giovedì 2 maggio 2024

La Parola del mese - Maggio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MAGGIO 2024

Non si tratta certo di un termine sconosciuto, d’altronde indica un tratto della natura umana da sempre presente e molto diffuso. Ma ci è sembrato interessante recuperarlo per proporlo come ”Parola del mese” perché a ben vedere ignoriamo molti suoi aspetti: il suo significato ultimo, le sue declinazioni, le sue ricadute che investono tutti gli aspetti del nostro vivere. Ebbene sì: al di là delle apparenze è decisamente grande la nostra ignoranza dell’

IGNORANZA

La sua scelta è stata inoltre suggerita dalla lettura di un saggio, tanto corposo e articolato quanto scorrevole ed intrigante

opera di Peter Burke

(storico inglese, professore di Storia Moderna presso l’Università di Cambridge, propugnatore della dimensione culturale della storia) Un curriculum che suona come esatto opposto di questa Parola, eppure è lo stesso Burke a mettere in evidenza come l’ignoranza presenti così tante articolazioni da coinvolgere, seppure con gradazione diversa, tutti quanti. Così sollecitati abbiamo recuperato, molto sinteticamente, alcune delle tante suggestioni che questo saggio offre per colmare almeno un po’ della nostra ignoranza dell’ignoranza

Questo testo analizza le accezioni di ignoranza ritenute le più significative sulla base di una nutrita raccolta di avvenimenti storici. Impossibile citarli in questo spazio che si limita a riportare, molto sinteticamente, i giudizi di fondo di Burke più utili allo scopo illustrativo di questa “Parola del mese”

Cos’è davvero l’ignoranza? = Il termine deriva dal latino ignorantiala cui traduzione letterale “mancanza di conoscenza”, completata da Burke come “assenza o privazione di conoscenza”, sembra a suo stesso giudizio troppo ampia e generica. Dedica quindi numerose pagine a declinare, con aggettivi che la specificano, alcune delle sue interpretazioni (raggruppandole, in coda al saggio, in una sorta di glossario che ne contiene ben cinquantanove!)  Ne abbiamo scelte solo alcune, quelle che di più ci sembra aiutino a capire come l’ignoranza non sia quasi mai un puro dato di fatto, ma sempre il risultato, la conseguenza, di scelte, più o meno consapevoli, di condizioni ed interessi esterni, del contesto storico, sociale e culturale. L’ignoranza, iniziando da quella individuale, può quindi essere:

*   genuina = la semplice assenza di conoscenza, già citata

*   attiva = genericamente il non voler sapere, che può evolvere in volontaria,  quando deliberata e intenzionale, fino a divenire, se ostinata, deliberata

*   passiva = il non sapere accettato supinamente

*   cosciente = sapere (e quindi già una forma di conoscenza) di non sapere. Esprime un sapere parziale che si arresta ad un limite percepito come non superabile

*   inconscia = non sapere di non sapere e quindi anche inavvertita. Se vista dalla parte della conoscenza diventa conoscenza tacita

*   colpevole = il rifiuto, più o meno consapevole, della conoscenza

*   inattesa = la scoperta di non sapere

*   incolpevole = non poter sapere

*   inevitabile = quella incolpevole ed anche insuperabile

*   pratica = il non saper fare

*   razionale = l’astenersi, per scelta deliberata, dal sapere, fino a divenire risoluta

*   selettiva = scegliere di ignorare ovvero scegliere cosa ignorare, diventa specifica quando si ignora, magari in buona fede, ciò che si ritiene irrilevante

*   intenzionale = quando deliberata e volontaria

*   utile = spesso inconscia, aiuta a non misurarsi con un sapere problematico

*   condivisa = tutte le precedenti forme di ignoranza quando sono comuni con altre persone

Quest’ultima chiama in causa l’ignoranza collettiva che, oltre ad esprimersi nelle stesse forme di quella individuale, può in aggiunta assumerne altre specifiche:

