lunedì 3 aprile 2023

La Parola del mese - Aprile 2023

 

La parola del mese

Una parola in grado di offrirci

nuovi spunti di riflessione

APRILE 2023

Quanto sta ultimamente succedendo negli scenari geopolitici globali, e nella scena politica italiana, impone una riflessione sulla preoccupante crescita di nazionalismi e sovranismi. La nostra attenzione è stata fin qui rivolta soprattutto alle dinamiche socio-economiche che l’hanno determinata, in questo post esploriamo invece il loro rapporto ideologico e culturale  con il concetto che “dovrebbe” stare alla loro base, la Parola del mese è quindi  ……..

NAZIONE

Nazione = sostantivo femminile, dal latino natio -onis, derivato di nasci «nascere», nell’uso moderno, accanto ad altre declinazioni, indica i particolare: a. Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione in unità politica oppure b. l’unità politica realizzata in uno stato nazionale oppure c.  insieme di persone che, in una comunità qualsiasi, appartengono alla stessa stirpe, o costituiscono una categoria omogenea.

Per farlo ci affidiamo ad un testo di recente uscita


a firma di Alessandro Campi


Il concetto di “nazione” si è in effetti riaffacciato con rilevante importanza nella discussione politica, e culturale, negli ultimi due decenni, caratterizzando posizioni decisamente contrastanti cha vanno da quella drastica di Marco Belpoliti (1954, scrittore, critico letterario, saggista):la cosa migliore che dell’idea di nazione possiamo fare è abolirla”, a quelle decisamente celebrative (come si vedrà spesso con finalità strumentali) del fronte politico populista/sovranista. Si tratta di un ritorno sulla scena che, smentendo la vulgata di un mondo ormai costituzionalmente globalizzato, ha accompagnato il forte e diffuso riaffacciarsi di sentimenti nazionalistici. E’ un movimento che procede con  forme molto diverse: in nome del principio dell’autodeterminazione vede parti consistenti di Stati che, richiamandosi a proprie tradizioni e memorie, reclamano il diritto a costituirsi come nazione a sé stante (si pensi ad esempio, in un elenco decisamente lungo,  ai movimenti indipendentisti della Catalogna e della Scozia), piuttosto che aperti conflitti armati che, per quanto mossi da ragioni varie, sono combattuti sotto il vessillo di una nazione da difendere piuttosto che da riconquistare (quello russo-ucraino è soltanto quello più rilevante, e per molti versi più pericoloso per i suoi potenziali sviluppi). Sono solo due esempi di una situazione quanto mai complessa con la quale il mondo intero è chiamato a fare i conti innanzitutto cercando di capire le ragioni che la stanno provocando, sia quelle specifiche e locali, ma nondimeno quelle che possono delineare comuni tratti ideologici e valoriali. In questa modesta “parola del mese”, accompagnando l’impostazione del saggio di Campi, si guarda a questo secondo aspetto ed in particolare alla nascita e sviluppo del concetto stesso di “nazione” nella storia dell’Italia unificata.  Il neo-patriottismo italiano si inscrive nel più ampio scenario dei nazionalismi, ed al tempo stesso contiene specifici elementi utili a meglio comprendere il peso delle presunte identità nazionali, delle appartenenze culturali vissute come esclusive, dei legami storico-culturali di lunga durata che dovrebbero giustificarle. Per quanto ristretto all’ambito italiano il campo di indagine necessita comunque di una specifica chiave di lettura, quella che Campi adotta è il rapporto tra il concetto di “nazione” e la “Destra”, ossia la parte del campo politico italiano che di più, e da sempre, lo contempla come essenziale nel proprio vocabolario valoriale. Una ulteriore precisazione è opportuna prima di percorrere, in forma molto sintetica, il lavoro di Campi che ricostruisce le diverse fasi che, dal punto di vista storico-ideologico, meglio aiutano a capire il rapporto tra le culture politiche della Destra e l’idea di “nazione”. Campi ha accompagnato il suo importante percorso accademico (sino ad essere considerato uno dei più importanti studiosi della Destra italiana) con una partecipazione al dibattito politico in questo campo finalizzata alla creazione di una nuova e matura destra, (in particolare venne al tempo considerato come il più importante ispiratore della svolta impressa da Gianfranco Fini con la fondazione di Alleanza Nazionale nel 1994/1995). Un aspetto che non ci è sembrato abbia faziosamente guidato, in nessun senso, i suoi giudizi di merito.  

