La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
GIUGNO 2022
Un
orologio analogico ha tre lancette diverse per lunghezza e per velocità di
movimento: quella più lunga e più veloce segna i secondi, quella media per
lunghezza e velocità segna i minuti, quella più corta e più lenta segna le ore.
Usando queste lancette per rappresentare tre fattori fondamentali della società
potremmo dire che quella dei secondi rappresenta la politica, la sua invadenza
e la sua frenetica e mutevole attività, quella dei minuti indica i cambiamenti
dell’economia non meno visibili ma di certo più lenti, quella delle ore segna i
cambiamenti della popolazione tanto fondamentali quanto poco evidenti perché
molto più rallentati. Eppure conoscere l’ora è il dato più importante perché dà
senso, essendo da loro costruito, ai minuti ed ai secondi. La Parola di questo
mese indica la scienza che studia i movimenti di questa lancetta, politica ed
economia dovrebbero conoscerla bene per capire che tempo stanno segnando e in
che direzione si va. Purtroppo quasi mai è così
DEMOGRAFIA
Demografia = parola composta derivata dal greco “demos”, popolo, e “graphia”,
descrizione/scrittura, indica lo studio dei fenomeni che si riferiscono alla
popolazione ed in particolare al suo ammontare, alla sua composizione, al suo
sviluppo ed ai suoi caratteri generali, considerati principalmente da un punto
di vista quantitativo
Nessuna
paura! questo post non sarà sommerso da dati e tabelle, semplicemente
utilizzerà alcuni rappresentazioni grafiche, definite “piramidi
o navi”, utili a capire come i movimenti della popolazione (che come si è detto sono lenti e quindi in buona misura
prevedibili) siano quelli che, a
saperli leggere, fanno intuire quello che con buona probabilità succederà “domani” e che, conoscendoli, dovrebbero orientare molte delle
scelte di “oggi”.
Tutte queste raffigurazioni, con le correlate osservazioni, sono tratte da un
libro davvero interessante
il cui
autore è Francesco Billari (statistico specializzato in demografia e rettore dell'Università commerciale Luigi Bocconi)
La nascita della moderna scienza
demografica viene comunemente attribuita al lavoro pioneristico del matematico
prussiano Johann Sussmilch (1707/1767), anche se il termine demografia viene ufficialmente usato per la prima volta solo nel
1855 dallo statistico francese Achille Guillard. Ma è solo nel corso del
Novecento che la sistemazione di una più accurata raccolta dati ha consentito
un suo autentico progredire. Molto a lungo nel campo degli studi demografici è
brillato il solo nome di Thomas Robert Malthus (1766/1834, economista, filosofo e demografo inglese)
con il suo famoso saggio del 1798 “Saggio sul principio
della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”,
in cui sosteneva la tesi, smentita dal concreto procedere storico, che
l’aumento della popolazione avrebbe compromesso lo sviluppo economico
Billari
giustamente precisa nel prologo che la possibile prevedibilità dei futuri
scenari demografici non significa che questi non siano modificabili e che non
si possano orientare in una direzione auspicata se non necessaria. Certo è che perché
ciò succeda politica ed economia dovrebbero considerare con maggiore e più costante
attenzione le indicazioni offerte dagli studi demografici. Non è proprio quello
che è sin qui successo, le scelte strategiche, politiche ed economiche,
sembrano essere sempre state molto più ispirate da altri fattori, la demografia
è stata a lungo interpellata unicamente come fotografia a posteriori. Un
errore, a lungo forse non così grave, che è però diventato imperdonabile a partire dalla
seconda metà del secolo scorso quando
la combinazione fra l’impressionante crescita economica ed il formidabile
sviluppo scientifico e tecnologico ha creato le condizioni per quella che
tecnicamente viene definita “transizione demografica”, ossia il grande passaggio da un mondo, mediamente più povero,
con alti tassi di mortalità e natalità ad un mondo, mediamente più ricco, con
bassi tassi di mortalità e natalità. Due
rappresentazioni grafiche evidenziano con chiarezza, se messe a confronto,
l’impatto della transizione demografica sulla consistenza, e sulla ripartizione
per età, della popolazione mondiale
Popolazione del
mondo nel 1950 (dati ONU)
In questo anno, in un mondo che stava
finalmente sanando le ferite globali del secondo conflitto mondiale, la popolazione supera
i 2,5 miliardi di abitanti. Un balzo impressionante rispetto alla
vigilia dell’era industriale quando, nel 1750, constava solamente di 770/790 milioni di persone, (il miliardo di abitanti viene raggiunto solamente nel
primo decennio dell’800) in soli duecento anni la popolazione mondiale si era
cioè triplicata. Ma è nulla a confronto di quanto è poi avvenuto nei
settant’anni successivi.