*   di classe = il non conoscere, per superficialità ma anche deliberatamente ed in modi stereotipati, la vera vita di altri ceti sociali

*   di razza = come quella di classe, ma rivolta verso altri popoli, altre etnie, altre culture

*   femminile = da intendere in un duplice modo: l’accusa di ignoranza degli uomini alle donne, storicamente maturata per la maschile incapacità e indisponibilità a misurarsi con un diverso modo di intendere la vita, e quella oggettiva del mondo femminile a lungo escluso dai saperi

*   maschile = quella precedente capovolta dal punto di vista femminile: l’accusa agli uomini di ignorare, deliberatamente e strumentalmente, il sapere delle donne

*   organizzativa = la mancanza di conoscenza presente in una data organizzazione (sociale, politica, economica, istituzionale, culturale, religiosa) che investe le relazioni tra i suoi diversi membri e livelli, per oggettiva mancanza  di adeguate comunicazioni, coinvolgimenti, per eccessi di burocrazia e formalismi

Tutte queste forme, individuali e collettive (sono quelle prevalentemente utilizzate da Burke per definire le specifiche ignoranze esaminate nel saggio) condividono un terreno comune, che le rende possibili, in buona misura costituito da atteggiamenti e comportamenti quali: ostacoli (fisici e culturali), dimenticanze, segretezze, negazioni, incertezze, pregiudizi, fraintendimenti e credulità. Burke dedica buona parte del suo saggio a far emergere questo retroterra al fine di evidenziare come l’ignoranza spesso non sia un dato di partenza, un gap superabile con il crescere delle conoscenze, ma piuttosto una condizione di arrivo che si è venuta a creare per ragioni tutt’altro che casuali e quindi più difficilmente risolvibili. A questa considerazione affianca una seconda constatazione: l’errata convinzione che il livello di ignoranza sia direttamente proporzionale alla scarsa disponibilità di dati, di informazioni, di conoscenze, (di norma quello che ogni epoca storica attribuisce a quelle precedenti). Lo attesta, a suo avviso, proprio l’epoca attuale giustamente ritenuta quella con la maggiore disponibilità di conoscenze, ma nella quale si constata che al contrario il livello di ignoranza è sempre più determinato non dal poco sapere, ma al contrario dal tanto sapere: via via che si accumulano montagne di conoscenza ci sono sempre più cose che ciascuno di noi non sa. Ciò premesso Burke è consapevole dell’impossibilità di una vera e propria storia dell’ignoranza, una disciplina che per essere minimamente credibile richiederebbe una ricostruzione completa dell’intera storia umana. E’ però possibile estrarre dal lungo percorso dell’umanità alcuni passaggi che di più aiutano a individuare le ragioni specifiche che l’hanno determinata e le conseguenze che da essa sono derivate, guidati dalla consapevolezza che l’ignoranza, così come la conoscenza, hanno una imprescindibile connotazione sociale, per la semplice ragione che il possesso, o la mancanza, di saperi non incide solo su specifiche abilità, ma determina l’intera qualità del rapporti sociali. La domanda di fondo per esplorarla diventa allora “chi ignora cosa, quando, dove e con quali conseguenze”, ed una prima risposta consiste nell’evidenza che ignoranza e conoscenza devono essere declinati al plurale, definirle al singolare rischia di essere troppo generico, riduttivo, preconcetto. Burke inizia, con questo spirito, il suo viaggio prendendo in esame tre fondamentali saperi ed esplorando quanto l’ignoranza abbia storicamente inciso su di essi. Il primo sapere preso in esame è la religione, intesa come costruzione culturale di una fede (non viene quindi preso in esame il puro coinvolgimento in una fede), come elaborata risposta all’ignoranza umana attorno al mistero del creato, della vita e della morte. Si impone una prima distinzione: un conto è l’ignoranza dei comuni fedeli, altro è quella dei depositari del credo religioso. Guardando ai primi dalla ricostruzione storica emerge con evidenza che in generale è molto profondo il solco fra sentimento della fede e conoscenza della dottrina, al sincero e sentito coinvolgimento quasi mai corrisponde una buona conoscenza del sapere dottrinale. Una forma di ignoranza che per quanto concerne in particolare la fede cristiana (la maggior parte delle testimonianze citate consistono in documenti ecclesiastici che amaramente denunciano, dall’interno, la disarmante ignoranza dei fedeli) ha attraversato l’intero scorso millennio per giungere, ben poco mutata, fino ai nostri giorni.

