domenica 16 giugno 2024

Il "Saggio" del mese - Giugno 2024

 

Il “Saggio” del mese

 Giugno 2024

Non diversamente da quello della “libertà”, il filo conduttore degli incontri del nostro programma 2023/2024, non vi è dubbio che anche il tema dell’ “uguaglianza”, altrettanto fondamentale nella storia culturale della Modernità europea, richieda un’analoga attenzione per meglio capire il suo stato di salute nell’attuale epoca così ricca di profonde trasformazioni. E d’altronde fra questi due valori esiste, a partire dallo storico motto della Rivoluzione Francese, uno stretto rapporto che si è da sempre concretizzato nella progressiva conquista di spazi di “democrazia”. Il Saggio di questo mese affronta proprio questa relazione analizzando come le attuali democrazie europee stiano affrontando l’innegabile ed accresciuta incidenza del suo esatto opposto: la “disuguaglianza”.

i suoi due autori sono: Leonardo Morlino (1947, politologo, professore emerito di Scienza Politica presso la LUISS di Roma)


 Francesco Raniolo (1965, professore di Scienza Politica presso l’Università della Calabria)

Partendo dalla convinzione, confermata da ricerche e studi di economisti, sociologi, studiosi di politica, che la democrazia fornisca, oggettivamente, le opportunità più rilevanti per una maggiore uguaglianza, il saggio di Morlino e Raniolo si prefigge di analizzare le concrete esperienze europee di contrasto dell’attuale disuguaglianza per individuare quali soluzioni si siano effettivamente dimostrarsi più efficaci. Il saggio contiene infatti numerose tabelle e grafici (purtroppo qui non replicabili) che giustificano le considerazioni empiriche presentate e, pur non essendo quindi una trattazione teorica e concettuale, per meglio articolare questa indagine presenta nelle prime parti interessanti indicazioni su cosa si debba oggi intendere con “disuguaglianza” un concetto che, rispetto alla sua declinazione originaria mirata soprattutto alle condizioni materiali di esistenza, si è sempre di più esteso ad ambiti diversi

Le definizioni, per cominciare

I profondi cambiamenti avvenuti nel tessuto economico e sociale hanno arricchito il concetto storico di uguaglianza di una significativa gamma di significati, tale da imporre la ricostruzione, aggiornata all’attuale contesto storico, di una “grammatica dell’uguaglianza”. Parliamo comunque di un ideale che da sempre deve fare i conti con una certa consapevolezza di una sua concreta inapplicabilità, da un punto di vista empirico è infatti evidente che l’uguaglianza fra individui diversi non potrà mai essere realizzata alla lettera. Una sua aggiornata grammatica, che si prefigga di affrontare con realistiche finalità di successo le attuali diffuse disuguaglianze, deve allora rispondere con la maggiore chiarezza possibile alla domanda: l’ideale dell’uguaglianza tra chi e rispetto a che cosa potrebbe essere realizzato? E prima ancora si impone una domanda ancora più significativa: perché gli uomini dovrebbero essere uguali? che ha sin qui storicamente avuto tre risposte:

Ø una etica = l’uguaglianza va perseguita perché è giusto che sia così, una società che tolleri la disuguaglianza non persegue l’ideale della giustizia. E’ questo un punto centrale della filosofia politica contemporanea (ad esempio nella “Teoria della giustizia” del filosofo statunitense John Rawls, teorico della socialdemocrazia, il suo pensiero ha mirato a conciliare la libertà con la giustizia sociale e l'uguaglianza sostanziale) che, consapevole della inapplicabilità di cui si è detto, ha peraltro evidenziato l’emblematica esistenza di una certa disponibilità a tollerare una qualche disuguaglianza a fronte però del rigido rifiuto dell’idea di vivere in una società ingiusta

Ø una strumentale = il valore dell’uguaglianza non sta tanto in sé stesso, ma nel fatto che è un mezzo indispensabile per realizzare altri ideali quali dignità, autonomia, libertà politica e civile

Ø una che guarda agli effetti del suo opposto, la disuguaglianza = anche solo da un punto di vista strumentale appare evidente che una società con forti disuguaglianze è soggetta a numerosi e gravi costi (tra gli altri li evidenzia l’economista Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001 per l’economia, nel suo saggio “Il prezzo della disuguaglianza”) per inefficienze, minore produttività, maggiore instabilità

Come rispondere allora alla prima domanda, uguaglianza tra chi e per che cosa? occorre innanzitutto precisare che le possibili risposte si dividono tra quelle che investono tutti i membri di una società, e quelle che invece riguardano soggetti specifici. E’ una precisazione importante perché chiama in causa proprio le diverse declinazioni del concetto di uguaglianza intervenute nel corso del tempo molto sinteticamente riassumibili in:

Ø uguaglianza/disuguaglianza economica = è quella che di più investe tutti i membri della società e che, proprio per questo è da sempre ritenuta la più rilevante. E’ facilmente misurabile perché è determinata dal reddito pro-capite (o familiare), comunemente per farlo viene utilizzato l’indice, o coefficiente, di Gini (introdotto dallo statistico italiano Riccardo Gini misura, con un numero da 0 a 10, oppure 100, il livello di concentrazione della ricchezza di un paese, con 0 che indica che tale ricchezza è divisa in modo uguale tra tutti e 10, o 100, che al contrario indica che essa è in capo ad una sola persona. In tutta Europa è in costante aumento da alcuni decenni, nel 2021 è arrivato a 30,1)

Ø uguaglianza/disuguaglianza sociale = ovvero le disparità che riguardano lo status sociale (lavoro, livello di istruzione, possesso di abitazione, stato di salute, accesso ai servizi fondamentali) di tutti i membri della società, spesso derivanti da quella economica anche se possono intervenire altri fattori. Nelle società attuali è determinata soprattutto dall’estensione e dall’efficacia del sistema di welfare

Ø uguaglianza/disuguaglianza di genere = anche questa ha valenza generale ed è emersa solo di recente essendo stata per secoli ignorata in società a forte impronta maschilista. E’ determinata da indicatori che misurano parametri quali differenze salariali, possibilità di accesso a lavori e ruoli sociali e politici e di raggiungimento di posizioni apicali in diversi ambiti. Ancora più di recente sono rientrati in questo ambito le discriminazioni verso gruppi sociali più specifici definiti dal loro orientamento sessuale

Ø uguaglianza/disuguaglianza intergenerazionale = ossia la diversa attenzione riservata alle vecchie e nuove generazioni con le differenti ricadute in termini di occupazione e sicurezza sociale. E’ misurata da indicatori che indicano le possibilità di accesso a ruoli e servizi

Ø uguaglianza/disuguaglianza etnica = assomma discriminazioni di vario genere con carattere storico con quelle che colpiscono le più recenti ondate immigratorie. E’ quindi più difficile da misurare inglobando indicatori economici (salari e possibilità occupazionali), di protezione sociale, e non ultimi di riconoscimento culturale e religioso.

