La parola del mese
Una
parola in grado di offrirci
nuovi
spunti di riflessione
APRILE
2023
Quanto sta ultimamente succedendo negli scenari geopolitici
globali, e nella scena politica italiana, impone una riflessione sulla preoccupante
crescita di nazionalismi e sovranismi. La nostra attenzione è stata fin qui
rivolta soprattutto alle dinamiche socio-economiche che l’hanno determinata, in
questo post esploriamo invece il loro rapporto ideologico e culturale con il concetto che “dovrebbe” stare alla loro
base, la Parola del mese è quindi ……..
NAZIONE
Nazione =
sostantivo femminile, dal latino natio -onis, derivato di nasci «nascere»,
nell’uso moderno, accanto ad altre declinazioni, indica i particolare: a. Il
complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e
che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione
in unità politica oppure b. l’unità politica realizzata in uno stato nazionale oppure
c.
insieme di persone che, in una comunità qualsiasi, appartengono alla stessa
stirpe, o costituiscono una categoria omogenea.
Per farlo ci affidiamo ad un testo di recente uscita
a firma di Alessandro Campi
Il concetto di “nazione” si è in effetti riaffacciato con
rilevante importanza nella discussione politica, e culturale, negli ultimi due
decenni, caratterizzando posizioni decisamente contrastanti cha vanno da quella
drastica di Marco Belpoliti (1954,
scrittore, critico letterario, saggista): “la cosa migliore che dell’idea di nazione possiamo fare è abolirla”,
a quelle decisamente celebrative (come si
vedrà spesso con finalità strumentali) del fronte politico populista/sovranista. Si tratta di un ritorno
sulla scena che, smentendo la vulgata di un mondo ormai costituzionalmente
globalizzato, ha accompagnato il forte e diffuso riaffacciarsi di sentimenti
nazionalistici. E’ un movimento che procede con forme molto diverse: in nome del principio
dell’autodeterminazione vede parti
consistenti di Stati che, richiamandosi a proprie tradizioni e memorie,
reclamano il diritto a costituirsi come nazione a sé stante (si pensi ad esempio, in un elenco decisamente lungo, ai movimenti indipendentisti della Catalogna
e della Scozia), piuttosto
che aperti conflitti armati che, per quanto mossi da ragioni varie, sono
combattuti sotto il vessillo di una nazione da difendere piuttosto che da
riconquistare (quello
russo-ucraino è soltanto quello più rilevante, e per molti versi più pericoloso
per i suoi potenziali sviluppi). Sono
solo due esempi di una situazione quanto mai
complessa con la quale il mondo intero è chiamato a fare i conti innanzitutto cercando
di capire le ragioni che la stanno provocando, sia quelle specifiche e locali, ma nondimeno quelle che possono delineare comuni tratti ideologici
e valoriali. In questa modesta “parola del mese”, accompagnando l’impostazione del
saggio di Campi, si guarda a questo secondo aspetto ed in particolare alla
nascita e sviluppo del concetto stesso di “nazione” nella storia dell’Italia unificata. Il neo-patriottismo italiano si inscrive nel
più ampio scenario dei nazionalismi, ed al tempo stesso contiene specifici elementi
utili a meglio comprendere il peso delle presunte identità nazionali, delle
appartenenze culturali vissute come esclusive, dei legami storico-culturali di
lunga durata che dovrebbero giustificarle. Per quanto ristretto all’ambito
italiano il campo di indagine necessita comunque di una specifica chiave di
lettura, quella che Campi adotta è il rapporto tra il concetto di “nazione”
e la “Destra”, ossia la parte del campo
politico italiano che di più, e da sempre, lo contempla come essenziale nel
proprio vocabolario valoriale. Una ulteriore precisazione è opportuna prima di
percorrere, in forma molto sintetica, il lavoro di Campi che ricostruisce le
diverse fasi che, dal punto di vista storico-ideologico, meglio aiutano a
capire il rapporto tra le culture politiche della Destra e l’idea di “nazione”.
Campi ha accompagnato il suo importante percorso accademico (sino ad essere considerato uno dei più importanti studiosi della
Destra italiana)
con una partecipazione al dibattito politico in questo campo finalizzata alla
creazione di una nuova e matura destra, (in
particolare venne al tempo considerato come il più importante ispiratore della
svolta impressa da Gianfranco Fini con la fondazione di Alleanza Nazionale nel
1994/1995).