Popolazione del
mondo nel 2020 (dati ONU)
In pochi decenni la popolazione mondiale si è nuovamente triplicata passando a 7,82 miliardi nel 2020 (nel 2023 ha superato gli otto miliardi ed è stimata in 8,66 miliardi). E’ l’effetto congiunto dei due fenomeni che hanno caratterizzato la transizione demografica, ma alcune evidenze ci dicono che questo impressionante salto è spiegabile soprattutto con il basso (bassissimo se confrontato alle epoche precedenti) tasso di mortalità (spiegabile con il netto miglioramento globale delle condizioni materiali di sussistenza, di igiene e di cure sanitarie) Le evidenze consistono in particolare nella parallela contrazione del tasso di natalità: il normale processo di rimpiazzamento generazionale è garantito se ogni coppia di genitori ha in media poco più di due figli, ebbene a livello globale ancora nel 1963 il numero medio di figli per donna era pari a 5,3, un dato che dimostra il suo forte contributo alla crescita della popolazione mondiale. Ma dai primi anni Sessanta la situazione cambia: le stime per il 2021 riportano ormai 2,3 figli per donna, un numero che garantisce il solo livello di rimpiazzo e che conseguentemente rafforza di molto il peso del basso tasso di mortalità. Quel che è però certo è che il mondo sembra essere ormai prossimo al termine dell’epocale processo di transizione demografica (il dato globale è composto da situazioni locali molto differenziate, come è noto la parte ricca del mondo ha smesso di fare figli da diversi decenni, quella più povera molto meno, anche se in queste aree del mondo, Africa compresa, iniziano a manifestarsi analoghe tendenze di denatalità). Detto della crescita numerica della popolazione uno sguardo più attento alle due rappresentazioni grafiche precedenti evidenzia una netta differenza di forma: la suddivisione della popolazione per fasce d’età che nel 1950 aveva un andamento di progressivo restringimento verso l’alto si è trasformata nel 2020 in un evidente ispessimento in quelle medio/alte cresciute in modo esponenziale almeno fino a quella dei 55-59 anni (effetto degli alti tassi di natalità ancora registrati negli anni Sessanta/Settanta anche nella parte ricca del mondo). L’immagine della situazione del 1950 ricorda quindi quella canonica di una piramide a gradoni, quella del 2020 inizia invece a configurarsi come la sagoma di una nave. Per meglio capire le implicazioni di questo cambio di immagine è utile richiamare il dato della popolazione italiana al momento della nascita del Regno d’Italia
Popolazione
italiana al censimento del 1861 (calcolata in circa 22 milioni di abitanti)
Fatti salvi alcuni occasionali spuntoni (ben spiegabili con specifici fattori storici, soprattutto conflitti ed epidemie) questa
rappresentazione grafica sintetizza molto bene alcuni aspetti che hanno segnato tutto l’andamento demografico, non solo italiano, precedente alla transizione
demografica:
la forte incidenza percentuale delle
prime tre fasce di età (quasi 7 milioni sul
totale di 22)
un forte scalino tra la fascia dai
0-4 e quella 05-09, indice di una forte mortalità infantile (la riduzione di questo dato è fondamentale per capire
la successiva crescita demografica)
la maggioranza della popolazione
concentrata nelle fasce di età considerabili produttive a fronte della ridotta consistenza di quelle sopra i
sessant’anni (un rapporto che
consente un adeguato mantenimento delle fasce non più produttive e di quelle
che ancora non lo sono)
La struttura piramidale della popolazione è cioè quella che, salvo
alcuni adattamenti specifici, in generale meglio consente l’equilibrio generazionale, un
aspetto che si modifica con il cambiamento della configurazione grafica
Popolazione italiana 2023 (dati Istat)
L’Italia è considerata una delle situazioni
demografiche che meglio testimoniano, avendone accentuato alcuni aspetti, il
cambiamento radicale della transizione demografica avvenuto in buona parte
dell’Occidente (Europa in primis). Il raffronto fra le
due raffigurazioni grafiche precedenti è eloquente: quella che era una “perfetta” struttura piramidale
si è trasformata nella sagoma della poppa di una di quelle orrende gigantesche
navi portacontainer che solcano mari e oceani dell’era globalizzata.
