mercoledì 15 maggio 2024

Il "Saggio" del mese - Maggio 2024

 

Il “Saggio” del mese

 MAGGIO 2024

Buona parte dei timori che la presenza maggioritaria nella coalizione vincitrice delle elezioni politiche del 2022 di un partito diretto erede della storia della destra fascista italiana potesse rappresentare un inaccettabile rigurgito nostalgico non sembrano, al momento, aver superato un limite di guardia. Tuttavia ciò nulla toglie all’evidenza che sia stata comunque avviata una svolta autoritaria che apertamente mira a ridisegnare il quadro democratico fissato dalla attuale Costituzione. Su questo tema abbiamo avviato una prima riflessione con la “parola del mese” di Marzo 2024 “Capocrazia” ed anche il Saggio di questo mese offre una stimolante analisi sul senso ultimo delle trasformazioni in atto.

i cui autori sono: Gabriele Pedullà (1972, Docente di Letteratura Italiana contemporanea presso l’’Università Roma Tre)


e Nadia Urbinati (1955 politologa italiana naturalizzata statunitense, Docente di Teoria politica presso la Columbia University) 

Il saggio si apre con una non casuale citazione che rammenta il dovere di guardare ai fenomeni politici in corso con la massima attenzione per evitare che essi giungano a compimento, magari nefasto, senza che se ne abbia a tempo debito la giusta contezza.

Il fascismo ha vinte le democrazie senza combatterle. Non si può dare più grave insulto per la democrazia italiana di una certa terminologia prevalsa in questi anni la quale enumera e classifica democratici filo-fascisti e fascisti democratici. Che non si avverta nell’aria una repugnanza per tali accoppiamenti sembra significare la legittimità di una inesorabile bocciatura:  la democrazia italiana non ha avuto uomini che studiassero sul serio - Piero Gobetti (1901/1926, morto per le conseguenze di una aggressione subita da una squadraccia fascista) - “Democrazia” (1924)

1 – Democrazia antifascista

Per raccogliere l’esortazione di Gobetti e “studiare” quali rischi di trasformazione stia attualmente correndo la democrazia italiana è necessario ritornare alle ragioni storiche e ideali alla base della sua nascita all’indomani della liberazione dal fascismo. La democrazia italiana, così come è stata concepita dalla Costituzione del 1948, non solo definisce istituzioni e procedure, ma al tempo stesso indica precisi valori ed obiettivi di valenza sociale (il pieno sviluppo della persona umana dell’Art. 3) tenendo così insieme le due forme che danno identità ad ogni democrazia, quella di disegnare una forma di governo e quella di agire sulla società che la esprime. E’ stata questa una precisa scelta dei Padri Costituenti (i 556 membri dell’Assemblea Costituente, eletti nel 1946 da tutti i partiti antifascisti, che diede vita alla Costituzione) che trova le sue spiegazioni nella necessità storica di operare una netta rottura con il precedente regime fascista. Tutte le Costituzioni contengono questa valenza, da sempre nascono in contrapposizione ad un “altro che le precedeva per smarcarsi in direzione diversa. Alla fine della Seconda guerra, in Italia come in tutta l’Europa, questo “altro” era il nazifascismo, la sua spietata negazione delle libertà, la sua gerarchica concezione sociale, la sua riduzione di ogni spazio politico alla pura acclamazione del capo. E’ questa la chiave fondamentale di lettura della Costituzione e dell’idea di democrazia che intende rappresentare. La distanza totale e definitiva dall’ “altro”, dal fascismo della ventennale dittatura, è stata poi rafforzata  dal divieto di ricostituzione del partito fascista (XII disposizione finale)  che, in piena coerenza, completa le libertà previste all’Art. 21 (Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione) e all’Art. 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale). E’ una visione del tutto indigesta alla estrema destra che, riformatasi ma senza potersi apertamente richiamare al fascismo, ha però continuato, godendo degli spazi democratici a tutti concessi, a riproporre la sua opposta idea di “altro” che non poteva che coincidere con la democrazia antifascista, parlamentare e pluralista.

