lunedì 15 luglio 2024

Il "Saggio" del mese - Luglio 2024

 

Il “Saggio” del mese

LUGLIO 2024

E’ comprensibile, persino doveroso, che il dibattito pubblico si concentri sulle problematiche del presente, sulle loro concrete dinamiche, sulle loro più immediate cause. Ad esempio non sfugge a questa inevitabile propensione lo stesso discutere, ad ogni livello, sui tragici conflitti armati che stanno segnando questi nostri incerti tempi. Ma per dare senso e direzione a questo tipo di approccio resta fondamentale guardare, di tanto in tanto, al mondo delle idee e dei valori ultimi che dovrebbero ispirarlo. Ed è proprio questa la convinzione che ha da sempre motivato l’attività di Circolarmente e questo suo blog. Ci proviamo anche con il Saggio di questo mese che propone una riflessione su un tema, quello della convivenza, che sta alla base della vita comunitaria di tutte le società umane ed alla cui definizione dovrebbe costantemente guardare il dibattito pubblico a partire, come bene ricorda il suo sottotitolo, da quello politico

il cui autore è Gabriele Segre (direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, esperto di temi di identità e convivenza, ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate, tra cui La Stampa e Il Sole 24 Ore, tiene una rubrica settimanale su Domani)

Per meglio inquadrare la genesi di questo saggio è utile citare alcuni dei canonici ringraziamenti a fine testo: Gabriele Segre precisa che questo libro è il frutto di almeno cinque anni di riflessioni condivise con tante persone fra le quali: Giovanni De Luna, Maurizio Ferraris, Michele Luzzato, Luciano Canfora, Gianni Cuperlo, Domenico Quirico

Il saggio si apre con la prefazione di Luciano Canfora che in poche righe offre un dotto excursus storico sul millenario discutere attorno al conflittuale rapporto tra convivenza e difesa delle proprie identità (questo saggio è stato presentato nel recente Salone del Libro di Torino in un dibattito a tre voci con l’autore, lo stesso Luciano Canfora ed il giornalista Domenico Quirico). Ed è proprio da questo rapporto che prende avvio la riflessione di Segre

1 – Il bisogno della convivenza

Non è per nulla una forzatura riduttiva leggere l’intera storia sociale dell’homo sapiens, fin dai suoi albori e a maggior ragione dalla comparsa delle comunità stanziali avvenuta con l’affermarsi della rivoluzione agricola e di ciò che comunemente viene inteso come “civiltà”, come il costante alternarsi, spesso in forma di aperto contrasto, fra la tendenza alla socialità, (vivere in comunità ha da sempre rappresentato un indubbio vantaggio evolutivo), a quella della diffidenza verso l’altro, verso lo straniero, individuo o gruppo che sia. Questo tratto della natura umana è di certo rintracciabile anche nell’umanità del nuovo millennio ed anzi per molti versi sembra conoscere una pericolosa accentuazione legata al comune vivere in un ecosistema chiuso sovraffollato e degradato, dove il crescente disputarsi le risorse finite del pianeta, unitamente alla loro divisione ineguale, sempre più rischia di evolvere in conflitti aperti e ingestibili. Non stupisce più di tanto che a giudizio di molti questa fase sia quella in cui, per la prima volta da quando ha iniziato la sua storia, l’umanità possa persino pervenire al proprio annientamento. Concorrono molte cause e molti fattori, ma di certo non poco pesa, inconsapevole sullo sfondo, questo millenario retaggio culturale. Ed è proprio sul piano culturale che l’umanità è chiamata ad attivarsi per rimuoverlo e sostituirlo con una idea di relazioni umane in cui le diversità siano accettate ed in cui sia possibile vivere insieme senza rinunciare a ciò che siamo. La cultura della convivenza è esattamente questo.

2 – Una questione di identità

Il concetto di ”identità”, fondamentale per impostare una nuova cultura della convivenza, si presta a molte interpretazioni e viene declinato in modi differenti a seconda dell’ambito culturale in cui compare. La definizione di identità, forse non rigorosa da un punto di vista concettuale, ma adatta ad una riflessione sul senso della convivenza, è quella che guarda all’unicità di ogni individuo e da nome a tutto ciò che lo definisce. In questo senso però identità non è per nulla sinonimo di unicità, certo ogni individuo è in quanto tale unico, ma nessun individuo è una sola cosa, al contrario sono molti e molto variegati gli aspetti che concorrono a definirlo (sesso, età, luogo di nascita e cultura, passioni, interessi, esperienze vissute, tanto per citarne alcuni), l’identità è multipla. E questo insieme di aspetti evolve costantemente, alcuni si accentuano nel tempo, altri si perdono, tutti si modificano in una continua metamorfosi, l’identità è dinamica. Una dinamicità che implica il susseguirsi altrettanto costante di scelte, alcune consapevoli, altre inconsapevoli perché determinate dallo specifico contesto esterno, l’identità è contestuale. E sempre e comunque l’identità così determinata assume forma e sostanza solamente quando entra in relazione con le altre identità. La consapevolezza di questa natura poliedrica di ogni individualità è il primo requisito per costruire una cultura della convivenza: comprendere la sua complessità, a partire dalla propria, impedisce di ridurre la conoscenza dell’altro ad una sua lettura superficiale e stereotipata, conoscere le complessità dell’identità crea spazi nuovi per la convivenza superando così le narrazioni superficiali che semplificano le identità altrui. In questo senso è il miglior antidoto contro l’omogeneizzazione nelle tante macro-identità che, strumentalmente, riducono la molteplicità a identitarie figure sociali al servizio di finalità politiche, nazionalistiche, piuttosto che consumistiche. La proprietà essenziale di ogni identità è quella di poter coesistere distinta insieme a tutte le altre. E’ questo il secondo fondamentale requisito per una cultura della convivenza.