Un aspetto che non ci è sembrato abbia faziosamente guidato, in nessun senso, i
suoi giudizi di merito.
Dalla
Destra storica al nazional-populismo
E’ difficile definire
il minimo comun denominatore della Destra stante la grande varietà delle sue
varianti (rivoluzionaria, conservatrice,
liberale, reazionaria, aristocratica, moderata, radicale, anti-modernista,
populista, clericale, federalista, libertaria, e via discorrendo), ma
certo è che per tutte resta centrale il richiamo alla nazione
come realtà storica su cui puntare e come mito politico fondante l’identità di
una collettività organizzata. Ciò vale anche per la Destra italiana per la
quale sembra però da sempre imporsi (come meglio
si vedrà qui di seguito) un maggiore peso del richiamo
alla “nazione-mito” (utile alla
propaganda e alla mobilitazione politica) rispetto
alla concreta definizione di una “nazione progetto”.
Non pare infatti, anticipando un giudizio finale, che la Destra italiana sia
sin qui riuscita ad elaborare una dottrina nazionalistica coerente ed organica
in grado di legare il concetto di “nazione”
ad uno Stato politicamente ed istituzionalmente compiuto. Non hanno di certo aiutato
alcune oggettive difficoltà, fra le altre il fatto che l’Italia, come costruzione
mitico-identitaria, sia molto più antica della sua concreta costituzione
unitaria, il peso controverso del ruolo della Chiesa Cattolica (il suo potere temporale si è qui protratto molto a lungo),
le modalità stesse di nascita del Regno d’Italia (oscillanti
tra ambizioni sabaude e interessati protettorati di potenze straniere).
Il risultato sembra consistere in un “nazionalismo debole”, poco sentito dalle
masse e diviso fra le sue diverse anime regionali, che si è progressivamente
definito, con un percorso per nulla lineare e coerente, attraverso cinque fasi
tra loro non poco diverse se non contraddittorie. A ben vedere l’unica Destra
italiana che sembra aver coltivato con l’idea di “nazione”
un rapporto culturalmente originale, virtuoso e costruttivo, resta ancora oggi quella
liberal-conservatrice risorgimentale, costituita da quel ristretto gruppo di
intellettuali (in gran
prevalenza sabaudi) capaci di fondere gli ideali mazziniani con il pragmatismo
cavouriano. Come vedremo a distanza di quasi due secoli da allora “nazione” resta ancora per l’Italia un
concetto problematico e debole che fatica a trovare una sua declinazione
condivisa e funzionale.
La
nazione
assoluta dei nazionalismi
Nel
laboratorio risorgimentale l’idea di nazione
è composta da tre concetti: unità, sovranità, indipendenza, essenziali per costruire uno
Stato in grado di inserirsi con dignità nel quadro geopolitico europeo del
tempo (gli studi storici assimilano
l’unificazione politico-territoriale italiana a quella pressochè parallela
della Germania come esempi vincenti del principio di “nazionalità”).