Dalla Destra storica al nazional-populismo

E’ difficile definire il minimo comun denominatore della Destra stante la grande varietà delle sue varianti (rivoluzionaria, conservatrice, liberale, reazionaria, aristocratica, moderata, radicale, anti-modernista, populista, clericale, federalista, libertaria, e via discorrendo), ma certo è che per tutte resta centrale il richiamo alla nazione come realtà storica su cui puntare e come mito politico fondante l’identità di una collettività organizzata. Ciò vale anche per la Destra italiana per la quale sembra però da sempre imporsi (come meglio si vedrà qui di seguito) un maggiore peso del richiamo alla “nazione-mito” (utile alla propaganda e alla mobilitazione politica) rispetto alla concreta definizione di una “nazione progetto”. Non pare infatti, anticipando un giudizio finale, che la Destra italiana sia sin qui riuscita ad elaborare una dottrina nazionalistica coerente ed organica in grado di legare il concetto di “nazione” ad uno Stato politicamente ed istituzionalmente compiuto. Non hanno di certo aiutato alcune oggettive difficoltà, fra le altre il fatto che l’Italia, come costruzione mitico-identitaria, sia molto più antica della sua concreta costituzione unitaria, il peso controverso del ruolo della Chiesa Cattolica (il suo potere temporale si è qui protratto molto a lungo), le modalità stesse di nascita del Regno d’Italia (oscillanti tra ambizioni sabaude e interessati protettorati di potenze straniere). Il risultato sembra consistere in un “nazionalismo debole”, poco sentito dalle masse e diviso fra le sue diverse anime regionali, che si è progressivamente definito, con un percorso per nulla lineare e coerente, attraverso cinque fasi tra loro non poco diverse se non contraddittorie. A ben vedere l’unica Destra italiana che sembra aver coltivato con l’idea di “nazione” un rapporto culturalmente originale, virtuoso e costruttivo, resta ancora oggi quella liberal-conservatrice risorgimentale, costituita da quel ristretto gruppo di intellettuali (in gran prevalenza sabaudi) capaci di fondere gli ideali mazziniani con il pragmatismo cavouriano. Come vedremo a distanza di quasi due secoli da allora “nazione” resta ancora per l’Italia un concetto problematico e debole che fatica a trovare una sua declinazione condivisa e funzionale.

