Il “Saggio” del mese
APRILE
2023
E’
ormai molto lungo l’elenco delle negatività economiche imputabili
all’esaltazione ideologica del libero mercato capitalistico della scuola
neoliberista. Nata negli USA verso la fine degli anni Settanta (vedi
il precedente nostro “Saggio del mese” di Marzo 2023 = “Dominio” di Marco
D’Eramo), e presto divenuta
la teoria economica dominante, il neoliberismo si è dimostrato impermeabile
all’accumularsi di problematiche, esplose soprattutto con la crisi globale del
2008, che evidenziano le sue profonde contraddizioni ed incongruenze. Tuttavia
ancora oggi rappresenta il pensiero che di più ispira le politiche economiche
globali. Un aspetto preoccupante in una fase in cui l’umanità intera è chiamata
e mettere in discussione i modelli di sviluppo che hanno determinato
l’emergenza ambientale/climatica e la grave ingiustizia economico-sociale
globale, che impone, anche a questo modesto blog, di continuare a proporre
spunti di riflessione che aiutino a meglio capire il corso della recente storia
economica. Lo facciamo anche con questo “Saggio del mese”
dell’economista
Ha-Joon Chang
(Ha-Joon Chang, 1963, economista sudcoreano di scuola keynesiana,
specializzato in Economia dello sviluppo, Docente di Economia Politica dello
Sviluppo all'Università di Cambridge, autore di numerosi saggi di grande
impatto, fra i quali spicca "Kick
Away the Ladder: Strategia di sviluppo in prospettiva storica")
Questo
testo si presenta con l’agile formula (ben testimoniata dalla
stessa copertina) di una sorta di
“botta e risposta” che prende in esame
alcuni dei più importanti teoremi neoliberisti per sottoporli a sintetico, ma
non meno severo, esame. Non ha quindi la veste di un testo per addetti ai
lavori, ma quella di un saggio divulgativo che mette in ordine in modo
originale alcuni elementi (ben 23, ognuno dei
quali da solo meriterebbe ben altri approfondimenti) a formare un quadro d’insieme che si
prefigge lo scopo di coinvolgere anche “i non esperti” (quali molti di noi sono, a partire da chi scrive) con la finalità di smentire l’idea che
le teorie economiche siano riservate a pochi specialisti (nell’introduzione si afferma che il 95% della scienza
economica è fatto di argomenti comuni resi complicati e che il restante 5% sono
sì questioni complesse, ma che possono essere spiegate con linguaggio
accessibile).
SETTE MODI DI LEGGERE QUESTO SAGGIO PER PILLOLE (suggeriti “al lettore” dallo stesso suo autore)
1 = Se non sei sicuro di sapere bene cosa sia
il capitalismo, leggi: Cosa 1 – 2 - 5 -8 – 13 – 16 – 19 - 20 – 23
2 = Se pensi che la politica sia
fondamentalmente una perdita di tempo, leggi: Cosa 1 – 5 - 7 - 12 – 16 – 19 –
20 – 22
3 = Se ti sei chiesto perché la tua vita non
sembra migliorare malgrado un reddito più alto e tecnologie più avanzate,
leggi: Cosa 2 – 4 – 6 – 8 – 9 – 10 – 17 – 18 – 22
4 = Se pensi che i più ricchi sono diventati
più ricchi perché sono più capaci, più istruiti, e più intraprendenti, leggi:
Cosa 3 – 10 – 13 – 14 – 15 – 16 – 17 – 20 – 21
5 = Se vuoi sapere perché i paesi poveri sono
poveri e come possono uscire dalla povertà, leggi: Cosa 3 – 6 – 7 – 8 – 9 -10 –
11 – 12 – 13 – 17 – 23
6 = Se pensi che il mondo sia ingiusto ma che
non ci si possa fare nulla, leggi: 1 – 2 – 3 – 4 – 5 11 – 13 – 14 – 15 – 20 –
21
7 = leggi l’intero libro nell’ordine che ha (quello consigliato in questa nostra di sintesi
di una sintesi)
Cosa dicono = i mercati devono
essere liberi, se lo Stato interviene per regolarlo le risorse
economiche non vengono utilizzate al loro meglio. Cosa
non dicono = Il libero mercato non esiste perchè non
esistono parametri per valutare il suo grado di libertà, che resta quindi una
definizione ideologica. Non dicono che da sempre sul mercato hanno inciso molte
leggi (ad es. la soppressione del lavoro minorile) fatte con finalità
non economiche, ma non per questo meno
decisive per il suo stesso corretto funzionamento. Anche oggi gli la politica,
globale, è chiamata ad operare allo stesso modo (ad es. per contrastare
l’inquinamento ambientale, per regolare i flussi migratori, per siglare accordi
internazionali ai fini della pace) su temi non economici, ma inevitabilmente
di forte incidenza sul mercato. La libertà dei mercati sarà sempre e comunque
delimitata in un quadro composto anche da altri fondamentali valori
Cosa 2 = Le aziende non vanno gestite
nell’interesse degli azionisti
Cosa dicono = gli azionisti
possiedono le aziende che quindi vanno gestite nel loro interesse. Cosa non dicono = l’interesse degli azionisti mira a guadagni
immediati e questo compromette il futuro a lungo termine dell’impresa. Il
capitalismo si è formato grazie ai massicci investimenti (ferrovie,
acciaierie, attività chimiche) che avevano prospettive di ritorno
economico su orizzonti lunghi. Se al tempo fosse già prevalso il teorema
neoliberista il capitalismo non sarebbe diventato quel che oggi è. Non dicono
che le analisi macro-economiche dimostrano che, a partire dagli anni Ottanta allorquando
questo teorema è prevalso, la quota di profitti destinata agli investimenti si
è drasticamente ridotta, ed è invece aumentata quella per l’acquisto di proprie
azioni da parte delle stesse imprese. E gli investimenti sono fondamentali per
una buona salute dell’economia, senza prima o poi questa si ferma. Jack Welch (1935,
presidente della General Electric americana, per andare in pensione ha ricevuto
un buona uscita di 417 milioni di dollari, la più alta mai pagata) ha confessato che
lo shareholder (creare valore per gli azionisti) è “l’idea più
stupida al mondo”.