3 – La cultura della convivenza

A cui segue, per sviluppo logico, il terzo requisito base: il diritto di ogni individualità a coesistere in modo distinto, trascina infatti con sé quello che ad ognuna di esse deve essere riconosciuta: pari dignità. Ciò detto, va però fin da subito precisato che non esiste coincidenza certa fra convivenza e cultura della convivenza: la realizzazione della prima rappresenta l’obiettivo finale a cui puntare, essendo consapevoli che per il suo raggiungimento è indispensabile un insieme di fattori (ad esempio politiche economiche e sociali, istituzioni adeguate, istruzione e regole piuttosto che, sul piano delle relazioni fra stati, una illuminata diplomazia) la cui mancanza può pregiudicare l’esito finale. La seconda viene prima ed interviene sul mondo delle idee, ben sapendo però che non di sole idee essa si nutre, per preparare il terreno al suo concretizzarsi, per indirizzare con consapevole volontà tutte le scelte utili alla sua realizzazione. A conforto di questa considerazione non mancano nella storia dell’umanità esempi concreti (si pensi anche solo alla stessa Roma dei periodi di splendore imperiale) in cui identità diverse sono riuscite a convivere con pari dignità in uno stesso perimetro esprimendo così una autentica cultura della convivenza. Uno in particolare merita di essere citato proprio perché testimonia la differenza tra convivenza e cultura della convivenza: la convivencia (termine spagnolo, usato anche dagli storici della cultura occitana per indicare un tratto simile di pacifico scambio tra culture e tradizioni diverse esistente nei territori occitani a cavallo del primo millennio prima che ragioni di stato imponessero, a punta di spada, la sua fine) tra musulmani, ebrei e cristiani nella Spagna del Califfato di Cordova (929 – 1031 d.C.) quando, in tempi di contrasti anche sanguinari tra queste opposte identità, prende comunque forma un atteggiamento culturale di accettazione e apprezzamento della dignità altrui capace di ispirare riflessioni condivise, momenti e gesti di sincero rispetto.  Sono confortanti bagliori storici che indicano l’inderogabilità di un quarto indispensabile requisito per una vera cultura della convivenza: la reciprocità, ossia la predisposizione al  reciproco riconoscimento di diverse identità che si realizza quando ognuna di esse, avendo piena, fiduciosa e serena consapevolezza della propria identità (l’esatto opposto della sua celebrazione fine a sé stessa che alimenta i nazionalismi) , non teme la commistione, non percepisce nel confrontarsi con le altre culture il timore  di essere condizionati se non addirittura plagiati: le relazioni reciproche sono la condizione essenziale per il riconoscimento dell’altrui dignità che si crea sulla vicendevole consapevolezza della propria. Così definita, la cultura della convivenza non punta a garantire risultati definitivi, che come si è detto si giocano concretamente su più tavoli, ed anzi si fonda proprio sulla consapevolezza della propria fragilità, sulla matura accettazione di limiti ed ostacoli, perché sa che a lungo avrà il carattere di uno sforzo in cui prima di arrivare a dare risposte è più importante il continuare a farsi delle domande

4 – Convivenza e democrazia

Una di queste è determinante: quale forma della società meglio si presta alla crescita di una cultura della convivenza? La risposta, per moltissimi versi scontata, consiste nell’etimologia del termine che la indica: demos e crazia, il potere del popolo. La democrazia moderna, quella che più compiutamente punta a consegnare ai cittadini elettori le chiavi del potere, è invenzione relativamente recente e per molto tempo incompiuta. E non è certo priva di limiti e contraddizioni anche la sua più recente versione, quella che ha trovato compimento in buona parte dell’Occidente nel secondo dopoguerra. Ma a ben vedere una “democrazia perfetta” potrebbe persino dimostrarsi un controsenso là dove, per rispettare fino in fondo il volere del popolo, fosse chiamata a rinnegare sé stessa consegnandosi, se tale fosse la decisione della maggioranza, a soluzioni restrittive ed autoritarie tali da annullarla. Il problema deriva dal fatto che la democrazia è in ultima istanza nulla di più di una struttura, un contenitore, una modalità ed una forma di governo, perché ciò che ne definisce la vera essenza sono i contenuti che la riempiono e la caratterizzano, che concorrono a formare una compiuta “cultura democratica”. Questi contenuti a ben vedere chiamano in causa, per realizzarsi e divenire fecondi, le stesse identiche riflessioni che occorre affrontare per la realizzazione di una cultura della convivenza.

Nelle società capitalistiche occidentali la richiesta di democrazia è nata in stretta relazione con le rivendicazioni per migliori condizioni materiali di esistenza, ma si è ben presto arricchita di altre esigenze, lo testimonia in modo esemplare lo storico slogan dello sciopero di Lawrence, Massachusetts 1912, portato avanti insieme da lavoratrici e lavoratori di diverse nazionalità all’insegna di “vogliamo il pane, ma anche le rose” che, proprio per la composizione dei partecipanti e per l’ampiezza ideale delle rivendicazioni,  è una splendida esaltazione di una armonica convivenza

Ma la realtà storica racconta purtroppo tutt’altra storia: la democrazia occidentale solo in esperienze circoscritte e provvisorie è stata davvero ispirata da ideali di comunanza troppo presto però cancellati dalle solite pressioni di realismo politico (si pensi ad esempio alla Comune di Parigi del 1871 ed alla Repubblica di Weimar del 1919/1933 cancellata dall’avvento del nazismo). Anche solo guardando alle relazioni tra paesi e culture essa si è al contrario mossa in direzioni opposte, ne sono tragica evidenza il colonialismo, ancora tragicamente attivo per buona parte del Novecento e mai davvero criticamente rielaborato, ispirato, oltre che da cinici interessi economici e di potere, dalla presunzione di una superiorità culturale e civile, propria delle nazioni colonialiste, che ha sempre negato dignità alle diverse identità di popolo via via pesantemente sottomesse. Venendo poi a tempi più vicini ai nostri, non è stata dissimile la stessa “esportazione della democrazia”, l’idea cioè di imporre, con ricatti economici se non con il vero e proprio utilizzo delle armi, giustificato dalla lotta al terrorismo internazionale, avvenuta all’indomani della caduta del Muro e della fine del bipolarismo, quando non pochi celebravano la “fine della storia” e l’inizio di una nuova era segnata dalla definitiva vittoria della democrazia liberale vista come l’unico sistema di organizzazione sociale umana. Ambedue queste evidenze storiche raccontano quello che solo apparentemente è un paradosso: la democrazia non è mai così fragile come quando trionfa, come quando è sicura della sua forza e delle sue, presunte, ragioni. Ciò non vale solo per le relazioni esterne, non è per nulla differente la logica per quelle interne: la democrazia che non accetta le diversità di identità e di opinione, che non si confronta con le ragioni critiche ed il dissenso, non esprime una corretta cultura democratica ed è condannata a pagarne le conseguenze. Le forze sociali e identitarie che ritengono di avere ragioni per esprimere aperta opposizione se non trovano ascolto ed attenzioni possono infatti divenire un fattore destabilizzante e persino antidemocratico (in buona misura poggiano proprio su questo aspetto le ragioni del successo dei movimenti populisti). Una vera cultura democratica non è congegnata per resistere alle critiche, per quanto queste possano essere forti, ma al contrario punta a incorporarle nel dibattito pubblico al fine di migliorarsi, è quindi un costante esercizio autocritico che accetta pienamente tutte le identità che la compongono anche quando diverse, anche quando si pongono in aperto dissenso. Ed è quindi in piena coincidenza con la cultura della convivenza allorquando sa concretizzarsi nella costante ricerca di un punto di equilibrio tra le due contrapposte logiche espresse dalla Ragion di Stato e dalla Ragion Politica. Da una parte, la Ragione di Stato, quella che guarda al bene comune di tutti i membri di una società, dall’altra, la Ragion Politica, quella che sintetizza con il gioco democratico di maggioranza ed opposizione l’insieme delle loro necessità, dei loro interessi, delle loro idee. La prima si incarna nelle istituzioni più alte (nel sistema italiano è rappresentato dal Presidente della Repubblica) ed è la massima espressione della convivenza, la seconda si articola nel sistema dei partiti e delle forze politiche e rappresenta le varie identità. Queste due Ragioni sono entrambi essenziali per il corretto svolgimento della cultura democratica, e per una compiuta realizzazione democratica, a patto che nessuna delle due soverchi l’altra. In una democrazia sana, funzionante e matura, la differenza tra le due Ragioni va ricercata e preservata tanto quanto la loro armoniosa convivenza. Quando questo equilibrio viene minacciato e soprattutto allorquando la Ragion Politica prende il sopravvento su quella di Stato, diventa forte il rischio che l’intera società, e la cultura democratica che essa esprime, veda degradare la sua concreta convivenza. Vale a dire che, in un rapporto di reciproco sostentamento, una cultura della convivenza non si ha senza cultura della democrazia, là dove viene a mancare una della due anche l’altra è destinata a patirne. Affinché ciò non succeda servono concreti ed adeguati strumenti, tre sono quelli fondamentali: politica, partecipazione, comunità