La nazione assoluta dei nazionalismi

Nel laboratorio risorgimentale l’idea di nazione è composta da tre concetti: unità, sovranità, indipendenza, essenziali per costruire uno Stato in grado di inserirsi con dignità nel quadro geopolitico europeo del tempo (gli studi storici assimilano l’unificazione politico-territoriale italiana a quella pressochè parallela della Germania come esempi vincenti del principio di “nazionalità”). Si è quindi, in questa prima fase, consolidata una idea morale e spirituale vissuta come un fattore di progresso, però ben presto destinata, per via delle profonde tensioni che caratterizzano il quadro europeo, ad assumere un forte carattere “nazionalistico” basato su aspetti discriminanti e aggressivi. La nazione immaginata democratica, liberale, armonicamente collocata in un mondo di popoli liberi e affratellati, si trasforma già nei decenni successivi all’unificazione in una realtà fortemente votata, nel quadro delle relazioni tra Stati, a conflittualità e competizione (con geometrie variabili di alleanze). Questo repentino passaggio dal “principio di nazionalità” al “nazionalismo(peraltro avvenuto in Italia come nel resto degli Stati Europei) si presta ad essere rappresentato, per dirla in modo convenzionale, come uno slittamento ideologico da “sinistra” a “destra”. L’idea di “nazione”, nata a fine Settecento sulla spinta dei contrasti rivoluzionari all’Ancien Régime, e che aveva mantenuto nella prima metà dell’Ottocento una impronta democratica e progressista, assume in questi ultimi decenni caratteri profondamente diversi. Si viene cioè a delineare una sua inclinazione a soluzioni conservatrici ed autoritarie, all’esaltazione di tradizionalismo storico misto a tratti di irrazionalismo filosofico giudicati utili a formare un nuovo “sentimento nazionale”, alla creazione di uno Stato “potenza” perseguita con politiche di modernizzazione e industrializzazione forzata spesso antipopolari. Il nuovo secolo sancisce la piena realizzazione di questa svolta celebrata in versi da poeti come Giovanni Pascoli (1855-1912) e D’Annunzio (1863-1938), ma ancor più dalla prosa esaltata, e razzista, di Alfredo Rocco (1875-1935, politico e giurista, il suo nome è legato all’omonimo Codice Penale varato durante il fascismo), e da lì a breve fatalmente destinata a fare propri i caratteri dell’ “imperialismo colonialista” di inizio Novecento. Nel 1908 esce il primo numero di “Politica(la più importante rivista teorica del nazionalismo italiano, attiva fino al 1943) che, nella prefazione di Rocco, spiega con termini inequivocabili che “nazione” deve indicare una potenza che mira ad “aggregazioni sovranazionali”. In un clima di esaltazione sempre più trasversale non deve stupire che esponenti importanti del socialismo italiano (a partire da Mussolini) predichino la necessità di passare dalla lotta di classe alla “collaborazione di classe” finalizzata al sostegno di una “nazione potenza” alla quale sacrificare le proprie appartenenze sociali e politiche. Essa doveva cioè completare la sua trasformazione in un concetto capace non solo di “darsi uno Stato”, ma di plasmarlo nel vettore della propria potenza. Nel nazionalismo di fine Ottocento e del primo Novecento sparisce l’eredità dell’idealismo risorgimentale e si afferma una idea di “nazione” non più riferita al patrimonio valoriale e culturale consegnato dalla precedente storia, ma fondata sui legami etnici, territoriali, linguistici, a sancire il definitivo passaggio dalla “nazione-storia-cultura” alla “nazione-natura”.

La nazione fascista tra Stato ed Impero