Cosa dicono = solo un mercato
del lavoro libero da regole e contratti sindacali assicura remunerazioni
efficienti ed eque. Cosa non dicono =ritenere che
ciascuno sia pagato equamente in relazione al proprio valore è un mito
ideologico. La retribuzione erogata per lo stesso tipo di
prestazione varia molto da paese e paese, e fra categoria e categoria, ma non
riflette mai solo il valore della prestazione stessa. In un mercato del lavoro che non è mi davvero libero incidono le condizioni
socio-economiche (a partire dal coefficiente di
produttività del lavoro) del contesto in cui la prestazione avviene (che
variano per l’appunto da paese a paese, da categoria a categoria, e per le
diverse tecnologie che consentono una maggiore produttività) . Non dicono quindi che anche in questo caso
è il contesto socio-economico complessivo (sul quale incidono
molti fattori, su quello del lavoro molto incidono ad esempio le politiche
sull’immigrazione, spesso decise per ragioni non solo economiche) a determinare il
valore di una prestazione. I livelli salariali non sono mai determinati solo
dal libero gioco di domanda ed offerta.
Cosa 4 = La lavatrice ha cambiato la vita più
di Internet
Cosa dicono = le tecnologie
della comunicazione hanno prodotto “la fine della distanza”, anche l’economia
deve adeguarsi a questa nuova dimensione
Cosa non dicono = le rivoluzioni
tecnologiche modificano economie e società in modi molto complessi, non sempre
il più nuovo è il migliore. La percezione che l’ultima novità
tecnologica sia rivoluzionaria dipende molto dal fatto che la stiamo vivendo,
ma non è detto che sia sempre così innovativa. Ad esempio l’arrivo nelle case
di (quasi) tutto il mondo
degli elettrodomestici, lavatrice in primis, (e della collegata
energia elettrica)
ha innescato cambiamenti sociali (stili di vita diversi e guadagno di
tempo)
ed economici (la maggiore libertà delle donne dal
giogo dei lavori domestici ha consentito un loro maggiore ingresso nel mercato
del lavoro).
Certo molto è cambiato con Internet, ma non è corretto sostenere che è la più
grande svolta della storia umana. Non dicono ad esempio che la “fine della
distanza” di Internet è battuta anche dall’umile telegrafo
(grazie al quale, dopo la sua invenzione nel 1837, un messaggio dall’Europa
agli USA passava dalle tre settimane di viaggio in nave a soli 7/8 minuti. Quelli
in meno di Internet sono nulla al confronto!)
Cosa 5 = Aspettati il peggio e otterrai il
peggio
Cosa dicono = L’ individuo nel
“mercato”, per istinto insopprimibile, mira al suo massimo profitto. Perché il
mercato funzioni è bene aspettarsi il peggio da parte degli altri. Cosa
non dicono = Se l’unica regola sul mercato fosse il proprio personale
interesse, l’economia sarebbe ferma perché sommersa da truffe e raggiri. Esiste
un “agire morale” anche in economia. Soprattutto
nelle economie complesse, come quelle attuali, relazioni fra soggetti economici
basate solo sulla reciproca diffidenza fermerebbero tutto per il timore di
restare danneggiati dall’egoismo altrui. Ma se nulla è fermo, anzi, è perché negli
ordinari rapporti tra fornitore ed utilizzatore, fra imprenditore e dipendenti,
fra venditore e compratore, intervengono anche onestà, reciproco rispetto,
senso del dovere, solidarietà, e molti altri stimoli non meno forti dell’egoismo.
Non dicono quindi che è proprio quando gli “altri” percepiscono che sono
considerati solo come portatori del proprio interesse, che più facilmente
scatta, perso per perso, il loro stinto ad esserlo.