5 – Di cosa parliamo quando parliamo di politica

E’ in primo luogo tempo di recuperare il significato originario di politica che non è certo riducibile a quello di democrazia e tantomeno alla sola dimensione dei partiti. Infatti se per politica si deve intendere l’insieme delle scelte che mirano ad organizzare e regolare la vita pubblica di una comunità appare evidente che essa è da sempre presente nella storia dell’umanità ed è quindi precedente alla stessa democrazia ed al collegato sistema dei partiti. Quando si chiama in causa la politica non si giudica quindi la democrazia, ma si compie un altro tipo di esercizio critico mai evitabile proprio per quello che essa è “se non ti occupi di politica, la politica si occuperà di te(citatissima frase coniata da Ralph Nader, 1934 - politico statunitense molto attivo nelle lotte per i diritti civili e l’ambiente) e quindi, per la stessa identica ragione, anche ciò che può essere inteso come cultura politica mantiene una relazione molto stretta con quella della convivenza. L’hanno non soltanto le azioni concrete messe in atto dalla politica, ma soprattutto le strutture di pensiero, il mondo delle idee e di valori che le ispirano e le promuovono, ossia l’insieme delle visioni definibili con la parola ideologia (non a caso la nostra Parola del mese di questo Luglio 2024). Nel corso dei millenni il mondo delle ideologie si è arricchito ed ampliato ed ha accompagnato, ed al tempo stesso ispirato l’evoluzione delle società umane, sempre esprimendo come ideale da perseguire una specifica idea di convivenza. E’ operazione difficile quella di tentare, per coglierne l’essenza ultima, di mettere in ordine questo variegato mondo di visioni ideologiche, può quindi essere utile individuare almeno una linea di demarcazione che, per quanto molto sinteticamente, le separi in due opposti campi. Un tentativo in questo senso è stato fatto da Thomas Sowel (1930, economista statunitense di chiara ispirazione neoliberista) nel suo saggio “A conflict of visions” (Un conflitto di visioni) che, prendendo spunto dal famoso affresco di Raffaello “La Scuola di Atene(si trova nelle Stanze Vaticane) ha suddiviso le ideologie in due categorie: quella di chi indica il cielo, nell’affresco lo fa Platone, e quella di chi indica la terra, lo fa Aristotele,  per separare quelle che hanno finalità utopiche e quelle che si concentrano su idee più pragmatiche (il particolare dell’affresco con Platone e Aristotele è riprodotto sulla copertina del saggio). Questa suddivisione, in effetti strumentalmente ed in modo un po’ azzardato, introdotta da Sowel per separare le ideologie di sinistra (Platone) da quelle di destra (Aristotele), può però essere utile proprio per capire cosa si debba intendere per sinistra e destra quando si riflette sull’idea di convivenza e su come essa possa rappresentare un auspicato punto di equilibro ideale fra il “vivere insieme”, l’agenda sociale che tutti coinvolge, e “l’individualità”, la sfera dei diritti di singoli e gruppi. Ed è proprio nella combinazione tra questi due aspetti che va individuata la differenza ideologica fra destra e sinistra, con la prima che in campo economico e sociale punta decisamente a valorizzare l’individualità, salvo poi porle limiti anche molto netti, dettati da un’etica conservatrice, per quanto riguarda i diritti civili, e con  la seconda che, all’esatto contrario, in campo economico e sociale fa prevalere l’aspetto collettivo del vivere insieme, normando e limitando gli spazi di manovra individuali dimostrandosi al contempo più disponibile all’estensione dei diritti civili. Si tratta, ovviamente, di una semplificazione che non tiene conto delle infinite sfumature che intervengono in ambedue i campi, ma che mette bene a fuoco l’incidenza dei valori ideologici sulle rispettive culture politiche e, di conseguenza, sulle rispettive concrete modalità di governare la convivenza. Semmai è opportuno chiederci se questa considerazione, dopo essere indubbiamente valsa per i primi secoli della Modernità occidentale, sia rimasta altrettanto valida nell’era della globalizzazione neoliberista e della, presunta, crisi/fine delle ideologie, ovvero se in un’epoca che sta conoscendo trasformazioni radicali ad una velocità mai vista prima non siano conseguentemente intervenute modifiche culturali tali da porre in crisi la stessa contrapposizione tra Platone e Aristotele. Ancora una volta la “Scuola di Atene” sembra fornire una preziosa indicazione in questo senso. Ai piedi della scala dalla quale essi stanno scendendo sta un terzo personaggio che si dimostra del tutto indifferente verso i primi due: è Diogene, il filosofo che non cerca la verità nel rapporto con gli altri, ma nel guardare in sé stesso. Ebbene Diogene, in questo profetico quadro, rappresenta perfettamente una cifra culturale che sta davvero segnando la cultura dei tempi attuali: l’iper-individualismo, il perseguimento della realizzazione di sé attraverso il benessere economico, una motivazione individuale ormai assurta a cultura collettiva. Che si accompagna ad un’altra fondamentale cifra contemporanea: l’essere entrati nel “regno della tecnica”, vista non solo come la benefica dispensatrice di irrinunciabili strumenti tecnologici, (quelli che compongono l’ideale benessere economico e che determinano lo status sociale), ma soprattutto come la sola soluzione a tutti i problemi esistenziali e sociali. Il connubio tra iper-individualismo e ruolo salvifico della tecnica, del pensiero tecnico, sta soffocando la cultura politica e cancellando ogni possibile immaginazione collettiva alternativa. Ne sta soffrendo il mondo delle idee, con le inaridite ideologie novecentesche incapaci di rimodularsi al mutato contesto sociale, così come i concreti stili di vita ormai schiacciati su un futuro a breve e tanto dispensatori di illusorie compensazioni quanto impotenti di fronte alla complessità dell’attuale contesto sociale. In un quadro simile la convivenza, se per convivenza ancora e sempre si deve intendere il progettare, grazie all’apporto della cultura democratica e della cultura politica, un futuro in comune, si trova a doversi misurare con un problema storicamente del tutto nuovo che, conseguentemente, non trova immediate risposte in ambedue quelle culture nate e cresciute in ben altri contesti. Non sono certo una soluzione l’antipolitica, sterile valvola di sfogo contro il peraltro indifendibile sistema dei partiti, così come le varie forme di populismo con le sue limitate e insostenibili soluzioni semplicistiche a problemi complessi, piuttosto che il sovranismo con il suo ritirarsi su identità nazionali ormai improponibili. Non esistono di certo soluzioni immediate miracolose, ed anzi a maggior ragione nell’era del regno della tecnica per tenere aperta la possibilità di rianimare le culture della democrazia, della politica e della convivenza il primo e più importante passo da compiere è quello di recuperare una piena consapevolezza delle complessità da affrontare. Accettare la complessità è la condizione sine qua non per (ri)costruire una cultura della convivenza. Complesso non è però sinonimo di complicato, ancora e sempre il modo di uscirne fuori resta quello di recuperare conoscenza, approfondimenti, ma soprattutto   nuove visioni di lungo periodo “ideologiche” in grado di rianimarla come sistemi valoriali in grado di tradursi immediatamente in progetti concreti. Servirebbe cioè la volontà di far interagire senza pregiudizi le identità sociali, all’interno di ogni singolo contesto sociale, e nazionali, nel quadro delle relazioni globali, al fine di sviluppare pensiero, visioni, progettualità. Una bella suggestione non priva però di complicazioni