Basti pensare che ancora nel 2010 il sondaggio Pew Forum svolto fra i fedeli cattolici americani, che già evitava domande complesse, ad es. sulla Trinità o sulla Transustanziazione, ha rilevato che meno del 5% del campione era in grado di citare con esattezza anche solo tutti i dieci Comandamenti

Quel che potrebbe di più sorprendere è il fatto, evidenziato da altri dati storici, che non molto diverso è stato a lungo il livello medio di conoscenza dello stesso clero soprattutto ai suoi livelli più bassi. Per molti secoli alla raffinatezza delle riflessioni dei Padri della Chiesa ha corrisposto un sapere, scarso e stereotipato, di gran parte dei sacerdoti.  Non deve allora stupire che alla già scarsa conoscenza della propria abbia sempre corrisposto una del tutto inadeguata conoscenza delle altre religioni, conseguentemente non poco venata da chiusure, preconcetti e discriminazioni (basti pensare al difficile rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, alle secolari guerre fra cristianità e Islam, o al lacerante attuale conflitto indiano  fra Indù e Mussulmani) L’ignoranza nel campo delle religioni non ha quindi soltanto condizionato una migliore pratica della specifica religione di appartenenza, rivelando una sconcertante distanza tra fede e dottrina, ma ha anche contribuito, per la sua chiusura preconcetta verso le altre religioni, a rafforzare visioni suprematiste e razziste. Se in buona misura ci troviamo di fronte ad una ignoranza organizzativa, l’ampia gamma delle ragioni che intervengono per spiegarla la colloca in un ampio ventaglio delle forme di ignoranza in precedenza elencate.  Un secondo sapere, che da sempre vive un rapporto problematico con l’ignoranza, è sicuramente quello scientifico. La storia dell’ignoranza è infatti strettamente connessa a quella della conoscenza che, a sua volta, è emersa dalla storia della scienza. Burke riflette sul rapporto ignoranza-scienza partendo da quello, tutt’altro che paradossale, tra scienziati e ignoranza. Il filosofo della scienza Jerome Ravetz (1929, epistemologo statunitense) ha definito il tratto fondativo della scienza “ignoranza dell’ignoranza” per evidenziare che è proprio la consapevolezza dei limiti della conoscenza la molla per ogni progresso scientifico (lo storico israeliano Yuval Noah Harari nel suo famoso libro “Sapiens, da animali a dei” descrive la scienza come “scoperta dell’ignoranza” e come “disponibilità ad ammettere l’ignoranza”). Si è allora di fronte ad un illuminante esempio di “ignoranza selettiva e specifica” capace però di trasformarsi in “intenzionale” ossia nel rifiuto di rassegnarsi ai propri limiti ed errori a fronte di nuove evidenze. Va tuttavia detto che non sempre questo è valso in ambito scientifico.

la storia della scienza è purtroppo ricca di situazioni opposte, basti pensare alla cieca opposizione da parte delle élite accademiche al tempo delle nuove scoperte di Galileo e Copernico, di Darwin, alle resistenze di Einstein verso la meccanica quantistica  e, peggio ancora, al rifiuto a confrontarsi con le evidenze del riscaldamento climatico, piuttosto che ai danni da fumo passivo, di alcuni scienziati anche di notevole fama, peraltro ben finanziati dai gruppi di interesse di turno