Lo confermano in modo esemplare due libri “Processo al Parlamento” del 1969 e “Processo alla Repubblica” del 1980 di Giorgio Almirante, il primo segretario del Movimento Sociale, che per la sua concreta vicenda personale (redattore capo della rivista fascista “Difesa della razza” e poi Capo Gabinetto del Ministero per la cultura della Repubblica di Salò) ha testimoniato l’anello di congiunzione fra il fascismo mussoliniano e quello postfascista. In questi testi è sintetizzata l’idea di democrazia, se di vera democrazia si può parlare, che ispirerà la successiva storia della destra italiana: la democrazia parlamentare nata con la Costituzione del 1948 è una patologia incurabile, quella sana è soltanto quella plebiscitaria, espressa da iper-maggioranze, di sostegno al “Capo”

La successiva storia repubblicana ha tuttavia confermato che la democrazia difficilmente può sconfiggere completamente l’ “altro” da cui si è formata per contrapposizione, per quanto adotti i ragionevoli limiti di cui si è detto sempre concede ad esso, per coerenza con i propri principi,  la possibilità di acquistare rilevanza elettorale fino ad essere maggioritario. Ed è esattamente questa la questione che si pone oggi per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione, le elezioni politiche del 2022 hanno visto prevalere una coalizione di centrodestra la cui componente di gran lunga maggioritaria è rappresentata dagli eredi di quell’idea di democrazia radicalmente critica della forma parlamentare e dei modi di costruzione delle maggioranze per la guida del paese, cresciuta lungo due direttrici, una più nazionale, a lungo  interessata innanzitutto a sdoganare il fascismo, ed una più internazionale legata all’idea di una democrazia “decidente” fondata cioè sulla governabilità. Si tratta di una scuola di pensiero politico le cui radici sono rintracciabili nel convergere di elaborazioni ideologiche (in particolare quelle di Joseph Schumpeter, 1883/1950, economista austriaco naturalizzato statunitense e di Zbigniew Brezinski, 1928/2017, politologo polacco anch’egli naturalizzato statunitense) e di pragmatiche strategie politiche (quelle scientificamente messe a punto dalla “Trilateral Commission”, gruppo di studio privato fondato nel 1973 da David Rockefeller e Henry Kissinger tuttora molto attivo che raggruppa rappresentanze nazionali europee, americane ed asiatiche) costantemente aggiornate all’evoluzione del quadro geopolitico globale. L’idea di fondo che tutt’oggi ispira questa potente corrente di pensiero consiste nel ritenere che la crisi della democrazia, evoluta in un eccesso di politiche sociali progressiste (appare evidente il legame con le ideologie neoliberiste), si spieghi con la sua incapacità di rispondere efficacemente al suo vero scopo: la governabilità del sistema garantita da un adeguato potere esecutivo. E’ un bagaglio ideologico e politico condiviso dalle destre conservatrici che ha ispirato anche le nostrane declinazioni, peraltro decisamente “caserecce”, negli attacchi al Parlamento come sede di inciuci, di compromessi, di perdite di tempo. Si è cioè di fronte ad un percorso che si è articolato dall’indomani della fine del fascismo fino ai giorni nostri in cui si sono sovrapposti elementi di continuità nostalgica con altri di recepimento di nuove suggestioni provenienti dal retroterra neoliberista e conservatore internazionale, che si è infine sistematizzato in una idea di democrazia definibile “afascista