Si è quindi, in questa prima fase, consolidata una idea morale e spirituale
vissuta come un fattore di progresso, però ben presto destinata, per via delle profonde
tensioni che caratterizzano il quadro europeo, ad assumere un forte carattere
“nazionalistico”
basato su aspetti discriminanti e aggressivi. La nazione immaginata democratica, liberale,
armonicamente collocata in un mondo di popoli liberi e affratellati, si
trasforma già nei decenni successivi all’unificazione in una realtà fortemente
votata, nel quadro delle relazioni tra Stati, a conflittualità e competizione (con
geometrie variabili di alleanze). Questo
repentino passaggio dal “principio di nazionalità” al “nazionalismo” (peraltro avvenuto in Italia come nel resto degli Stati Europei)
si presta ad essere rappresentato, per dirla in modo convenzionale, come uno
slittamento ideologico da “sinistra” a “destra”. L’idea di “nazione”, nata a fine Settecento sulla
spinta dei contrasti rivoluzionari all’Ancien Régime, e che aveva mantenuto nella
prima metà dell’Ottocento una impronta democratica e progressista, assume in
questi ultimi decenni caratteri profondamente diversi. Si viene cioè a
delineare una sua inclinazione a soluzioni conservatrici ed autoritarie,
all’esaltazione di tradizionalismo storico misto a tratti di irrazionalismo
filosofico giudicati utili a formare un nuovo “sentimento nazionale”, alla
creazione di uno Stato “potenza” perseguita con politiche di
modernizzazione e industrializzazione forzata spesso antipopolari. Il nuovo
secolo sancisce la piena realizzazione di questa svolta celebrata in versi da
poeti come Giovanni Pascoli (1855-1912)
e D’Annunzio (1863-1938), ma
ancor più dalla prosa esaltata, e razzista, di Alfredo Rocco (1875-1935, politico e giurista, il suo nome è legato all’omonimo
Codice Penale varato durante il fascismo), e da lì a
breve fatalmente destinata a fare propri i caratteri dell’ “imperialismo
colonialista” di inizio Novecento. Nel 1908 esce il primo numero di
“Politica”
(la più importante rivista teorica del nazionalismo italiano,
attiva fino al 1943) che, nella prefazione di Rocco, spiega con termini inequivocabili
che “nazione” deve indicare una potenza che
mira ad “aggregazioni
sovranazionali”. In un clima di esaltazione sempre più trasversale
non deve stupire che esponenti importanti del socialismo italiano (a partire da Mussolini) predichino
la necessità di passare dalla lotta di classe alla “collaborazione di classe” finalizzata
al sostegno di una “nazione potenza” alla quale sacrificare
le proprie appartenenze sociali e politiche. Essa doveva cioè completare la sua
trasformazione in un concetto capace non solo di “darsi uno Stato”, ma di plasmarlo
nel vettore della propria potenza. Nel nazionalismo di fine Ottocento e del
primo Novecento sparisce l’eredità dell’idealismo risorgimentale e si afferma
una idea di “nazione” non più riferita al
patrimonio valoriale e culturale consegnato dalla precedente storia, ma fondata
sui legami etnici, territoriali, linguistici, a sancire il definitivo passaggio
dalla “nazione-storia-cultura” alla “nazione-natura”.
La
nazione
fascista tra Stato ed Impero
Questa idea
di “nazione assoluta”, maturata a cavallo del nuovo
secolo e portata a suo pieno compimento con l’ingresso dell’Italia nella Prima
Guerra, contiene e sviluppa i semi di uno degli aspetti ideologici fondanti del
fascismo italiano. L’inscindibile nesso culturale e politico tra fascismo e nazione è ben testimoniato dalle parole
pronunciate nel 1922 da Mussolini: …..Noi abbiamo creato il nostro mito, ed il mito è passione,
fede, non è necessario che sia realtà…..il nostro mito è la nazione, la grandezza della nazione…..e a questo mito noi
subordiniamo tutto il resto….. Nelle diverse, e non poco
contraddittorie, componenti ideologiche del fascismo italiano delle origini
quella della nazione, come forma di
appartenenza collettiva e totalizzante di un popolo, è stata quindi
fondamentale ed ha ispirato politiche interne ed estere, e più in generale concezione
dell’uomo e della storia, modo di intendere il rapporto tra Stato, società ed
individuo. L’idea di “Patria degli italiani”, che il Risorgimento
aveva sintetizzato nel trinomio “nazione-libertà-umanità”, viene però declinata
nella “nazione dei fascisti” a sancire la loro
piena sovrapposizione, non si ha l’una senza l’altro e viceversa (Luigi Salvatorelli, 1886-1974, storico e giornalista, già nel
1923 descrive questa caratterstica coniando il termine “nazional-fascismo”).
L’identificazione nazione-fascismo, retoricamente usata
per raccogliere i consensi nella confusa area
del mito della “vittoria mutilata” (l’Italia
derubata dalle “Grandi Potenze” di parte dei territorio occupati alla fine
della Grande Guerra, Fiume in primis) conosce però,
a dittatura appena instaurata, un suo sviluppo, ancora una volta sintetizzato
da una frase di Mussolini del 1924: senza lo Stato non c’è Nazione. Il fascismo al potere elabora cioè,
ideologicamente e nella pratica politica concreta, una sua evoluzione; la nazione, intesa come aggregato naturale
privo però di una sua identità politica, trova nello Stato, va da sé fascista, la
sola forma politica in grado di realizzarla. Questa “natura asimmetrica del rapporto Nazione -Stato” trova poi
nel pieno del ventennio una sua più compiuta definizione teorica nelle opere di
Giovanni Gentile (1875-1944,
filosofo neo-idealista) che, convinto che la “nazione non sia un fatto”, vale a dire una realtà già
formata e stabile, ma “una coscienza”, così cita alla voce “Fascimo”
della sua Enciclopedia Italiana: …. non è la Nazione a
generare lo Stato, ma è da esso creata con il suo dare al popolo volontà in tal
senso…. La mistica dello “Stato fascista”, lentamente ma
inesorabilmente, assorbe in sé il concetto di nazione sostituendolo in ogni sua possibile articolazione.