Soprattutto queste tre ultime disuguaglianze chiamano in causa un aspetto che ha comunque carattere universale perchè precisa la differenza fra una uguaglianza che può essere meglio realizzata intervenendo sulle opportunità di partenza ed una che richiede di essere affrontata valutando i risultati di una intervenuta disuguaglianza. E’ una diversità fondamentale, perché implica azioni differenti per delineare e attuare adeguate politiche di contrasto delle disuguaglianza (aspetto esaminato nella parte finale del saggio). Morlino e Raniolo lasciano infine per ultima una particolare forma di uguaglianza/disuguaglianza, quella politica. In ambito accademico è questione aperta la sua stessa esistenza come forma a sé stante, alcuni sostengono che lo è in quanto in essa confluiscono tutte le varie forme di uguaglianza/disuguaglianza a formarne una sola di fatto assimilabile alla realizzazione di una piena democrazia (in termini di trasparenza, partecipazione e rappresentanza), l’unica opzione in grado di dare loro soluzione concreta. Altri invece, pur concordando sul ruolo fondamentale della democrazia, ritengono che quand’anche essa fosse pienamente realizzata in tutte le sue componenti resterebbero sempre necessarie specifiche politiche mirate a risolvere, nel loro merito, le varie disuguaglianze. Morlino e Raniolo concordano con questa seconda visione e quindi, coerentemente, esaminano quali istituzioni, meccanismi decisionali e modalità di esercizio democratico meglio si prestano alla realizzazione di politiche di efficace contrasto delle disuguaglianze, concentrando però la loro attenzione soprattutto su quella socio-economica

Le condizioni politico-istituzionali e le strutture di opportunità

La democrazia si è progressivamente affermata in tutto l’Occidente avendo come principale riferimento ideale quello della libertà impostando quindi su di esso norme, istituzioni e meccanismi decisionali. Diventa quindi fondamentale capire se questo modello di democrazia è in grado di coniugare al meglio libertà e uguaglianza, una relazione tutt’altro che priva di complicazioni. Una storica corrente di pensiero ha sempre sostenuto che l’obiettivo di una elevata uguaglianza socioeconomica entri inevitabilmente in conflitto con le libertà individuali in particolare in una società come quella capitalistica basata sulla libera iniziativa individuale (è ad esempio la posizione lucidamente esposta, nella sua opera “La società libera” da Friedrick von Hayek, 1899/1992, economista e sociologo considerato uno dei padri nobili del moderno neoliberismo). Altri pensatori (fra i quali emerge il già citato John Rawls) hanno sviluppato opposte teorie in cui uguaglianza e libertà non solo si integrano, ma anzi una è condizione dell’altra. Si tratta di una querelle culturale probabilmente destinata a protrarsi all’infinito, ma se dal piano ideale si passa all’osservazione empirica (mettendo a raffronto i dati dell’indice di Gini e quelli degli indicatori di libertà, si rammenta che tutte le osservazioni di Morlino e Raniolo sono sviluppate partendo da analisi empiriche, tradotte in tabelle e grafici, svolte nell’ambito di studi accademici)  del concreto rapporto tra livello di libertà democratiche realizzate e indicatori del grado di disuguaglianza  i dati raccolti nell’arco degli ultimi decenni in tutti paesi europei confermano l’esistenza di una loro precisa interdipendenza, ossia che il miglioramento o il peggioramento di una trascina con sè un impatto sull’altra. Là dove le politiche messe in atto hanno premiato in modo ampio le libertà individuali, soprattutto in campo economico (si pensi ad esempio alla Gran Bretagna thatcheriana), si è registrato una correlata crescita delle disuguaglianze, parimenti, come controcanto, là dove politiche di forte contrasto delle disuguaglianze (si pensi ad esempio ai paesi dell’Est europeo sotto controllo sovietico) sono state messe in atto comprimendo spazi di libertà non sono mai stati conseguiti, sul medio-lungo periodo, risultati confortanti (oltretutto molto spesso accompagnati da un aumento del livello medio di povertà). Non è di meno dato storico acquisito che la difesa conservatrice di un alto livello di disuguaglianza ha sempre implicato la restrizione di spazi di libertà collettiva e che, al contrario, politiche di contrasto delle disuguaglianze mirate a rafforzare aspetti fondamentali come istruzione, salute e tenore di vita, hanno rafforzato la conquista e la difesa delle libertà collettive. Le stesse politiche di mantenimento dell’ordine pubblico e di contrasto di fenomeni degenerativi come la corruzione e l’economia sommersa, realizzabili solo a fronte di istituzioni politiche e giudiziarie democratiche, imparziali e funzionanti, rappresentano un contributo importantissimo sia per la difesa della libertà reale delle persone sia per il contrasto delle disuguaglianze legali ed illegali. Se quindi sono rintracciabili elementi oggettivi di conforto sul fatto che la relazione tra la dimensione della libertà e quella della uguaglianza/disuguaglianza possa avere una declinazione positiva per entrambi questi valori vale la pena rilevare un ulteriore aspetto, anch’esso confortato da analisi oggettive, relativo alla forma di democrazia. Se si punta ad individuare quale forma di democrazia può meglio interpretare e declinare questa relazione, la valutazione si restringe a prendere in considerazione due sue tipologie di base: le democrazie maggioritarie, quelle in cui il vincitore delle elezioni si riserva il diritto esclusivo delle scelte politiche, e le democrazie consensuali, quelle in cui queste scelte avvengono anche con un coinvolgimento delle opposizioni e dei corpi intermedi della società. Il dato che emerge dalle rilevazioni prese in esame attesta che la democrazia consensuale si rivela decisamente quella più adatta a patto però che sia davvero solido il coinvolgimento di tutti i corpi intermedi coinvolti nelle specifiche scelte, aspetto questo che si è rivelato persino più rilevante del formale assetto politico-istituzionale. Vale a dire che, quale che sia la forma della democrazia, occorre prestare particolare attenzione a come si muovono, sempre con riferimento alla relazione “libertà (ovvero democrazia)disuguaglianza”, gli elementi istituzionali (strutture e organizzazioni politiche ed economiche nazionali ed internazionali) e gli attori sociali (individui, gruppi, classi, soggetti politici e sindacali, associazioni) che al loro interno agiscono in reciproca influenza. In estrema sintesi il quadro normativo d’insieme che viene prodotto dalle loro azioni può essere definito come un insieme di regole che mirano a gestire, sulla base di soggettivi criteri politici e ideologici, la distribuzione delle risorse prodotte dalla società, i comportamenti di individui e gruppi, la regolazione dei potenziali conflitti, e che producono come risultato finale l’assetto generale – economico, politico, sociale – di una data società. Da ormai più di duecento anni questo processo, che ha valenza generale perlomeno nel contesto occidentale, avviene nella struttura socioeconomica capitalistica di mercato (di norma composta da quattro macro aree: il sistema di produzione e finanziario, il mercato del lavoro, il sistema di welfare, le relazioni industriali interne ed estere). La fotografia storica degli ultimi decenni (che media la situazione anni 90 fortemente influenzata dal neoliberismo globalizzato e quella post crisi economica 2007/2008) delle ricadute sulla relazione libertà/democrazia-disuguaglianze sintetizza (ferme restando le pur significative specificità) un quadro che vede quattro diverse situazioni ognuna con proprie caratteristiche fondamentali:

1.  Economie di mercato fortemente liberiste (Gran Bretagna, Irlanda) = accentuata disuguaglianza

2.  Economie di mercato miste (Spagna, Italia, Portogallo, Grecia) = alta disuguaglianza

3.  Economie di mercato post comuniste (Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Bulgaria) = alta/moderata disuguaglianza

4.  Economie di mercato coordinate (Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Belgio, Olanda, Francia, Germania) = moderata/bassa disuguaglianza

L’elemento attorno al quale si snodano queste differenti situazioni è ovunque rappresentato dal rapporto tra crescita e redistribuzione, ossia la volontà e la capacità di politiche del reddito di incidere sull’eccesso di concentrazione della ricchezza prodotta. Se è vero che la sola redistribuzione non rappresenta una soluzione alla fonte del problema (i meccanismi di mercato che consentono i mega profitti) è però innegabile che essa rappresenta per le democrazia una leva fondamentale per mitigarne, a valle, gli effetti. Ma quali sono gli assetti istituzionali democratici che sembrano meglio svolgere tale ruolo che si articola di fatto su tre indicatori: livello di reddito, tasso di crescita, livello di disuguaglianza (economica)? Applicandoli, con una sguardo rivolto agli stessi decenni, alla precedente suddivisione delle economie di mercato, con la sola eccezione di quelle post-comuniste che presentano un quadro a sé stante molto differenziato e disomogeneo, emergono sostanzialmente tre correlate fasce di economie:

Ø quelle caratterizzate da crescita non inclusiva con basso livello di redistribuzione (Gran Bretagna, Irlanda) accompagnato da un sistema di welfare neoliberista molto limitato

Ø quelle caratterizzate da crescita inclusiva con un adeguato livello di redistribuzione (tutti i paesi del Nord Europa, Francia e Germania) con un buon livello di welfare

Ø quelle caratterizzate da bassa crescita non inclusiva con inadeguato livello di redistribuzione (i paesi del Sud Europa) con un livello di welfare magari anche potenzialmente buono ma limitato dalle risorse disponibili

