Diversamente da tutte quelle precedenti non è stato possibile registrare la relazione del prof. Giuseppe Gabusi tenuta Mercoledì scorso con tema "La Cina al centro del cambiamento globale". Ne siamo particolarmente dispiaciuti perchè è stata una relazione molto chiara e approfondita sulle attuali dinamiche geopolitiche che ha ben coinvolto i partecipanti viste le tante domande di approfondimento che sono seguite. Come rimedio, molto parziale, pubblichiamo una intervista, di pochi giorni addietro, al prof. Gabusi che quantomeno riporta alcuni dei punti affrontati nel suo intervento.
La Cina
punta alla leadership del Sud globale, un altro ordine mondiale
Intervista di Pier Paolo Luciano a Giuseppe Gabusi pubblicata in data 14 Aprile 2023 nella rivista
online “mondoeconomico.eu”
Professore, Macron ha sbagliato a dire che gli europei debbono chiedersi se sia nell’interesse dell’Europa accettare le consegne altrui (leggi Stati Uniti) su Taiwan?
Terrei
distinti i due aspetti, Taiwan e il rapporto con gli Stati Uniti. Su Taiwan,
non mi risulta che esistano differenze di posizione formale tra Washington e
l’Europa: tutti concordano sul principio di “una sola Cina”, ritengono che la
questione vada risolta per via pacifica, e intrattengono rapporti economici con
l’isola, ospitando nelle proprie capitali uffici commerciali di rappresentanza
che, se nominati diversamente, possono creare problemi con Pechino (vedi alla
voce: Lituania). Ciò detto, l’idea macroniana dell’autonomia strategica europea
è da tempo in circolazione, e si inserisce in una certa tradizione francese di
non condivisione di tutte le scelte dell’alleato americano (si pensi alla
“politica della sedia vuota” in ambito Nato, o al mancato sostegno nella
seconda Guerra del Golfo). Calato nel contesto delle tensioni sullo Stretto di
Taiwan, Macron voleva forse dire che l’Europa non si sente obbligata a
difendere Taiwan, qualora Pechino attaccasse. Formulato nel pieno delle nuove
esercitazioni militari che simulano un blocco totale dell’isola, questo
commento si è tradotto in una gaffe diplomatica che ha mobilitato – a suon di
smentite e distinguo – le cancellerie occidentali. L’Europa in generale sembra
avere un atteggiamento più equilibrato e meno istintivo, ma non può ritenere
che la questione di Taiwan non la riguardi: quest’area infatti, se la situazione
sfugge di mano, potrebbe essere il punto di innesco di una guerra mondiale. E
mi meraviglia che Macron sostenga l’estraneità del quadrante alla sicurezza
europea: proprio la Francia, infatti, dovrebbe preoccuparsi più di altri, visto
che Parigi ama sottolineare di essere l’unico “resident power” tra gli stati
membri dell’Unione, grazie ai territori d’oltremare della Nuova Caledonia e
della Polinesia francese.
Lei da esperto di cose asiatiche ritiene che Macron – a parte gli
importanti contratti per le aziende francesi – abbia ottenuto qualche risultato
sul fronte della pace in Ucraina da Xi Jinping?
Non può
ottenere nulla, finché Xi Jinping tiene il punto sull’Ucraina per resistere
alle pressioni e sanzioni economiche di Washington che mirano al contenimento
della Cina. Persino il modesto risultato atteso – la promessa di una telefonata
a Volodymyr Zelens’kyi – è stato annacquato dall’inciso “quando sarà il momento
opportuno”. Molto pragmaticamente, Pechino ritiene che né Kyiv né Mosca siano
pronte per la pace, e quindi pensa che la situazione sul campo sarà
determinante per stabilire le condizioni che porteranno alla tregua.
A quale ruolo punta secondo lei Pechino nella guerra della Russia
all’Ucraina?
Al ruolo di
capofila di una serie di Paesi del “Sud Globale” (inclusa, a questo punto, la
Russia) che, pur essendo imbarazzati dalla cruda violazione del principio di
integrità territoriale e dalla realtà di una guerra di annessione che
appartiene a epoche passate, non vogliono essere coinvolti in un conflitto
coloniale tutto interno all’Europa. Anche in questo caso la storia conta:
quando gli indiani pensano a Londra, probabilmente ricordano i soldati inglesi
che spararono sulla folla ad Amritsar nel 1919, più di quanto pensino ai
diritti proclamati nella Magna Charta. Con la scelta di avvicinarsi a Mosca,
Pechino segnala che un altro ordine mondiale, non basato sull’egemonia
americana e dell’Occidente, è possibile: un ordine, ovviamente, che rispetti le
specificità dei singoli stati, incluso naturalmente il monopolio del potere del
Partito Comunista Cinese nella Repubblica Popolare, e un diverso modo di
concepire i rapporti tra stato e individuo, tra istituzioni e comunità.