E’ sempre Mussolini a ribadirlo senza
equivoci: …. tutto
nello Stato, nulla fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato …. A
partire dagli anni Trenta un nuovo mito ideologico si affianca a quello dello
Stato fascista completando il sostanziale svuotamento del concetto di nazione: “la tendenza all’Impero”. Le indubbie
convenienze economiche e geopolitiche legate allo slogan della conquista di “un posto al
sole” sono rivestite da una mistica di conquista che non può più
essere confinata nell’ambito nazionale. Camillo Pellizzi (1896, Collegno,-1979, sociologo e letterato)
così illustrava questo salto logico: “la nazione si
basa su una concezione immanente, l’impero sopra una trascendente. La nazione è intellettuale, l’impero è
mistico”. L’Impero si presenta come un destino storico dell’Italia
fascista, è il suo pieno compimento che di fatto assorbe sino ad eliminarla la nazione. Si chiude così l’evoluzione del rapporto fra il concetto di nazione e fascismo: usato strumentalmente nella
fase di presa del potere, viene progressivamente svuotato di sostanza perché
non più funzionale alla grandezza storica del regime e delle sue ambizioni
egemoniche.
L’Italia
repubblicana e l’oblio della nazione.
All’indomani
della fine della dittatura e della rovinosa guerra il termine nazione, per quanto così svalutato dal
fascismo, restava nell’immaginario collettivo così strettamente ad esso collegato da indurre una reazione di rigetto, nel comune sentire popolare e
nell’intero arco delle forze politiche.
In particolare i due partiti di massa che catalizzano in un loro aspro
confronto la divisione in blocchi del secondo dopoguerra, erano accomunati
dalla convinzione che la ricostruzione del paese non avesse bisogno di un
richiamo a quello che era percepito come un anacronistico, ed inquinato, senso
di appartenenza nazionale quanto piuttosto di una progettualità idealmente
rivolta verso un diverso futuro. D’altronde già nel 1943, all’indomani della
caduta del fascismo, Piero Calamandrei (1889-1956,
giurista e politico, uno dei più importanti membri della Costituente) richiamava
ad un’idea di patria, opposta a quella fascista, fatta di tratti, se si vuole
apolitici, basati sul reciproco rispetto e comunitaria solidarietà. In questo
clima, che per tutta la prima fase ha fatto aggio sulle sempre più nette tensioni
politiche del periodo (tanto da
essere lo spirito che permise la nascita di una Costituzione fortemente
innovativa) il sentimento nazionale era ispirato tanto dal mito fondativo
risorgimentale quanto dalla tensione di riscatto della lotta di Liberazione, a
sancire una linea di continuità ideale capace di scavalcare la parentesi
fascista. Le diverse visioni politiche, accentuate dal clima di “guerra fredda”, non tardano però a manifestarsi e danno luogo ad un diverso
sentire nazionale. Nell’orizzonte politico-ideologico del partiti di sinistra, PCI
in testa, fatto di un forte sentimento internazionalista, emerge un’’idea
di nazione, ispirata dal pensiero gramsciano (nella molto pragmatica versione togliattiana),
che supera i tratti borghesi e liberali della tradizione risorgimentale per
aprirsi ad una più ampia idea di trasformazione della società e dei rapporti di
classe. Si concepiva cioè non più una “nazione particolare”
ma una “nazione universale” all’interno della
quale ogni singolo paese poteva ispirarsi ai valori universali del socialismo/comunismo (per molti decenni in formato URSS)
Ma anche nel campo opposto si assiste ad una netta svolta: la forte ispirazione
religiosa della Democrazia Cristiana indirizza quel sentire nazionalistico
ereditato dal Risorgimento (peraltro caratterizzato
anche da tratti di forte laicità) verso
un’idea di nazione coincidente con la
tradizione storica del cattolicesimo, ed in quell’ambito sostanzialmente
privata di una sua autonoma peculiarità per divenire un mero contenitore, di