Detto del ruolo positivo e negativo, degli scienziati il buco nero del rapporto ignoranza/scienza storicamente è sempre consistito nell’impossibilità della gente comune di fare davvero proprie scoperte e rivelazioni specie se in contrasto con il senso comune e con credenze consolidate. La rilevanza di questo distacco, guardando alla cultura occidentale, a lungo non è sembrata così rilevante semplicemente perché, per quanto scarsa se non inesistente fosse l’istruzione diffusa, altrettanto irrilevante era il grado di conoscenza scientifica. Peraltro i pochi scienziati dei primi secoli del secondo millennio ben poco se ne preoccupavano se scrivevano i loro studi esclusivamente in latino (una norma interrotta, con gran scandalo del mondo accademico di allora, solo nel 1500 prima dal medico e alchimista Paracelso e poi, pochi decenni dopo, da Galileo). Il quadro è mutato radicalmente con la rivoluzione delle conoscenze avviata dall’adozione del metodo scientifico (con ancora protagonista Galileo), per diversi secoli però conoscenze scientifiche e sapere diffuso sono stati due mondi del tutto separati. Neppure la progressiva introduzione dell’istruzione di massa, ispirata da ben altre priorità, è riuscita a colmare questo gap, anche perché nel momento in cui (mediamente nel secolo scorso)  il livello medio di conoscenza scientifica è risalito di alcuni scalini, il progresso scientifico è letteralmente esploso ricreando un distacco che ai nostri giorni appare ormai incolmabile (basti pensare che l’iper-specializzazione in campo scientifico non solo ha definitivamente cancellato la figura dello studioso a tutto campo, ma ha reso ormai inevitabile l’ignoranza degli stessi scienziati nei campi e  sotto campi che non seguono direttamente). Un contributo al contenimento di questa forma di ignoranza diffusa e per molti versi incolpevole viene dalla diffusione di riviste scientifiche e dalle figure, spesso di grande successo mediatico, dei divulgatori, mentre, anche in questo caso, appare molto più aleatorio, ed in molti casi persino dannoso e fuorviante, l’accesso via Internet alla giungla di dati ed informazioni presenti in Rete. Non a caso il neuroscienziato Stuart Firestein ha recentemente dichiarato che “oggi la scienza è così inaccessibile per il pubblico da sembrare (di nuovo) scritta in latino”. Il terzo sapere preso in considerazione da Burke è rappresentato dalla conoscenza dei luoghi della Terra, dalla geografia. Non stupisce il fatto che per millenni l’umanità intera sia stata del tutto all’oscuro delle parti della Terra diverse da quella abitata e persino di quelle confinanti. I luoghi appena più lontani, per non dire di quelli di cui a malapena si conosceva l’esistenza, molto a lungo sono rimasti avvolti nel mistero, nel mito, non di poco accentuati dai racconti (quasi sempre una raccolta di impressioni fugaci se non di autentiche invenzioni) dei rari temerari viaggiatori. Una conoscenza più approfondita è stata possibile solo per la parti che hanno composto vasti imperi come quello romano e quello cinese, i cui confini esterni hanno però segnato una sorta di invalicabile finis terrae, tutt’al più violata da improvvise incursioni di misteriosi popoli guerrieri provenienti da chissà dove. Per non dire poi dei continenti per millenni irraggiungibili perché oltre oceani insuperabili e dei quali neppure si immaginava l’esistenza. La non conoscenza geografica è stata quindi una forma di ignoranza genuina e collettiva che, durata fino alla svolta attuata dalla modernità occidentale, non poco ha contribuito al formarsi della diffusa “paura dello straniero” (tutt’altro che svanita ancora ai giorni nostri). Questo quadro inizia a mutare con quella che è stata definita l’era delle vele, dei grandi viaggi transoceanici che, a partire dal 1400/1500, hanno segnato una autentica rivoluzione geografica con protagoniste le grandi potenze marittime europee, però fin da subito segnata da evidenti finalità di espansione e di ritorno economico. In pochi secoli le varie parti del mondo si sono rispettivamente conosciute seppure aggiungendo alla congenita diffidenza iniziale una presunzione di superiorità dei paesi colonialisti e di una comprensibile opposizione di quelli ridotti a colonia. Già nella prima parte del Novecento la cartografia era comunque in grado di tracciare con buona precisione mappe di ogni terra emersa, recuperando