Questa idea di “nazione assoluta”, maturata a cavallo del nuovo secolo e portata a suo pieno compimento con l’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra, contiene e sviluppa i semi di uno degli aspetti ideologici fondanti del fascismo italiano. L’inscindibile nesso culturale e politico tra fascismo e nazione è ben testimoniato dalle parole pronunciate nel 1922 da Mussolini: …..Noi abbiamo creato il nostro mito, ed il mito è passione, fede, non è necessario che sia realtà…..il nostro mito è la nazione, la grandezza della nazione…..e a questo mito noi subordiniamo tutto il resto….. Nelle diverse, e non poco contraddittorie, componenti ideologiche del fascismo italiano delle origini quella della nazione, come forma di appartenenza collettiva e totalizzante di un popolo, è stata quindi fondamentale ed ha ispirato politiche interne ed estere, e più in generale concezione dell’uomo e della storia, modo di intendere il rapporto tra Stato, società ed individuo. L’idea di “Patria degli italiani”, che il Risorgimento aveva sintetizzato nel trinomio “nazione-libertà-umanità”, viene però declinata nella “nazione dei fascisti” a sancire la loro piena sovrapposizione, non si ha l’una senza l’altro e viceversa (Luigi Salvatorelli, 1886-1974, storico e giornalista, già nel 1923 descrive questa caratterstica coniando il termine “nazional-fascismo). L’identificazione nazione-fascismo, retoricamente usata per raccogliere i consensi nella confusa area  del mito della “vittoria mutilata(l’Italia derubata dalle “Grandi Potenze” di parte dei territorio occupati alla fine della Grande Guerra, Fiume in primis) conosce però, a dittatura appena instaurata, un suo sviluppo, ancora una volta sintetizzato da una frase di Mussolini del 1924: senza lo Stato non c’è Nazione. Il fascismo al potere elabora cioè, ideologicamente e nella pratica politica concreta, una sua evoluzione; la nazione, intesa come aggregato naturale privo però di una sua identità politica, trova nello Stato, va da sé fascista, la sola forma politica in grado di realizzarla. Questa “natura asimmetrica del rapporto Nazione -Stato” trova poi nel pieno del ventennio una sua più compiuta definizione teorica nelle opere di Giovanni Gentile (1875-1944, filosofo neo-idealista) che, convinto che la “nazione non sia un fatto”, vale a dire una realtà già formata e stabile, ma “una coscienza”, così cita alla voce “Fascimo” della sua Enciclopedia Italiana: …. non è la Nazione a generare lo Stato, ma è da esso creata con il suo dare al popolo volontà in tal senso…. La mistica dello “Stato fascista”, lentamente ma inesorabilmente, assorbe in sé il concetto di nazione sostituendolo in ogni sua possibile articolazione. E’ sempre Mussolini  a ribadirlo senza equivoci: …. tutto nello Stato, nulla fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato …. A partire dagli anni Trenta un nuovo mito ideologico si affianca a quello dello Stato fascista completando il sostanziale svuotamento del concetto di nazione: “la tendenza all’Impero”. Le indubbie convenienze economiche e geopolitiche legate allo slogan della conquista di “un posto al sole” sono rivestite da una mistica di conquista che non può più essere confinata nell’ambito nazionale. Camillo Pellizzi (1896, Collegno,-1979, sociologo e letterato) così illustrava questo salto logico: “la nazione si basa su una concezione immanente, l’impero sopra una trascendente. La nazione è intellettuale, l’impero è mistico”. L’Impero si presenta come un destino storico dell’Italia fascista, è il suo pieno compimento che di fatto assorbe sino ad eliminarla la nazione. Si chiude così l’evoluzione del  rapporto fra il concetto di nazione e fascismo: usato strumentalmente nella fase di presa del potere, viene progressivamente svuotato di sostanza perché non più funzionale alla grandezza storica del regime e delle sue ambizioni egemoniche.