La fotografia della popolazione italiana al 2023 (in
molti suoi aspetti già abbastanza conosciuta per gli occasionali allarmi
mediatici)
ci dice che:
l’Italia ha l’invidiato merito di
essere nella top five dei paesi con più centenari. Un dato che suggella una straordinaria longevità delle fasce di popolazione più anziane.
ma ha anche un altro primato: quello,
molto meno invidiato, di essere leader nella bassa
fecondità (molto
vicini ad un figlio per coppia il che significa il possibile dimezzamento della
popolazione nel giro di due generazioni), ci batte solo la Corea del Sud. Un dato che sarà
complicato invertire perché, al momento, sono poco numerose le fasce dei
giovani in età riproduttiva
la fascia di età più
numerosa (evidenziata nel
grafico)
è quella tra i 55-59 anni (i
nati tra il 1963 ed il 1968, i figli del baby boom) ossia quelli molto
prossimi all’età pensionabile
la combinazione tra questi due
fattori (la quota degli
ultrasessantacinquenni è del 24% quelli degli under 14 è esattamente la metà,
il 12,5%) sta
comunque determinando due conseguenze strettamente connesse: invecchiamento,
troppo veloce, della popolazione e diminuzione della stessa. Il record di 60,3 milioni di abitanti del 2013 è svanito molto velocemente, nel 2023, soltanto dieci anni dopo, la popolazione residente è inferiore a
59 milioni, ed è
dato che include l’apporto degli afflussi immigratori degli ultimi decenni.
Appare evidente che si è di fronte ad una
situazione demografica che (già ora!) pone non pochi
problemi per il mantenimento dell’idea di welfare fin qui realizzata, per la
copertura del fabbisogno occupazionale, e quindi per l’intera tenuta sociale
del paese. Inoltre i tempi di correzione delle tendenze demografiche sono
inevitabilmente lunghi e quindi, sulla base degli attuali trend, tale
raffigurazione proiettata al 2050 (il tempo di una
generazione)
potrebbe essere la seguente
Popolazione italiana 2030 (scenario Istat
mediano)
Questo
scenario mediano Istat prevede che, per l’appunto salvo correzioni, la
popolazione italiana nel 2050 sarà di 54,6 milioni, che la classe di età più
numerosa sarà quella tra i 75 e i 79 anni, la quota over 65 sarà salita al
33-34% (per
poi stabilizzarsi su questo livello), la forza
lavoro potenziale sarà di 27,4 milioni (è di 34,3 milioni nel 2023) ossia solo il 50% della popolazione. E’ in sostanza lo scenario di un paese che fra poco
più di due decenni sarà socialmente ed economicamente insostenibile. Ed il momento per decidere ed attuare le
correzioni necessarie per evitare questo domani è oggi.
Non è proprio quello che, al di là di estemporanei proclami, sta succedendo, si
continua a navigare a vista con orizzonti di breve, se non brevissimo, respiro (la ricerca esasperata dell’immediato consenso
elettorale rappresenta l’ostacolo più difficile da superare). Ma se
davvero la consapevolezza dell’insostenibilità di questo scenario demografico mai
riuscisse ad ispirare politiche e strategie sono sicuramente due i piani di intervento, fra di loro intrecciati, sui
quali agire: quello della maggior correzione possibile dell’attuale trend e
quello del miglior adattamento strategico delle politiche sociali ed economiche
a scenari in buona misura non più di tanto
modificabili.