quell’ignoranza genuina durata per millenni. Va però rilevato che questa disponibilità di conoscenze non ha cancellato del tutto l’ignoranza geografica che resta molto diffusa soprattutto nella sua versione di “geografia politica(Negli USA la National Geographic Society mantiene come scopo principale la lotta contro l’analfabetismo geografico a fronte di evidenze davvero poco confortanti, ad esempio nel 2006, in occasione dell’invasione della coalizione guidata dagli Stati Uniti, un sondaggio ha accertato che due terzi degli americani tra i 18 e i 24 anni non sapevano collocare l’Iraq sulla cartina). Per quanto concerne quindi quella geografica l’iniziale forma di ignoranza genuina sembra essersi evoluta in una passiva e selettiva. I tre saperi presi in esame da Burke testimoniano il persistere della diffusione, della profondità, della gravità dell’ignoranza confermando così che l’innegabile e considerevole procedere della conoscenza solo in parte è sin qui riuscito a scalfirne la presenza nella scena attuale. Lo sintetizza un dato di fatto: se collettivamente l’ignoranza è di molto arretrata, molto meno ciò vale a livello individuale, ed è un dato che, come si è già evidenziato, inevitabilmente cresce con il procedere stesso della conoscenza. Su queste basi Burke passa poi in rassegna alcune specifiche ignoranze, quelle che a suo avviso di più incidono sul percorso dell’umanità. Si parte dal ruolo dell’ignoranza nella guerra. Le pagine dedicate a questo tema non entrano nel merito di un giudizio etico, si limitano - evidenziando come tutte le operazioni militari siano in ultima istanza una battaglia fra ignoranza e conoscenza, fra il mantenere il nemico ignorante dei propri piani e lo scoprire quelli suoi – a rilevare le modalità con cui essa si manifesta. Emerge innanzitutto il tragico peso di una preventiva forma di ignoranza volontaria: quella di non voler conoscere e quindi perseguire le possibili alternative allo scoppio del conflitto, rendendo così impercorribile una possibile pace. A guerra avviata compare poi, testimoniata dai tanti esempi citati da Burke, una distinzione fondamentale fra l’ignoranza incolpevole delle truppe e quella colpevole dei comandanti, una forma di ignoranza organizzativa superata solamente nei rari casi di un reale coinvolgimento motivazionale delle prime. Limitando l’analisi all’aspetto della gestione tattico-militare (Burke lo fa citando numerose storiche battaglie sia antiche sia moderne, a partire da quella di Canne per finire con quelle del Vietnam e dell’Afghanistan), dando sempre per scontato il ruolo determinante del caso (vedi Waterloo) sempre emergono ignoranze tecniche (dotazioni del nemico) geografiche (conoscenza del territorio) culturali e storiche (del nemico) e motivazionali (del nemico ma anche delle proprie truppe). Le guerre si perdono o si vincono per un cumulo di fattori, ma spesso la potenza tecnologica degli armamenti, per quanto componente fondamentale, non è bastata, se per l’appunto resa spuntata da queste forme di ignoranza. Non diversamente dalla guerra anche il mondo degli affari, più in generale la sfera dell’economia, ruota attorno all’eterno scontro tra ignoranza e conoscenza. Anche in questo caso Burke non valuta il mercato da un punto di vista socio-economico e politico, ma concentra la sua attenzione sulla ricaduta che la mancanza di adeguate specifiche competenze ha sugli interessi e le finalità degli operatori e degli stessi consumatori. Il mondo dell’agricoltura è un chiaro esempio in questo senso: a lungo la storia dello sviluppo agricolo è infatti consistita nel progressivo superamento di ignoranze genuine (la resa delle coltivazioni è il risultato della combinazione di numerosi fattori -quali ad es. tempo meteorologico, impollinazioni, parassiti, varietà e qualità delle sementi – la cui conoscenza è quindi determinante). Nell’era della agricoltura industrializzata e informatizzata molti di questi fattori sembrano ormai essere in buona misura adeguatamente conosciuti, ma al tempo stesso si sono innescate nuove ignoranze, persino più critiche perché investono l’intera sfera ambientale, innescate proprio dalle soluzioni industriali delle coltivazioni intensive. Si è cioè di fronte ad una forma di ignoranza, per certi versi volontaria, se non persino colpevole, delle conseguenze sulla salute del suolo causate