6 – La nascita dell’egocene

La prima delle quali consiste proprio nell’iper-individualismo di cui si è detto, assurto ormai a modello standard di vita tanto da giustificare l’appellativo di “egocene” per l’attuale epoca sociale. Così come “La scuola di Atene” è una straordinaria trasposizione artistica delle diverse ideologie un’altra immagine iconica del Rinascimento italiano, “L’uomo vitruviano” di Leonardo da Vinci, è la iconica espressione dell’uomo che pone sé stesso come misura armonica del tutto, il suo essere perfetto corpo geometrico ed al tempo stesso spirito libero che disdegna limiti   ed   autorità   esterne.   E’   una   potente   rappresentazione   che   anticipa l’atteggiamento etico-politico che troverà completamento e piena espressione nel “liberalismo” della nascente borghesia precapitalistica che sarà alla base delle tante, indiscutibili, conquiste umane   da   lì   in   poi   avvenute.   La   vittoria   del   liberalismo, dell’individuo che si pone al centro del creato, è potuta avvenire demolendo le precedenti grandi architetture di ordine sociale, economico e culturale, che per secoli avevano dispoticamente compresso l’agire umano. Ma tale vittoria si è progressivamente accompagnata   ad   una   pericolosa   contraddizione   determinata   proprio dall’eccesso   di   individualismo   che   troverà   espressione   incontrollata nell’egocene. Il liberalismo si è infatti dimostrato una formidabile forza s-catenante, nella precisa   accezione   dell’aver   tolto   catene, ma   non aggregante, capace cioè di esaltare la libertà ma senza adeguatamente indicare una sua forma sociale se non quella della piena autonomia della scelta individuale. Il problema non è però consistito nel liberalismo in sé, è stata infatti la sua forza innovativa a rendere possibile la stessa cultura democratica, ma nel fatto che esso si sia poi (auto)proclamato come l’unico e vero obiettivo finale della società, tutt’altra cosa quindi dall’essere un fecondo contenitore di una più ampia e completa gamma di contenuti. Le linee che delimitano l’Uomo vitruviano hanno cioè progressivamente disegnato uno spazio, divenuto poi asfissiante nei tempi attuali, in   cui   sono   scomparsi   ideali, visioni   e   cultura   politica, in   cui l’innovazione si nuove fine a sé stessa senza trasformazione di pensiero, ed in cui   si   è   sbiadita   l’idea   stessa   di   un   futuro   collettivo. In un simile contesto, divenuto   in questo modo liquido  (la società liquida   di   Zigmunt   Bauman) l’ambizione, la necessità, di   creare  interazioni,   confronto,   ovvero   convivenza,   si   sono inevitabilmente fatti tenui, e a nulla porta l’idea che essa possa essere sostituita dalla condivisione, l’unica dimensione sociale ormai consentita dalla tecnologia e dalla Rete. La community dei social è qualcosa di molto diverso da una vera comunità perché è totalmente priva di un carattere fondante, di un elemento essenziale per una adeguata tenuta sociale: la libera, ma diffusamente condivisa, scelta di lavorare ad un comune progetto di vera convivenza.

7 – Nati per condividere

Questo sguardo sul presente non sembra offrire molte ragioni di ottimismo, nell’era dell’egocene e dell’iper-individualismo la diffidenza verso l’altro, le sue ragioni e la sua identità (di cui si è detto nel Capitolo 1) pare proprio aver sopraffatto l’opposta tendenza alla socialità, eppure in soccorso a quest’ultima interviene, ancora oggi, una forza che ha sempre accompagnato il progredire umano: la cultura della comunità. L’idea del noi, della cooperazione e del gioco di squadra, è insita nella cultura umana perché è stata una risorsa fondamentale per il successo evolutivo di homo sapiens e perché si è da subito consolidata nelle sue prime manifestazioni culturali (le prime sepolture rituali compaiono già 200.000 anni fa appena dopo la comparsa di homo sapiens sulla scena evolutiva, la prima pittura rupestre è datata 45.000 anni fa, il primo strumento musicale, un flauto, ha 35.000 anni, sono tutti esempi emblematici della propensione umana alla condivisione di gioie, piaceri e dolori) nate proprio per cementare la forza del gruppo, la coesione della comunità. L’antropologo Francesco Remotti (1943, a lungo Direttore del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Torino) ha mutuato dalla microbiologia un termine (usato per indicare un insieme di organismi distinti che, raggruppandosi, ne formano uno più complesso) per definire questa culturale propensione umana alla comunità: coindividuo. Il termine si è poi felicemente esteso anche alle scienze sociali (coindividuo sociale) dove definisce l’esito consolidato in una struttura sociale di una collaborazione tra individui che permette allo stesso tempo la realizzazione dei singoli e dell’intero organismo sociale. Si tratta di un concetto che offre preziosi spunti di riflessione per il recupero di una cultura della convivenza. In analogia con la microbiologia anche una comunità sociale è infatti un organismo complesso la cui salute, vale a dire la capacità di fronteggiare le relazioni con ambiente, con altri organismi e contesti, è di molto determinata dal contributo fornito dai singoli organismi semplici che lo formano. Più questo contributo è articolato e composito più è ricca la dotazione di risorse dell’organismo e migliore è la sua salute e la sua capacità di fronteggiare le sfide, al contrario una eccessiva uniformità dei singoli organismi rischia di comprometterle. Il dinamismo assicurato dalla molteplicità, che passando ad un coindividuo sociale è costituita dalle diverse identità che lo compongono, è quindi un fattore decisivo per la sua sopravvivenza ed il suo sviluppo: più identità si hanno più ciascuna può fornire un supporto. Non è né semplice né automatica questa collaborazione, mai mancheranno ragioni di apparente incompatibilità e di reciproca diffidenza, ma la cultura della convivenza proprio a questo serve, questo e non altro è il suo vero obiettivo. L’antropologia offre, in questo senso, un secondo concetto non meno utile a capire di cosa debba nutrirsi la cultura della convivenza: immaginario collettivo. E’ un’espressione coniata nel 1912 da Emile Durkheim (1858/1917, sociologo, filosofo, antropologo francese) per indicare l’insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e nell’immaginazione degli individui di una comunità e da questi condivisi e messi a fattor comune sino a divenire un decisivo fattore di coesione. E’ stata poi mutuata, non sempre con altrettanta esattezza, in molti altri contesti, in questa riflessione “immaginario collettivo” può essere efficacemente utilizzato per definire l’esito di una buona convivenza, il risultato fecondo dell’aver accettato ed integrato le diverse individualità costruendo così un comune sentire che condivide memorie e visioni. Ciò non significa per nulla, è bene ribadirlo, appiattimento e uniformità di idee, anzi: la diversità di identità va preservata proprio perché, come appena detto, rappresenta una risorsa preziosa per la salute di un coindividuo sociale e per la stessa ricchezza del suo immaginario collettivo. Riprendendo quanto già evidenziato nel Capitolo 3 riguardo alla evidenza che non esiste coincidenza certa fra convivenza e cultura della convivenza ciò che davvero conta non è la realizzazione, sempre condizionata da complicazioni e difficoltà, ma l’intenzione, la volontà di perseguire una visione comune, aspetto questo che costituisce l’essenza vera di una comunità. La quale è un coindividuo ben diverso dalla community della Rete, perché ci sia vera comunità è innanzitutto indispensabile la condivisione di spazi reali in cui l’assunzione di scelte sia sancita da una partecipazione vera, e non da un click o un like che premiamo la leadership di turno, condizione essenziale per sentirsi, anche fisicamente, parte di un qualcosa in divenire. Non sarà per nulla semplice scalfire la forza dell’iper-individualismo per tentare di ri-costruire una vera convivenza, ma non esiste alternativa, la sfida che pongono la crisi climatica ed ambientale congiuntamente all’ingiustizia sociale ed alle disuguaglianze può essere affrontata solo recuperando una cultura della convivenza adeguata a questi tempi incerti.