Sembra poi emergere, per ognuna di queste tre fasce, una stretta correlazione con le corrispondenti caratteristiche del sistema politico: la prima fascia si abbina ad una democrazia fortemente maggioritaria, quella intermedia ad una prevalentemente consensuale, la terza ad una contraddittoria articolazione fra maggioritaria e consensuale. Va da sé che questo intreccio di classificazioni non deve essere inteso come un giudizio di merito delle singole specifiche situazioni, le quali presentano ovviamente non poche varianti ben più complesse e articolate, ma come un inquadramento in categorie ampie utile a meglio comprendere l’ineliminabile forte relazione tra forme di democrazie e quadro della disuguaglianza economica. In questo senso diventa non meno importante approfondire, in logica successione, il legame di tale relazione con la domanda di uguaglianza espressa dagli strati sociali più interessati e con la sua capacità storica di incidere e dare forma all’assetto democratico. E’ infatti evidente, anche solo guardando ai tempi più recenti, che la richiesta di uguaglianza è molto cambiata nel suo radicamento e nelle sue forme di manifestazione, anche grazie all’innegabile diffusione di un certo innegabile benessere avvenuta nel secondo dopoguerra. Una prima percezione, tutta da verificare e precisare, lascerebbe intendere una minore rilevanza del valore dell’uguaglianza (economica) anche se, sempre in linea generale, è altrettanto lecito presuppore una certa differenza fra paesi del Centro-Nord, quelli pervenuti per primi a diffusi livelli di benessere, e paesi del Sud europeo, storicamente più arretrati. Per entrare meglio nel merito sono opportuni alcuni chiarimenti preliminari su cosa si debba intendere per domanda (quando si esprime come orientamento collettivo) e sulle modalità con le quali essa si forma e si esprime. Anche in questo caso si è di fronte ad un tema non poco complesso non a caso quindi oggetto di specifiche analisi, Morlino e Raniolo si limitano qui a richiamare alcuni studi (in particolare quelli di Robert Dahl, 1915/2014, politologo statunitense) che hanno modellato il formarsi delle domande sociopolitiche, intese come atteggiamenti ed aspettative relative a specifici aspetti della realtà socioeconomica così come percepita, come un processo articolato su tre passaggi: macro – micro – macro. Il dato di partenza, macro iniziale, è quello di un situazione oggettiva che incide sulle condizioni di vita collettive, questa situazione viene vissuta e quindi interpretata da ogni singolo attore sociale, livello micro, questa interpretazione è a sua volta influenzata da alcuni soggetti/meccanismi – in particolare sistema dei partiti, regole del gioco democratico e istituzionale, organizzazioni sociali e istituzioni, reti sociali e famigliari – innescando così un meccanismo di aggregazione, ritorno al macro. Si è quindi di fronte ad un meccanismo complesso ed in così costante evoluzione da rendere molto instabili, specie sul medio/lungo periodo, le domande collettive che, nel caso specifico, fissano le priorità fra le tre principali dimensioni del contendere sociale: sicurezza, benessere, libertà. Non deve pertanto stupire che, proprio in relazione al mutare di questo intreccio macro-micro-macro, la loro domanda abbia un andamento altalenante, aspetto che si è di molto accentuato negli ultimi decenni a causa dell’influsso, non di rado distorsivo, dell’impressionante sviluppo delle comunicazioni di massa all’interno di una società sempre più complessa e frazionata. Appare comunque evidente, anche in questo caso, il peso della relazione con la democrazia, con le due molteplici forme e con il suo traballante stato di salute, sul formarsi e sull’esprimersi delle domande collettive, quella dell’uguaglianza ovviamente compresa. Non è comunque per nulla semplice in un quadro di questo tipo delineare con adeguata precisione l’attuale domanda diffusa di uguaglianza, può venire in soccorso, fornendo importanti dati empirici relativi al periodo 2017/2021, una indagine recentemente svolta dall’European Value Study (un indagine svolta in ambito accademico europeo che, a partire dal 1981 e oramai giunta alla settima edizione, periodicamente fornisce, sulla base di sondaggi scientificamente svolti e certificati, indicazioni su quello che gli europei pensano della vita, della famiglia, del lavoro, della religione, della politica e della società) che ha raccolto le opinioni, di un campione significativo in tutti paesi europei, sull’importanza del superamento delle disuguaglianze socioeconomiche collocandole in una scala i cui estremi erano costituiti da un lato da una opzione fortemente egualitaria (occorre realizzare la massima uguaglianza possibile)  e dall’altro da una nettamente competitiva (l’intraprendenza e le doti individuali devono essere premiate). Sono emerse preziose indicazioni di sicuro collegabili alle precedenti analisi che ci dicono che all’estremo competitivo si trova la Svezia, seguita da Norvegia e Danimarca, ossia  paesi a modello socialdemocratico con un basso livello di disuguaglianza, rendendo legittima l’ipotesi che in un consolidato contesto egualitario possa (ri)diventare fisiologica una propensione ad una certa accentuazione individualistica. Ma al contempo un identico atteggiamento emerge in due paesi come la Polonia e la Romania che presentano al contrario un accentuato livello di disuguaglianza, per di più accompagnato da evidenti spinte nazionalistiche e da tendenze illiberali. Un dato che invece, altra discordanza, non è così marcato negli altri paesi post-comunisti come l’Ungheria e la Bulgaria per nulla dissimili, anzi, da Polonia e Romania. Non meno eterogeneo è il gruppo dei paesi che esprimono un orientamento a favore della riduzione delle disuguaglianze, i cui valori più alti sono quelli di Spagna e Portogallo seguiti a discreta distanza da Francia, Grecia e Italia, con la Germania sostanzialmente allineata al valore medio delle preferenze. Un qualche aiuto per meglio comprendere è offerto da una seconda rilevazione relativa alla condivisione dell’opportunità dell’intervento dello Stato per la riduzione delle disuguaglianze. La Svezia anche in questo caso è al primo posto nel ritenere importante tale ruolo statale, un’indicazione all’apparenza opposta a quella precedente la cui unica spiegazione può consistere nel fatto che tale ruolo è storicamente dato per scontato, ma nuovamente ciò vale anche la Polonia, paese per il quale questa considerazione certo non vale. Altrettanto contraddittorio appare l’opinione raccolta nei paesi del Sud Europa (Italia in testa) che pur orientati verso la riduzione delle disuguaglianze non ritengono opportuno affidare questo compito allo Stato, forse perché, all’esatto opposto degli svedesi, storicamente disillusi sulla sua concreta volontà e capacità di incidere in tal senso. Come si può constatare si è di fronte ad una diversità di atteggiamenti di difficile decifrazione, ma che bene testimonia il vuoto ideologico lasciato dalla fine dell’universalistico idealismo egualitario di stampo ottocentesco e novecentesco. Eppure, altra contraddizione che richiederebbe specifici approfondimenti, un dato unifica tutto il ventaglio delle opinioni raccolte dall’indagine dell’European Value Study: al di là delle diverse declinazioni, la disuguaglianza economica è ritornata ad essere ovunque percepita, soprattutto dopo la crisi 2007/2008 e gli effetti lunghi della pandemia, un tema oggettivamente presente e cruciale. (è però sempre opportuno ricordare la variabilità delle priorità di domanda di libertà, sicurezza e uguaglianza di cui si è detto). Riprendendo il tema della relazione democrazia/disuguaglianza sembra comunque possibile sostenere che le diversità qui evidenziate siano in gran misura spiegabili proprio con la diversa percezione della solidità e dell’efficienza dei singoli sistemi democratici chiamati ad intervenire, al punto da rendere sostenibile l’idea che tale relazione si sia evoluta come un binomio tra disuguaglianza e insoddisfazione per la qualità democratica.

Nei successivi tre Capitoli Morlino e Raniolo analizzano l’evoluzione del quadro politico europeo per cogliere quali concreti percorsi, a sinistra e a destra, si siano manifestati per spiegare, ovvero per intercettare, spesso strumentalmente, questa insoddisfazione. Per quanto di sicuro interesse non sono stati qui sintetizzati, per mantenere ferma l’attenzione sul tema centrale del saggio: la relazione fra libertà/democrazia e uguaglianza/disuguaglianza

