Il “Saggio” del mese
MAGGIO
2024
Buona parte
dei timori che la presenza maggioritaria nella coalizione vincitrice delle
elezioni politiche del 2022 di un partito diretto erede della storia della
destra fascista italiana potesse rappresentare un inaccettabile rigurgito
nostalgico non sembrano, al momento, aver superato un limite di guardia. Tuttavia
ciò nulla toglie all’evidenza che sia stata comunque avviata una svolta
autoritaria che apertamente mira a ridisegnare il quadro democratico fissato
dalla attuale Costituzione. Su questo tema abbiamo avviato una prima
riflessione con la “parola del mese” di Marzo 2024 “Capocrazia” ed anche il
Saggio di questo mese offre una stimolante analisi sul senso ultimo delle
trasformazioni in atto.
i cui autori sono: Gabriele Pedullà (1972, Docente di Letteratura Italiana contemporanea presso l’’Università Roma Tre)
e Nadia Urbinati (1955 politologa italiana naturalizzata statunitense,
Docente di Teoria politica presso la Columbia University)
Il saggio si apre con una non
casuale citazione che rammenta il dovere di guardare ai fenomeni politici in
corso con la massima attenzione per evitare che essi giungano a compimento,
magari nefasto, senza che se ne abbia a tempo debito la giusta contezza.
Il
fascismo ha vinte le democrazie senza combatterle. Non si può dare più grave
insulto per la democrazia italiana di una certa terminologia prevalsa in questi
anni la quale enumera e classifica democratici filo-fascisti e fascisti
democratici. Che non si avverta nell’aria una repugnanza per tali accoppiamenti
sembra significare la legittimità di una inesorabile bocciatura: la democrazia italiana non ha avuto uomini che
studiassero sul serio - Piero Gobetti (1901/1926,
morto per le conseguenze di una aggressione subita da una squadraccia fascista) -
“Democrazia” (1924)
1 – Democrazia antifascista
Per
raccogliere l’esortazione di Gobetti e “studiare” quali rischi di trasformazione
stia attualmente correndo la democrazia italiana è necessario ritornare alle
ragioni storiche e ideali alla base della sua nascita all’indomani della
liberazione dal fascismo. La democrazia italiana, così come è stata concepita dalla
Costituzione del 1948, non solo definisce istituzioni e procedure, ma al tempo
stesso indica precisi valori ed obiettivi di valenza sociale (il pieno sviluppo della persona umana
dell’Art. 3) tenendo così insieme le due forme che danno identità ad ogni
democrazia, quella di disegnare una forma di governo e quella di agire sulla
società che la esprime. E’ stata questa una precisa scelta dei Padri
Costituenti (i
556 membri dell’Assemblea Costituente, eletti nel 1946 da tutti i partiti antifascisti,
che diede vita alla Costituzione) che trova le sue
spiegazioni nella necessità storica di operare una netta rottura con il
precedente regime fascista. Tutte le Costituzioni contengono questa valenza, da
sempre nascono in contrapposizione ad un “altro”
che le precedeva per smarcarsi in direzione diversa. Alla fine della Seconda
guerra, in Italia come in tutta l’Europa, questo “altro” era il nazifascismo, la sua
spietata negazione delle libertà, la sua gerarchica concezione sociale, la sua
riduzione di ogni spazio politico alla pura acclamazione del capo. E’ questa la chiave
fondamentale di lettura della Costituzione e dell’idea di democrazia che
intende rappresentare. La distanza totale e definitiva dall’ “altro”,
dal fascismo della ventennale dittatura, è stata poi rafforzata dal divieto di ricostituzione del partito
fascista (XII disposizione
finale) che, in piena
coerenza, completa le libertà previste all’Art. 21 (Tutti hanno
diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione) e all’Art. 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale). E’ una visione del tutto indigesta alla estrema
destra che, riformatasi ma senza potersi apertamente richiamare al fascismo, ha
però continuato, godendo degli spazi democratici a tutti concessi, a riproporre
la sua opposta idea di “altro” che non poteva che coincidere
con la democrazia antifascista, parlamentare e pluralista.