2 – Afascista, storia di una parola

Afascista è un termine, costruito “alla greca” con l’alfa privativo davanti che nega il nome che segue, che indica l’essere “non fascista”, usato ufficialmente per la prima volta da Mussolini in persona per indicare quella parte degli italiani che non si schierava, per indifferenza o per convenienza, nello scontro tra fascisti e antifascisti dei primi anni Venti. E’ stato poi ripreso proprio nel corso del dibattito dell’Assemblea Costituente dal liberale monarchico Roberto Lucifero (su questa figura anticipatrice di un certo sentire politico si tornerà successivamente) per suggerire che la nuova Italia democratica dovesse proclamarsi tale, e non antifascista, per non restare prigioniera del passato (l’esatto opposto cioè del vedere nel fascismo l’ “altro” da cui distinguersi). Ma è stato soprattutto lo scrittore Giuseppe Berto (1914/1978, il suo libro più famoso è “Il male oscuro”) ad usarlo con provocatoria valenza per indicare, siamo nel 1973, il suo essere né fascista (lo era stato in gioventù) né antifascista, perché (sue testuali parole): esprime un’avversione al fascismo così completa da non poter tollerare l’antifascismo. Nella pratica Berto aveva in sostanza ben capito che definirsi afascista dava copertura e dignità al rifiuto degli ideali alla base della neonata democrazia italiana (non poco conta il fatto che Berto si sia sempre sentito escluso da quella che definiva l’intellighenzia culturale di sinistra italiana).

Il nome di Berto non va sottovalutato, nelle pagine del Web sono molti i siti che inneggiano alle sue posizioni per esaltare l’avversione alla retorica antifascista ed al “diritto all’oblio”. Il richiamo a queste sue posizioni è importante per meglio capire l’ostinazione con la quale tutti i rappresentanti di “Fratelli d’Italia” e dalla sua leader Giorgia Meloni, si rifiutano di definirsi antifascisti.

3 – Il 25 Aprile di Giorgia Meloni

Afascista bene si presta per indicare la consapevole affermazione di un preciso pensiero politico che è fondamentale conoscere per meglio capire la posta oggi in palio. La lettera spedita da Giorgia Meloni al Corriere della Sera in occasione del 25 Aprile 2023 sintetizza perfettamente questo pensiero nel suo rivendicare di essere nell’ordine: democratica – non nostalgica del fascismo – esentata dal doversi dire antifascista. Si è di fronte ad una dichiarazione che da una parte dovrebbe rassicurare che non è suo obiettivo ricostruire il fascismo originario, ma che dall’altra mira apertamente a far apparire l’antifascismo anacronistico, inutile, se non una vera “arma di esclusione” usata dalla sinistra. E’ quindi una affermazione molto netta: il fascismo è morto e nessuno lo vuole resuscitare, ma con la sua morte, certificata dai suoi stessi eredi, muore anche l’ “altro” su cui poggiava l’intera costruzione democratica italiana, oggi: si può, anzi si deve, essere democratici senza essere e quindi senza dirsi antifascisti. Suonano allora inutili le pur giuste e comprensibili richieste di proclamarsi tali, non volerlo fare non è celare sentimenti nostalgici, ma la sintesi celebrativa di una nuova idea di democrazia, per l’appunto afascista. Peccato che, neppure tanto velatamente, riemerga tra le righe di quella lettera l’eterno nervo scoperto del fascismo originario: l’avversione piena e totale verso la sinistra, la sua cultura, la sua idea di società, la sua storia, e cioè verso quel sentire politico che da sempre ha rappresentato il corrispondente opposto “altro” del fascismo mantenuto tale senza a davanti. L’identificazione fra antifascismo e sinistra è così pulsante nei geni dell’estrema destra da renderle impossibile comprendere che l’antifascismo è stato fin dalla sua nascita patrimonio dell’intero schieramento politico italiano, certamente lo è stato per socialisti e comunisti, ma non di meno per liberali, cattolici, repubblicani, azionisti. Tutte queste culture politiche si sono fatte patriottiche comunemente condividendo un’idea di patria fondata proprio sulla pregiudiziale antifascista. Eppure la Meloni prosegue imperterrita e completa la sua dichiarazione d’intenti e, ribaltando ogni logica, afferma che i veri antidemocratici sarebbero quindi proprio coloro (la sinistra ovviamente) che, esigendo una superata fedeltà all’antifascismo, escludono quella parte che, proclamatasi ormai afascista, altro obiettivo non ha se non quello della difesa di una idea di patria non più basata su ideologie, ma unificata e rafforzata da un nuovo patriottismo. E soprattutto che da tutto ciò non può non derivare l’obbligo di reinterpretare e riformare la Costituzione del 1948, proprio perché espressione di un superato scontro ideologico, mettendo concretamente mano alla sua seconda parte, quella dedicata all’ordinamento della Repubblica (riducendo così la prima parte a puro orpello). Una democrazia senza radici ideali è il concetto di fondo che emerge da questa lettera (un testo troppo frettolosamente trascurato dal vuoto dibattito politico mediatico) peraltro basata su una ricostruzione storica ed una analisi valoriale del tutto arbitrarie.