Cosa 6 = La maggiore stabilità macroeconomica non
ha reso l’economia mondiale più stabile
Cosa dicono = Affinchè il
libero mercato possa funzionare al suo meglio devono essere rimossi ostacoli e
interferenze esterne, a partire dall’inflazione. Questo
è lo scopo principale degli Stati e delle Banche Centrali. Cosa non dicono = Il ruolo dello Stato in economia non può
essere solo quello di guardiano dell’inflazione. L’instabilità dei mercati è
strutturale e può manifestarsi anche in contesti in cui tutto, inflazione
compresa, sembra essere sotto controllo. Il mito dell’efficienza del
mercato lasciato libero di esprimersi sulla base delle sue logiche implica che
l’inflazione (quella derivante da ragioni esogene,
esterne, al mercato)
debba essere tenuta sotto costante controllo. Lo Stato che il neoliberismo
vorrebbe assente dalla scena economica esattamente questo deve fare. Che alti
livelli di inflazione (iperinflazione) siano di grave danno
per l’intera società è dato risaputo, ma se è quindi giusto tenere sotto
controllo il tasso di inflazione, un eccesso di politiche antinflazionistiche può
fare più male che bene. La storia delle economie dimostra inoltre che un quadro
macroeconomico sotto controllo da solo non basta ad evitare turbolenze sui
mercati (studi dimostrano che,
a partire dagli anni Novanta, seppure in presenza di forti politiche
antinflazionistiche non sono mancate forti crisi finanziarie e produttive) Non dicono
cioè
che tassi di inflazione moderata non sono così pericolosi e che l’ossessione neoliberista
di tenerli sotto ferreo controllo va a scapito di adeguate attenzioni ad altre fondamentali componenti economiche a
partire dal tasso di occupazione
Cosa 7 = Le politiche liberiste raramente
rendono ricchi i paesi poveri
Cosa dicono = Le politiche
neoliberiste della globalizzazione hanno innescato trasformazioni positive per
tutti i paesi. Cosa non dicono = Il miglioramento del quadro economico
globale, e delle condizioni di vita in molti paesi, ha ben altre spiegazioni e
semmai le politiche neoliberiste sono state di freno. Il teorema
neoliberista di apertura totale dei mercati internazionali e nazionali non
spiega come in molti casi il progresso economico si sia al contrario realizzato
grazie a politiche opposte di protezione del mercato interno. (Ne
sono clamoroso esempio proprio gli USA, il paese più protezionista del mondo
durante tutta la sua ascesa economica dal 1830 al 1940, e oggi patria della
corrente neoliberista più forte e agguerrita, quella di Milton Friedman e dei
Chicago Boys).
Non dicono che per lo sviluppo economico dei paesi ex coloniali, là dove è avvenuto,
una iniziale fase di protezione dell’economia nazionale è stata fondamentale (come
per gli USA) per
creare una struttura di base indispensabile per meglio inserirsi nel mercato
globale. Invece là dove questo iniziale consolidamento interno non è avvenuto (ad
es. molti paesi dell’America Latina e dell’Africa subsahariana) con l’arrivo della
globalizzazione il progresso economico è stato decisamente inferiore
Cosa 8 = Il capitale ha nazione
Cosa dicono = la
globalizzazione ha ormai imposto un modello di impresa “trans-nazionale”, le
politiche economiche dei singoli Stati non lo devono contrastare. Cosa non dicono =
la
sola “nazionalità” non è sufficiente a determinare efficienza e solidità delle
attività economiche, ma ignorarla del tutto è ancora oggi un forte rischio. E’
dato acquisito la recente profonda modifica della struttura aziendale
“standard” (si parla ovviamente di grandi imprese che operano su scala
molto vasta), che
è cambiata nella sua articolazione (direzione in un paese, sede legale
in un altro, sede fiscale in un altro ancora, e così via), nella dislocazione
degli impianti di produzione e della connessa filiera, nella diversificazione
dei settori di produzione. Di norma resiste ancora un legame forte con la
nazionalità di origine per quanto concerne la provenienza degli alti dirigenti
e la locazione delle attività di ricerca e sviluppo. Non dicono quindi che se lo
sguardo è rivolto al mondo intero, mente e cuore restano connessi con il paese
di nascita. In questo quadro di congiunte disarticolazioni strutturali e legami
nazionali non trovano senso né chiusure protezionistiche né totale fiducia
sulle motivazioni ultime delle imprese. La trans-nazionalità delle imprese
richiede, proprio per la sua natura, attente politiche di controllo sul
fenomeno basate, più che su autolesionistiche barriere e impossibili divieti, su
una intelligente valorizzazione dei legami di nazionalità che ancora mantengono
un loro rilevante ruolo
Cosa 9 = Non viviamo in un’epoca
postindustriale
Cosa dicono = l’Occidente sta
ormai completando il passaggio dalla tradizionale economia manifatturiera (prodotti fisici) a
quella innovativa dell’economia immateriale (servizi), un processo inarrestabile che
progressivamente diverrà globale. Cosa non dicono = Il fatto che buona parte del lavoro si svolga in uffici e negozi
non basta per dire che la manifattura è superata! Certo il suo peso sul PIL è
proporzionalmente meno rilevante, ma questo non vuol dire che non resti una
componente economica fondamentale (la crescita della quota percentuale
dei servizi in occidente ha peraltro diverse spiegazioni: l’esternalizzazione
delle attività di servizio, la concorrenza internazionale su molti prodotti a
costi più bassi, la riduzione dei prezzi grazie alle economie di scala, hanno
ridotto il valore economico della produzione di manufatti, non la sua
consistenza quantitativa). Ciò vale in particolare per i paesi in via di sviluppo
che tanto sono concorrenziali sul piano di buon parte della manifattura quanto sono
ancora deboli nell’offerta dei servizi (la Cina sta
sicuramente pilotando la sua economia anche verso l’immateriale, ma per intanto
continua a sommergere il mondo intero di manufatti, di alta e bassa gamma). Se per molti
aspetti sembra comunque inarrestabile, sul lungo periodo, la tendenza ad una
economia “leggera” (più servizi meno manifattura) non ci dicono però
che: la produttività nei servizi procede più lentamente (i
margini di efficientamento sono più bassi), è meno performante la loro
esportazione (quantomeno per molte tipologie di
servizio, come quelli alla persona), la percentuale dei servizi sul PIL non può
superare una certa soglia (i beni primari, intesi in senso
lato, non sono eliminabili).