Lo confermano in modo esemplare due libri “Processo
al Parlamento” del 1969 e “Processo alla Repubblica” del
1980 di Giorgio Almirante, il primo segretario del Movimento Sociale, che per
la sua concreta vicenda personale (redattore capo della rivista fascista
“Difesa della razza” e poi Capo Gabinetto del Ministero per la cultura della
Repubblica di Salò) ha testimoniato l’anello di congiunzione fra il fascismo
mussoliniano e quello postfascista. In questi testi è sintetizzata l’idea di
democrazia, se di vera democrazia si può parlare, che ispirerà la successiva
storia della destra italiana: la democrazia parlamentare nata con la
Costituzione del 1948 è una patologia incurabile, quella sana è soltanto quella
plebiscitaria, espressa da iper-maggioranze, di sostegno al “Capo”
La successiva storia repubblicana ha tuttavia confermato che la democrazia difficilmente può sconfiggere completamente l’ “altro” da cui si è formata per contrapposizione, per quanto adotti i ragionevoli limiti di cui si è detto sempre concede ad esso, per coerenza con i propri principi, la possibilità di acquistare rilevanza elettorale fino ad essere maggioritario. Ed è esattamente questa la questione che si pone oggi per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione, le elezioni politiche del 2022 hanno visto prevalere una coalizione di centrodestra la cui componente di gran lunga maggioritaria è rappresentata dagli eredi di quell’idea di democrazia radicalmente critica della forma parlamentare e dei modi di costruzione delle maggioranze per la guida del paese, cresciuta lungo due direttrici, una più nazionale, a lungo interessata innanzitutto a sdoganare il fascismo, ed una più internazionale legata all’idea di una democrazia “decidente” fondata cioè sulla governabilità. Si tratta di una scuola di pensiero politico le cui radici sono rintracciabili nel convergere di elaborazioni ideologiche (in particolare quelle di Joseph Schumpeter, 1883/1950, economista austriaco naturalizzato statunitense e di Zbigniew Brezinski, 1928/2017, politologo polacco anch’egli naturalizzato statunitense) e di pragmatiche strategie politiche (quelle scientificamente messe a punto dalla “Trilateral Commission”, gruppo di studio privato fondato nel 1973 da David Rockefeller e Henry Kissinger tuttora molto attivo che raggruppa rappresentanze nazionali europee, americane ed asiatiche) costantemente aggiornate all’evoluzione del quadro geopolitico globale. L’idea di fondo che tutt’oggi ispira questa potente corrente di pensiero consiste nel ritenere che la crisi della democrazia, evoluta in un eccesso di politiche sociali progressiste (appare evidente il legame con le ideologie neoliberiste), si spieghi con la sua incapacità di rispondere efficacemente al suo vero scopo: la governabilità del sistema garantita da un adeguato potere esecutivo. E’ un bagaglio ideologico e politico condiviso dalle destre conservatrici che ha ispirato anche le nostrane declinazioni, peraltro decisamente “caserecce”, negli attacchi al Parlamento come sede di inciuci, di compromessi, di perdite di tempo. Si è cioè di fronte ad un percorso che si è articolato dall’indomani della fine del fascismo fino ai giorni nostri in cui si sono sovrapposti elementi di continuità nostalgica con altri di recepimento di nuove suggestioni provenienti dal retroterra neoliberista e conservatore internazionale, che si è infine sistematizzato in una idea di democrazia definibile “afascista”
2 – Afascista, storia di una parola
Afascista
è un termine, costruito “alla greca” con l’alfa privativo davanti che nega il
nome che segue, che indica l’essere “non fascista”, usato ufficialmente per la
prima volta da Mussolini in persona per indicare quella parte degli italiani
che non si schierava, per indifferenza o per convenienza, nello scontro tra
fascisti e antifascisti dei primi anni Venti. E’ stato poi ripreso proprio nel
corso del dibattito dell’Assemblea Costituente dal liberale monarchico Roberto
Lucifero (su questa figura
anticipatrice di un certo sentire politico si tornerà successivamente)
per suggerire che la nuova Italia democratica dovesse proclamarsi tale, e non
antifascista, per non restare prigioniera del passato (l’esatto opposto cioè del vedere nel
fascismo l’ “altro”
da cui distinguersi). Ma è stato soprattutto lo scrittore
Giuseppe Berto (1914/1978,
il suo libro più famoso è “Il male oscuro”) ad usarlo con
provocatoria valenza per indicare, siamo nel 1973, il suo essere né fascista (lo era stato in gioventù) né
antifascista, perché (sue
testuali parole): esprime un’avversione al fascismo così completa da
non poter tollerare l’antifascismo. Nella pratica Berto aveva in
sostanza ben capito che definirsi afascista dava copertura e dignità al rifiuto
degli ideali alla base della neonata democrazia italiana (non poco conta il fatto che Berto si
sia sempre sentito escluso da quella che definiva l’intellighenzia culturale di
sinistra italiana).