4 – L’ordine della gerarchia

E’ infatti una forzatura strumentale ritenere che il fascismo mussoliniano abbia avuto come unico avversario il movimento socialista e comunista. La storia insegna qualcosa di molto diverso, di sicuro nella parte finale della dittatura fascista quando, come già evidenziato, tutte le culture politiche italiane hanno assunto una chiara posizione, concretizzata nella stessa lotta di resistenza armata, ma anche già nella fase iniziale di ascesa al potere del fascismo. Se è vero che nel confuso primo dopoguerra, in particolare nel corso del “biennio rosso(il periodo compreso tra il 1919 ed il 1920 caratterizzato da intense lotte operaie e contadine che ebbe il suo culmine nella occupazione delle fabbriche del Settembre 1920) non pochi rappresentanti del liberalismo classico ebbero un atteggiamento tollerante verso le squadracce fasciste nell’idea di utilizzarle per ripristinare l’ordine pubblico, non è meno vero che, man mano che il fascismo andava consolidando la sua conquista violenta e totale del potere, furono nette e trasversali le prese di distanza e le aperte condanne

la vicenda di Benedetto Croce, 1866/1952, filosofo e storico politicamente di ispirazione liberale è esemplare, da una iniziale compiacenza passò nel 1925 ad una aperta condanna promuovendo il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” che raccolse le firme di molti intellettuali italiani lontanissimi dal socialismo e dal comunismo (lo era lo stesso Piero Gobetti). La vittoriosa ascesa del fascismo evidenzia piuttosto la bancarotta morale e politica di una parte della classe dirigente del tempo che, pur di preservare le proprie posizioni di privilegio, si dimostra davvero afascista

Non regge quindi la ricostruzione storica e ancor meno quella valoriale: il fascismo si è fondato su una idea globale della società che vale come autentico spartiacque fra chi ritiene, seppur declinandolo con diverse accentuazioni, che alla politica sia assegnato il compito di costruire uno spazio ideale dove chiunque possa essere riconosciuto eguale a prescindere da sesso, razza, lingua, religione, opinione politiche, condizioni personali e sociali (Articolo 3 della Costituzione), un patrimonio che è comune a tutte le culture politiche democratiche, e chi invece, come il fascismo, propugna un’idea di società fortemente gerarchica ispirata da un’unica scala di valori espressa dal gruppo dominante che esclude chiunque non possieda determinate qualità. Ed è proprio questo discrimine a far capire quanto sia strumentale e falsa l’affermazione della Meloni che il fascismo abbia avuto come soli nemici il socialismo ed il comunismo, (non si spiegherebbe fra l’altro perché abbia poi abbattuto anche lo Stato liberale e l’embrione di democrazia di allora). L’idea fascista di società era allora e ancora oggi resta l’ “altro” per tutte le culture politiche ed i movimenti e partiti che queste hanno espresso

5 – Costituenti antifascisti 

Ed è proprio il percorso di costruzione ed approvazione del testo costituzionale del 1948 la più significativa evidenza in questo senso, in particolare nei suoi passaggi dedicati a fissare nelle norme costituzionali la natura antifascista della nascente democrazia repubblicana italiana e la sua volontà di indirizzare in coerenza a ciò l’evoluzione della società. Il dibattito avvenuto nell’Assemblea Costituente nel Marzo 1947 vide una netta polarizzazione fra il fronte ampio dei partiti a favore della bozza di testo costituzionale predisposta dal preliminare gruppo di lavoro e le minoritarie componenti di destra estrema (in nome delle quali ebbe un ruolo importante il liberale monarchico Roberto Lucifero, già citato in precedenza).

