La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
LUGLIO 2024
E’
un parola, che come si vedrà è più opportuno declinare al plurale, capace di
sintetizzare il bagaglio di idee e di valori che dovrebbero, ferma restando una
adeguata conoscenza della realtà, ispirare ogni visione politica e sociale. E
così è stato a lungo nella storia, in particolare nel Novecento occidentale.
Nel corso del quale è però drammaticamente emerso quali nefaste conseguenze
possano da essa derivare quando interpretata e vissuta con esasperata adesione.
Non a caso quindi è poi comprensibilmente divenuta oggetto di rifiuto, di
condanna, al punto che da molti ne è stata persino decretata la fine, la morte.
Altre interpretazioni però sono molto più caute al riguardo ed anzi evidenziano
la necessità di un suo recupero, va da sé depurato da fanatiche evoluzioni. Si
sta parlando di ……
IDEOLOGIA
Per meglio
conoscerla e valutarla ci siamo appoggiati ad un interessante testo di recente
pubblicazione che proprio in tal senso si muove
il cui autore è Manuel
Anselmi (Politologo,
insegna Sociologia dei fenomeni politici all'Università degli Studi di Perugia
e Democrazia e Sviluppo in America Latina alla LUISS University)
che per la sua riflessione parte da alcune domande: ha senso
parlare di ideologie oggi? stiamo davvero assistendo ad un ritorno di nuove
ideologie politiche? Ma non erano finite le ideologie? La politica di oggi è ideologica
allo stesso modo di quella del Novecento?
Questioni preliminari
E’ sempre
buona norma, nel riflettere su categorie sociali e politiche, evitare di
vederle come valori fuori dal tempo, per comprenderle occorre sempre storicizzarle,
contestualizzarle. Concetti come democrazia, potere, destra e sinistra,
acquistano senso compiuto solamente se collocati nel tempo e nel luogo in cui
si sono espressi. Ciò vale ancor di più quando si parla di
ideologia che è un concetto che sempre esprime il modo di pensare la società
alla luce delle condizioni storiche, sociali, geopolitiche, del tempo di quella
società. Questa inaggirabile
premessa non esclude tuttavia una sua qualche definizione generale che è stata
concordemente declinata nel campo degli studi politici in: un insieme di idee,
valori e opinioni, raccolti ordinatamente a formare una visione della società
la cui finalità ultima è da un lato quella di fornire una chiave di lettura e di
comprensione della realtà sociale e dall’altro quella di indicare un orizzonte
di intervento e di trasformazione/conservazione di tale realtà. Vale
a dire che un singolo valore, una specifica idea od opinione, per quanto
rilevanti, da soli non possono costituire un’ideologia se non fra di loro
coniugati a formare una visione complessiva della società e dei suoi rapporti. In
questo senso l’ideologia è, tra le categorie della politica, quella che più
chiama in causa la relazione tra cultura e potere, essa da sempre
costituisce un prodotto della “cultura politica” in cui si è formata, capace
di fornire un “immaginario
sociale” su cui fondare la struttura del potere. Questa sua
declinazione al singolare è comunque più propria di un approccio di tipo
filosofico, del
riflettere sulle categorie generali, passando però al suo concreto esprimersi
storico, occorre tornare alla premessa iniziale e usare la sua versione al
plurale, occorre cioè parlare di ideologie. Il parametro della temporalità ha
inoltre una duplice valenza, vale come elemento fondante della ideologia in
esame, ma non di meno anche per quella del contesto storico in cui il suo esame
avviene: qualsiasi
studio su una determinata ideologia risente cioè del campo ideologico del
periodo in cui esso viene intrapreso. A maggior ragione si è quindi
sempre nell’obbligo di parlare di ideologie e del loro eventuale rapporto. Ed è
sicuramente questa la chiave di interpretazione della contemporanea discussione
sull’ideologia, sulla sua sostenibilità e sulle sue forme, che negli ultimi
trent’anni sembra essersi attorcigliata attorno al luogo comune della “morte delle
ideologie” avvenuta con la fine del Novecento, il secolo ideologico per
eccellenza, in base al quale quella attuale sarebbe quindi un’epoca
post-ideologica. Si entrerà nel merito di questa teoria, la quale
però deve essere anch’essa interpretata alla luce del parametro di temporalità
di cui si è or ora detto. Vale a dire che la fine delle ideologie potrebbe
essere a sua volta vista come una formula retorica utilizzata da un eventuale ideologia
dominante con il fine di mascherare, piuttosto che auto-esaltare, proprio la
sua egemonia. Anche per meglio valutare questa considerazione è preliminarmente
utile ripercorrere lo sviluppo storico del concetto di ideologia partendo dalle
sue elaborazioni teoriche classiche
Anselmi lo fa
ripercorrendo una secolare storia di idee quanto mai complessa e articolata che
ben altra trattazione richiederebbe, limitandosi in questo breve saggio ad
estrapolare solamente i passaggi che di più, a suo avviso, hanno segnato questa
evoluzione
Profilo storico-concettuale
Qualsiasi riflessione sull’ideologia non può
prescindere da uno sguardo sulla evoluzione di un concetto che, proprio per le
sue caratteristiche, è strettamente connesso alla più generale storia della modernità europea.