fatto pre-politico, atto a garantire i diritti naturali ed insopprimibili della
persona, una sorta di “nazione naturale”
intrisa di spirito cristiano. Il comune, seppur decisamente opposto, ridimensionamento
del sentire nazionale e patriottico (accentuato
dalla convinzione che ad esso si dovevano ascrivere i due tragici conflitti
mondiali) non conosce migliore fortuna neppure nel versante della destra più
estrema, i cosiddetti neo-fascisti dell’MSI non si esimono certo da difese di
ufficio nazionaliste, ma, a differenza dei “reduci” del ventennio, le nuove
leve, già nate nel nuovo mondo bipolare, vanno ben oltre e giungono ad
esaltare, con una sorta di ossimoro, un’idea di “Europa-nazione”,
vista come l’unica dimensione adatta a fronteggiare il comunismo sovietico
senza rendersi vassalla degli USA. Quello che si realizza nella nuova estrema
destra è in effetti una sorta di evoluzione in senso “hitleriano” (e del suo “nuovo ordine
europeo”), così come testimonia in un suo scritto (del 1973) Adriano
Romualdi (1940-1972,
storico e saggista, considerato il più importante ispiratore dell’estrema
destra italiana) là dove afferma: ….egli (Hitler)
pensava per grandi spazi in un’epoca in cui il nazionalismo ragionava per
province …. la destra italiana del dopoguerra è quindi sentimentalmente
patriottica, retoricamente nazionalista, ma non “nazionale” sul piano
ideologico (non a caso
Julius Evola, 1898-1874, filosofo italiano, il principale ideologo del
neofascismo del secondo dopoguerra, considerava la nazione un mito regressivo
piccolo-borghese). Emerge un’idea, razzista e superomistica, di “nazione degli eletti” accomunati non da uno spazio
geografico-culturale, ma dalla condivisione allargata di tratti etnici e spirituali.
Per almeno un trentennio l’idea di nazione,
schiacciata in queste sue declinazioni, vive in Italia una vita stentata e
banalizzata per riemergere in nuova veste solo negli anni Ottanta sulla spinta,
non a caso, di una visione politica estranea a quelle precedenti, quella del
PSI craxiano. La sua idea modernizzatrice del paese, del tutto inconciliabile
con le precedenti posizioni socialiste fiancheggiatrici del PCI, ritorna ad
esaltare, come suo indispensabile fattore di spinta, il senso di appartenenza
nazionale, con una vera e propria svolta neo-patriottica, che riprende la
mitologia risorgimentale (più
Garibaldi che Mazzini) affiancandole quella del più
prosaico “made
in Italy” (una stagione
politica non a caso ricordata come quella del “socialismo tricolore”).
A ben vedere però non sembrano rintracciabili, anche in questa versione, solidi
elementi ideologici, la ripresa dei richiami alla “nazione”
ha all’atto pratico avuto più un carattere di richiamo retorico e
“reclutatore”. Ciò riconosciuto è pur vero che in questa prima breccia di
revival nazionalistico si innesta una sua più convinta ripresa in senso istituzionale e di sentimento
collettivo: quella messa in atto da Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016, economista e banchiere, successivamente Primo
Ministro, 1993-1994, e Presidente della Repubblica, 1999-2006),
con il suo insistito richiamo, sollecitato dalle pesanti difficoltà economiche
e sociali del periodo, alla “riscoperta della patria”. La sollecitazione di
Ciampi riprende, con convinzione non strumentale, proprio quel connubio tra ’epopea
risorgimentale (in vista dei
centocinquant’anni dall’Unità) e dei valori
della Resistenza, considerati quelli fondanti nel primissimo dopoguerra. Questa
idea di nazione, convintamente portata
avanti per fronteggiare il disorientamento innestato dalla cosiddetta fine
della Prima Repubblica, si caratterizza per il senso di “continuità” storica di lungo
periodo del percorso nazionale e mira a rafforzare un contenitore istituzionale e valoriale percepito come tale da tutte le anime del paese.