Unitamente al voto per il referendum monarchia/repubblica il 2 giugno 1946 venne votata l’Assemblea Costituente sulla base di liste proposte dai singoli partiti. L’esito vide assegnati alla Democrazia Cristiana 207 seggi, 115 al Partito Socialista, 104 al Partito Comunista, 41 al Partito Liberale, 23 al Partito Repubblicano, tutti a favore, contrari invece i 30 dell’Uomo Qualunque (un partito nato attorno all’omonimo giornale espressione di una forte antipolitica trasversale) ed i 16 della Destra Monarchica (fra i quali Roberto Lucifero). L’MSI non era presente perché fondato soltanto a Dicembre 1946

Le critiche da destra alla bozza furono sostanzialmente due: l’aver delineato una Carta Costituzionale troppo ampia e ambiziosa (Lucifero proponeva la semplice ripresa dello Statuto Albertino) e troppo interventista sulla società, da queste discendeva poi l’invito a separare il più possibile la Costituzione dalla storia ed in particolare dall’esperienza fascista. E’ in questo ambito che Lucifero ricorre al termine “afascista” per rimarcare l’opportunità di una minore politicizzazione ideologica della carta. La risposta condivisa da tutto il fronte favorevole al testo fu quella di ritenere l’antifascismo un fondamentale elemento costitutivo della nuova democrazia italiana (spiccano fra gli altri gli interventi di Togliatti che ritiene indispensabile tale carattere per evitare che nasca un sistema politico analogo a quello che fu incapace, se non complice, di fermare l’avvento del fascismo, e quello di Aldo Moro, al tempo giovanissimo trentenne, che ribadì la necessità di una Carta fortemente ideologizzata in senso antifascista per evitare il suo ridursi ad un compromesso al ribasso). Già allora quindi fu evidente che l’alternativa fra antifascismo e afascismo delineava due idee opposte di democrazia e che la sola condanna (spesso di comodo) del regime mussoliniano non poteva costituire una adeguata base di comune condivisione. L’avvento al potere nel 2022 di un erede diretto di quella componente afascista deve quindi essere visto come un nuovo tentativo (ben evidenziato dalla citata lettera della Meloni) di rimodulare la Costituzione antifascista per creare una nuova e diversa democrazia. Vale la pena di capire la forma che questa potrebbe avere nelle idee di chi la propone

6 – Democrazia afascista: avaloriale 

Come sottolineato nel Capitolo 1 la democrazia è un valore che si articola in due dimensioni: quella delle regole e quella delle aspirazioni, la sua validità emerge quindi dal loro rapporto ottimale. Non vi è dubbio che la democrazia afascista di fatto si identifichi con una soltanto di queste due dimensioni, quelle delle regole contraendola alla sola governabilità. Di tutt’altro segno come si è visto è stata la scelta dei Padri Costituenti consapevoli che una democrazia per quanto basata sulle libertà di parola e di espressione, su libere elezioni, sulla pacifica transizione da una maggioranza all’altra, resta monca se non mira a realizzare condivisi valori sociali ……. la democrazia non vive, ma tutt’al più vivacchia o sopravvive se rinnega la sua originaria pulsione a liberare i cittadini da condizioni di sudditanza e a conferire ad ognuno le stesse opportunità …… L’idea che di fatto sta ispirando l’azione dell’attuale  destra governativa è invece quella di puntare esclusivamente alla governabilità, in un vuoto valoriale che è l’inevitabile e logica conseguenza dell’immaginare una Costituzione, ed un democrazia, slegata da quella idea di antifascismo che tiene invece insieme regole e aspirazioni. Con un’ulteriore rilevante aggravante: lo stretto legame che questa destra mantiene (proprio attraverso il refrain della governabilità, della democrazia decidente) con la corrente di pensiero avviata dalla citata Trilaterale lascia intendere che se una aspirazione c’è, altra non è che quella della conservazione dell’attuale sbilanciato status quo sociale all’insegna della vuota triade di Dio, Patria e Famiglia.

