Restano ancora centrali per affrontare e risolvere anche degrado ambientale ed emergenza climatica, i risultati non casuali di un’idea di benessere diseguale ed ingiusto troppo condizionato da quella “cultura della crescita” di cui si è detto. 

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