Questo avviene fin dal suo nascere, nel solco dell’Illuminismo francese, con
l’affermarsi dell’urgenza di liberare dalle catene dell’Ancien Règime le
istanze di cambiamento economico, sociale, culturale e politico, che stavano
emergendo nel corso del Settecento nel vecchio continente. Questa urgenza da
subito mette insieme due aspetti fondamentali: la conoscenza scientifica della realtà,
compresa quella sociale, e l’immaginazione del risultato di una sua trasformazione.
E’ questo un passaggio, che si concretizzerà in nuove elaborazioni intellettuali,
che non nasce tuttavia dal nulla: sono almeno due i pensatori classici che già
avevano messo a punto idee e considerazioni in tal senso: l’italiano Niccolò
Machiavelli (1469/1527) e
l’inglese Francis
Bacon (Bacone, 1561/1626). Nel
delineare un ideale di “Principe” il primo indica espressamente la
necessità di mantenere un giusto equilibrio tra “illusione”, inteso come il
risultato delle individuali aspettative e azioni, e “realtà”, il corretto giudizio
sui fenomeni storici in corso. Bacone, sulla sua scia, accentua vieppiù il
richiamo a valutare lucidamente l’illusione [che definisce usando
il termine latino “idola” (idoli, simulacri
della realtà), una intrigante anticipazione linguistica di “ideologia”]
come forma di pensiero critico. E’ questa l’eredità classica che ispira il
filosofo illuminista francese Antoine-Louis-Claude Destutt de
Tracy (1754/1836) a promuovere una “scienza delle
idee”, fortemente antidogmatica, ufficialmente definita, per la prima
volta, “ideologia”.
Attorno a de Tracy si raccolse un gruppo di intellettuali militanti (fra
i tanti spicca il nome di Lavoisier,
1743/1794, chimico e biologo) molto attivi durante e
dopo la Rivoluzione francese sempre all’insegna della supremazia della cultura
e della scienza come leva per la trasformazione, con forti tratti utopici,
dell’intera società. Una visione destinata ad entrare in forte contrasto con la
successiva ascesa del dispotismo di Napoleone, il quale nel vivo della polemica
li apostrofò con il termine, già allora dispregiativo, di “idéologues (ideologi)” con il significato di “astratti
intellettuali”, se non di rompiscatole (accezione negativa che
è rimasta, con questo significato, fino ai giorni nostri).
La nascita del moderno concetto di ideologia avviene quindi in una delle fasi
più importanti nell’evoluzione dello spazio pubblico democratico caratterizzata
da forti accenti di critica del potere, fin da subito coniugati con visioni utopiche
capaci di coinvolgere una parte importante dei settori culturali più avanzati. Se
ancora per i primi decenni dell’Ottocento il termine ideologia ha mantenuto in
prevalenza una forte connotazione pedagogica di educazione delle masse, la sua
evoluzione verso un carattere più politico ha iniziato ad emergere con
l’eterogeneo quadro dei socialisti utopici
[una
corrente di pensiero politico europeo attenta alle condizioni sociali del primo
capitalismo, fra i tanti spiccano in Francia i nomi di Saint Simon (1760/1825), di Fourier (1772/18379 ed in Inghilterra quello di Owen (1771/1858)] . Ma il vero e completo passaggio ad una completa valenza politica
avviene solamente con l’irruzione sulla scena culturale occidentale del “materialismo
marxiano”, tant’è che è di sicuro possibile sostenere che nella
storia del concetto di ideologia esista un prima e un dopo Marx (1818/1883) ed Engels
(1820/1895).