dall’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, non a caso molti esperti del settore stanno da tempo lanciando preoccupati allarmi sull’impoverimento dei suoli e quindi sulla stessa potenzialità produttiva agricola. Passando ai settori dell’industria, della finanza, del consumo, Burke evidenzia innanzitutto il ruolo determinante del possesso di informazioni, da sempre presente ma divenuto quanto mai decisivo in questa epoca globalizzata e informatizzata. In una economia di mercato basata sulla concorrenza fra operatori, e sul gioco di interessi contrapposti fra produttori e consumatori, è fuor di dubbio che un fattore vincente consiste infatti nel possedere adeguate conoscenze sui potenziali sviluppi tecnologi, sulle dinamiche di mercato, sugli scenari geopolitici, la loro ignoranza, per quanto genuina e passiva, inevitabilmente diventa un grave handicap di partenza. Per quanto concerne poi il settore della produzione industriale la costante crescita delle dimensioni aziendali, frutto delle inaggirabili logiche di mercato, ha da tempo visto il collegato, controproducente, affermarsi di una specifica forma di ignoranza organizzativa, sintetizzata nella metafora dell’iceberg dell’ignoranza: più alto è il livello gerarchico, più si sa di grandi strategie, ma al contempo molto meno si sa delle pur essenziali competenze produttive dei livelli bassi. Con una ulteriore ricaduta negativa: questa ignoranza organizzativa ha infatti innescato la crescita esponenziale di un'altra, collegata, forma di ignoranza: quella inconscia dei lavoratori che, vista la trascuratezza delle loro competenze sul campo e ridotti a meri esecutori, sono ormai stabilmente indotti, più o meno consapevolmente, al non sapere di sapere. E’ al contrario un’ignoranza di certo collettiva ed in buona misura incolpevole quella dei consumatori nel loro muoversi, in condizioni di costante incertezza e mancanza di specifiche informazioni, in un mercato fatto di prodotti di cui troppo poco si sa (quelli alimentari), spesso oggettivamente complessi (quelli tecnologici) ed a cui ci si accede troppo influenzati da scientifiche, ma fuorvianti, strategie pubblicitarie. Un’ignoranza subita che raggiunge la sua massima espressione nell’indecifrabile mondo dei prodotti finanziari. Non a caso nei testi di economia finanziaria è da tempo comparso il termine di analfabetismo finanziario, quello degli acquirenti, o utilizzatori forzati (nel caso di mutui e finanziamenti), ma anche degli stessi operatori sempre più ridotti a meri attuatori (quando non del tutto scavalcati) dalle meccaniche competenze affidate ad algoritmi (con sempre sullo sfondo gli immancabili manipolatori e truffatori professionali). Burke passa infine, con medesimo approccio, ad esaminare l’ignoranza in politica, la quale di norma si articola su tre distinti, ma comunque intrecciati, livelli: quella del popolo, di chi è governato, quella dei governanti, ed infine quella organizzativa del sistema politico in quanto tale. La prima, (da alcuni interpretata anche come una istintiva forma di difesa dalla complessità di conoscere, capire e scegliere) è al tempo stesso una risorsa per i regimi autoritari ed un fattore di forte preoccupazione per le democrazie. Non a caso tutte le dittature e le autocrazie dedicano molta cura a coltivare l’ignoranza del popolo, dei sudditi, e non meno a caso la loro caduta è quasi sempre determinata da squarci aperti nella cappa imposta. Il discorso si rovescia (per quanto anche qui non manchino congiure del silenzio e censure) nei sistemi democratici, per i quali l’ignoranza politica del popolo rappresenta, oggettivamente, un serio problema per il loro pieno e corretto funzionamento. Burke si limita, in coerenza con lo scopo del saggio, ad evidenziare che essa (certificata in tutte le democrazie avanzate da specifici sondaggi sulla diffusa deficitaria conoscenza dei dati essenziali della realtà politica e istituzionale, che va dal conoscere competenze e meccanismi della struttura e del funzionamento delle istituzioni ad ignorare persino  nomi e ruoli dei protagonisti più importanti)  può essere in ultima istanza distinta in due forme: quella attiva, più o meno volontaria, di chi ritiene che partecipare al democratico confronto di idee politiche sia uno sforzo troppo impegnativo piuttosto che inutile, e quella passiva ingenerata dalla oggettiva crescente difficoltà alla