lunedì 1 luglio 2024

La Parola del mese - Luglio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

LUGLIO 2024

E’ un parola, che come si vedrà è più opportuno declinare al plurale, capace di sintetizzare il bagaglio di idee e di valori che dovrebbero, ferma restando una adeguata conoscenza della realtà, ispirare ogni visione politica e sociale. E così è stato a lungo nella storia, in particolare nel Novecento occidentale. Nel corso del quale è però drammaticamente emerso quali nefaste conseguenze possano da essa derivare quando interpretata e vissuta con esasperata adesione. Non a caso quindi è poi comprensibilmente divenuta oggetto di rifiuto, di condanna, al punto che da molti ne è stata persino decretata la fine, la morte. Altre interpretazioni però sono molto più caute al riguardo ed anzi evidenziano la necessità di un suo recupero, va da sé depurato da fanatiche evoluzioni. Si sta parlando di ……


IDEOLOGIA

Per meglio conoscerla e valutarla ci siamo appoggiati ad un interessante testo di recente pubblicazione che proprio in tal senso si muove

il cui autore è Manuel Anselmi (Politologo, insegna Sociologia dei fenomeni politici all'Università degli Studi di Perugia e Democrazia e Sviluppo in America Latina alla LUISS University)

che per la sua riflessione parte da alcune domande: ha senso parlare di ideologie oggi? stiamo davvero assistendo ad un ritorno di nuove ideologie politiche? Ma non erano finite le ideologie? La politica di oggi è ideologica allo stesso modo di quella del Novecento?  

Questioni preliminari

E’ sempre buona norma, nel riflettere su categorie sociali e politiche, evitare di vederle come valori fuori dal tempo, per comprenderle occorre sempre storicizzarle, contestualizzarle. Concetti come democrazia, potere, destra e sinistra, acquistano senso compiuto solamente se collocati nel tempo e nel luogo in cui si sono espressi. Ciò vale ancor di più quando si parla di ideologia che è un concetto che sempre esprime il modo di pensare la società alla luce delle condizioni storiche, sociali, geopolitiche, del tempo di quella società. Questa inaggirabile premessa non esclude tuttavia una sua qualche definizione generale che è stata concordemente declinata nel campo degli studi politici in: un insieme di idee, valori e opinioni, raccolti ordinatamente a formare una visione della società la cui finalità ultima è da un lato quella di fornire una chiave di lettura e di comprensione della realtà sociale e dall’altro quella di indicare un orizzonte di intervento e di trasformazione/conservazione di tale realtà. Vale a dire che un singolo valore, una specifica idea od opinione, per quanto rilevanti, da soli non possono costituire un’ideologia se non fra di loro coniugati a formare una visione complessiva della società e dei suoi rapporti. In questo senso l’ideologia è, tra le categorie della politica, quella che più chiama in causa la relazione tra cultura e potere, essa da sempre costituisce un prodotto della “cultura politica” in cui si è formata, capace di fornire un “immaginario sociale” su cui fondare la struttura del potere. Questa sua declinazione al singolare è comunque più propria di un approccio di tipo filosofico, del riflettere sulle categorie generali, passando però al suo concreto esprimersi storico, occorre tornare alla premessa iniziale e usare la sua versione al plurale, occorre cioè parlare di ideologie. Il parametro della temporalità ha inoltre una duplice valenza, vale come elemento fondante della ideologia in esame, ma non di meno anche per quella del contesto storico in cui il suo esame avviene: qualsiasi studio su una determinata ideologia risente cioè del campo ideologico del periodo in cui esso viene intrapreso. A maggior ragione si è quindi sempre nell’obbligo di parlare di ideologie e del loro eventuale rapporto. Ed è sicuramente questa la chiave di interpretazione della contemporanea discussione sull’ideologia, sulla sua sostenibilità e sulle sue forme, che negli ultimi trent’anni sembra essersi attorcigliata attorno al luogo comune della “morte delle ideologie” avvenuta con la fine del Novecento, il secolo ideologico per eccellenza, in base al quale quella attuale sarebbe quindi un’epoca post-ideologica. Si entrerà nel merito di questa teoria, la quale però deve essere anch’essa interpretata alla luce del parametro di temporalità di cui si è or ora detto. Vale a dire che la fine delle ideologie potrebbe essere a sua volta vista come una formula retorica utilizzata da un eventuale ideologia dominante con il fine di mascherare, piuttosto che auto-esaltare, proprio la sua egemonia. Anche per meglio valutare questa considerazione è preliminarmente utile ripercorrere lo sviluppo storico del concetto di ideologia partendo dalle sue elaborazioni teoriche classiche 

Anselmi lo fa ripercorrendo una secolare storia di idee quanto mai complessa e articolata che ben altra trattazione richiederebbe, limitandosi in questo breve saggio ad estrapolare solamente i passaggi che di più, a suo avviso, hanno segnato questa evoluzione