Il loro approccio scientifico di ordine materialistico (la
storia umana è definita e mossa dalle materiali forme di produzione e dalle
collegate condizioni di esistenza delle masse)
muove, con ben altro spirito e finalità, la stessa critica di Napoleone di
astrattismo intellettuale agli ideologi francesi (così come ai
precedenti socialisti utopici), integrata inoltre da una
critica non meno feroce alla filosofia tedesca post hegeliana (per
meglio comprendere la genesi del concetto di ideologia marxiano il testo
fondamentale è l’opera, scritta a quattro mani, “L’ideologia
tedesca” del 1845/1846), In Marx l’ideologia
smette di essere un concetto ideale di elevazione culturale del popolo per
assumere in primo luogo quello di una organica dimensione sovrastrutturale, di un sistema di
idee promosso dalle classi dominanti per la difesa dei propri interessi.
Si inaugura quindi una concezione dell’ideologia strettamente connessa alla
divisione in classi sociali (la struttura), definite
dal loro ruolo nella produzione economica, a sua volta rafforzata da una
precisa costruzione culturale (la sovrastruttura
ideologica) a
completare il dominio della visione capitalistica della società. Per spiegare
come possa concretamente avvenire che i dominati accettino supinamente il sistema
delle idee dei dominatori
Marx ed Engels introducono un concetto che è rimasto fondamentale:
quello dell’alienazione
(o estraniazione),
vale a dire la separazione della coscienza di sé, della propria soggettività,
della propria oggettiva condizione sociale (non a caso Marx
definisce l’alienazione anche come “falsa coscienza”).
L’inganno ideologico non colpisce però soltanto le masse, ma è fatto proprio
anche dai pensatori, dai filosofi, da chi guarda dall’esterno la storia
dell’uomo, inducendoli a non cogliere le vere forze motrici della storia e (vale
per gli ideologi francesi e per i filosofi tedeschi), a ritenere erroneamente che la storia sia in
ultima istanza fondata unicamente sul mondo delle idee. Soprattutto Marx (il
suo testo “Per una critica dell’economia politica” del 1859, che precede la
stesura del “Capitale” del 1867, è quello che più compiutamente definisce
questa sua concezione dell’ideologia) insiste molto nel
sottolineare che la sovrastruttura ideologica non deve essere intesa come un di
più effimero della strutturale dimensione socioeconomica, ma come un decisivo
campo in cui si combattono i conflitti tra le classi sociali. In
questa ottica l’ideologia diventa un fondamentale contenitore sia per conoscere
e capire davvero la realtà sociale e politica, sia per esplorare vere e piene
possibilità di emancipazione delle classi dominate. Engels a sua volta
completerà, in termini più politici, questa visione riflettendo in modo
specifico sul ruolo dello Stato, visto come la principale dimensione sociale in
cui si definiscono, attraverso le leggi e le istituzioni, i rapporti di dominio
ideologico. L’influenza del pensiero marxista durante la seconda parte
dell’Ottocento è tale che solo nei primi decenni del nuovo secolo compaiono
riflessioni in qualche modo originali sul concetto di ideologia, in particolare
si distinguono quelle di due autori italiani: Gaetano Mosca (1858/1941, giurista e politologo) e Vilfredo Pareto (1848/1923, economista e sociologo). Entrambi,
muovendo da posizioni critiche verso l’interpretazione marxista dell’ideologia,
elaborano una diversa interpretazione socio-storica dei fenomeni del potere che
rivela la loro comune profonda relazione con il positivismo scientifico di fine