Anche solo restando in Europa non mancano
esperienze concrete alle quali fare riferimento. A partire dalla Francia (storicamente persino ossessionata riguardo la
crescita della popolazione) che già nel 1945 ha creato l’INED (Istituto
Nazionale Studi Demografici) che fornisce le basi concrete per le politiche
demografiche francesi le quali sono rimaste sostanzialmente invariate al di là
dell’alternanza dei governi. Non per nulla la popolazione francese che fino al
1985 era inferiore a quella italiana ha continuato a crescere fino agli attuali
68 milioni, ben dieci di più dell’Italia. Per passare poi alla Svezia, storicamente sempre alle prese con bassi livelli di
natalità, che ha impostato un sistema di welfare mirato a collegare ogni
specifico intervento alle sue potenziali ricadute demografiche. In tutti i
decenni del secondo dopoguerra la popolazione svedese non è mai calata restando
costante e con un buon bilanciamento generazionale. La stessa Germania, anche qui in modo trasversale fra i governi
che si sono succeduti, ha dimostrato una notevole attenzione ai trend
demografici puntando in particolare a migliorare la capacità delle generazioni
attive di produrre risorse adeguate a sostenere i trend demografici che
peraltro restano stabili un poco sopra gli ottanta milioni soprattutto grazie a coraggiose ed efficaci politiche
migratorie basate sull’accoglienza
L’aumento ragionato e controllato della natalità, ovvero della popolazione, fattore fondamentale per ricreare un minimo di equilibrio,
resta il puntello principale per ambedue questi piani. Non esiste però una
pozione magica per ottenerlo, serve piuttosto una combinazione di politiche che, tenendo
in debito conto l’attuale contesto culturale profondamente modificato dai nuovi
stili di vita, mirino a sostenere il reddito delle famiglie in età fertile, ad
offrire un adeguato supporto di servizi, ad ottimizzare in senso ampio il
rapporto tra occupazione femminile, ruolo della donna, e procreazione. Ma
soprattutto occorre che questo sistema di politiche mirate abbia carattere di costante stabilità e di effettivo
impatto, gli strumentali annunci che si traducono in
provvedimenti inadeguati e provvisori possono soltanto peggiorare la
situazione. Il secondo fattore fondamentale per entrambi i due filoni di
intervento è rappresentato dalle politiche per
l’istruzione. La sola possibilità di sostenere politiche di
welfare necessarie per una popolazione sempre più anziana è quella di
ottimizzare il livello di plusvalore generato dalla forza lavoro esistente e
prossima futura, ben sapendo che in un mondo sempre più globalizzato è
difficile ottenere tale risultato puntando su produzioni a basso valore
aggiunto e più esposte alla forte concorrenza dei paesi emergenti. Ma per
puntare su produzioni più avanzate è indispensabile alzare la platea di
lavoratori con alte competenze professionali, un obiettivo che richiede
percorsi di formazione universitaria di buon livello, ma soprattutto ottimizzando in primis l’istruzione di base universalistica
di partenza condizione inaggirabile
per accedere con profitto alle successive specializzazioni di punta. E’ cioè necessario rivoluzionare la filosofia di
base del sistema scolastico (in buona misura ancora quella a suo tempo
delineata da Giovanni Gentile, mussoliniano ministro della pubblica istruzione,
troppo finalizzata alla selezione e molto meno a favorire il pieno sviluppo
della persona) che ancora limita ad otto anni il ciclo della
scuola universalistica (fra l’altro a suo tempo immaginata in una situazione
demografica completamente diversa caratterizzata da minore speranza di vita ed
accesso al lavoro molto più prematuro). Natalità e
istruzione sono inoltre due esempi che bene testimoniano l’inderogabilità di un
complessivo cambio di paradigma: la situazione
demografica con il suo cumulo di problemi non può essere vissuta come una
situazione di occasionale emergenza, lo impone
la natura stessa di queste problematiche che da tempo non hanno più tale
carattere ed il fatto che per essere risolte sicuramente richiedono strategie
costanti su tempi lunghi. La tematica
demografica che meglio racchiude questa esigenza è sicuramente quella delle
gestione dei flussi migratori. La loro
crescente rilevanza (in termini assoluti l’epoca a cavallo dei due millenni è