La
seconda Repubblica e le destre senza nazione
Il crollo,
per via giudiziaria, della Prima Repubblica si accompagna all’irruzione sulla
scena politica di nuovi soggetti politici e di nuovi leader. In particolare nel
campo della destra, sin lì occupato, in chiave nostalgica-alternativa, dal
Movimento Sociale Italiano, nascono tre nuovi partiti: la destra
nazional-populista di Forza Italia, la destra nazional-conservatrice di
Alleanza Nazionale, e la destra federalista-autonomista della Lega. Si apre in questo
rinnovato quadro politico un nuovo capitolo nella storia del rapporto fra
destra e nazione, che però, ancora una volta, si sviluppa in una relazione ambigua e
difficile. Lo è innanzitutto per Forza Italia che, a dispetto del suo nome (in effetti una sorta di slogan simil calcistico),
non ha mai elaborato una benchè minima idea di nazione.
Lo ha impedito la sua natura di “partito personale”, totalmente condizionato
dal suo fondatore ed organizzato come semplice macchina mediatica di raccolta
consensi. Non devono trarre in inganno le solenni affermazioni berlusconiane di
amore per la patria (a partire
dall’annuncio della sua “discesa in campo”…..l’Italia è il paese che amo….),
Forza Italia è stata priva di qualsiasi legame con la memoria collettiva e la storia nazionale, totalmente schiacciata
com’era su un presente che si esauriva nella persona del leader fondatore e
quindi incapace, perché disinteressata, a definire una propria idea di nazione. Come era prevedibile più
complessa è stata la sua elaborazione da parte di Alleanza Nazionale. Nata
sulle ceneri del Movimento Sociale con la prospettiva di divenire una destra
conservatrice non riesce tuttavia completare questa trasformazione. Sono
soprattutto due le ragioni che incidono negativamente: la sua classe dirigente
resta esattamente quella dell’ultima fase dell’MSI che, messa ai margini del
dibattito politico, è portatrice di una mentalità da “esuli in patria”, di “vinti della
storia” che non riescono di fatto a rinnegare le loro origini
politiche, la seconda, alla prima collegata, è consistita nella voluta
incapacità di una vera accettazione della democrazia, e dei suoi valori, considerata come creata
dai “vincitori
della storia”. Ambedue, al di là delle dichiarazioni di facciata,
impediscono di uscire da un penalizzante schema mentale così sintetizzabile:
finchè esisterà l’antifascismo il fascismo resterà nella pratica politica
concreta, anche per la nuova destra, un ancoraggio simbolico-memoriale. Tutto
ciò ha implicato che Alleanza Nazionale abbia certamente mantenuto un forte
sentimento patriottico, ma declinato con una idea di nazione
puramente ideale, astratta, impossibile ad essere calata nel nuovo quadro
storico italiano. Un aspetto che deve essere completamente rovesciato nel caso
della Lega Nord delle origini, tanto fortemente nazionalista quanto per nulla
patriottica, ma la sua idea di nazione
non guarda all’Italia intera, ma solo alle regioni del Nord chiamata a formarne
una nuova “la
Padania”. La Lega di Bossi (che
con Salvini, come si vedrà, intraprenderà un’altra strada)
è quindi un partito totalmente nazionalista, là dove immagina un nuovo soggetto
politico-territoriale autonomo e sovrano, e ferocemente anti-nazionale, se guarda
all’Italia ed alla sua unità. Queste tre, seppur distinte, destre non solo non
propongono un vero nuovo progetto nazionale, ma anzi esprimono forti sentimenti
antinazionali e antiunitari, tanto da obbligare (sulla
scia dei richiami di Ciampi e di quelli successivi di Giorgio Napolitano) la sinistra, fin lì ben poco nazionalista, ad
ergersi a difesa della nazione Italia rinnegata dalla destra leghista, piegata a
visioni personalistiche da Forza Italia, e ridimensionata nei suoi valori
fondanti da Alleanza Nazionale
La
(finta) rivoluzione sovranista
La crisi
globale del 2008 accentua i limiti strutturali economici e sociali italiani ed
evidenzia l’incapacità del quadro politico della Seconda Repubblica di essere
all’altezza delle numerose sfide. I governi tecnici, chiamati a supplire a tale
carenza, ne sono la prova più evidente, anche se neppure loro, sostenuti com’erano
da maggioranze decisamente forzate e instabili, hanno in generale risposto alle
aspettative. Non deve allora stupire la crescita esponenziale della
disaffezione elettorale e l’affermazione dei partiti “antisistema”, peraltro altrettanto
incapaci di proporre soluzioni praticabili essendo di fatto votati ad
intercettare malcontento e delusione. Diversi per struttura organizzativa, base
sociale e riferimenti ideali declinano la loro comune caratteristica
“antisistema” con un forte richiamo alla riconquista di spazi e poteri
decisionali nazionali tanto da essere accomunati, con qualche forzatura, nel termine
“sovranismo”.