Ottocento e con lo stesso pensiero di Machiavelli. Quella di Mosca (a lungo senatore e
deputato della Destra storica) si basa sull’idea che i
sistemi sociali e politici siano sempre determinati dalle capacità culturali di
gruppi ristretti di persone, giungendo a sostenere che esiste una sola forma
oligarchica di governo, l’elitismo, basata su due classi: i governanti (le élite che hanno il potere) e i governati (il resto della società),
mentre in quella di Pareto (monarchico e conservatore)
non esistono classi, ma solamente gruppi sociali che si differenziano per credenze,
abitudini, interessi. L’ideologia viene così ridotta al
concretizzarsi di programmi alternativi di governo della società, definiti come
“formule
politiche”, in base all’esito del confronto delle idee, vuoi delle contrapposte
élite politiche in Mosca, vuoi dei contrapposti gruppi sociali in Pareto. Siamo
lontanissimi dalla complessità della visione ideologica marxista, ma il
pensiero di Mosca mantiene una sua rilevanza proprio perché apre la strada alla
“teoria delle
élite” (che
Pareto concepisce in stretta relazione con la sua concezione dell’ideologia come un sistema, analogo a
quello delle religioni, di credenze non fondate scientificamente proprie di
singoli individui intellettualmente distanti dal popolo) che
tornerà, anche strumentalmente, alla ribalta ancora a fine Novecento come
critica, di destra e populista, verso le forze politiche di sinistra e
progressiste accusate di essere lontane
dalle masse proprio perché promotrici di visioni ideologiche di natura elitaria. Nell’ambito del comune ridimensionamento del
ruolo dell’ideologia Pareto precisa inoltre che tutte le idee politiche si
distinguono unicamente fra quelle finalizzate ad azioni logiche, capaci cioè di
coniugare finalità e realismo, e quelle che propongono azioni non logiche, perché
troppo astratte. Così come per Mosca anche dalle posizioni di Pareto si diparte
un analogo percorso sotterraneo che, attraversando tutto il Novecento, troverà
odierna espressione in un’altra critica strumentale al ruolo dell’ideologia: quella di
puntare troppo a finalità ideali dimenticando i vincoli della realtà
(la
premier Meloni, quando per contrastare l’adozione di più concrete politiche
ambientalistiche parla di “ambientalismo ideologico”
esprime, con buona probabilità inconsapevolmente, un atteggiamento “paretiano”).
Ma è un altro pensatore italiano, di tutt’altra pasta, che si è dimostrato
capace di una feconda riflessione sul ruolo dell’ideologia ancora oggi al
centro delle scienze sociali: si tratta di Antonio Gramsci (1891/1937). Nel
suo pensiero l’ideologia, che svolge un ruolo essenziale nel rapporto tra
cultura e potere, viene vista come un sistema culturale, un insieme di idee,
finalizzate all’azione sociale, ed ha, di per se stessa, carattere neutrale
essendo la sua valenza politica data dalla natura di quelle idee. A suo avviso,
riprendendo con convinzione la visione ideologica marxista della divisione in
classi, esiste infatti un complesso ideologico dei gruppi dominanti ed uno di
quelli dominati, ed ambedue si pongono una precisa volontà: quella della
conservazione e del rafforzamento del potere la prima, quella del suo
sovvertimento la seconda. Le “illusioni” machiavelliche non sono pertanto concetti
eterei, ma molle concrete dell’azione sociale e politica, si pongono cioè precise
finalità organizzative per le forze sociali collettive alle quali danno forma
ed identità, sono “luoghi di costruzione della soggettività di massa”.