Cosa 10 = Gli Stati Uniti non hanno il tenore
di vita più alto del mondo
Cosa dicono = Il benessere
diffuso americano è la migliore dimostrazione della validità del libero mercato
(di cui gli USA sono gli alfieri). Cosa non dicono = Se si prendono in considerazione tutti gli elementi che, oltre
al solo potere di acquisto, formano un “reale” benessere non è vero che negli
USA si vive meglio. Gli
USA non sono il paese più ricco del mondo, diversi paesi europei hanno un
reddito pro-capite (PIL diviso per numero abitanti) più alto, e non
hanno una buona posizione in diversi indicatori di benessere (salute,
età media di vita, criminalità, ad es). Vero è che il consumatore americano (quello
che può permetterselo) possiede molte merci, si tratta di però di capire se è
meglio il modello di vita USA “più beni materiali meno tempo libero” o quello
europeo “meno
beni materiali e più tempo libero”. Non dicono soprattutto che
l’apparente maggior benessere americano [in gran misura
sostenuto da un tasso di cambio internazionale (il prezzo di una moneta in
termini di un’altra moneta), ancora e sempre calcolato in dollari americani] va rapportato al
reddito medio pro-capite, e quello USA hanno il più alto indice di
disuguaglianza (molto reddito posseduto dalle fasce
più alte)
fra i paesi ricchi.
Cosa 11 = L’Africa non è destinata al
sottosviluppo
Cosa dicono = L’ Africa è
destinata al sottosviluppo. La condannano fattori climatici e geografici,
ragioni geopolitiche e culturali. Cosa non dicono = L’Africa non è sempre stata indietro nello sviluppo economico. La
sua natura e la sua storia non sono una condanna non risolvibile, il problema è
“politico”, se cambia la politica del mondo verso l’Africa il suo futuro può
cambiare. I
fattori climatici e geografici che la penalizzano possono essere affrontati
disponendo di tecnologie, istituzioni e pratiche gestionali, ossia politiche adeguate.
Fino alla fine degli Settanta il tasso di sviluppo africano era relativamente
buono, possibile che solo dagli anni Ottanta in poi i suoi fattori frenanti siano
diventati così penalizzanti? Non dicono che è proprio dagli anni Ottanta, con
l’imposizione di politiche di liberalizzazione forzata ai commerci di
ispirazione neoliberista, che l’economia africana, ancora fragile e non
strutturata, è stata travolta da una concorrenza per la quale non era
preparata. Le speranze maturate nel secondo dopoguerra con la definitiva fine
del colonialismo classico, di una uscita dallo sfruttamento estero sono così
presto svanite. L’Africa, le sue risorse naturali e umane, restano terra di
conquista. E quindi la spiegazione del suo attuale sottosviluppo è solo
politica, e sta in capo all’Occidente ricco
Cosa 12 = Gli Stati sanno puntare su imprese
vincenti
Cosa dicono = Lo Stato non ha
le competenze per prendere decisioni imprenditoriali valide. E anche quando
punta a sostenere imprese private sbaglia perché le motivazioni non sono
imprenditoriali, ma quasi sempre di salvataggio di imprese decotte Cosa non dicono = Se ci guardiamo
intorno con sguardo imparziale vediamo che non sono pochi, anzi, i casi in cui
gli Stati sanno puntare su imprese vincenti.
Al di là della funzione di un buon numero di Stati nel
promuovere/sostenere (con commesse mirate ad es.) le industrie di
base nelle prime fasi di sviluppo capitalistico è noto che ai nostri giorni è
fondamentale il ruolo, diretto e indiretto dello Stato, in molti settori
produttivi di alto livello (ad es. aereospaziale,
semiconduttori, biotecnologie). Non dicono in particolare che lo sviluppo
tecnologico ha alzato così tanto l’asticella degli investimenti (soprattutto
per ricerca e innovazione) per avviare nuove produzioni o ottimizzare quelle già
attive che è ormai pressochè obbligatoria una stretta sinergia tra imprese
private e settore pubblico.
Cosa 13 = Rendere i ricchi ancora più ricchi
non rende tutti più ricchi
Cosa dicono = La ricchezza
prima di essere distribuita va creata, sono i ricchi che investendo la creano.