Crede che la Cina oserà oltrepassare la linea rossa di Washington, cioè
la fornitura di armi a Mosca?
Ufficialmente,
credo di no. Il problema è che, grazie anche alle catene globali del valore,
esistono mille modi per gli operatori privati di aggirare confini, sanzioni,
veti governativi, e di fare affari. L’industria delle armi è più che mai
fiorente, e non sarei sorpreso di trovare – anche grazie a impensabili
triangolazioni – tracce di tecnologia “dual use” cinese – o di qualsiasi altra
provenienza – tra le file sia ucraine sia russe.
La presidente della commissione europea von der Leyen durante la visita a
Pechino si è fatta interprete di una linea più articolata rispetto agli
Stati Uniti sulla Cina. Ha voluto insomma tenere una porta aperta?
Dal 2019,
come ormai noto, l’Ue definisce ufficialmente la Cina un partner negoziale, un
concorrente economico e un partner strategico. Si tratta, in effetti, di una
posizione più articolata rispetto all’ossessione anti-cinese che caratterizza
l’intero spettro della politica americana, ma è anche vero che non è facile per
l’Europa trovare un equilibrio tra posizioni antitetiche. La linea europea oggi
è più ferma e franca, e sembra prendere atto della realtà: la Presidente della
Commissione ha infatti ricordato di recente che l’accordo sugli investimenti
firmato con la Cina dovrà essere ripensato e rivisto, perché nella situazione
attuale il Parlamento europeo non ratificherà un trattato di libero scambio con
un Paese che adotta sanzioni contro i propri membri.
Proprio von der Leyen ha detto che il decoupling non è nell’interesse di
Bruxelles, ma sarà questo il nuovo campo di battaglia tra Cina e Stati Uniti?
Non credo a
un disaccoppiamento dell’economia globale in due blocchi totalmente distinti,
perché la Cina è parte integrante dell’economia mondiale ed estrometterla
significherebbe farsi del male, come sanno appunto gli imprenditori tedeschi e
francesi che hanno accompagnato Scholz e Macron nei loro rispettivi viaggi di
stato a Pechino. Tuttavia, la guerra tecnologica in atto sui microprocessori,
vista l’importanza di questi ultimi nella produzione di un’infinità di beni,
dagli smartphones alle automobili, potrebbe portare a qualche forma di frattura
nell’economia globale, soprattutto (ma non solo) nei settori a tecnologia
avanzata, dall’intelligenza artificiale al settore biomedicale. Il
problema di fondo, però, come ricordò il settimanale britannico “The Economist”
a suo tempo, è il seguente: è possibile un commercio senza fiducia? O dobbiamo
commerciare solo con gli alleati? O solo con le democrazie?
E vede il rischio che Europa e Stati Uniti diventino digitalmente
dipendenti dalla Cina di Xi?
Direi
piuttosto che siamo tutti dipendenti da Taiwan: le aziende taiwanesi producono
il 60% dei chip mondiali, e addirittura il 90% di quelli più avanzati. Più
seriamente, dal momento che il sistema retto dal partito-stato cinese può
permettersi forme di controllo della rete inimmaginabili per l’opinione
pubblica occidentale, credo che Europa e Stati Uniti abbiano già preso
contromisure, e la stessa von der Leyen ha espresso la necessità per l’Ue di
rafforzare la propria capacità innovativa in questi settori.
Sbaglia l’Occidente a non voler riconoscere un nuovo status alla
Cina nell’economia globale?
Mi sembra
che l’Occidente da anni abbia riconosciuto un certo status alla Cina
nell’economia globale: molti dirigenti delle aziende globali – a cominciare dai
colossi tedeschi delle auto, a cui il tessuto produttivo italiano fornisce
componentistica – sanno come oggi non si possa prescindere dal mercato cinese.
Il problema è il riconoscimento di un nuovo status politico, che l’Occidente
non è disposto a concedere facilmente a un Paese non democratico, estraneo alla
cultura liberale su cui si è retto l’ordine internazionale almeno dalla fine
della Seconda guerra mondiale. Per questo gli Stati Uniti mirano a volere
mantenere esplicitamente una “soverchiante superiorità” rispetto alla Cina.
Quanto questa operazione sia fattibile – e a quali costi – nella situazione
attuale è tutto da verificare.
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