Il contrasto tra opposte ideologie e tra le idee che le compongono (all’interno
del quale diventa fondamentale il ruolo dell’ “intellettuale”)
avviene (secondo quella che è stata definita la “filosofia della prassi” gramsciana) in
stretta relazione con altri due concetti: il “senso comune” e l’ “egemonia”. Il primo indica il terreno
socio-culturale, sul quale si concretizza tale confronto ideologico,
ed è determinato dal diffuso pensiero collettivo fatto di credenze, idee e
valori consolidati, di rappresentazioni spontanee, di elementi simbolici (secondo
Gramsci esistono in un contesto sociale più sensi comuni ognuno dei quali è strettamente
connesso ad uno specifico strato sociale). Il secondo
concetto, sicuramente l’espressione gramsciana di maggior successo, sintetizza la
posta in palio di tale confronto, è cioè il riscontro della preminenza di una
ideologia sulle altre, della sua capacità di orientare le azioni
collettive avendo modificato e indirizzato il senso comune. Sul solco
dell’elaborazione gramsciana si innesta, nel secondo dopoguerra, l’importante
approfondimento, mirato ad adattarla alle nuove condizioni sociali, messo a
punto da Louis
Althusser (1918/1990,
filosofo francese). Nella sua elaborazione l’ideologia
mantiene questo ruolo centrale nell’ambito dei rapporti sociali, ma viene
inserita in un più ampio contesto delle logiche, definite “logiche di riproduzione sociale”,
che mirano a conformare le coscienze individuali e collettive al loro ruolo
nella struttura sociale ed economica. A suo avviso quindi esiste un apparato
ideologico per ogni ambito sociale (religioso, giuridico, politico,
sindacale, dell’informazione e così via) che mira a fornire
elementi “immaginari”
rapportati alle reali condizioni di esistenza. Questi elementi immaginari (le
illusioni machiavelliche) non sono però concetti astratti, ma
idee concrete che inducono a pratiche, producono modi di pensare, orientano gli
atti comportamentali, a formare un quadro culturale complessivo nel quale lo
Stato svolge, con le sue istituzioni e le sue politiche, un ruolo essenziale al
servizio dell’ideologia dominante. Gramsci prima ed Althusser dopo
rappresentano i due sviluppi più importanti della concezione marxista
dell’ideologia, ai quali si sono affiancati nel corso del Novecento contributi
non meno rilevanti anche se meno politicamente orientati. Fra i diversi presi
in esame da Anselmi, tutti caratterizzati da una elaborazione molto
specialistica, ci limitiamo a richiamare: Karl Mannheim (1893-1947,
sociologo tedesco fondatore della “sociologia della
conoscenza”) che ha analizzato la distinzione tra
ideologia e utopia, con quest’ultima vista come una visione fortemente
trasformatrice dell’ordine esistente e la prima più contrassegnata come un
sistema di idee dei gruppi alternativamente dominanti - Clifford Geertz (1926/2006, antropologo statunitense) che
considera la Rivoluzione francese il momento storico in cui l’ideologia, intesa
come un complesso “sistema culturale” che riassume la tensione
strutturale tra individuo e ordine sociale, ha potuto irrompere nella storia
culturale umana essendo stato il primo autentico squarcio nella lunga parabola
delle società dispotiche – Teun van Dijk (1943,
linguista olandese esperto di analisi del discorso)
che vede nell’ideologia, e nei discorsi collettivi che ne traducono le finalità
ideali, uno strumento fondamentale per la creazione e il rafforzamento dei
gruppi sociali e per il coinvolgimento attivo degli individui che li
compongono. E’ questo, in estrema sintesi, il percorso di evoluzione del
concetto di “ideologia” che, in tutte le sue differenti declinazioni, ha
attraversato l’intero Novecento occidentale, un secolo segnato da straordinarie
conquiste e da immani tragedie tutte in qualche modo ispirate da visioni
ideologiche, in molti casi caratterizzate da disastrosi eccessi e inaccettabili
esasperazioni (come quelle concretamente
affermatesi del fascismo, del nazismo, del comunismo di stampo sovietico).