Il
nome di Berto non va sottovalutato, nelle pagine del Web sono molti i siti che
inneggiano alle sue posizioni per esaltare l’avversione alla retorica
antifascista ed al “diritto all’oblio”. Il richiamo a queste sue posizioni è
importante per meglio capire l’ostinazione con la quale tutti i rappresentanti di
“Fratelli d’Italia” e dalla sua leader Giorgia Meloni, si rifiutano di definirsi
antifascisti.
3 – Il 25 Aprile di Giorgia Meloni
Afascista
bene si presta per indicare la consapevole affermazione di un preciso pensiero
politico che è fondamentale conoscere per meglio capire la posta oggi in palio.
La lettera spedita da Giorgia Meloni al Corriere della Sera in occasione del 25
Aprile 2023 sintetizza perfettamente questo pensiero nel suo rivendicare di
essere nell’ordine: democratica – non nostalgica del fascismo – esentata
dal doversi dire antifascista. Si è di fronte ad una dichiarazione
che da una parte dovrebbe rassicurare che non è suo obiettivo ricostruire il
fascismo originario, ma che dall’altra mira apertamente a far apparire
l’antifascismo anacronistico, inutile, se non una vera “arma di esclusione” usata dalla
sinistra. E’ quindi una affermazione molto netta: il fascismo è morto e nessuno
lo vuole resuscitare, ma con la sua morte, certificata dai suoi stessi eredi,
muore anche l’ “altro”
su cui poggiava l’intera costruzione democratica italiana, oggi: si può, anzi si deve,
essere democratici senza essere e quindi senza dirsi antifascisti. Suonano
allora inutili le pur giuste e comprensibili richieste di proclamarsi tali, non
volerlo fare non è celare sentimenti nostalgici, ma la sintesi celebrativa di
una nuova idea di democrazia, per l’appunto afascista. Peccato che, neppure
tanto velatamente, riemerga tra le righe di quella lettera l’eterno nervo
scoperto del fascismo originario: l’avversione piena e totale verso la
sinistra, la sua cultura, la sua idea di società, la sua storia, e cioè verso
quel sentire politico che da sempre ha rappresentato il corrispondente opposto
“altro”
del fascismo mantenuto tale senza a davanti. L’identificazione fra antifascismo
e sinistra è così pulsante nei geni dell’estrema destra da renderle impossibile
comprendere che l’antifascismo è stato fin dalla sua nascita patrimonio
dell’intero schieramento politico italiano, certamente lo è stato per
socialisti e comunisti, ma non di meno per liberali, cattolici, repubblicani,
azionisti. Tutte queste culture politiche si sono fatte patriottiche comunemente
condividendo un’idea di patria fondata proprio sulla pregiudiziale
antifascista. Eppure la Meloni prosegue imperterrita e completa la sua
dichiarazione d’intenti e, ribaltando ogni logica, afferma che i veri
antidemocratici sarebbero quindi proprio coloro (la
sinistra ovviamente) che, esigendo una superata fedeltà
all’antifascismo, escludono quella parte che, proclamatasi ormai afascista,
altro obiettivo non ha se non quello della difesa di una idea di patria non più
basata su ideologie, ma unificata e rafforzata da un nuovo patriottismo. E
soprattutto che da tutto ciò non può non derivare l’obbligo di reinterpretare e
riformare la Costituzione del 1948, proprio perché espressione di un superato
scontro ideologico, mettendo concretamente mano alla sua seconda parte, quella dedicata
all’ordinamento della Repubblica (riducendo così la prima parte a puro
orpello). Una democrazia senza radici ideali è il concetto di
fondo che emerge da questa lettera (un
testo troppo frettolosamente trascurato dal vuoto dibattito politico mediatico) peraltro
basata su una ricostruzione storica ed una analisi valoriale del tutto
arbitrarie.