Profilo storico-concettuale

Qualsiasi riflessione sull’ideologia non può prescindere da uno sguardo sulla evoluzione di un concetto che, proprio per le sue caratteristiche, è strettamente connesso alla più generale storia della modernità europea. Questo avviene fin dal suo nascere, nel solco dell’Illuminismo francese, con l’affermarsi dell’urgenza di liberare dalle catene dell’Ancien Règime le istanze di cambiamento economico, sociale, culturale e politico, che stavano emergendo nel corso del Settecento nel vecchio continente. Questa urgenza da subito mette insieme due aspetti fondamentali: la conoscenza scientifica della realtà, compresa quella sociale, e l’immaginazione del risultato di una sua trasformazione. E’ questo un passaggio, che si concretizzerà in nuove elaborazioni intellettuali, che non nasce tuttavia dal nulla: sono almeno due i pensatori classici che già avevano messo a punto idee e considerazioni in tal senso: l’italiano Niccolò Machiavelli (1469/1527) e l’inglese Francis Bacon (Bacone, 1561/1626). Nel delineare un ideale di “Principe” il primo indica espressamente la necessità di mantenere un giusto equilibrio tra “illusione”, inteso come il risultato delle individuali aspettative e azioni, e “realtà”, il corretto giudizio sui fenomeni storici in corso. Bacone, sulla sua scia, accentua vieppiù il richiamo a valutare lucidamente l’illusione [che definisce usando il termine latino “idola” (idoli, simulacri della realtà), una intrigante anticipazione linguistica di “ideologia”] come forma di pensiero critico. E’ questa l’eredità classica che ispira il filosofo illuminista francese Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754/1836) a promuovere una “scienza delle idee”, fortemente antidogmatica, ufficialmente definita, per la prima volta, “ideologia”. Attorno a de Tracy si raccolse un gruppo di intellettuali militanti (fra i tanti spicca il nome di Lavoisier, 1743/1794, chimico e biologo) molto attivi durante e dopo la Rivoluzione francese sempre all’insegna della supremazia della cultura e della scienza come leva per la trasformazione, con forti tratti utopici, dell’intera società. Una visione destinata ad entrare in forte contrasto con la successiva ascesa del dispotismo di Napoleone, il quale nel vivo della polemica li apostrofò con il termine, già allora dispregiativo, di “idéologues (ideologi)” con il significato di “astratti intellettuali”, se non di rompiscatole (accezione negativa che è rimasta, con questo significato, fino ai giorni nostri). La nascita del moderno concetto di ideologia avviene quindi in una delle fasi più importanti nell’evoluzione dello spazio pubblico democratico caratterizzata da forti accenti di critica del potere, fin da subito coniugati con visioni utopiche capaci di coinvolgere una parte importante dei settori culturali più avanzati. Se ancora per i primi decenni dell’Ottocento il termine ideologia ha mantenuto in prevalenza una forte connotazione pedagogica di educazione delle masse, la sua evoluzione verso un carattere più politico ha iniziato ad emergere con l’eterogeneo quadro dei socialisti utopici  [una corrente di pensiero politico europeo attenta alle condizioni sociali del primo capitalismo, fra i tanti spiccano in Francia i nomi di Saint Simon (1760/1825), di Fourier (1772/18379 ed in Inghilterra quello di Owen (1771/1858)] . Ma il vero e completo passaggio ad una completa valenza politica avviene solamente con l’irruzione sulla scena culturale occidentale del “materialismo marxiano”, tant’è che è di sicuro possibile sostenere che nella storia del concetto di ideologia esista un prima e un dopo Marx (1818/1883) ed Engels (1820/1895). Il loro approccio scientifico di ordine materialistico (la storia umana è definita e mossa dalle materiali forme di produzione e dalle collegate condizioni di esistenza delle masse) muove, con ben altro spirito e finalità, la stessa critica di Napoleone di astrattismo intellettuale agli ideologi francesi (così come ai precedenti socialisti utopici), integrata inoltre da una critica non meno feroce alla filosofia tedesca post hegeliana (per meglio comprendere la genesi del concetto di ideologia marxiano il testo fondamentale è l’opera, scritta a quattro mani, “L’ideologia tedesca” del 1845/1846), In Marx l’ideologia smette di essere un concetto ideale di elevazione culturale del popolo per assumere in primo luogo quello di una organica dimensione sovrastrutturale, di un sistema di idee promosso dalle classi dominanti per la difesa dei propri interessi. Si inaugura quindi una concezione dell’ideologia strettamente connessa alla divisione in classi sociali (la struttura), definite dal loro ruolo nella produzione economica, a sua volta rafforzata da una precisa costruzione culturale (la sovrastruttura ideologica) a completare il dominio della visione capitalistica della società. Per spiegare come possa concretamente avvenire che i dominati accettino supinamente il sistema delle idee dei dominatori Marx ed Engels introducono un concetto che è rimasto fondamentale: quello dell’alienazione (o estraniazione), vale a dire la separazione della coscienza di sé, della propria soggettività, della propria oggettiva condizione sociale (non a caso Marx definisce l’alienazione anche come “falsa coscienza”). L’inganno ideologico non colpisce però soltanto le masse, ma è fatto proprio anche dai pensatori, dai filosofi, da chi guarda dall’esterno la storia dell’uomo, inducendoli a non cogliere le vere forze motrici della storia e (vale per gli ideologi francesi e per i filosofi tedeschi),  a ritenere erroneamente che la storia sia in ultima istanza fondata unicamente sul mondo delle idee. Soprattutto Marx (il suo testo “Per una critica dell’economia politica” del 1859, che precede la stesura del “Capitale” del 1867, è quello che più compiutamente definisce questa sua concezione dell’ideologia) insiste molto nel sottolineare che la sovrastruttura ideologica non deve essere intesa come un di più effimero della strutturale dimensione socioeconomica, ma come un decisivo campo in cui si combattono i conflitti tra le classi sociali. In questa ottica l’ideologia diventa un fondamentale contenitore sia per conoscere e capire davvero la realtà sociale e politica, sia per esplorare vere e piene possibilità di emancipazione delle classi dominate. Engels a sua volta completerà, in termini più politici, questa visione riflettendo in modo specifico sul ruolo dello Stato, visto come la principale dimensione sociale in cui si definiscono, attraverso le leggi e le istituzioni, i rapporti di dominio ideologico. L’influenza del pensiero marxista durante la seconda parte dell’Ottocento è tale che solo nei primi decenni del nuovo secolo compaiono riflessioni in qualche modo originali sul concetto di ideologia, in particolare si distinguono quelle di due autori italiani: Gaetano Mosca (1858/1941, giurista e politologo) e Vilfredo Pareto (1848/1923, economista e sociologo). Entrambi, muovendo da posizioni critiche verso l’interpretazione marxista dell’ideologia, elaborano una diversa interpretazione socio-storica dei fenomeni del potere che rivela la loro comune profonda relazione con il positivismo scientifico di fine Ottocento e con lo stesso pensiero di Machiavelli.  