Più sono ricchi, più possono investire, più si crea ricchezza per tutti. Cosa non dicono = Al di là del
dibattito teorico è la realtà che smentisce questa idea (conosciuta
come “trickle-down economics, ricchezza che “cola” dall’alto): dopo trent’anni e più di politiche a
favore dei ricchi l’economia “di tutti” non è per nulla cresciuta, anzi. Non
dicono cioè che averne dato la fetta ben più grossa ai ricchi non ha fatto
crescere la torta della ricchezza generale. Non solo: sempre la storia attesta
che il periodo (il secondo dopoguerra) in cui in Occidente
la tassazione dei redditi più alti toccò i suoi massimi è, non a caso, coinciso
con la maggior crescita di ricchezza diffusa. Non dicono allora che dare più
ricchezza ai ricchi (in aggiunta al fatto che, come la
storia dimostra, esistono altre soluzioni ben più efficaci), non ha senso se
non è finalizzata, mediante precisi indirizzi e controlli, ad un effettivo
aumento degli investimenti. Non solo: questi investimenti devono essere
“produttivi” e non essere indirizzati a speculazioni finanziarie (il
finanzcapitalismo di Luciano Gallino: denaro che crea altro denaro)
Cosa 14 = I manager americani sono pagati
troppo
Cosa dicono = Gli altissimi
stipendi dei top-manager, soprattutto americani e inglesi, sono giustificati
dalle leggi di mercato. Se si vuole il meglio bisogna pagarlo adeguatamente Cosa non dicono = Sono stipendi esageratamente alti in
diversi sensi: del tutto sproporzionati rispetto a quelli dei loro predecessori
che pure hanno garantito risultati persino migliori, fuori mercato rispetto
alla media globale, del suo già alta, dei dirigenti di alta fascia eppure incredibilmente
garantiti anche in caso di insuccesso. Retribuzioni che mediamente
valgono 300/400 volte quelle di un lavoratore medio (fino agli anni
Settanta valevano “solo”30/40 volte tanto) non hanno nessuna giustificazione
nelle stesse leggi di mercato. Nessuno di questi top-manager ha ottenuto, e
nessuno potrebbe farlo, risultati di bilancio proporzionati. Non dicono quindi
che ai livelli alti della classe dirigente si è ormai formata una sorta di “casta”
che “occupa”
buona parte dei consigli di amministrazione delle più grandi aziende e che
auto-determina i propri livelli di retribuzione (il caso più assurdo è
che in caso di insuccesso gestionale, e sono ormai molti, vengono “liquidati”
con incredibili buonuscite, fissate e garantite a priori nel contratto di
assunzione)
Cosa 15 = I paesi poveri sono più
intraprendenti di quelli ricchi
Cosa dicono = Le differenze di
crescita economica fra gli Stati sono in gran misura determinati dal diverso
spirito imprenditoriale. Quello dei paesi ricchi è molto più agguerrito di
quello dei paesi poveri Cosa non
dicono = Ciò
che rende i paesi poveri sempre più poveri non è la mancanza di vitalità
imprenditoriale, ma il peso della storia fatto di assenza di tecnologie
adeguate, di organizzazioni sociali sviluppate, e quindi di aziende
concorrenziali. La gente comune è
molto più intraprendente nei paesi poveri che in quelli ricchi, se vuole
sopravvivere deve esserlo. Questa vivacità imprenditoriale avrebbe le
potenzialità per essere il motore di uno sviluppo, ma su di essa pesa troppo l’arretratezza
del quadro economico e la mancanza di adeguate risorse finanziarie, se compressa
a livelli bassi di fatturato non può cioè innescare da sola un volano di
sviluppo sufficientemente forte (il cosiddetto “microcredito” resta
una forma di finanziamento da sopravvivenza inadeguato per un vero salto di
qualità).
Ma soprattutto non dicono che, nell’attuale mercato globale, il miglior spirito
imprenditoriale non è sufficiente se si esprime a livello individuale, quello
che serve è la crescita di imprese collettive. L’imprenditore “eroico” non è
più adeguato in un quadro economico fatto di processi complessi di natura collettiva.
Una realtà difficile da accettare per una teoria economica basata “sull’individuo
imprenditore di sé stesso”
Cosa 16 = Non siamo abbastanza intelligenti da
lasciar fare al mercato
Cosa dicono = Il mercato, se
lasciato libero, per funzionare al meglio ha bisogno che la razionalità
economica dei suoi soggetti non venga incanalata in certe direzioni dalla
politica Cosa
non dicono = Non esiste una razionalità economica così compiuta da non
aver bisogno, specie in un mondo sempre più complesso, di un quadro fatto anche
di regole entro il quale muoversi. Immaginare
l’attuale mercato come un terreno nel quale i soggetti economici “si
incontrano” e trovano un equilibrio grazie alla libera espressione della loro
razionalità economica (la mano invisibile del mercato di
Adam Smith)
è vivere fuori dal mondo. Innanzitutto l’uomo in generale non è per nulla fatto
di sola razionalità ed anzi nei suoi comportamenti, quelli economici compresi,
è alta la componente di irrazionalità. Ed è proprio questa la ragione per la
quale, per ridurre la varietà e la complessità delle scelte che possono essere
compiute anche irrazionalmente, che occorre un sistema di regole, in economia
come in ogni ambito sociale, che limitino entro spazi definiti la libertà di
scelta. Restando in economia la crisi finanziaria del 2007/2008 è stata la
dimostrazione più chiara dei rischi che si corrono senza un sistema di regole.