4 – L’ordine della gerarchia
E’
infatti una forzatura strumentale ritenere che il fascismo mussoliniano abbia
avuto come unico avversario il movimento socialista e comunista. La storia
insegna qualcosa di molto diverso, di sicuro nella parte finale della dittatura
fascista quando, come già evidenziato, tutte le culture politiche italiane
hanno assunto una chiara posizione, concretizzata nella stessa lotta di
resistenza armata, ma anche già nella fase iniziale di ascesa al potere del
fascismo. Se è vero che nel confuso primo dopoguerra, in particolare nel corso
del “biennio
rosso” (il
periodo compreso tra il 1919 ed il 1920 caratterizzato da intense lotte operaie
e contadine che ebbe il suo culmine nella occupazione delle fabbriche del
Settembre 1920) non pochi rappresentanti del liberalismo
classico ebbero un atteggiamento tollerante verso le squadracce fasciste
nell’idea di utilizzarle per ripristinare l’ordine pubblico, non è meno vero
che, man mano che il fascismo andava consolidando la sua conquista violenta e
totale del potere, furono nette e trasversali le prese di distanza e le aperte
condanne
la
vicenda di Benedetto Croce, 1866/1952, filosofo e storico politicamente di
ispirazione liberale è esemplare, da una iniziale compiacenza passò nel 1925 ad
una aperta condanna promuovendo il “Manifesto degli
intellettuali antifascisti” che raccolse le firme di molti intellettuali
italiani lontanissimi dal socialismo e dal comunismo (lo era lo stesso
Piero Gobetti). La vittoriosa ascesa del fascismo evidenzia piuttosto la
bancarotta morale e politica di una parte della classe dirigente del tempo che,
pur di preservare le proprie posizioni di privilegio, si dimostra davvero
afascista
Non
regge quindi la ricostruzione storica e ancor meno quella valoriale: il
fascismo si è fondato su una idea globale della società che vale come autentico
spartiacque fra chi ritiene, seppur declinandolo con diverse accentuazioni, che
alla politica sia assegnato il compito di costruire uno spazio ideale dove chiunque possa essere
riconosciuto eguale a prescindere da sesso, razza, lingua, religione, opinione
politiche, condizioni personali e sociali
(Articolo 3 della
Costituzione), un patrimonio che è comune a tutte le
culture politiche democratiche, e chi invece, come il fascismo, propugna un’idea di società
fortemente gerarchica ispirata da un’unica scala di valori espressa dal gruppo
dominante che esclude chiunque non possieda determinate qualità. Ed
è proprio questo discrimine a far capire quanto sia strumentale e falsa
l’affermazione della Meloni che il fascismo abbia avuto come soli nemici il
socialismo ed il comunismo, (non
si spiegherebbe fra l’altro perché abbia poi abbattuto anche lo Stato liberale
e l’embrione di democrazia di allora). L’idea fascista di
società era allora e ancora oggi resta l’ “altro” per tutte le culture politiche ed
i movimenti e partiti che queste hanno espresso
5 – Costituenti antifascisti
Ed
è proprio il percorso di costruzione ed approvazione del testo costituzionale
del 1948 la più significativa evidenza in questo senso, in particolare nei suoi
passaggi dedicati a fissare nelle norme costituzionali la natura antifascista
della nascente democrazia repubblicana italiana e la sua volontà di indirizzare
in coerenza a ciò l’evoluzione della società. Il dibattito avvenuto nell’Assemblea
Costituente nel Marzo 1947 vide una netta polarizzazione fra il fronte ampio
dei partiti a favore della bozza di testo costituzionale predisposta dal
preliminare gruppo di lavoro e le minoritarie componenti di destra estrema (in nome delle quali ebbe un ruolo
importante il liberale monarchico Roberto Lucifero, già citato in precedenza).