Quella di Mosca (a lungo senatore e deputato della Destra storica) si basa sull’idea che i sistemi sociali e politici siano sempre determinati dalle capacità culturali di gruppi ristretti di persone, giungendo a sostenere che esiste una sola forma oligarchica di governo, l’elitismo, basata su due classi: i governanti (le élite che hanno il potere) e i governati (il resto della società), mentre in quella di Pareto (monarchico e conservatore) non esistono classi, ma solamente gruppi sociali che si differenziano per credenze, abitudini, interessi. L’ideologia viene così ridotta al concretizzarsi di programmi alternativi di governo della società, definiti come “formule politiche”, in base all’esito del confronto delle idee, vuoi delle contrapposte élite politiche in Mosca, vuoi dei contrapposti gruppi sociali in Pareto. Siamo lontanissimi dalla complessità della visione ideologica marxista, ma il pensiero di Mosca mantiene una sua rilevanza proprio perché apre la strada alla “teoria delle élite” (che  Pareto concepisce in stretta relazione con la sua concezione  dell’ideologia come un sistema, analogo a quello delle religioni, di credenze non fondate scientificamente proprie di singoli individui intellettualmente distanti dal popolo) che tornerà, anche strumentalmente, alla ribalta ancora a fine Novecento come critica, di destra e populista, verso le forze politiche di sinistra e progressiste accusate  di essere lontane dalle masse proprio perché promotrici di visioni ideologiche di natura elitaria.  Nell’ambito del comune ridimensionamento del ruolo dell’ideologia Pareto precisa inoltre che tutte le idee politiche si distinguono unicamente fra quelle finalizzate ad azioni logiche, capaci cioè di coniugare finalità e realismo, e quelle che propongono azioni non logiche, perché troppo astratte. Così come per Mosca anche dalle posizioni di Pareto si diparte un analogo percorso sotterraneo che, attraversando tutto il Novecento, troverà odierna espressione in un’altra critica strumentale al ruolo dell’ideologia: quella di puntare troppo a finalità ideali dimenticando i vincoli della realtà (la premier Meloni, quando per contrastare l’adozione di più concrete politiche ambientalistiche parla di “ambientalismo ideologico” esprime, con buona probabilità inconsapevolmente, un atteggiamento “paretiano”). Ma è un altro pensatore italiano, di tutt’altra pasta, che si è dimostrato capace di una feconda riflessione sul ruolo dell’ideologia ancora oggi al centro delle scienze sociali: si tratta di Antonio Gramsci (1891/1937). Nel suo pensiero l’ideologia, che svolge un ruolo essenziale nel rapporto tra cultura e potere, viene vista come un sistema culturale, un insieme di idee, finalizzate all’azione sociale, ed ha, di per se stessa, carattere neutrale essendo la sua valenza politica data dalla natura di quelle idee. A suo avviso, riprendendo con convinzione la visione ideologica marxista della divisione in classi, esiste infatti un complesso ideologico dei gruppi dominanti ed uno di quelli dominati, ed ambedue si pongono una precisa volontà: quella della conservazione e del rafforzamento del potere la prima, quella del suo sovvertimento la seconda. Le “illusioni” machiavelliche non sono pertanto concetti eterei, ma molle concrete dell’azione sociale e politica, si pongono cioè precise finalità organizzative per le forze sociali collettive alle quali danno forma ed identità, sono “luoghi di costruzione della soggettività di massa”. Il contrasto tra opposte ideologie e tra le idee che le compongono (all’interno del quale diventa fondamentale il ruolo dell’ “intellettuale”) avviene (secondo quella che è stata definita la “filosofia della prassi” gramsciana) in stretta relazione con altri due concetti: il “senso comune” e l’ “egemonia”. Il primo indica il terreno socio-culturale, sul quale si concretizza tale confronto ideologico, ed è determinato dal diffuso pensiero collettivo fatto di credenze, idee e valori consolidati, di rappresentazioni spontanee, di elementi simbolici (secondo Gramsci esistono in un contesto sociale più sensi comuni ognuno dei quali è strettamente connesso ad uno specifico strato sociale). Il secondo concetto, sicuramente l’espressione gramsciana di maggior successo, sintetizza la posta in palio di tale confronto, è cioè il riscontro della preminenza di una ideologia sulle altre, della sua capacità di orientare le azioni collettive avendo modificato e indirizzato il senso comune. Sul solco dell’elaborazione gramsciana si innesta, nel secondo dopoguerra, l’importante approfondimento, mirato ad adattarla alle nuove condizioni sociali, messo a punto da Louis Althusser (1918/1990, filosofo francese). Nella sua elaborazione l’ideologia mantiene questo ruolo centrale nell’ambito dei rapporti sociali, ma viene inserita in un più ampio contesto delle logiche, definite “logiche di riproduzione sociale”, che mirano a conformare le coscienze individuali e collettive al loro ruolo nella struttura sociale ed economica. A suo avviso quindi esiste un apparato ideologico per ogni ambito sociale (religioso, giuridico, politico, sindacale, dell’informazione e così via) che mira a fornire elementi “immaginari” rapportati alle reali condizioni di esistenza. Questi elementi immaginari (le illusioni machiavelliche) non sono però concetti astratti, ma idee concrete che inducono a pratiche, producono modi di pensare, orientano gli atti comportamentali, a formare un quadro culturale complessivo nel quale lo Stato svolge, con le sue istituzioni e le sue politiche, un ruolo essenziale al servizio dell’ideologia dominante. Gramsci prima ed Althusser dopo rappresentano i due sviluppi più importanti della concezione marxista dell’ideologia, ai quali si sono affiancati nel corso del Novecento contributi non meno rilevanti anche se meno politicamente orientati. Fra i diversi presi in esame da Anselmi, tutti caratterizzati da una elaborazione molto specialistica, ci limitiamo a richiamare: Karl Mannheim (1893-1947, sociologo tedesco fondatore della “sociologia della conoscenza”) che ha analizzato la distinzione tra ideologia e utopia, con quest’ultima vista come una visione fortemente trasformatrice dell’ordine esistente e la prima più contrassegnata come un sistema di idee dei gruppi alternativamente dominanti - Clifford Geertz (1926/2006, antropologo statunitense) che considera la Rivoluzione francese il momento storico in cui l’ideologia, intesa come un complesso “sistema culturale” che riassume la tensione strutturale tra individuo e ordine sociale, ha potuto irrompere nella storia culturale umana essendo stato il primo autentico squarcio nella lunga parabola delle società dispotiche – Teun van Dijk (1943, linguista olandese esperto di analisi del discorso) che vede nell’ideologia, e nei discorsi collettivi che ne traducono le finalità ideali, uno strumento fondamentale per la creazione e il rafforzamento dei gruppi sociali e per il coinvolgimento attivo degli individui che li compongono. E’ questo, in estrema sintesi, il percorso di evoluzione del concetto di “ideologia” che, in tutte le sue differenti declinazioni, ha attraversato l’intero Novecento occidentale, un secolo segnato da straordinarie conquiste e da immani tragedie tutte in qualche modo ispirate da visioni ideologiche, in molti casi caratterizzate da disastrosi eccessi e inaccettabili esasperazioni (come quelle concretamente affermatesi del fascismo, del nazismo, del comunismo di stampo sovietico). Consiste soprattutto nella consapevolezza di queste evidenti contraddizioni il presupposto più importante per il progressivo affermarsi, a partire dal secondo dopoguerra, di una comprensibile diffidenza verso il mondo delle ideologie, che si è poi trasformato, negli ultimi decenni del secolo, in un ben più convinto rifiuto. Si tratta di un processo complesso che richiederebbe ben altre valutazioni ad ampio raggio, quello che interessa qui rilevare è che ciò è storicamente avvenuto perché su questa diffusa “stanchezza ideologica” si sono poi innestati due elementi fra di loro connessi che hanno portato alla categorica affermazione della “morte dell’ideologiaa cui si è già in precedenza accennato: la fine della divisione del mondo in due blocchi e l’avvento del pensiero neoliberista. La “fine della storia”, da alcuni sancita all’indomani della caduta del Muro con la definitiva e totale vittoria