Consiste soprattutto nella consapevolezza di queste evidenti contraddizioni il
presupposto più importante per il progressivo affermarsi, a partire dal secondo
dopoguerra, di una comprensibile diffidenza verso il mondo delle ideologie, che
si è poi trasformato, negli ultimi decenni del secolo, in un ben più convinto
rifiuto. Si tratta di un processo complesso che richiederebbe ben altre
valutazioni ad ampio raggio, quello che interessa qui rilevare è che ciò è
storicamente avvenuto perché su questa diffusa “stanchezza ideologica” si sono
poi innestati due elementi fra di loro connessi che hanno portato alla
categorica affermazione della “morte dell’ideologia”
a cui si è già in precedenza accennato: la fine della divisione del mondo in due
blocchi e l’avvento del pensiero neoliberista. La “fine della
storia”, da alcuni sancita all’indomani della caduta del Muro con la
definitiva e totale vittoria del capitalismo ormai globalmente senza più
avversari, si è infatti intrecciata con l’affermarsi di una visione del mondo,
quella neoliberista, capace di imporre, globalmente, una nuova razionalità sociale. Sono
molti e molto articolati gli aspetti che la compongono, quelli che più sembrano
sintetizzare il suo carattere di svolta radicale consistono nella celebrazione
dell’individualismo e nella riduzione di ogni rapporto sociale a puro
meccanismo di mercato, e da qui, a cascata, la cancellazione di ogni
intermediazione sociale, la riduzione della politica e del sistema dei partiti
a meri servitori delle logiche di mercato. In questa razionalità non c’è spazio
per qualsivoglia tensione utopica, la società è ridotta a relazioni fra singoli
individui visti come “imprenditori di se stessi”, prevale quindi un
sguardo schiacciato sul presente del tutto privo di quella “immaginazione”
che, per quanto diversamente declinata, aveva sin lì ispirato tutte le
precedenti ideologie. Un processo storico inarrestabile che ha però dato vita
ad un evidente paradosso: questo stesso neoliberismo, nato e cresciuto sulle
ceneri della divisione ideologica del mondo in due bocchi celebrando la morte delle
ideologie, è stato a sua volta così lungamente e scientificamente
elaborato in ambito accademico e intellettuale come organico complesso di idee,
da
poter essere a sua volta definito come una compiuta ideologia (il
nostro “saggio del mese” di Marzo 2023, “Dominio” di Marco D’Eramo, è una
accurata ricostruzione di questa costruzione). Si è cioè, da
ormai quasi cinquant’anni, di fronte ad una invadente macro-ideologia che è stata capace, invocando la pura razionalità
dei meccanismi di mercato lasciati liberi di esprimersi senza vincoli, di divenire l’autentica
nuova “ragione del mondo” autocelebrandosi allo stesso tempo proprio come protagonista
della fine delle ideologie. Ma è poi davvero così? l’epoca delle
ideologie si è davvero conclusa per sempre? Uno sguardo obiettivo sui fermenti
politici e culturali che stanno agitando il mondo e l’Occidente in particolare
sembrerebbe smentire una affermazione così tranchant. Quello che infatti appare
trasparire è che proprio l’indubbio impatto della svolta neoliberista abbia
messo in moto diversi e articolati processi che sembrano al contrario esprimere
evidenti tensioni di natura ideologica. Lo attesta innanzitutto lo stesso
affermarsi del populismo
o meglio ancora dei populismi, il secondo fenomeno socio-culturale che più
sembra aver caratterizzato la scena politica non solo occidentale di fine
secolo. Ed è proprio nelle sue pieghe che è possibile individuare
alcuni specifici elementi che presentano evidenti tensioni ideologiche che
investono sia il campo della destra che della sinistra. E’ dalla destra che
conviene iniziare, dal punto di vista della possibile rinascita delle ideologie
l’Europa e gli USA sono infatti stati negli ultimi decenni un vero e proprio
laboratorio delle nuove destre dando vita a nuove modulazioni ideologiche, la
maggior parte delle quali con una forte connotazione populista. L’intreccio fra
populismo di destra e neoliberismo è evidente, nessuno dei populismi ha mai
posto in discussione l’esaltazione ideologica del mercato, anzi, ma al tempo
stesso molte delle conseguenze della globalizzazione neoliberista sono state
uno spunto fortemente critico fondamentale per la loro esplosione. Non a caso molti
analisti sostengono che le fortune del populismo occidentale si spiegano
proprio per la sua capacità di farsi efficace interprete del diffuso
malcontento verso fenomeni connessi alle trasformazioni innescate proprio dalla
globalizzazione. Ed
è proprio su questo terreno che si sono manifestate nuove esigenze ed idee e che
si sono ri-affermati valori, appartenenti allo storico bagaglio ideologico
delle destre, a formare un humus ideologico composto da: difesa e
recupero di identità sociale, rifiuto del cosmopolitismo, nuovo sovranismo che
guarda al recupero rassicurante della dimensione statale, il bisogno, più
psicologico che reale, della sicurezza, il cosiddetto “producerism” ossia la pretesa
dei ceti sociali medio/alti benestanti di un riconoscimento del loro status, un
rifiuto delle élite intellettuali molto spesso confluito in aperto
complottismo. Una composizione variegata che molto varia da paese a paese, ma
che è ovunque tenuta insieme da un tratto morfologico fondamentale: un
individualismo fortemente antimodernista compresso in localismi identitari.