L’Italia repubblicana e l’oblio della nazione.

All’indomani della fine della dittatura e della rovinosa guerra il termine nazione, per quanto così svalutato dal fascismo, restava nell’immaginario collettivo così strettamente ad esso collegato da indurre una reazione di rigetto, nel comune sentire popolare e nell’intero arco delle  forze politiche. In particolare i due partiti di massa che catalizzano in un loro aspro confronto la divisione in blocchi del secondo dopoguerra, erano accomunati dalla convinzione che la ricostruzione del paese non avesse bisogno di un richiamo a quello che era percepito come un anacronistico, ed inquinato, senso di appartenenza nazionale quanto piuttosto di una progettualità idealmente rivolta verso un diverso futuro. D’altronde già nel 1943, all’indomani della caduta del fascismo, Piero Calamandrei (1889-1956, giurista e politico, uno dei più importanti membri della Costituente) richiamava ad un’idea di patria, opposta a quella fascista, fatta di tratti, se si vuole apolitici, basati sul reciproco rispetto e comunitaria solidarietà. In questo clima, che per tutta la prima fase ha fatto aggio sulle sempre più nette tensioni politiche del periodo (tanto da essere lo spirito che permise la nascita di una Costituzione fortemente innovativa) il sentimento nazionale era ispirato tanto dal mito fondativo risorgimentale quanto dalla tensione di riscatto della lotta di Liberazione, a sancire una linea di continuità ideale capace di scavalcare la parentesi fascista. Le diverse visioni politiche, accentuate dal clima di “guerra fredda”, non tardano però a manifestarsi e danno luogo ad un diverso sentire nazionale. Nell’orizzonte politico-ideologico del partiti di sinistra, PCI in testa, fatto di un forte sentimento internazionalista, emerge un’’idea di nazione, ispirata dal pensiero gramsciano (nella molto pragmatica versione togliattiana), che supera i tratti borghesi e liberali della tradizione risorgimentale per aprirsi ad una più ampia idea di trasformazione della società e dei rapporti di classe. Si concepiva cioè non più una “nazione particolare” ma una “nazione universale” all’interno della quale ogni singolo paese poteva ispirarsi ai valori universali del socialismo/comunismo (per molti decenni in formato URSS) Ma anche nel campo opposto si assiste ad una netta svolta: la forte ispirazione religiosa della Democrazia Cristiana indirizza quel sentire nazionalistico ereditato dal Risorgimento (peraltro caratterizzato anche da tratti di forte laicità) verso un’idea di nazione coincidente con la tradizione storica del cattolicesimo, ed in quell’ambito sostanzialmente privata di una sua autonoma peculiarità per divenire un mero contenitore, di fatto pre-politico, atto a garantire i diritti naturali ed insopprimibili della persona, una sorta di “nazione naturale” intrisa di spirito cristiano. Il comune, seppur decisamente opposto, ridimensionamento del sentire nazionale e patriottico (accentuato dalla convinzione che ad esso si dovevano ascrivere i due tragici conflitti mondiali) non conosce migliore fortuna neppure nel versante della destra più estrema, i cosiddetti neo-fascisti dell’MSI non si esimono certo da difese di ufficio nazionaliste, ma, a differenza dei “reduci” del ventennio, le nuove leve, già nate nel nuovo mondo bipolare, vanno ben oltre e giungono ad esaltare, con una sorta di ossimoro, un’idea di “Europa-nazione”, vista come l’unica dimensione adatta a fronteggiare il comunismo sovietico senza rendersi vassalla degli USA. Quello che si realizza nella nuova estrema destra è in effetti una sorta di evoluzione in senso “hitleriano”  (e del suo “nuovo ordine europeo”), così come testimonia in un suo scritto (del 1973) Adriano Romualdi (1940-1972, storico e saggista, considerato il più importante ispiratore dell’estrema destra italiana) là dove afferma: ….egli (Hitler) pensava per grandi spazi in un’epoca in cui il nazionalismo ragionava per province …. la destra italiana del dopoguerra è quindi sentimentalmente patriottica, retoricamente nazionalista, ma non “nazionale” sul piano ideologico (non a caso Julius Evola, 1898-1874, filosofo italiano, il principale ideologo del neofascismo del secondo dopoguerra, considerava la nazione un mito regressivo piccolo-borghese). Emerge un’idea, razzista e superomistica, di “nazione degli eletti” accomunati non da uno spazio geografico-culturale, ma dalla condivisione allargata di tratti etnici e spirituali. Per almeno un trentennio l’idea di nazione, schiacciata in queste sue declinazioni, vive in Italia una vita stentata e banalizzata per riemergere in nuova veste solo negli anni Ottanta sulla spinta, non a caso, di una visione politica estranea a quelle precedenti, quella del PSI craxiano. La sua idea modernizzatrice del paese, del tutto inconciliabile con le precedenti posizioni socialiste fiancheggiatrici del PCI, ritorna ad esaltare, come suo indispensabile fattore di spinta, il senso di appartenenza nazionale, con una vera e propria svolta neo-patriottica, che riprende la mitologia risorgimentale (più Garibaldi che Mazzini) affiancandole quella del più prosaico “made in Italy(una stagione politica non a caso ricordata come quella del “socialismo tricolore”). A ben vedere però non sembrano rintracciabili, anche in questa versione, solidi elementi ideologici, la ripresa dei richiami alla “nazione” ha all’atto pratico avuto più un carattere di richiamo retorico e “reclutatore”. Ciò riconosciuto è pur vero che in questa prima breccia di revival nazionalistico si innesta una sua più convinta  ripresa in senso istituzionale e di sentimento collettivo: quella messa in atto da Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016, economista e banchiere, successivamente Primo Ministro, 1993-1994, e Presidente della Repubblica, 1999-2006), con il suo insistito richiamo, sollecitato dalle pesanti difficoltà economiche e sociali del periodo, alla “riscoperta della patria”. La sollecitazione di Ciampi riprende, con convinzione non strumentale, proprio quel connubio tra ’epopea risorgimentale (in vista dei centocinquant’anni dall’Unità) e dei valori della Resistenza, considerati quelli fondanti nel primissimo dopoguerra. Questa idea di nazione, convintamente portata avanti per fronteggiare il disorientamento innestato dalla cosiddetta fine della Prima Repubblica, si caratterizza per il senso di “continuità” storica di lungo periodo del percorso nazionale e mira a rafforzare un contenitore istituzionale e valoriale percepito come tale da tutte le anime del paese.