Nell’ultima parte del saggio Morlino e Raniolo prendono in esame gli ostacoli che inevitabilmente intervengono a complicare le politiche contro la disuguaglianza sia che mirino alla rimozione delle cause strutturali che la determinano sia che puntino ad attutirne gli effetti. Nell’attuale fase storica il primo ostacolo è sicuramente rappresentato dalla restrizione degli spazi di manovra imposta dai vincoli della globalizzazione (peraltro la causa principale, nella sua versione neoliberista, dell’impressionante aumento delle disuguaglianze economiche). A lungo l’ideale dell’uguaglianza è stato declinato in strategie politiche che guardavano al singolo contesto nazionale accompagnate, con non minore enfasi, dalla visione utopica di un egualitarismo universalistico (si pensi alle varie Internazionali socialiste e comuniste), oggi, nell’era della globalizzazione realizzata, tale visione ha smesso di essere una scelta volontaria per divenire un passaggio obbligato: le rigide interdipendenze delle economie locali rendono oggettivamente impossibili soluzioni a livello di singolo paese. Si aprono semmai spazi per politiche ugualitarie quantomeno a livello di ampia area omogenea, ed in questo senso proprio la UE possiede i giusti requisiti di partenza e le necessarie potenzialità. Una seria volontà democratica a procedere in questa direzione dovrebbe però tradursi in comuni politiche del reddito e della protezione sociale piuttosto che in interventi di regolazione a monte delle logiche di mercato, al momento però stante il tormentato percorso di costruzione comunitaria non sembra di cogliere adeguate attenzione e tensione ideale in questa direzione. La dimensione comunitaria potrebbe inoltre rappresentare un non meno importante aiuto per affrontare il secondo decisivo ostacolo rappresentato dal debito pubblico, dalla sua consistenza e dalle sue attuali logiche. Come è noto il quadro europeo della consistenza del debito pubblico varia moltissimo da paese a paese (si passa dal rapporto debito/pil del 172% della Grecia e del 141% dell’Italia al 66% della Germania e del 33% della Svezia, dati 2022) anche se per tutti va registrato una consistente impennata dovuta alla recessione del 2007/2008 ed alla emergenza pandemica.  Ma ben più dei numeri incidono lo stato di salute, valutato sul lungo periodo, delle rispettive economie e la specifica struttura del debito che, là dove troppo aggravata dal peso degli interessi, accentua la rigidità della situazione debitoria. Strettamente connesse al debito sono poi le famose tre “C” che incrinano dall’interno la legittimità delle democrazia: clientelismo, corruzione, criminalità organizzata, che presentano analoghe grandi diversità tra un paese e l’altro (anche in questo caso l’Italia non gode di certo una buona salute). In un simile contesto non è certo facile immaginare politiche del reddito concertate ed omogenee, ma la soluzione comunitaria resta l’unica via percorribile per una efficace lotta alle disuguaglianze che, altro ostacolo di non poco conto, non deve solo mediare le diversità fra paese e paese, ma anche quelle, tecnicamente definite divergenze territoriali, che esistono fra loro aree interne (ad es. Nord e Sud Italia, ma anche Est e Ovest della Germania) che, fra l’altro, molto incidono sulle scelte elettorali e sulle conseguenti politiche di contrasto alle disuguaglianze. Il quadro degli ostacoli, qui sintetizzato con riferimento solo a quelli più eclatanti, è così complesso ed articolato da rappresentare oggettivamente un vincolo molto pesante, ma è pur vero che, soprattutto nelle fasi di crisi  ossia nelle congiunture storiche che di più si prestano ad innescare cambiamenti, nelle pieghe dei meccanismi democratici, così come abbiamo visto, sono presenti potenzialità adatte ad affrontare con adeguata incisività l’attuale preoccupante livello delle disuguaglianze. Non mancano analisi, riflessioni e proposte in tal senso, a formare un bagaglio di idee attorno al quale (ri)costruire una nuova visione egualitaria adatta agli attuali contesti economici e sociali. Morlino e Raniolo indicano in particolare il prezioso lavoro di Adrian Atkinson (1944/2017, economista britannico studioso della disuguaglianza e dell’economia del benessere, mentore dello stesso Thomas Piketty e fondamentale punto di riferimento dell’italiano Forum delle Disuguaglianze e Diversità di Fabrizio Barca) che nel suo testo del 2015 “Disuguaglianza: che cosa si può fare(Raffaello Cortina editore) sintetizza le azioni concrete che dovrebbero ispirare tutte le democrazie nella irrimandabile lotta alle disuguaglianze basata sui consolidati strumenti della leva fiscale e dell’estensione, quantitativa e qualitativa del welfare. In questo stesso senso citano inoltre il lavoro di Maurizio Franzini e Mario Pianta che nel loro saggio “Disuguaglianze: quante sono, come combatterle(Laterza, 2016) sintetizzano, riprendendo parte delle azioni concrete di Atkison, alcuni passaggi altrettanto importanti:

1.  Riequilibrare i rapporti capitale/lavoro

Ø  regolare e ridimensionare la finanza

Ø  limitare le posizioni di rendita

Ø  distribuire in modo equo i benefici della tecnologia e gli aumenti di produttività

Ø  introdurre un salario minimo e riconoscere un ruolo maggiore ai contratti di lavoro

2.  Contenere il capitalismo oligarchico

Ø  controllare i super-redditi

Ø  aumentare le imposte di successione

3.  Contrastare l’individualizzazione delle condizioni economiche

Ø  ridurre le frammentazione dei contratti di lavoro

Ø  rafforzare l’istruzione pubblica

4.  Tornare ad efficaci politiche di redistribuzione

Ø  tassare in modo appropriato la ricchezza a livello nazionale e internazionale

Ø  accrescere le progressività delle imposte sul reddito delle persone fisiche

Ø  introdurre un reddito minimo



sabato 1 giugno 2024

La Parola del mese - Giugno 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GIUGNO 2022

Un orologio analogico ha tre lancette diverse per lunghezza e per velocità di movimento: quella più lunga e più veloce segna i secondi, quella media per lunghezza e velocità segna i minuti, quella più corta e più lenta segna le ore. Usando queste lancette per rappresentare tre fattori fondamentali della società potremmo dire che quella dei secondi rappresenta la politica, la sua invadenza e la sua frenetica e mutevole attività, quella dei minuti indica i cambiamenti dell’economia non meno visibili ma di certo più lenti, quella delle ore segna i cambiamenti della popolazione tanto fondamentali quanto poco evidenti perché molto più rallentati. Eppure conoscere l’ora è il dato più importante perché dà senso, essendo da loro costruito, ai minuti ed ai secondi. La Parola di questo mese indica la scienza che studia i movimenti di questa lancetta, politica ed economia dovrebbero conoscerla bene per capire che tempo stanno segnando e in che direzione si va. Purtroppo quasi mai è così

DEMOGRAFIA

Demografia = parola composta derivata dal greco “demos”, popolo, e “graphia”, descrizione/scrittura, indica lo studio dei fenomeni che si riferiscono alla popolazione ed in particolare al suo ammontare, alla sua composizione, al suo sviluppo ed ai suoi caratteri generali, considerati principalmente da un punto di vista quantitativo

Nessuna paura! questo post non sarà sommerso da dati e tabelle, semplicemente utilizzerà alcuni rappresentazioni grafiche, definite “piramidi o navi”, utili a capire come i movimenti della popolazione (che come si è detto sono lenti e quindi in buona misura prevedibili) siano quelli che, a saperli leggere, fanno intuire quello che con buona probabilità succederà “domani” e che, conoscendoli, dovrebbero orientare molte delle scelte di “oggi. Tutte queste raffigurazioni, con le correlate osservazioni, sono tratte da un libro davvero interessante

il cui autore è Francesco Billari (statistico specializzato in demografia e rettore dell'Università commerciale Luigi Bocconi)