7 – Democrazia afascista: ipermaggioritaria  

Ma anche solo restando al piano delle regole non sono poche le ragioni per diffidare e per respingere l’idea di una democrazia afascista basata sulla governabilità (nella migliore delle ipotesi fine a sé stessa). Immaginare che per ottenerla siano previsti meccanismi elettorali che premiano la coalizione/partito vincente con un consistente premio di maggioranza stravolge alla base una corretta idea di democrazia parlamentare. Se è comprensibile che ogni maggioranza confidi di governare il più a lungo e con il maggior agio possibili, prevedere che ciò avvenga stravolgendo oltre misura l’esito elettorale (grazie al premio di maggioranza) ed immaginando (grazie ad un sistema di regole che blocca ogni cambiamento di governo/primo ministro in corso d’opera) che tra un’elezione e l’altra ci sia posto solo per il governo e la sua iper-maggioritaria opinione (riducendo quindi le opposizioni a mere spettatrici) lascia intendere, dietro la facciata afascista, un nostalgico rimando alla legge fascista (Riforma Acerbo) che nel 1924 consentì a Mussolini di conquistare una maggioranza tale da segnare la fine del governo parlamentare e della stessa democrazia

8 – Democrazia afascista: notabiliare 

L’idea di democrazia afascista è nata è si è via via consolidata su un retroterra di cultura antipolitica cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni. Le ragioni storiche che lo spiegano hanno lontana origine nel tappo geopolitico (la divisione in blocchi della Guerra Fredda) che ha tenuto bloccato il normale avvicendamento delle maggioranze consentendo così il formarsi di un potere clientelare e corruttivo troppo schematicamente fatto coincidere con la definizione di “partitocrazia(termine coniato dall’onnipresente Roberto Lucifero). La fine indecorosa per via giudiziaria della Prima Repubblica (unitamente al più complesso tramonto delle ideologie novecentesche) non ha però innescato un percorso virtuoso di rifondazione del sistema dei partiti, ma al contrario è stata strumentalmente utilizzata dalla vicenda berlusconiana che ha sostituito la scelta del “partito” con quella del “leader”. La retorica antipolitica e populista che alla fine del secolo scorso identificava il discorso pubblico con il disprezzato “politichese” ed il fisiologico gioco delle alleanze e del compromesso con il famigerato “inciucio” ha (senza adeguata consapevolezza del trapasso) messo in crisi irreversibile il modello di democrazia antifascista nato con la Costituzione attaccando alla base la sua idea di democrazia parlamentare (un attacco che non è venuto solo da destra, non poco ha inciso il referendum del 2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari indetto dai Cinque Stelle e strumentalmente sostenuto dal PD per far nascere il governo giallo-rosso). L’esito (tanto prevedibile quanto sottovalutato) è in effetti consistito nella legittimazione di una nuova casta, ben più distante di quelle precedenti dal popolo elettore. E’ triste e preoccupante constatare che il ciclo aperto nel 1992 sia oggi culminato nella nascita di un vero e proprio notabilato