La seconda Repubblica e le destre senza nazione

Il crollo, per via giudiziaria, della Prima Repubblica si accompagna all’irruzione sulla scena politica di nuovi soggetti politici e di nuovi leader. In particolare nel campo della destra, sin lì occupato, in chiave nostalgica-alternativa, dal Movimento Sociale Italiano, nascono tre nuovi partiti: la destra nazional-populista di Forza Italia, la destra nazional-conservatrice di Alleanza Nazionale, e la destra federalista-autonomista della Lega. Si apre in questo rinnovato quadro politico un nuovo capitolo nella storia del rapporto fra destra e nazione, che però, ancora una volta, si sviluppa in una relazione ambigua e difficile. Lo è innanzitutto per Forza Italia che, a dispetto del suo nome (in effetti una sorta di slogan simil calcistico), non ha mai elaborato una benchè minima idea di nazione. Lo ha impedito la sua natura di “partito personale”, totalmente condizionato dal suo fondatore ed organizzato come semplice macchina mediatica di raccolta consensi. Non devono trarre in inganno le solenni affermazioni berlusconiane di amore per la patria (a partire dall’annuncio della sua “discesa in campo”…..l’Italia è il paese che amo….), Forza Italia è stata priva di qualsiasi legame con la memoria collettiva  e la storia nazionale, totalmente schiacciata com’era su un presente che si esauriva nella persona del leader fondatore e quindi incapace, perché disinteressata, a definire una propria idea di nazione. Come era prevedibile più complessa è stata la sua elaborazione da parte di Alleanza Nazionale. Nata sulle ceneri del Movimento Sociale con la prospettiva di divenire una destra conservatrice non riesce tuttavia completare questa trasformazione. Sono soprattutto due le ragioni che incidono negativamente: la sua classe dirigente resta esattamente quella dell’ultima fase dell’MSI che, messa ai margini del dibattito politico, è portatrice di una mentalità da “esuli in patria”, di “vinti della storia” che non riescono di fatto a rinnegare le loro origini politiche, la seconda, alla prima collegata, è consistita nella voluta incapacità di una vera accettazione della democrazia, e dei suoi valori, considerata come creata dai “vincitori della storia”. Ambedue, al di là delle dichiarazioni di facciata, impediscono di uscire da un penalizzante schema mentale così sintetizzabile: finchè esisterà l’antifascismo il fascismo resterà nella pratica politica concreta, anche per la nuova destra, un ancoraggio simbolico-memoriale. Tutto ciò ha implicato che Alleanza Nazionale abbia certamente mantenuto un forte sentimento patriottico, ma declinato con una idea di nazione puramente ideale, astratta, impossibile ad essere calata nel nuovo quadro storico italiano. Un aspetto che deve essere completamente rovesciato nel caso della Lega Nord delle origini, tanto fortemente nazionalista quanto per nulla patriottica, ma la sua idea di nazione non guarda all’Italia intera, ma solo alle regioni del Nord chiamata a formarne una nuova “la Padania”. La Lega di Bossi (che con Salvini, come si vedrà, intraprenderà un’altra strada) è quindi un partito totalmente nazionalista, là dove immagina un nuovo soggetto politico-territoriale autonomo e sovrano, e ferocemente anti-nazionale, se guarda all’Italia ed alla sua unità. Queste tre, seppur distinte, destre non solo non propongono un vero nuovo progetto nazionale, ma anzi esprimono forti sentimenti antinazionali e antiunitari, tanto da obbligare (sulla scia dei richiami di Ciampi e di quelli successivi di Giorgio Napolitano) la sinistra, fin lì ben poco nazionalista, ad ergersi a difesa della nazione Italia rinnegata dalla destra leghista, piegata a visioni personalistiche da Forza Italia, e ridimensionata nei suoi valori fondanti da Alleanza Nazionale