A questa comune collocazione nel generico campo del populismo alias sovranismo sono
però corrisposte declinazioni molto differenti dell’dea di nazione. Sono tre i
movimenti/partiti che hanno composto il fronte antisistema italiano. Il primo
in ordine temporale ad ottenere una eclatante vittoria elettorale (maturata in tempi brevissimi, caratteristica questa comune ai tre
soggetti politici) è stato il M5S capace, soprattutto grazie alle doti mediatiche
del suo fondatore, di presentare una miscela di proposte politiche mutata da
una iniziale visione genericamente movimentiste di sinistra (ad es.difesa dei beni comuni) a suggestioni
politiche più propriamente classificabili di destra (il
campionario è quello classico del sovranismo:: condanna della casta e delle
elite, denuncia del complottismo dei poteri forti globali, contenimento dei
flussi immigratori in difesa dei lavoratori nazionali, antieuropeismo).
Uno degli aspetti che di più ha caratterizzato la sua piattaforma ideologica, sul
tema del potere, è consistito in una formula di grande impatto mediatico: “uno vale uno”,
(legata alla democrazia della Rete),
ma inevitabilmente di incerta e confusa applicazione. Dall’insieme di questi
tratti essenziali emerge un forte volontà di riconsegnare al “popolo”,
(mai meglio precisato, ma idealmente concepito come una realtà
compatta e virtuosa per definizione) una piena “sovranità”,
un obiettivo però mai sfociato in un aperto nazionalismo, ma (auto)limitato ad una
generica rivendicazione di autonomia decisionale. L’idea M5S di nazione resta di fatto confusa e sterile declinata,
anche ingenuamente, in termini di nostalgia per un passato genericamente
idealizzato e priva di una sua compiuta visione “in positivo”. La successiva parabola
del sovranismo di stampo leghista prende forma con il superamento salviniano
della Lega delle origini e con la sua trasformazione in un partito nazionale
con al suo centro non più l’indipendentismo territoriale ma un radicalismo
nazionalista. Ancora nel 2013 lo slogan principale della Lega era “Prima il Nord!”, conosce poi una prima mutazione in “Prima gli
italiani” e termina poi nel 2019
(il picco massimo di consensi elettorali raccolti alle Europee)
con un “Prima
l’Italia” di chiara derivazione trumpiana (America first!). Questa
improvvisa ed accelerata conversione al nazionalismo non sembra aver avuto solo
spiegazioni di convenienza elettorale (che pure non poco sono state presenti),
ma delinea una vera mutazione identitaria che abbandona le precedenti visioni
localistiche (suscitando
quindi la forte opposizione del nucleo leghista originario)
per guardare ad una nazione costruita su idealizzate
precedenti identità storiche da difendere dalle minacce globaliste, dalle
ondate migratorie, dall’ingerenza delle istituzioni europee. Ma anche nella sua
versione leghista/salviniana l’idea della nazione da
difendere, mai più di tanto precisata nelle sue componenti storiche, valoriali,
culturali, resta un atteggiamento mentale retrogrado volto ad un presunto
paradiso perduto, nel quale mancano visioni consolidate di concreti orizzonti
futuri. Appare al contrario molto più organicamente costituito il richiamo
nazionalistico, in quanto dato costante della storia dell’estrema destra
italiana, dell’ultima componente sovranista: Fratelli d’Italia. La crescita dei
suoi consensi elettorali rappresenta un caso così eclatante da rendere
problematica una sua spiegazione. Incidono sicuramente più fattori (ad es. l’insipienza di tutti gli altri partiti e la convenienza
dell’essere stata all’pposizione del Governo Draghi)
ma è indubbio il ruolo della sua leader Giorgia Meloni, prima donna candidata a
premier nel nostro paese. Può aiutare a meglio decifrare la vincente evoluzione
del nazionalismo di destra attuata da FdI proprio lo slogan con il quale la