formazione di opinioni ragionate in società chiamate ad esprimersi su questioni sempre più complesse (alcuni studiosi ritengono che si tratti di una tendenza destinata ad accentuarsi pericolosamente tanto da aver paventato il rischio di una “tirannia dell’ignoranza”) ulteriormente accentuata dall’inondazione di materiale superfluo, se non deliberatamente manipolato (fake news), che circola nella Rete e nel mondo dei media. Altrettanto innegabile e sconfortante è però l’ignoranza dei governanti, esemplare è stata per secoli quella, attiva e selettiva, di sovrani e nobili rinchiusi in un mondo a sé del tutto impermeabile a quello della conoscenza. Una situazione che è sembrata migliorare, almeno in parte, con l’avvento della democrazia e la salita alle posizioni di vertice di membri provenienti dalle élite culturali, per poi tornare a evidenziare limiti e contraddizioni via via accentuati dalla progressiva crisi del sistema dei partiti e dei modi di selezione e formazione del ceto politico (Burke cita al riguardo numerosi casi di leader politici incappati in clamorose gaffe, anche nelle materie più strettamente politiche ed istituzionali, veri e preoccupanti esempi di ignoranza genuina). Nelle attuali società complesse, un buon governante è tale se è consapevole delle proprie inevitabili lacune (ignoranza cosciente) così da concentrarsi sulle strategie politiche sfruttando al meglio le competenze degli ormai indispensabili staff di supporto (possibilmente scelti non solo in base a meriti di parte). La limitata circolazione di informazioni fra l’alto ed il basso, fra l’ignoranza dei governati e quella dei governanti, si collega strettamente con quella propria degli apparati istituzionali e politici: l’ignoranza organizzativa. Un deficit di conoscenza, anch’esso progressivamente accentuatosi con il crescere della generale complessità, che ha prodotto la nascita di specifiche strutture statali preposte proprio alla gestione della conoscenza delle materie di governo. E’ un processo che si è via via consolidato nel corso degli ultimi secoli passando in particolare attraverso due svolte rivoluzionarie: la prima avvenuta in Inghilterra a metà del 1500, durante il regno di Enrico VIII, con la nascita di quello che è passato alla storia come il primo “Governo” inteso nella sua moderna accezione (un Consiglio di Ministri, ognuno dei quali preposto ad una materia ritenuta importante per le sorti dello Stato, diretto da un Primo Ministro che, sulla base di precise regole, risponde del suo operato alla figura simbolo del potere) che ha istituzionalizzato la separazione fra chi detiene il potere e chi lo esercita sulla base di precise competenze fino a divenire il simbolo della prima “burocratizzazione” del potere statale. Su questa scia, circa tre secoli dopo, nasce in Germania il primo corso universitario specificamente destinato alla formazione di alti funzionari di Stato al fine di creare una struttura (resa stabile perché disgiunta dalla mutevole compagine di governo e adottata, con forme diverse, in diversi paesi) preposta alla gestione delle conoscenze, sempre più ampie e articolate, utili all’azione governativa.  E’ una ulteriore separazione nella catena delle conoscenze in capo al governo pubblico finalizzata a compensare la “genuina ignoranza” dei governanti di turno. Ottima intenzione, ma da sola (i molti esempi riportati da Burke lo evidenziano) non sufficiente ad evitare scelte governative errate perché basate su conoscenze inadeguate. Lo attestano in particolare le politiche che, in tutti i paesi per tutti i secoli della modernità fino ai giorni nostri, si sono dimostrate incapaci di fronteggiare fenomeni - quali eventi estremi, carestie, epidemie, crisi economiche, fenomeni naturali – che presuppongono il miglior utilizzo possibile di competenze, informazioni e conoscenze specifiche (quelle fornibili dalle citate strutture statali preposte e, sempre più, direttamente dal mondo scientifico con i suoi specifici istituti e, in particolare ai giorni nostri, da organismi internazionali quali ad esempio ONU, OCSE, FMI) a partire dalle previsioni sugli scenari futuri (emblematiche sono quelle regolarmente fornite dall’IPCC sull’evoluzione del riscaldamento climatico) e dal buon utilizzo degli insegnamenti che il passato offre (a partire a quelli relativi all’inutilità delle guerre e alla follia dei genocidi).