  

La nascita della moderna scienza demografica viene comunemente attribuita al lavoro pioneristico del matematico prussiano Johann Sussmilch (1707/1767), anche se il termine demografia viene ufficialmente usato per la prima volta solo nel 1855 dallo statistico francese Achille Guillard. Ma è solo nel corso del Novecento che la sistemazione di una più accurata raccolta dati ha consentito un suo autentico progredire. Molto a lungo nel campo degli studi demografici è brillato il solo nome di Thomas Robert Malthus (1766/1834, economista, filosofo e demografo inglese) con il suo famoso saggio del 1798 “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, in cui sosteneva la tesi, smentita dal concreto procedere storico, che l’aumento della popolazione avrebbe compromesso lo sviluppo economico

Billari giustamente precisa nel prologo che la possibile prevedibilità dei futuri scenari demografici non significa che questi non siano modificabili e che non si possano orientare in una direzione auspicata se non necessaria. Certo è che perché ciò succeda politica ed economia dovrebbero considerare con maggiore e più costante attenzione le indicazioni offerte dagli studi demografici. Non è proprio quello che è sin qui successo, le scelte strategiche, politiche ed economiche, sembrano essere sempre state molto più ispirate da altri fattori, la demografia è stata a lungo interpellata unicamente come fotografia a posteriori. Un errore, a lungo forse non così grave, che è però diventato imperdonabile a partire dalla seconda metà del secolo scorso quando la combinazione fra l’impressionante crescita economica ed il formidabile sviluppo scientifico e tecnologico ha creato le condizioni per quella che tecnicamente viene definita “transizione demografica”, ossia il grande passaggio da un mondo, mediamente più povero, con alti tassi di mortalità e natalità ad un mondo, mediamente più ricco, con bassi tassi di mortalità e natalità. Due rappresentazioni grafiche evidenziano con chiarezza, se messe a confronto, l’impatto della transizione demografica sulla consistenza, e sulla ripartizione per età, della popolazione mondiale

Popolazione del mondo nel 1950 (dati ONU)

In questo anno, in un mondo che stava finalmente sanando le ferite globali del secondo conflitto mondiale, la popolazione supera i 2,5 miliardi di abitanti. Un balzo impressionante rispetto alla vigilia dell’era industriale quando, nel 1750, constava solamente di 770/790 milioni di persone, (il miliardo di abitanti viene raggiunto solamente nel primo decennio dell’800) in soli duecento anni la popolazione mondiale si era cioè triplicata. Ma è nulla a confronto di quanto è poi avvenuto nei settant’anni successivi.

Popolazione del mondo nel 2020 (dati ONU)


In pochi decenni la popolazione mondiale si è nuovamente triplicata passando a 7,82 miliardi nel 2020 (nel 2023 ha superato gli otto miliardi ed è stimata in 8,66 miliardi). E’ l’effetto congiunto dei due fenomeni che hanno caratterizzato la transizione demografica, ma alcune evidenze ci dicono che questo impressionante salto è spiegabile soprattutto con il basso (bassissimo se confrontato alle epoche precedenti) tasso di mortalità (spiegabile con il netto miglioramento globale delle condizioni materiali di sussistenza, di igiene e di cure sanitarie) Le evidenze consistono in particolare nella parallela contrazione del tasso di natalità: il normale processo di rimpiazzamento generazionale è garantito se ogni coppia di genitori ha in media poco più di due figli, ebbene a livello globale ancora nel 1963 il numero medio di figli per donna era pari a 5,3, un dato che dimostra il suo forte contributo alla crescita della popolazione mondiale. Ma dai primi anni Sessanta la situazione cambia: le stime per il 2021 riportano ormai 2,3 figli per donna, un numero che garantisce il solo livello di rimpiazzo e che conseguentemente rafforza di molto il peso del basso tasso di mortalità. Quel che è però certo è che il mondo sembra essere ormai prossimo al termine dell’epocale processo di transizione demografica (il dato globale è composto da situazioni locali molto differenziate, come è noto la parte ricca del mondo ha smesso di fare figli da diversi decenni, quella più povera molto meno, anche se in queste aree del mondo, Africa compresa, iniziano a manifestarsi analoghe tendenze di denatalità). Detto della crescita numerica della popolazione uno sguardo più attento alle due rappresentazioni grafiche precedenti evidenzia una netta differenza di forma: la suddivisione  della popolazione per fasce d’età che nel 1950 aveva un andamento di progressivo restringimento verso l’alto si è trasformata nel 2020 in un evidente ispessimento in quelle medio/alte cresciute in modo esponenziale almeno fino a quella dei 55-59 anni (effetto degli alti tassi di natalità ancora registrati negli anni Sessanta/Settanta anche nella parte ricca del mondo). L’immagine della situazione del 1950 ricorda quindi quella canonica di una piramide a gradoni, quella del 2020 inizia invece a configurarsi come la sagoma di una nave. Per meglio capire le implicazioni di questo cambio di immagine è utile richiamare il dato della popolazione italiana al momento della nascita del Regno d’Italia

Popolazione italiana al censimento del 1861 (calcolata in circa 22 milioni di abitanti)

 


Fatti salvi alcuni occasionali spuntoni (ben spiegabili con specifici fattori storici, soprattutto conflitti ed epidemie) questa rappresentazione grafica sintetizza molto bene alcuni aspetti che hanno segnato tutto l’andamento demografico, non solo italiano, precedente alla transizione demografica:

*   la forte incidenza percentuale delle prime tre fasce di età (quasi 7 milioni sul totale di 22)

*   un forte scalino tra la fascia dai 0-4 e quella 05-09, indice di una forte mortalità infantile (la riduzione di questo dato è fondamentale per capire la successiva crescita demografica)

*   la maggioranza della popolazione concentrata nelle fasce di età considerabili produttive a fronte della  ridotta consistenza di quelle sopra i sessant’anni (un rapporto che consente un adeguato mantenimento delle fasce non più produttive e di quelle che ancora non lo sono)

La struttura piramidale della popolazione è cioè quella che, salvo alcuni adattamenti specifici, in generale meglio consente l’equilibrio generazionale, un aspetto che si modifica con il cambiamento della configurazione grafica

Popolazione italiana 2023 (dati Istat)

 

L’Italia è considerata una delle situazioni demografiche che meglio testimoniano, avendone accentuato alcuni aspetti, il cambiamento radicale della transizione demografica avvenuto in buona parte dell’Occidente (Europa in primis). Il raffronto fra le due raffigurazioni grafiche precedenti è eloquente: quella che era una “perfetta” struttura piramidale si è trasformata nella sagoma della poppa di una di quelle orrende gigantesche navi portacontainer che solcano mari e oceani dell’era globalizzata. La fotografia della popolazione italiana al 2023 (in molti suoi aspetti già abbastanza conosciuta per gli occasionali allarmi mediatici) ci dice che:

*   l’Italia ha l’invidiato merito di essere nella top five dei paesi con più centenari. Un dato che suggella una straordinaria longevità delle fasce di popolazione più anziane.