La (finta) rivoluzione sovranista

La crisi globale del 2008 accentua i limiti strutturali economici e sociali italiani ed evidenzia l’incapacità del quadro politico della Seconda Repubblica di essere all’altezza delle numerose sfide. I governi tecnici, chiamati a supplire a tale carenza, ne sono la prova più evidente, anche se neppure loro, sostenuti com’erano da maggioranze decisamente forzate e instabili, hanno in generale risposto alle aspettative. Non deve allora stupire la crescita esponenziale della disaffezione elettorale e l’affermazione dei partiti “antisistema”, peraltro altrettanto incapaci di proporre soluzioni praticabili essendo di fatto votati ad intercettare malcontento e delusione.  Diversi per struttura organizzativa, base sociale e riferimenti ideali declinano la loro comune caratteristica “antisistema” con un forte richiamo alla riconquista di spazi e poteri decisionali nazionali tanto da essere accomunati, con qualche forzatura, nel termine “sovranismo”. A questa comune collocazione nel generico campo del populismo alias sovranismo sono però corrisposte declinazioni molto differenti dell’dea di nazione. Sono tre i movimenti/partiti che hanno composto il fronte antisistema italiano. Il primo in ordine temporale ad ottenere una eclatante vittoria elettorale (maturata in tempi brevissimi, caratteristica questa comune ai tre soggetti politici) è stato il M5S capace, soprattutto grazie alle doti mediatiche del suo fondatore, di presentare una miscela di proposte politiche mutata da una iniziale visione genericamente movimentiste di sinistra (ad es.difesa dei beni comuni) a suggestioni politiche più propriamente classificabili di destra (il campionario è quello classico del sovranismo:: condanna della casta e delle elite, denuncia del complottismo dei poteri forti globali, contenimento dei flussi immigratori in difesa dei lavoratori nazionali, antieuropeismo). Uno degli aspetti che di più ha caratterizzato la sua piattaforma ideologica, sul tema del potere, è consistito in una formula di grande impatto mediatico: “uno vale uno”, (legata alla democrazia della Rete), ma inevitabilmente di incerta e confusa applicazione. Dall’insieme di questi tratti essenziali emerge un forte volontà di riconsegnare al “popolo”, (mai meglio precisato, ma idealmente concepito come una realtà compatta e virtuosa per definizione) una piena “sovranità”, un obiettivo però mai sfociato in un aperto nazionalismo, ma (auto)limitato ad una generica rivendicazione di autonomia decisionale. L’idea M5S di nazione resta di fatto confusa e sterile declinata, anche ingenuamente, in termini di nostalgia per un passato genericamente idealizzato e priva di una sua compiuta visione “in positivo”. La successiva parabola del sovranismo di stampo leghista prende forma con il superamento salviniano della Lega delle origini e con la sua trasformazione in un partito nazionale con al suo centro non più l’indipendentismo territoriale ma un radicalismo nazionalista. Ancora nel 2013 lo slogan principale della Lega era “Prima il Nord!”, conosce poi una prima mutazione in “Prima gli italiani” e termina poi nel 2019 (il picco massimo di consensi elettorali raccolti alle Europee) con un “Prima l’Italia” di chiara derivazione trumpiana (America first!). Questa improvvisa ed accelerata conversione al nazionalismo non sembra aver avuto solo spiegazioni di convenienza elettorale (che pure non poco sono state presenti), ma delinea una vera mutazione identitaria che abbandona le precedenti visioni localistiche (suscitando quindi la forte opposizione del nucleo leghista originario) per guardare ad una nazione costruita su idealizzate precedenti identità storiche da difendere dalle minacce globaliste, dalle ondate migratorie, dall’ingerenza delle istituzioni europee. Ma anche nella sua versione leghista/salviniana l’idea della nazione da difendere, mai più di tanto precisata nelle sue componenti storiche, valoriali, culturali, resta un atteggiamento mentale retrogrado volto ad un presunto paradiso perduto, nel quale mancano visioni consolidate di concreti orizzonti futuri. Appare al contrario molto più organicamente costituito il richiamo nazionalistico, in quanto dato costante della storia dell’estrema destra italiana, dell’ultima componente sovranista: Fratelli d’Italia. La crescita dei suoi consensi elettorali rappresenta un caso così eclatante da rendere problematica una sua spiegazione. Incidono sicuramente più fattori (ad es. l’insipienza di tutti gli altri partiti e la convenienza dell’essere stata all’pposizione del Governo Draghi) ma è indubbio il ruolo della sua leader Giorgia Meloni, prima donna candidata a premier nel nostro paese. Può aiutare a meglio decifrare la vincente evoluzione del nazionalismo di destra attuata da FdI proprio lo slogan con il quale la Meloni si è fatta mediaticamente conoscere dagli italiani: nel 2019 in un comizio a Roma così si autodefinisce: …sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana…” per poi urlare “….e questo non me lo toglierete!!!! ..... E chi vorrebbe toglierle queste sue caratteristiche fondanti è indistintamente individuato nella omologazione globale, nella prepotenza invasiva della UE, nei cambiamenti di morale e di costume, tutti ascritti ad una generica “sinistra”. Il concetto chiave che emerge da questa vibrante autodefinizione è ancora una volta quello dell’identità, la volontà di poter continuare ad essere quello che “naturalmente” si è, nel senso di una appartenenza antica e originaria e come tale inviolabile. Trasferendo queste parole alla dimensione collettiva se ne deduce un’idea di nazione come una comunità che vuole, e deve, mantenere la propria integrità contro le minacce della contemporaneità. Emerge sotto traccia la nostalgia postfascista di una grandezza italiana ferita dai rovesci della storia, ma ancora faro per una rinascita nazionale. Ed ancora una volta questa nostalgico sguardo volto al  passato altro non fa che nascondere una paura del presente, del futuro, minacciato da processi di cambiamento che annullerebbero questa identità. La nazione, ricompattata, diventa allora la forma di resistenza collettiva contro ogni omologazione trasformista. Si spiega così il rifiuto del termine apolitico di “paese” per riproporre quello più identitario di “patria”, a definire una idea di “nazione-patria” che tuttavia ben poco sembra prestarsi ad essere declinata in politiche concrete (non per nulla molte delle prime scelte governative della Meloni, sul piano delle politiche economiche e di collocazione internazionale, sono ben lungi dall’essere di rottura) ha le caratteristiche di un “luogo mentale” di protezione e rifugio, una sorta di “nazione destino”, consegnata dalla storia (in più verniciata, per ora?, con mano relativamente leggera, di nero) A sintesi di questo percorso nelle tre attuali anime del sovranismo nazionale sembrano comunque emergere, al di là delle evidenti diversità,  alcuni tratti comuni:

*   un approccio alle attuali sfide, interne ed esterne, meramente difensivo: il sovranismo italiano non spinge la nazione alla competizione, all’innovazione, al progresso, suggerisce semmai un ripiegamento in difesa di ciò che si ha (sempre meno)  e che si teme (sempre più) di perdere. Una nazione quindi che gioca solo in difesa.

*   Una rischiosa tendenza all’isolamento internazionale: gli sforzi dell’attuale governo di apparire alleato e partner affidabile (a partire dal riallineamento euro-atlantista legato alla guerra in Ucraina) non bastano a cancellare la diffidenza che attorno all’Italia si è creata per l’incessante propaganda sovranista di tutti questi anni (e per i rapporti ancora non rinnegati con altri paesi sovranisti peraltro mai stati alleati storici). Una nazione isolata che suscita diffidenza

*   Tutti i richiami alla identità nazionale, al “popolo da difendere” non hanno un base concreta e solida. Mancando una sua adeguata fotografia, non essendo mai precisati i caratteri e gli elementi sociali e culturali che definirebbero la sua specificità, si resta così ancorati ad una immagine mitizzata e astratta. Una nazione senza un vero popolo

*   Manca un progetto ideologico degno del nome, il messaggio sovranista resta ancora un espediente politico-psicologico, un antidoto momentaneo alla diffusa  paura ed all’incertezza. Una nazione senza un’idea di futuro.

Nell’Italia unita da più di centocinquanta anni il sentimento nazionale resta quindi un sentimento fragile, superficiale, vago, incompiuto, e lascia senza risposta alcune domande cruciali: cos’è la nazione oggi? Chi è la nazione oggi? Ha ancora senso, e se si quale, parlare di nazione oggi?



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