Conclusioni

Burke conclude questo saggio recuperando dalla consistente mole degli esempi raccolti per evidenziare quanto e come l’ignoranza abbia inciso, e tuttora incida sulla storia dell’umanità, alcune indicazioni di sintesi. La prima consiste nella constatazione dell’illusorietà di una idea di storia declinata in termini di costante progresso grazie alla sconfitta dell’ignoranza da parte del progredire delle conoscenza. Se è vero che le nuove conoscenze hanno consentito molti e notevoli passi in avanti in quasi tutti i campi del vivere umano è non meno vero che l’ignoranza cosciente dimostra che quanto più si conosce tanto più si manifesta ciò che ancora non conosciamo. La seconda guarda alla distinzione fra conoscenza pubblica e individuale: se collettivamente è vero che l’umanità sa più di quanto abbia mai saputo prima, un disincantato sguardo ad ampio raggio dice che individualmente non si hanno così tante conoscenze in più dei nostri predecessori. Una terza, a quest’ultima collegata, evidenzia che i nuovi saperi spesso hanno sostituito molti di quelli vecchi ma non sempre ciò ha rappresentato un reale superamento dell’ignoranza individuale e collettiva (non fosse altro che per l’impossibilità di utilizzare, per questa comparazione, parametri oggettivi e onnicomprensivi). Una quarta constatazione è quella relativa alla evidente impossibilità di far divenire conoscenza collettiva le scoperte sempre più specialistiche e analitiche che costantemente si stanno accumulando. Un aspetto che porta all’ultima considerazione: oggi più che mai non ha senso ragionare sull’ignoranza vista come caratteristica individuale, è ormai doveroso ragionare di conoscenze collettive, e non più di conoscenza, e conseguentemente di ignoranze, e non più di ignoranza, altrettanto collettive. Per dirla con Mark Twain (1835/1910, scrittore americano)siamo tutti ignoranti, solo di cose differenti

………… il guaio è che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno, mentre coloro che le possiedono non hanno il potere ………..

 


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