A ben vedere non dicono che abbiamo bisogno di regole proprio perché non siamo
abbastanza intelligenti (razionali)
Cosa 17 = Più istruzione non rende un paese più
ricco
Cosa dicono = Una forza lavoro
ben istruita è fondamentale per lo sviluppo economico. La differenza tra paesi
ricchi e paesi poveri si spiega per il differente livello di istruzione, che,
specialmente quella universitaria, è la vera chiave della prosperità Cosa non dicono = Non ci sono
prove che più istruzione equivalga a più prosperità. Molta della conoscenza
fornita dall’istruzione non è determinante per il suo aumento. Premesso che l’istruzione è preziosa per la sua
capacità di potenziare le potenzialità individuali e di avere una migliore
nozione del mondo e della vita, la sua effettiva capacità di migliorare la
produttività e quindi di produrre maggiore ricchezza, è in buona misura un
mito. Ci sono scarse prove in tal senso ed anzi molte evidenze vanno in senso
contrario (il miracolo economico dell’Asia Orientale è esploso con
livelli di istruzione molto bassi, altri paesi con un livello molto più alto
come l’Argentina da decenni non riescono a crescere. La stessa Africa
subsahariana evidenzia che, seppure a fronte di massicci investimenti sul tasso
di alfabetizzazione, il reddito pro-capite resta in costante diminuzione). Sembra quindi possibile
sostenere che l’istruzione di per sé stessa non abbia un ruolo così importante
in economia (perché molte materie che la
compongono non hanno una relazione diretta con i processi economici, perché le
materie che di più la possiedono da sole non hanno un impatto diretto sul
lavoro, perché l’istruzione davvero finalizzata al lavoro la si impara sul
lavoro, perché molta conoscenza produttiva è ormai incorporata nelle macchine,
perché nelle economia altamente tecnologizzate gran parte dei nuovi lavori non
richiedono istruzione ). Non dicono quindi che ciò che distingue i paesi ricchi
da quelli poveri non è tanto il livello di istruzione del singolo individuo, ma
come gli individui sono organizzati in entità collettive (imprese
grandi e piccole)
ad alta produttività
Cosa 18 = Quello che è buono per la General
Motors non sempre è buono per gli Stati Uniti
Cosa dicono = Le imprese sono
il cuore del mercato, sono loro che creano lavoro, ricchezza, sviluppo
tecnologico. Quello che è buono per loro
è perciò buono per l’economia nazionale. A patto che sia loro permesso di
muoversi sul mercato con la massima libertà Cosa
non dicono = Malgrado la loro centralità lasciare alle imprese la massima libertà
può non essere buono neppure per loro stesse e tanto meno per l’economia
nazionale. 1953 Charlie Wilson (ex amministratore
delegato della GM appena nominato ministro della difesa) in un discorso al
Congresso ebbe modo di dire che “quello
che è buono per gli USA è buono per la General Motors e viceversa”. Nel
2009 al termine di un lungo calvario fatto di gravissimi errori manageriali la
General Motors è fallita. L’averla lasciata totalmente libera di muoversi sul
mercato ha cancellato centinaia di migliaia di posti di lavoro e danneggiato
pesantemente l’economia americana. Dall’altra parte dell’Oceano negli stessi
anni della lunga crisi della GM nella Corea del Sud agli inizi della sua espansione
economica vigevano regole che, per aprire una nuova fabbrica, imponevano 299
permessi rilasciati da 199 agenzie diverse (in Italia al confronto
siamo dei dilettanti!), ciononostante il boom sudcoreano (e
allo stesso modo quello dell’intera Asia Orientale) è proseguito a
ritmi impressionanti. I due differenti percorsi si spiegano con la semplice
constatazione che i decisori aziendali se hanno buone prospettive di guadagno
si fanno una ragione dei 299 permessi, se prevedono margini risicati di ritorno
economico si lasciano spaventare anche solo da 29 permessi. Non dicono che alla
fine quello che conta non è la quantità delle regole, ma la loro qualità
Cosa 19 = Malgrado la caduta del comunismo
viviamo ancora in economie pianificate
Cosa dicono = Nelle attuali
economie complesse ogni idea di pianificazione, per quanto più timida di quella
sovietica, non è sostenibile. La politica deve abbandonare l’illusione di poter
pianificare ogni aspetto dei processi economici e lasciare il compito alle
imprese. Meno pianificazione c’è meglio è. Cosa
non dicono = Le economie capitalistiche a tutti gli effetti sono in larga misura
pianificate. Quella statale interviene per ottimizzare le attività di supporto (infrastrutture, ricerca e innovazione), quella privata, specie delle grandi
imprese, pianifica in modo molto dettagliato ogni sua singola attività. L’idea della
pianificazione economica deriva direttamente dal pensiero marxista e dalla
constatazione della necessità di superare, tramite di essa, la contraddizione
tra sviluppo interconnesso della produzione e la proprietà privata che rende
impossibile un loro efficace coordinamento (nel pensiero
neoliberista tale coordinamento è garantito, per incanto, dal mercato). L’esasperazione
sovietica della pianificazione (tradotta nell’eccesso burocratico di
programmare ogni singolo dettaglio economico) non ha certo deposto a suo favore.
Ma è rimasta, al di là dei proclami contrari, una prassi consolidata anche
nelle economie capitalistiche avanzate, soprattutto nelle forma di
“pianificazione indicativa” (si pianificano solo le attività
macroeconomiche).