quella con il più alto numero di migranti dell’intera storia umana. L’ONU nel
2020 ha stimato in 280 milioni il loro numero. Un fenomeno che per ragioni ben
note - povertà, guerre, effetti cambiamento climatico - è sicuramente destinato
a proseguire e ad aumentare) si è storicamente
intrecciata proprio con la transizione demografica occidentale determinando
così al tempo stesso oggettive tematiche di gestione e grandi potenzialità di
supporto per le strutturali problematiche demografiche da essa innescate. Per
la sua collocazione geografica, unitamente ad un attraente livello di
benessere, l’Italia è stata non poco interessata da flussi migratori in entrata
(i dati
ufficiali dei censimenti indicano una notevole accelerazione: nel 1991 erano
356.000 gli stranieri in Italia, diventati 1 milione e 335.000 nel 2001, 4
milioni e 28.000 nel 2011 ed infine più di 5 milioni nel 2021. Questi numeri
sono riferiti agli stranieri stanziali, non comprendono quindi i migranti “di
passaggio”). L’esperienza concreta sin qui avvenuta
dimostra, a fronte di questi numeri, che l’Italia è stata e tuttora è un paese di immigrazione ma senza una politica di
immigrazione e di integrazione. Le seguenti
rappresentazioni grafiche aiutano a capirne la composizione demografica:
Residenti stranieri al 2003 (dati Istat)
Residenti stranieri al 2023 (dati Istat)
La prima relazione pubblica, tenuta Venerdì 31 Maggio 2024, del nuovo
Direttore della Banca d’Italia Fabio Panetta rappresenta una confortante presa
di posizione sull’importanza di fronteggiare con politiche adeguate i prossimi futuri
scenari demografici. In particolare Panetta ha sottolineato, analogamente a
quanto evidenziato nel saggio di Billari, le gravi ricadute che il calo e l’invecchiamento
della popolazione possono avere sulla disponibilità di forza lavoro e la conseguente necessità di
aumentare i flussi immigratori. Speriamo che l’autorevolezza della figura trovi
orecchie disponibili all’ascolto
Il ragionamento che leggo qui è secondo me fallace. La mia generazione scappa dall'Italia da più di un decennio, perché semplicemente le regole comuni non riescono più a coordinare tutta una serie di regole di convivenza, come domanda e offerta di lavoro, congruità della spesa pubblica (gli ospedali pubblici chiudono, magari dopo secoli di attività, perché nessuno faceva da decenni un bilancio e una due diligence: ci sono stati casi eclatanti in tutta Italia a partire dal 2003, quindi ormai è materia che dovrebbe essere stata approfondita da tutti, non solo da chi ha seguito da vicino queste vicende in prima persona come il sottoscritto), e quindi di conseguenza anche tassazione e regolamentazione tra pubblico e privato. E qui anche si annida la questione criminalità organizzata, in quanto appunto organizzata, la presenza cui però aggrava ulteriormente le cose nel rispetto dello stato di diritto e la sua trasparenza e controllo. Quindi i patti sociali sono a rischio già adesso, con le persone nate in Italia, semplicemente per un problema a monte di capacità organizzative pubbliche, che poi influiscono tanto sulla cosa pubblica che quella privata. Quindi, fare la media del pollo sull'entità delle pensioni "da pagare" è abbastanza fallace: se un secchio è bucato, continuerà a perdere, se il capitano di una nave non ha sufficiente preparazione, banalmente perché cambiano i tempi e le condizioni al contorno, farà schiantare tanto la goletta quanto il galeone: non è riempiendo la stiva di avventori messi al remo a scongiurare la possibilità di navigare senza un ammutinamento. Davvero, guardo alla generazione precedente, quanto sia superficiale nel suo pensare ai prossimi problemi futuri, che non la riguardano, mentre diventa molto attenta a salvare la propria pagnotta, non importa molto a spese di chi, che cosa e come. Quanto alla gestione dell'immigrazione, si pongono tutta una serie di problemi culturali tutt'altro che banali, come si accorge, ancora una volta, la mia generazione, nell'emigrare anche solo in un diverso paese occidentale. Ma un cattedratico italiano, che mai si è spostato dal belpaese se non per andare dalla città al mare e ritorno nel weekend, che ne sa (ma soprattutto: a cosa gli importa)? Marco Ciaramella
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