Unitamente
al voto per il referendum monarchia/repubblica il 2 giugno 1946 venne votata
l’Assemblea Costituente sulla base di liste proposte dai singoli partiti. L’esito
vide assegnati alla Democrazia Cristiana 207 seggi, 115 al Partito Socialista,
104 al Partito Comunista, 41 al Partito Liberale, 23 al Partito Repubblicano,
tutti a favore, contrari invece i 30 dell’Uomo Qualunque (un partito nato
attorno all’omonimo giornale espressione di una forte antipolitica trasversale)
ed i 16 della Destra Monarchica (fra i quali Roberto Lucifero). L’MSI non era
presente perché fondato soltanto a Dicembre 1946
Le
critiche da destra alla bozza furono sostanzialmente due: l’aver delineato una
Carta Costituzionale troppo ampia e ambiziosa (Lucifero
proponeva la semplice ripresa dello Statuto Albertino) e troppo
interventista sulla società, da queste discendeva poi l’invito a separare il
più possibile la Costituzione dalla storia ed in particolare dall’esperienza
fascista. E’ in questo ambito che Lucifero ricorre al termine “afascista” per
rimarcare l’opportunità di una minore politicizzazione ideologica della carta. La risposta condivisa
da tutto il fronte favorevole al testo fu quella di ritenere l’antifascismo un
fondamentale elemento costitutivo della nuova democrazia italiana (spiccano fra gli altri gli interventi
di Togliatti che ritiene indispensabile tale carattere per evitare che nasca un
sistema politico analogo a quello che fu incapace, se non complice, di fermare
l’avvento del fascismo, e quello di Aldo Moro, al tempo giovanissimo trentenne,
che ribadì la necessità di una Carta fortemente ideologizzata in senso
antifascista per evitare il suo ridursi ad un compromesso al ribasso).
Già allora quindi fu evidente che l’alternativa fra antifascismo e afascismo
delineava due idee opposte di democrazia e che la sola condanna (spesso di comodo)
del regime mussoliniano non poteva costituire una adeguata base di comune
condivisione. L’avvento al potere nel 2022 di un erede diretto di quella
componente afascista deve quindi essere visto come un nuovo tentativo (ben evidenziato dalla citata lettera
della Meloni) di rimodulare la Costituzione antifascista
per creare una nuova e diversa democrazia. Vale la pena di capire la forma che questa
potrebbe avere nelle idee di chi la propone
6 – Democrazia afascista: avaloriale
Come
sottolineato nel Capitolo 1 la democrazia è un valore che si articola in due
dimensioni: quella delle regole e quella delle aspirazioni,
la sua validità emerge quindi dal loro rapporto ottimale. Non vi è dubbio che la democrazia
afascista di fatto si identifichi con una soltanto di queste due dimensioni,
quelle delle regole contraendola alla sola governabilità. Di tutt’altro segno come
si è visto è stata la scelta dei Padri Costituenti consapevoli che una
democrazia per quanto basata sulle libertà di parola e di espressione, su
libere elezioni, sulla pacifica transizione da una maggioranza all’altra, resta
monca se non mira a realizzare condivisi valori sociali ……. la democrazia non
vive, ma tutt’al più vivacchia o sopravvive se rinnega la sua originaria
pulsione a liberare i cittadini da condizioni di sudditanza e a conferire ad
ognuno le stesse opportunità ……
L’idea che di fatto sta ispirando l’azione dell’attuale destra governativa è invece quella di puntare
esclusivamente alla governabilità, in un vuoto valoriale che è l’inevitabile e
logica conseguenza dell’immaginare una Costituzione, ed un democrazia, slegata
da quella idea di antifascismo che tiene invece insieme regole e aspirazioni. Con
un’ulteriore rilevante aggravante: lo stretto legame che questa destra mantiene
(proprio attraverso il
refrain della governabilità, della democrazia decidente) con
la corrente di pensiero avviata dalla citata Trilaterale lascia intendere che
se una aspirazione c’è, altra non è che quella della conservazione dell’attuale
sbilanciato status quo sociale all’insegna della vuota triade di Dio, Patria e
Famiglia.