*   ma ha anche un altro primato: quello, molto meno invidiato, di essere leader nella bassa fecondità (molto vicini ad un figlio per coppia il che significa il possibile dimezzamento della popolazione nel giro di due generazioni), ci batte solo la Corea del Sud. Un dato che sarà complicato invertire perché, al momento, sono poco numerose le fasce dei giovani in età riproduttiva

*   la fascia di età più numerosa (evidenziata nel grafico) è quella tra i 55-59 anni (i nati tra il 1963 ed il 1968, i figli del baby boom) ossia quelli molto prossimi all’età pensionabile

*   la combinazione tra questi due fattori (la quota degli ultrasessantacinquenni è del 24% quelli degli under 14 è esattamente la metà, il 12,5%) sta comunque determinando due conseguenze strettamente connesse: invecchiamento, troppo veloce, della popolazione e diminuzione della stessa. Il record di 60,3 milioni di abitanti del 2013 è svanito molto velocemente, nel 2023, soltanto dieci anni dopo, la popolazione residente è inferiore a 59 milioni, ed è dato che include l’apporto degli afflussi immigratori degli ultimi decenni.

Appare evidente che si è di fronte ad una situazione demografica che (già ora!) pone non pochi problemi per il mantenimento dell’idea di welfare fin qui realizzata, per la copertura del fabbisogno occupazionale, e quindi per l’intera tenuta sociale del paese. Inoltre i tempi di correzione delle tendenze demografiche sono inevitabilmente lunghi e quindi, sulla base degli attuali trend, tale raffigurazione proiettata al 2050 (il tempo di una generazione) potrebbe essere la seguente

Popolazione italiana 2030 (scenario Istat mediano)

 

Questo scenario mediano Istat prevede che, per l’appunto salvo correzioni, la popolazione italiana nel 2050 sarà di 54,6 milioni, che la classe di età più numerosa sarà quella tra i 75 e i 79 anni, la quota over 65 sarà salita al 33-34% (per poi stabilizzarsi su questo livello), la forza lavoro potenziale sarà di 27,4 milioni (è di 34,3 milioni nel 2023) ossia solo il 50% della popolazione. E’ in sostanza lo scenario di un paese che fra poco più di due decenni sarà socialmente ed economicamente insostenibile. Ed il momento per decidere ed attuare le correzioni necessarie per evitare questo domani è oggi. Non è proprio quello che, al di là di estemporanei proclami, sta succedendo, si continua a navigare a vista con orizzonti di breve, se non brevissimo, respiro (la ricerca esasperata dell’immediato consenso elettorale rappresenta l’ostacolo più difficile da superare). Ma se davvero la consapevolezza dell’insostenibilità di questo scenario demografico mai riuscisse ad ispirare politiche e strategie sono sicuramente due i piani di intervento, fra di loro intrecciati, sui quali agire: quello della maggior correzione possibile dell’attuale trend e quello del miglior adattamento strategico delle politiche sociali ed economiche a scenari in buona misura non più di tanto modificabili.

Anche solo restando in Europa non mancano esperienze concrete alle quali fare riferimento. A partire dalla Francia (storicamente persino ossessionata riguardo la crescita della popolazione) che già nel 1945 ha creato l’INED (Istituto Nazionale Studi Demografici) che fornisce le basi concrete per le politiche demografiche francesi le quali sono rimaste sostanzialmente invariate al di là dell’alternanza dei governi. Non per nulla la popolazione francese che fino al 1985 era inferiore a quella italiana ha continuato a crescere fino agli attuali 68 milioni, ben dieci di più dell’Italia. Per passare poi alla Svezia, storicamente sempre alle prese con bassi livelli di natalità, che ha impostato un sistema di welfare mirato a collegare ogni specifico intervento alle sue potenziali ricadute demografiche. In tutti i decenni del secondo dopoguerra la popolazione svedese non è mai calata restando costante e con un buon bilanciamento generazionale. La stessa Germania, anche qui in modo trasversale fra i governi che si sono succeduti, ha dimostrato una notevole attenzione ai trend demografici puntando in particolare a migliorare la capacità delle generazioni attive di produrre risorse adeguate a sostenere i trend demografici che peraltro restano stabili un poco sopra gli ottanta milioni soprattutto  grazie a coraggiose ed efficaci politiche migratorie basate sull’accoglienza