del capitalismo ormai globalmente senza più avversari, si è infatti intrecciata con l’affermarsi di una visione del mondo, quella neoliberista, capace di imporre, globalmente, una nuova razionalità sociale. Sono molti e molto articolati gli aspetti che la compongono, quelli che più sembrano sintetizzare il suo carattere di svolta radicale consistono nella celebrazione dell’individualismo e nella riduzione di ogni rapporto sociale a puro meccanismo di mercato, e da qui, a cascata, la cancellazione di ogni intermediazione sociale, la riduzione della politica e del sistema dei partiti a meri servitori delle logiche di mercato. In questa razionalità non c’è spazio per qualsivoglia tensione utopica, la società è ridotta a relazioni fra singoli individui visti come “imprenditori di se stessi”, prevale quindi un sguardo schiacciato sul presente del tutto privo di quella “immaginazione” che, per quanto diversamente declinata, aveva sin lì ispirato tutte le precedenti ideologie. Un processo storico inarrestabile che ha però dato vita ad un evidente paradosso: questo stesso neoliberismo, nato e cresciuto sulle ceneri della divisione ideologica del mondo in due bocchi celebrando la morte delle ideologie, è stato a sua volta così lungamente e scientificamente elaborato in ambito accademico e intellettuale come organico complesso di idee, da poter essere a sua volta definito come una compiuta ideologia (il nostro “saggio del mese” di Marzo 2023, “Dominio” di Marco D’Eramo, è una accurata ricostruzione di questa costruzione). Si è cioè, da ormai quasi cinquant’anni, di fronte ad una invadente macro-ideologia che è stata capace, invocando la pura razionalità dei meccanismi di mercato lasciati liberi di esprimersi senza vincoli, di divenire l’autentica nuova “ragione del mondo” autocelebrandosi allo stesso tempo proprio come protagonista della fine delle ideologie. Ma è poi davvero così? l’epoca delle ideologie si è davvero conclusa per sempre? Uno sguardo obiettivo sui fermenti politici e culturali che stanno agitando il mondo e l’Occidente in particolare sembrerebbe smentire una affermazione così tranchant. Quello che infatti appare trasparire è che proprio l’indubbio impatto della svolta neoliberista abbia messo in moto diversi e articolati processi che sembrano al contrario esprimere evidenti tensioni di natura ideologica. Lo attesta innanzitutto lo stesso affermarsi del populismo o meglio ancora dei populismi, il secondo fenomeno socio-culturale che più sembra aver caratterizzato la scena politica non solo occidentale di fine secolo. Ed è proprio nelle sue pieghe che è possibile individuare alcuni specifici elementi che presentano evidenti tensioni ideologiche che investono sia il campo della destra che della sinistra. E’ dalla destra che conviene iniziare, dal punto di vista della possibile rinascita delle ideologie l’Europa e gli USA sono infatti stati negli ultimi decenni un vero e proprio laboratorio delle nuove destre dando vita a nuove modulazioni ideologiche, la maggior parte delle quali con una forte connotazione populista. L’intreccio fra populismo di destra e neoliberismo è evidente, nessuno dei populismi ha mai posto in discussione l’esaltazione ideologica del mercato, anzi, ma al tempo stesso molte delle conseguenze della globalizzazione neoliberista sono state uno spunto fortemente critico fondamentale per la loro esplosione. Non a caso molti analisti sostengono che le fortune del populismo occidentale si spiegano proprio per la sua capacità di farsi efficace interprete del diffuso malcontento verso fenomeni connessi alle trasformazioni innescate proprio dalla globalizzazione. Ed è proprio su questo terreno che si sono manifestate nuove esigenze ed idee e che si sono ri-affermati valori, appartenenti allo storico bagaglio ideologico delle destre, a formare un humus ideologico composto da: difesa e recupero di identità sociale, rifiuto del cosmopolitismo, nuovo sovranismo che guarda al recupero rassicurante della dimensione statale, il bisogno, più psicologico che reale, della sicurezza, il cosiddetto “producerism” ossia la pretesa dei ceti sociali medio/alti benestanti di un riconoscimento del loro status, un rifiuto delle élite intellettuali molto spesso confluito in aperto complottismo. Una composizione variegata che molto varia da paese a paese, ma che è ovunque tenuta insieme da un tratto morfologico fondamentale: un individualismo fortemente antimodernista compresso in localismi identitari. Al contrario di questa destra la sinistra mondiale del nuovo millennio non poco stenta ad uscire dalla destrutturazione politica ed ideologica conseguente all’affermazione neoliberista e alla collegata scomparsa della più netta divisione in classi, di quel “popolo di sinistra” che aveva sostenuto tutte le ideologie di ispirazione marxista. Non per nulla si è resa ancor più manifesta la storica distinzione tra la famiglia ideologica della sinistra riformista e socialdemocratica e quella tradizionalmente più radicale. A ben poco è servita la comune condivisione della fine del dannoso equivoco del socialismo reale, mentre al contrario molto ha pesato nell’accentuare tale frattura l’equivoco rapporto delle sinistre più riformiste con non pochi aspetti della globalizzazione neoliberista. La sinistra occidentale non sembra pertanto in grado di uscire dall’angolo e resta inconsolata orfana del suo popolo, con quella riformista arroccata negli storici suoi partiti (sempre più declinanti ad ogni maquillage di superficie) e quella radicale come sempre molto frazionata (ed incapace di costruire più solida consistenza sulla base di alcune, per quanto significative, esperienze quali i movimenti no global dei primi anni duemila, l’americano Occupy Wall Street e lo spagnolo movimento degli indignados del 2010/2011), ed impossibilitata a replicare (per le evidenti differenze di contesto e per le sue innegabili degenerazioni individualiste) il populismo antiglobalizzazione di sinistra di stampo sudamericano. Ma soprattutto si dimostra ancora incapace di divenire coerente ed efficace punto di riferimento il rilevante fermento, anche di natura ideologica, di alcune esperienze che per le loro caratteristiche hanno ampio titolo per rientrare nel campo della sinistra quali il campo vasto dei movimenti ambientalisti, di quelli neo femministi, della crescente opposizione pacifista al riesplodere delle logiche di guerra, della difesa e della conquista di fondamentali diritti civili, di più efficace lotta alle disuguaglianze economiche. Scontato il fatto che non sia per nulla semplice l’assemblaggio di questi variegati fermenti, è poi necessario che ciò non produca un inutile, se non dannoso, informe mosaico ideologico.  Per evitarlo occorre recuperare una visione organica di trasformazione della società capace di una “immaginazione olistica”, ossia una compiuta ideologia, in grado di dare senso ad una adesione ideologica non più determinata dalla sola appartenenza sociale. Se è quindi vero che la macro-ideologia neoliberista rivela in più punti incrinature tali da lasciare spazio a nuovi fermenti ideologici è però innegabile che in esse si siano meglio sedimentati elementi ideologici di destra per quanto ad oggi oggettivamente limitati al solo recupero di improbabili certezze identitarie. Nel campo opposto della sinistra deve ancora essere recuperata, con tutta l’urgenza dettata dalle emergenze ambientali e geopolitiche, una maggiore consapevolezza del fatto che la frattura neoliberista è stata tale da aver radicalmente compromesso, facendolo totalmente suo, il potere formativo dell’ideologia, deve cioè tornare a fare suo lo schema di base che dall’Ottocento e per tutto il Novecento ha ispirato il ruolo dell’ideologia: quello di dare una chiave di lettura della realtà ed un orizzonte di una sua trasformazione.