Meloni si è fatta mediaticamente conoscere dagli italiani: nel 2019 in un
comizio a Roma così si autodefinisce: …sono Giorgia, sono una donna,
sono una madre, sono italiana, sono cristiana…” per poi urlare “….e questo non
me lo toglierete!!!! ..... E chi vorrebbe toglierle queste sue caratteristiche
fondanti è indistintamente individuato nella omologazione globale, nella
prepotenza invasiva della UE, nei cambiamenti di morale e di costume, tutti
ascritti ad una generica “sinistra”. Il concetto chiave che emerge da questa
vibrante autodefinizione è ancora una volta quello dell’identità, la volontà di poter
continuare ad essere quello che “naturalmente” si è, nel senso di una
appartenenza antica e originaria e come tale inviolabile. Trasferendo queste
parole alla dimensione collettiva se ne deduce un’idea di nazione
come una comunità che vuole, e deve, mantenere la propria integrità contro le
minacce della contemporaneità. Emerge sotto traccia la nostalgia postfascista
di una grandezza italiana ferita dai rovesci della storia, ma ancora faro per
una rinascita nazionale. Ed ancora una volta questa nostalgico sguardo volto al
passato altro non fa che nascondere una
paura del presente, del futuro, minacciato da processi di cambiamento che
annullerebbero questa identità. La nazione,
ricompattata, diventa allora la forma di resistenza collettiva contro ogni omologazione trasformista. Si spiega così il rifiuto del
termine apolitico di “paese” per riproporre quello più identitario
di “patria”,
a definire una idea di “nazione-patria”
che tuttavia ben poco sembra prestarsi ad essere declinata in politiche concrete (non per nulla molte delle prime scelte governative della Meloni, sul
piano delle politiche economiche e di collocazione internazionale, sono ben
lungi dall’essere di rottura) ha le
caratteristiche di un “luogo mentale” di protezione e rifugio, una
sorta di “nazione destino”, consegnata dalla
storia (in più verniciata, per ora?, con
mano relativamente leggera, di nero) A sintesi di
questo percorso nelle tre attuali anime del sovranismo nazionale sembrano
comunque emergere, al di là delle evidenti diversità, alcuni tratti comuni:
un approccio
alle attuali sfide, interne ed esterne, meramente difensivo: il sovranismo
italiano non spinge la nazione alla competizione, all’innovazione, al progresso, suggerisce
semmai un ripiegamento in difesa di ciò che si ha (sempre meno) e che si teme (sempre più) di perdere. Una
nazione quindi che gioca solo in
difesa.
Una rischiosa
tendenza all’isolamento internazionale: gli sforzi dell’attuale governo di
apparire alleato e partner affidabile (a partire dal riallineamento euro-atlantista legato alla guerra
in Ucraina) non bastano a cancellare la diffidenza che attorno all’Italia si
è creata per l’incessante propaganda sovranista di tutti questi anni (e per i rapporti ancora non
rinnegati con altri paesi sovranisti peraltro mai stati alleati storici). Una nazione
isolata che suscita diffidenza
Tutti i
richiami alla identità nazionale, al “popolo da difendere” non hanno un base
concreta e solida. Mancando una sua adeguata fotografia, non essendo mai
precisati i caratteri e gli elementi sociali e culturali che definirebbero la
sua specificità, si resta così ancorati ad una immagine mitizzata e astratta. Una nazione
senza un vero popolo
Manca
un progetto ideologico degno del nome, il messaggio sovranista resta ancora un espediente
politico-psicologico, un antidoto momentaneo alla diffusa paura ed all’incertezza. Una nazione
senza un’idea di futuro.
Nell’Italia
unita da più di centocinquanta anni il sentimento nazionale resta quindi un
sentimento fragile, superficiale, vago, incompiuto, e lascia senza risposta
alcune domande cruciali: cos’è la nazione oggi?
Chi è la nazione oggi? Ha
ancora senso, e se si quale, parlare di nazione
oggi?
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