Non dicono quindi che quella che viene poeticamente definita “visione
imprenditoriale” altro non è che una programmazione mirata su tempi
lunghi indispensabile in una economia globalizzata e sempre più interconnessa.
Cosa 20 = L’uguaglianza di opportunità può non
essere equa
Cosa dicono = Contro l’ideale
di superare le disuguaglianze socio-economico il neoliberismo ha attuato una
campagna di denuncia del soffocamento del “merito” fatto in nome
dell’uguaglianza dei punti di arrivo Cosa non dicono = C’è uguaglianza e uguaglianza, quella che
l’interesse collettivo e individuale deve promuovere è quella delle opportunità
di partenza. Un concetto che però è tanto facilmente condivisibile quanto
complicato da concretizzare. Non è da molto, in pratica dal secondo
dopoguerra, che globalmente sono state adottate concrete politiche per il
superamento degli ostacoli (in molte culture sancito dalla
appartenenza di casta) che impediscono la scalata sociale (il
famoso “ascensore sociale”) a “persone di talento nate però da genitori sbagliati”.
Occorre riconoscere che le logiche di mercato, che mirano all’ottimizzazione
dei profitti tramite il miglior utilizzo razionale delle risorse disponibili
personale compreso, molto hanno aiutato nel superare pregiudizi di razza, di
ceto, di appartenenze culturali. Ma molto resta ancora da fare per andare oltre
la generica uguaglianza formale di opportunità. Non dicono che puntare a pari
opportunità “reali” di fatto significa intervenire su tutte le componenti
sociali ed economiche che concorrono a dotare l’individuo di uguali strumenti
di sviluppo delle proprie doti (ad es. garanzie di adeguato reddito
di partenza, accesso a percorsi paritari di istruzione e formazione, livelli
comuni di assistenza sanitaria). Non è una coincidenza che i più alti
livelli di mobilità sociale (l’ascensore) si registrano nei
paesi con migliore stato sociale (welfare), proprio quello che
il neoliberismo vuole abbattere rendendo così demagogico e strumentale il suo richiamo
al merito.
Cosa 21 = Uno stato sociale più generoso rende
la gente più aperta al cambiamento
Cosa dicono = La ragione
ideologica usata dal neoliberismo contro lo stato sociale consiste nel
ritenerlo un limite al cambiamento e al progresso. La protezione che offre,
garantendo una sorta di posizione di rendita, è un disincentivo
all’adattamento, individuale e collettivo, alle trasformazioni del mercato Cosa non dicono = Uno stato sociale ben strutturato in modo
efficiente in realtà può essere, garantendo forme di equo sostegno, di
incoraggiamento al rischio, al mettersi in gioco, alla disponibilità al
cambiamento. Uno dei tratti
caratteristici delle attuali economie avanzate è la forte insicurezza del posto
di lavoro. Sono ben poche le professioni che, non essendo investite dai
costanti cambiamenti tecnologici e dalle politiche neoliberiste di
liberalizzazione dei mercati, offrono una qualche garanzia di impiego certo a
lungo termine. La soluzione neoliberiste punta ad accrescere la concorrenza sul
mercato del lavoro e critica forme di assistenza e sussidio ai disoccupati che
affievoliscono la disponibilità a mettersi in gioco “dell’individuo imprenditore di sé stesso”
(uno
dei capisaldi ideologici neoliberisti). Non dicono però che l’insicurezza del
posto di lavoro, nei paesi senza le coperture del Welfare, di fatto accentua
l’attaccamento al settore lavorativo in cui già si lavora ed è quindi un fattore di resistenza ai processi di cambiamento.
Allo stesso modo non dicono che il fatto di poter contare su forme di
assistenza in caso di perdita del posto di lavoro è invece un buon incentivo ad
assumere qualche calcolato rischio nella scelta della professione. Il raffronto
fra economie a trazione neoliberista con quelle con forme di welfare evidenzia,
a conferma di ciò, che un diffuso stato sociale non è per nulla incompatibile
con i tassi di crescita economica ed è anzi un forte incentivo dinamico
Cosa 22 = I mercati finanziari devono essere meno efficienti
Cosa dicono = L’efficienza dei mercati finanziari è, a maggior ragione
in una economia globalizzata, la chiave della ricchezza di un paese. I
risultati ottenuti negli ultimi decenni lo confermano. Bloccarli, metterli
sotto controllo è una scelta errata e controproducente Cosa non dicono = E’ vero: i mercati finanziari oggi sono
molto efficienti e performanti. Troppo però. Si è creata una forbice troppo
ampia tra la velocità della loro crescita e quella dell’economia reale, il
rischio di “bolle” speculative è quindi molto alto. Le politiche
neoliberiste mirate a favorire la crescita economica anche grazie alla totale
deregolamentazione finanziaria (iniziate negli USA e nel Regno
Unito e poi adottate in quasi tutti i paesi dell’Occidente ed in buona parte in
quelli del Sud globale) hanno in effetti garantito una impressionante crescita
dei profitti (tale da innescare una
“finanziarizzazione” spinta anche dello stesso settore manifatturiero) anche grazie
all’invenzione di prodotti finanziari tanto innovativi quanto rischiosi (spiccano
i famosi “derivati”, a suo tempo definiti da Warren Buffet , noto finanziere
americano, “armi di distruzione finanziaria di massa). Non dicono che
questa euforia (che la crisi del 2008, dalla quale
ancora si stenta ad uscire, ha di molto ridimensionato) ha però prodotto
due effetti collaterali molto negativi: il primo è la forbice con l’economia
reale di cui si è detto, il secondo consiste nel fatto che la redditività (per
quanto rischiosa)
degli investimenti finanziari (denaro che crea denaro) ha sottratto troppe
risorse per quelli a fini produttivi (denaro che produce merci che
producono denaro)
ampliando a dismisura tale forbice. Al di là della sconvolgente concentrazione
di ricchezza in poche mani che tutto ciò ha comportato, e restando concentrati
sulla efficienza di una economia di mercato, diventa indispensabile intervenire
con limitazioni mirate sulla eccessiva (e rischiosa) efficienza
redditizia dei mercati finanziari (James Tobin, Nobel per l’economia
del 1981, inventore di una tassazione specifica sui profitti finanziari, così
la giustificava: “occorre gettare un po’ di sabbia nello loro ruote”). A tutt’oggi ben poco è però cambiato.