7 – Democrazia afascista: ipermaggioritaria
Ma
anche solo restando al piano delle regole non sono poche le ragioni per
diffidare e per respingere l’idea di una democrazia afascista basata sulla
governabilità (nella migliore delle ipotesi fine
a sé stessa). Immaginare che per ottenerla siano previsti
meccanismi elettorali che premiano la coalizione/partito vincente con un consistente
premio di maggioranza stravolge alla base una corretta idea di democrazia
parlamentare. Se è comprensibile che ogni maggioranza confidi di governare il
più a lungo e con il maggior agio possibili, prevedere che ciò avvenga
stravolgendo oltre misura l’esito elettorale (grazie
al premio di maggioranza) ed immaginando (grazie ad un sistema di regole che
blocca ogni cambiamento di governo/primo ministro in corso d’opera) che
tra un’elezione e l’altra ci sia posto solo per il governo e la sua iper-maggioritaria
opinione (riducendo quindi le
opposizioni a mere spettatrici) lascia intendere, dietro
la facciata afascista, un nostalgico rimando alla legge fascista (Riforma Acerbo)
che nel 1924 consentì a Mussolini di conquistare una maggioranza tale da
segnare la fine del governo parlamentare e della stessa democrazia
8 – Democrazia afascista: notabiliare
L’idea
di democrazia afascista è nata è si è via via consolidata su un retroterra di
cultura antipolitica cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni. Le
ragioni storiche che lo spiegano hanno lontana origine nel tappo geopolitico (la divisione in blocchi della Guerra
Fredda) che ha tenuto bloccato il normale avvicendamento delle
maggioranze consentendo così il formarsi di un potere clientelare e corruttivo
troppo schematicamente fatto coincidere con la definizione di “partitocrazia”
(termine coniato
dall’onnipresente Roberto Lucifero). La fine indecorosa per
via giudiziaria della Prima Repubblica (unitamente
al più complesso tramonto delle ideologie novecentesche)
non ha però innescato un percorso virtuoso di rifondazione del sistema dei
partiti, ma al contrario è stata strumentalmente utilizzata dalla vicenda
berlusconiana che ha sostituito la scelta del “partito” con quella del
“leader”. La retorica antipolitica e populista che alla fine del
secolo scorso identificava il discorso pubblico con il disprezzato “politichese”
ed il fisiologico gioco delle alleanze e del compromesso con il famigerato “inciucio”
ha (senza adeguata
consapevolezza del trapasso) messo in crisi irreversibile
il modello di democrazia antifascista nato con la Costituzione attaccando alla
base la sua idea di democrazia parlamentare (un attacco che non è venuto solo da
destra, non poco ha inciso il referendum del 2020 sulla riduzione del numero
dei parlamentari indetto dai Cinque Stelle e strumentalmente sostenuto dal PD
per far nascere il governo giallo-rosso). L’esito (tanto prevedibile quanto
sottovalutato) è in effetti consistito nella legittimazione di una
nuova casta, ben più distante di quelle precedenti dal popolo
elettore. E’ triste e preoccupante constatare che il ciclo aperto nel 1992 sia
oggi culminato nella nascita di un vero e proprio notabilato
9 – Democrazia afascista: aconflittuale
L’ultima
delle componenti che stanno caratterizzando l’evoluzione dell’idea di
democrazia afascista le sintetizza tutte in particolare collegandosi
strettamente all’ipermaggioritario. Si tratta dell’insofferenza, per nulla
celata, e dell’avversione radicale verso ogni espressione di dissenso, di
critica, ed ancor di più verso la possibilità di un aperto conflitto sociale e
politico. La distanza dalla democrazia antifascista così come delineata dalla
Costituzione non potrebbe essere più evidente. La scelta dei Padri Costituenti
di prevedere nella Carta ampie possibilità al manifestarsi del conflitto, al
suo libero esprimersi e organizzarsi, non è stata dettata da una teorica
adesione alla corrente di pensiero politico che, a partire dalla Rivoluzione
Francese, ha visto in esso un fondamentale fattore di progresso e di crescita
degli spazi di libertà ed uguaglianza, ma si spiega soprattutto con la loro attenzione al
concreto contesto storico in cui la nuova democrazia stava nascendo.