9 – Democrazia afascista: aconflittuale  

L’ultima delle componenti che stanno caratterizzando l’evoluzione dell’idea di democrazia afascista le sintetizza tutte in particolare collegandosi strettamente all’ipermaggioritario. Si tratta dell’insofferenza, per nulla celata, e dell’avversione radicale verso ogni espressione di dissenso, di critica, ed ancor di più verso la possibilità di un aperto conflitto sociale e politico. La distanza dalla democrazia antifascista così come delineata dalla Costituzione non potrebbe essere più evidente. La scelta dei Padri Costituenti di prevedere nella Carta ampie possibilità al manifestarsi del conflitto, al suo libero esprimersi e organizzarsi, non è stata dettata da una teorica adesione alla corrente di pensiero politico che, a partire dalla Rivoluzione Francese, ha visto in esso un fondamentale fattore di progresso e di crescita degli spazi di libertà ed uguaglianza, ma si spiega soprattutto con la loro attenzione al concreto contesto storico in cui la nuova democrazia stava nascendo. Vent’anni di feroce dittatura e di violenta soppressione di ogni dissenso non potevano non indurre a far sì che la svolta democratica garantisse il più possibile l’esatto opposto, inoltre la stessa esperienza dell’opposizione al fascismo e della lotta partigiana testimoniavano che la comune avversione verso il fascismo non cancellava la fisiologica esistenza, al suo interno, di differenti punti di vista anche radicalmente opposti. Sono state queste due concrete evidenze a far considerare impossibile che la riconquistata libertà soffocasse i possibili conflitti sociali e politici, per i quali venne giustamente previsto un loro equilibrato e tollerante contenimento, allineando in tal modo la democrazia italiana al comune sentire di tutte le vere democrazie. In meno di due anni di governo appare invece evidente che la nascente democrazia afascista rubrica come caos e disordine ogni forma di contestazione e di dissenso. Ogni critica è vista come una pugnalata alle spalle, un complotto, come un inaccettabile intralcio nella gestione del potere. Ogni forma di conflitto anche soltanto quella di contestare, nelle aule del parlamento piuttosto che sui media o negli spazi sociali, viene vista come una interferenza fastidiosa e disfattista. Palazzo Ghigi rischia di avere sulla porta lo stesso cartello degli autobus di una volta: “si prega di non disturbare il conducente”.

10 – Prometeo scatenato   

Si è citata in precedenza la provocatoria rivendicazione di afascista lanciata dallo scrittore Giuseppe Berto per molti versi anticipatrice di attuali identiche proclamazioni. Pochi mesi dopo, 1974/1975, irrompe sulla scena culturale e politica un’altra provocazione: in successivi articoli Pier Paolo Pasolini critica l’antifascismo retorico e cerimoniale reo, a suo avviso, di non sapersi ri-coniugare adattandosi ai tempi nuovi segnati dall’esplosione del consumismo di massa e del collegato oblio di valori sociali e politici. A ben vedere sono state entrambe delle prese di posizione che, con sentire diverso, rispondevano all’invito di Gobetti a “studiare il fascismo” per capire la sua capacità di intercettare umori presenti nel popolo e di usarla per imporre soluzioni autoritarie ed una visione gerarchica della società. Quanto è stato fin qui ripercorso attorno al concretizzarsi di una nuova destra capace di proporre (e di iniziare ad attuare) un’idea di democrazia afascista ripropone la stessa urgenza di comprensione. Un dato va coraggiosamente riconosciuto: il fascismo è un fenomeno culturale e politico pienamente inserito nella modernità europea che si è dimostrato vincente là dove e quando è stato capace di intercettare tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse (le “passioni tristi” di Baruch Spinoza). In questa veste non è mai stato debellato del tutto ed è rimasto sottotraccia aspettando l’occasione per riprendersi il centro della scena, seppure sotto mutate insegne, intercettando le nuove tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse. L’antifascismo è stato e resta, di conseguenza, il valore essenziale per combatterlo, oggi come allora, ma solo se si dimostra capace di difendere le libertà coniugandole con una visione alternativa di società non meno adattata ai tempi nuovi. Occorre ripartire da qui andando oltre la sola denuncia del pericolo del ritorno al fascismo-regime per combattere, avendola studiata in tutte le sue molteplici articolazioni, la sua nuova versione sintetizzata nella democrazia afascista ed il suo connesso progetto di una nuova società gerarchica, il cui nemico principale resta l’uguaglianza sociale e politica declinata nel nuovo contesto storico. In questo senso denunce come quella di Pasolini (di ben cinquant’anni fa!) non devono spaventare, possono anzi essere un utile pungolo ad avere coscienza che il percorso virtuoso  avviato con la Costituzione, con la sua idea di democrazia antifascista, e durato qualche decennio sembra aver segnato il passo. Il richiamo di Gobetti resta tutt’oggi esemplare: sarebbe davvero un dramma se l’afascismo, come il fascismo di un secolo fa, vincesse soprattutto grazie ai demeriti di chi ad esso deve opporsi.


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