L’aumento ragionato e controllato della natalità, ovvero della popolazione, fattore fondamentale per ricreare un minimo di equilibrio, resta il puntello principale per ambedue questi piani. Non esiste però una pozione magica per ottenerlo, serve piuttosto una combinazione di politiche che, tenendo in debito conto l’attuale contesto culturale profondamente modificato dai nuovi stili di vita, mirino a sostenere il reddito delle famiglie in età fertile, ad offrire un adeguato supporto di servizi, ad ottimizzare in senso ampio il rapporto tra occupazione femminile, ruolo della donna, e procreazione. Ma soprattutto occorre che questo sistema di politiche mirate abbia carattere di costante stabilità e di effettivo impatto, gli strumentali annunci che si traducono in provvedimenti inadeguati e provvisori possono soltanto peggiorare la situazione. Il secondo fattore fondamentale per entrambi i due filoni di intervento è rappresentato dalle politiche per l’istruzione. La sola possibilità di sostenere politiche di welfare necessarie per una popolazione sempre più anziana è quella di ottimizzare il livello di plusvalore generato dalla forza lavoro esistente e prossima futura, ben sapendo che in un mondo sempre più globalizzato è difficile ottenere tale risultato puntando su produzioni a basso valore aggiunto e più esposte alla forte concorrenza dei paesi emergenti. Ma per puntare su produzioni più avanzate è indispensabile alzare la platea di lavoratori con alte competenze professionali, un obiettivo che richiede percorsi di formazione universitaria di buon livello, ma soprattutto ottimizzando in primis l’istruzione di base universalistica di partenza condizione inaggirabile per accedere con profitto alle successive specializzazioni di punta. E’ cioè necessario rivoluzionare la filosofia di base del sistema scolastico (in buona misura ancora quella a suo tempo delineata da Giovanni Gentile, mussoliniano ministro della pubblica istruzione, troppo finalizzata alla selezione e molto meno a favorire il pieno sviluppo della persona) che ancora limita ad otto anni il ciclo della scuola universalistica (fra l’altro a suo tempo immaginata in una situazione demografica completamente diversa caratterizzata da minore speranza di vita ed accesso al lavoro molto più prematuro). Natalità e istruzione sono inoltre due esempi che bene testimoniano l’inderogabilità di un complessivo cambio di paradigma: la situazione demografica con il suo cumulo di problemi non può essere vissuta come una situazione di occasionale emergenza, lo impone la natura stessa di queste problematiche che da tempo non hanno più tale carattere ed il fatto che per essere risolte sicuramente richiedono strategie costanti su tempi lunghi. La tematica demografica che meglio racchiude questa esigenza è sicuramente quella delle gestione dei flussi migratori. La loro crescente rilevanza (in termini assoluti l’epoca a cavallo dei due millenni è quella con il più alto numero di migranti dell’intera storia umana. L’ONU nel 2020 ha stimato in 280 milioni il loro numero. Un fenomeno che per ragioni ben note - povertà, guerre, effetti cambiamento climatico - è sicuramente destinato a proseguire e ad aumentare) si è storicamente intrecciata proprio con la transizione demografica occidentale determinando così al tempo stesso oggettive tematiche di gestione e grandi potenzialità di supporto per le strutturali problematiche demografiche da essa innescate. Per la sua collocazione geografica, unitamente ad un attraente livello di benessere, l’Italia è stata non poco interessata da flussi migratori in entrata (i dati ufficiali dei censimenti indicano una notevole accelerazione: nel 1991 erano 356.000 gli stranieri in Italia, diventati 1 milione e 335.000 nel 2001, 4 milioni e 28.000 nel 2011 ed infine più di 5 milioni nel 2021. Questi numeri sono riferiti agli stranieri stanziali, non comprendono quindi i migranti “di passaggio”). L’esperienza concreta sin qui avvenuta dimostra, a fronte di questi numeri, che l’Italia è stata e tuttora è un paese di immigrazione ma senza una politica di immigrazione e di integrazione. Le seguenti rappresentazioni grafiche aiutano a capirne la composizione demografica:

Residenti stranieri al 2003 (dati Istat)

 

Residenti stranieri al 2023 (dati Istat)


L’apporto dei flussi immigratori è stato decisivo per sostenere l’aumento della popolazione italiana dai 57,2 milioni del 2003 ai 58,9 milioni nel 2023, ma già a partire dal 2015, quando si registra il picco di 60,7, la popolazione inizia a decrescere proprio perché, per un insieme di ragioni, il flusso migratorio si contrae e non compensa più la diminuzione italiana. L’immigrazione ha inciso molto di meno, come bene si coglie dai due grafici, sulla progressione generazionale: la base delle due navi è anche in questo caso stretta (fatti salvi i ricongiungimenti anche gli stranieri si sono molto presto adattati ad avere pochi figli, anche se ancora nel 2023 un bambino su otto under diciotto è figlio di stranieri), la maggior parte di chi è arrivato era già in età lavorativa e l’età media di chi è divenuto stanziale è così fisiologicamente salita verso l’alto. In buona sostanza, stanti le attuali politiche migratorie di accoglienza, l’apporto migratorio non copre più la bassa fecondità italiana e addirittura sta iniziando ad incidere, negativamente, sulla composizione generazionale italiana. Se è sempre stato totalmente fuori luogo parlare di “great replacement(la sostituzione etnica paventata da alcuni) ed è ormai ridimensionata la stessa consistenza del “replacement migration” (l’immigrazione che supplisce al calo di nascite). Ciò è avvenuto proprio a causa dell’assenza di politiche mirate e ragionate, mentre in paesi come la Germania dove le politiche migratorie sono state molto più coraggiose il calo demografico (vedi sopra) è stato molto più contenuto. I dati demografici non mentono, vanno letti nella loro concretezza, e dicono con chiarezza che nei prossimi vent’anni, quand’anche si riuscisse ad invertire il calo delle nascite, per (ri)popolare la nave demografica italiana (possibilmente con giovani ben inseriti nel lavoro e nella società) una governata, ma comunque consistente, immigrazione dall’estero resterà una risorsa decisiva. Si tratta, aspetto da tenere in debito conto, di un salto culturale tutt’altro che semplice per un paese come l’Italia che fin dalla sua nascita è sempre stata una terra di emigranti; non è facile entrare nell’ordine di idee di essere ormai divenuto un possibile approdo per immigrati da tutto il mondo. Ma questo è quello che ci dicono assodati trend demografici, quelli stessi che nella citata Germania hanno indotto ad una radicale, ma efficace, svolta nelle politiche di immigrazione e di integrazione. Va infine detto che anche la stessa demografia è chiamata a meglio contribuire all’inderogabile processo di correzione della nave demografica, perché questo possa davvero realizzarsi è necessario integrare i pur indispensabili dati macro con altri più analitici e più segmentati, capaci cioè di meglio indirizzare politiche e strategie proponendo dati mirati a collegare le singole fasce generazionali alle loro specificità etniche, geografiche, culturali, religiose, tecnologiche, di esposizione ai cambiamenti climatici. Un impegno di non poco conto ma, almeno per questo, i big data sono una risorsa preziosa.

La prima relazione pubblica, tenuta Venerdì 31 Maggio 2024, del nuovo Direttore della Banca d’Italia Fabio Panetta rappresenta una confortante presa di posizione sull’importanza di fronteggiare con politiche adeguate i prossimi futuri scenari demografici. In particolare Panetta ha sottolineato, analogamente a quanto evidenziato nel saggio di Billari, le gravi ricadute che il calo e l’invecchiamento della popolazione possono avere sulla disponibilità di forza lavoro e la conseguente necessità di aumentare i flussi immigratori. Speriamo che l’autorevolezza della figura trovi orecchie disponibili all’ascolto