Vent’anni di feroce dittatura e di violenta soppressione di ogni dissenso non
potevano non indurre a far sì che la svolta democratica garantisse il più
possibile l’esatto opposto, inoltre la stessa esperienza dell’opposizione al
fascismo e della lotta partigiana testimoniavano che la comune avversione verso
il fascismo non cancellava la fisiologica esistenza, al suo interno, di
differenti punti di vista anche radicalmente opposti. Sono state queste due
concrete evidenze a far considerare impossibile che la riconquistata libertà soffocasse
i possibili conflitti sociali e politici, per i quali venne giustamente previsto
un loro equilibrato e tollerante contenimento, allineando in tal
modo la democrazia italiana al comune sentire di tutte le vere democrazie. In
meno di due anni di governo appare invece evidente che la nascente democrazia
afascista rubrica come caos e disordine ogni forma di contestazione e di
dissenso. Ogni critica è vista come una pugnalata alle spalle, un complotto,
come un inaccettabile intralcio nella gestione del potere. Ogni forma di
conflitto anche soltanto quella di contestare, nelle aule del parlamento
piuttosto che sui media o negli spazi sociali, viene vista come una
interferenza fastidiosa e disfattista. Palazzo Ghigi rischia di avere sulla
porta lo stesso cartello degli autobus di una volta: “si prega di non disturbare il conducente”.
10 – Prometeo scatenato
Si è citata in precedenza la provocatoria rivendicazione di afascista lanciata dallo scrittore Giuseppe Berto per molti versi anticipatrice di attuali identiche proclamazioni. Pochi mesi dopo, 1974/1975, irrompe sulla scena culturale e politica un’altra provocazione: in successivi articoli Pier Paolo Pasolini critica l’antifascismo retorico e cerimoniale reo, a suo avviso, di non sapersi ri-coniugare adattandosi ai tempi nuovi segnati dall’esplosione del consumismo di massa e del collegato oblio di valori sociali e politici. A ben vedere sono state entrambe delle prese di posizione che, con sentire diverso, rispondevano all’invito di Gobetti a “studiare il fascismo” per capire la sua capacità di intercettare umori presenti nel popolo e di usarla per imporre soluzioni autoritarie ed una visione gerarchica della società. Quanto è stato fin qui ripercorso attorno al concretizzarsi di una nuova destra capace di proporre (e di iniziare ad attuare) un’idea di democrazia afascista ripropone la stessa urgenza di comprensione. Un dato va coraggiosamente riconosciuto: il fascismo è un fenomeno culturale e politico pienamente inserito nella modernità europea che si è dimostrato vincente là dove e quando è stato capace di intercettare tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse (le “passioni tristi” di Baruch Spinoza). In questa veste non è mai stato debellato del tutto ed è rimasto sottotraccia aspettando l’occasione per riprendersi il centro della scena, seppure sotto mutate insegne, intercettando le nuove tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse. L’antifascismo è stato e resta, di conseguenza, il valore essenziale per combatterlo, oggi come allora, ma solo se si dimostra capace di difendere le libertà coniugandole con una visione alternativa di società non meno adattata ai tempi nuovi. Occorre ripartire da qui andando oltre la sola denuncia del pericolo del ritorno al fascismo-regime per combattere, avendola studiata in tutte le sue molteplici articolazioni, la sua nuova versione sintetizzata nella democrazia afascista ed il suo connesso progetto di una nuova società gerarchica, il cui nemico principale resta l’uguaglianza sociale e politica declinata nel nuovo contesto storico. In questo senso denunce come quella di Pasolini (di ben cinquant’anni fa!) non devono spaventare, possono anzi essere un utile pungolo ad avere coscienza che il percorso virtuoso avviato con la Costituzione, con la sua idea di democrazia antifascista, e durato qualche decennio sembra aver segnato il passo. Il richiamo di Gobetti resta tutt’oggi esemplare: sarebbe davvero un dramma se l’afascismo, come il fascismo di un secolo fa, vincesse soprattutto grazie ai demeriti di chi ad esso deve opporsi.
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