Al contrario di questa destra la sinistra mondiale del nuovo millennio non poco
stenta ad uscire dalla destrutturazione politica ed ideologica conseguente all’affermazione
neoliberista e alla collegata scomparsa della più netta divisione in classi, di
quel “popolo
di sinistra” che aveva sostenuto tutte le ideologie di ispirazione
marxista. Non per nulla si è resa ancor più manifesta la storica distinzione tra
la famiglia ideologica della sinistra riformista e socialdemocratica e quella
tradizionalmente più radicale. A ben poco è servita la comune condivisione
della fine del dannoso equivoco del socialismo reale, mentre al contrario molto
ha pesato nell’accentuare tale frattura l’equivoco rapporto delle sinistre più
riformiste con non pochi aspetti della globalizzazione neoliberista. La
sinistra occidentale non sembra pertanto in grado di uscire dall’angolo e resta
inconsolata orfana del suo popolo, con quella riformista arroccata negli
storici suoi partiti (sempre più declinanti ad ogni
maquillage di superficie) e quella radicale come sempre molto
frazionata (ed incapace di costruire più solida consistenza sulla
base di alcune, per quanto significative, esperienze quali i movimenti no
global dei primi anni duemila, l’americano Occupy Wall Street e lo spagnolo
movimento degli indignados del 2010/2011), ed impossibilitata
a replicare (per le evidenti differenze di
contesto e per le sue innegabili degenerazioni individualiste) il
populismo antiglobalizzazione di sinistra di stampo sudamericano. Ma soprattutto
si dimostra ancora incapace di divenire coerente ed efficace punto di
riferimento il rilevante fermento, anche di natura ideologica, di alcune
esperienze che per le loro caratteristiche hanno ampio titolo per rientrare nel
campo della sinistra quali il campo vasto dei movimenti ambientalisti, di
quelli neo femministi, della crescente opposizione pacifista al riesplodere
delle logiche di guerra, della difesa e della conquista di fondamentali diritti
civili, di più efficace lotta alle disuguaglianze economiche. Scontato il fatto
che non sia per nulla semplice l’assemblaggio di questi variegati fermenti, è
poi necessario che ciò non produca un inutile, se non dannoso, informe mosaico
ideologico. Per evitarlo occorre
recuperare una visione organica di trasformazione della società capace di una “immaginazione
olistica”, ossia una compiuta ideologia, in grado di dare senso ad
una adesione ideologica non più determinata dalla sola appartenenza sociale. Se
è quindi vero che la macro-ideologia neoliberista rivela in più punti
incrinature tali da lasciare spazio a nuovi fermenti ideologici è però
innegabile che in esse si siano meglio sedimentati elementi ideologici di
destra per quanto ad oggi oggettivamente limitati al solo recupero di
improbabili certezze identitarie. Nel campo opposto della sinistra deve ancora
essere recuperata, con tutta l’urgenza dettata dalle emergenze ambientali e
geopolitiche, una maggiore consapevolezza del fatto che la frattura
neoliberista è stata tale da aver radicalmente compromesso, facendolo
totalmente suo, il potere formativo dell’ideologia, deve cioè tornare a fare
suo lo schema di base che dall’Ottocento e per tutto il Novecento ha ispirato
il ruolo dell’ideologia: quello di dare una chiave di lettura della realtà ed un
orizzonte di una sua trasformazione.
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