Cosa 23 = Una buona politica economica non ha
bisogno di bravi economisti
Cosa dicono = L’economia, ed in particolare quella che poggia su un
libero mercato, è un’autentica scienza che impone di conseguenza metodi
scientifici per essere gestita e quindi tecnici capaci di usarli al loro
meglio. A maggior ragione la politica dovrebbe astenersi dal mettere mano alla
materia ed affidarsi a loro Cosa non dicono = Non sono così indispensabili i “bravi
economisti”, gran parte dell’imprenditoria di successo non era composta da
economisti, e non lo erano molti dei politici che hanno, ovunque, attuato
politiche economiche vincenti. E se mai ’economia fosse davvero una scienza ne
occorrerebbe una molto diversa da quella neoliberista. Le esperienze
concrete di brillanti crescite delle economie in tutte le epoche, e ovunque nel
mondo, attestano che per governare tali positivi processi è indispensabile una
visione complessiva della società e del contesto storico in cui essi avvengono
ben più di una conoscenza economica specialistica. Non per nulla John Kenneth
Galbraith (da molti addetti ai lavori considerato il più brillante
economista del XX secolo) affermava testualmente che “le scienze economiche sono estremamente
utili come forma di impiego degli economisti”. I quali, nella loro
ultima versione neoliberista, hanno dimostrato quanto poco di scientifico ci sia
nelle discipline economiche quando dopo aver sostenuto, naturalmente su basi
scientifiche, che tutto in economia procedeva bene sono stati clamorosamente
spiazzati dalla crisi del 2007/2008 (la più grave in assoluto dopo quella
della Grande Depressione del 1929, e per la quale non hanno saputo trovare
spiegazioni)
al cui verificarsi avevano non poco contribuito. Certo esistono scuole di
pensiero economico di diverso orientamento (quella keynesiana ad
esempio che, grazie proprio all’esperienza del 1929, ha fornito indicazioni
preziose per tenere sotto controllo quella del 2007/2008) ma quello che non
dicono è che sui processi economici incide una così ampia varietà di fattori (politici,
culturali, geopolitici, psicologici individuali e collettivi, geografici e
ambientali, per dirne alcuni) da rendere molto fragile la presunta
scientificità delle teorie economiche e a cascata anche il ruolo, che resta comunque utile, degli economisti.
Conclusioni:
Come Winston Churchill disse a proposito
della democrazia Ha-Joon Chang è allo stesso modo convinto che “il capitalismo
è il peggior sistema economico eccezion fatta per tutti gli altri”.
Ma è e resta un meccanismo sociale ed economico molto ingiusto e fragile che va
regolato e guidato. Ci sono molti modi per farlo e quello proposto dal
neoliberismo, solo uno fra i tanti, poggia, come dimostrano le 23 cose, su
ipotesi ideologiche fallaci, molto discutibili, che accentuano i suoi difetti
di ingiustizia e fragilità. Eppure dopo decenni di evidenti insuccessi e
profonde contraddizioni resta tuttora il modello economico, e sociale, dominante.
Occorre allora agire concretamente per contrastarlo e sostituirlo con un
modello più efficace nel rispondere all’esigenza di profonde modifiche imposte
dall’attuale stato delle cose. Le 23 considerazioni “per pillole” non sono certo sufficienti e adeguate, ma quantomeno
dal loro insieme emergono alcuni principi utili per immaginare e costruire un
sistema economico alternativo
Ø basato sul
presupposto che la razionalità umana è molto limitata e molto condizionata
Ø che punti,
incentivandole, sulle doti sociali umane migliori, e non su quelle peggiori che
esaltano egoismo ed eccessivo interesse privato
Ø capace di definire
un sistema di retribuzioni non esclusivamente fondato sul merito
Ø in grado di
rivalutare la produzione di cose, la manifattura
Ø orientato ad un
migliore equilibrio tra economia finanziaria e economia reale
Ø in cui lo Stato,
l’interesse pubblico, abbia un ruolo più ampio ed attivo
Ø finalizzato a
correggere l’ingiusta differenza fra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo, e
al loro interno fra classi ricche e classi povere
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