Il “Saggio” del mese
LUGLIO 2024
E’
comprensibile, persino doveroso, che il dibattito pubblico si concentri sulle
problematiche del presente, sulle loro concrete dinamiche, sulle loro più
immediate cause. Ad esempio non sfugge a questa inevitabile propensione lo
stesso discutere, ad ogni livello, sui tragici conflitti armati che stanno
segnando questi nostri incerti tempi. Ma per dare senso e direzione a questo
tipo di approccio resta fondamentale guardare, di tanto in tanto, al mondo
delle idee e dei valori ultimi che dovrebbero ispirarlo. Ed è proprio questa la
convinzione che ha da sempre motivato l’attività di Circolarmente e questo suo
blog. Ci proviamo anche con il Saggio di questo mese che propone una
riflessione su un tema, quello della convivenza, che sta alla base della vita
comunitaria di tutte le società umane ed alla cui definizione dovrebbe
costantemente guardare il dibattito pubblico a partire, come bene ricorda il
suo sottotitolo, da quello politico
il cui autore è Gabriele Segre (direttore della
Fondazione Vittorio Dan Segre, esperto di temi di identità e convivenza, ha
lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e
riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate, tra cui La Stampa e
Il Sole 24 Ore, tiene una rubrica settimanale su Domani)
Per
meglio inquadrare la genesi di questo saggio è utile citare alcuni dei canonici
ringraziamenti a fine testo: Gabriele Segre precisa che questo libro è il
frutto di almeno cinque anni di riflessioni condivise con tante persone fra le
quali: Giovanni De Luna, Maurizio Ferraris, Michele Luzzato, Luciano Canfora,
Gianni Cuperlo, Domenico Quirico
Il saggio si apre con la prefazione di Luciano Canfora che in poche righe offre un dotto excursus storico sul millenario discutere attorno al conflittuale rapporto tra convivenza e difesa delle proprie identità (questo saggio è stato presentato nel recente Salone del Libro di Torino in un dibattito a tre voci con l’autore, lo stesso Luciano Canfora ed il giornalista Domenico Quirico). Ed è proprio da questo rapporto che prende avvio la riflessione di Segre
1 – Il bisogno della convivenza
Non è per nulla una forzatura riduttiva
leggere l’intera storia sociale dell’homo sapiens, fin dai suoi albori e a
maggior ragione dalla comparsa delle comunità stanziali avvenuta con l’affermarsi
della rivoluzione agricola e di ciò che comunemente viene inteso come
“civiltà”, come il costante alternarsi, spesso in forma di aperto contrasto,
fra la
tendenza alla socialità, (vivere in comunità ha
da sempre rappresentato un indubbio vantaggio evolutivo), a quella della diffidenza
verso l’altro, verso lo straniero, individuo o gruppo che sia.
Questo tratto della natura umana è di certo rintracciabile anche nell’umanità
del nuovo millennio ed anzi per molti versi sembra conoscere una pericolosa accentuazione
legata al comune vivere in un ecosistema chiuso sovraffollato e degradato, dove
il crescente disputarsi le risorse finite del pianeta, unitamente alla loro
divisione ineguale, sempre più rischia di evolvere in conflitti aperti e
ingestibili. Non stupisce più di tanto che a giudizio di molti questa fase sia
quella in cui, per la prima volta da quando ha iniziato la sua storia,
l’umanità possa persino pervenire al proprio annientamento. Concorrono molte
cause e molti fattori, ma di certo non poco pesa, inconsapevole sullo sfondo,
questo millenario retaggio culturale. Ed è proprio sul piano culturale che
l’umanità è chiamata ad attivarsi per rimuoverlo e sostituirlo con una idea di
relazioni umane in cui le diversità siano accettate ed in cui sia possibile
vivere insieme senza rinunciare a ciò che siamo. La cultura della convivenza è esattamente
questo.
2 – Una questione di identità
Il concetto di ”identità”, fondamentale per
impostare una nuova cultura della convivenza, si presta a molte interpretazioni
e viene declinato in modi differenti a seconda dell’ambito culturale in cui
compare. La definizione di identità, forse non rigorosa da un punto di vista
concettuale, ma adatta ad una riflessione sul senso della convivenza, è quella che
guarda
all’unicità di ogni individuo e da nome a tutto ciò che lo definisce.
In questo senso però identità non è per nulla sinonimo di unicità, certo ogni
individuo è in quanto tale unico, ma nessun individuo è una sola cosa, al
contrario sono molti e molto variegati gli aspetti che concorrono a definirlo (sesso, età, luogo di nascita e cultura, passioni,
interessi, esperienze vissute, tanto per citarne alcuni), l’identità è multipla.
E questo insieme di aspetti evolve costantemente, alcuni si accentuano nel
tempo, altri si perdono, tutti si modificano in una continua metamorfosi, l’identità è dinamica.
Una dinamicità che implica il susseguirsi altrettanto costante di scelte,
alcune consapevoli, altre inconsapevoli perché determinate dallo specifico
contesto esterno, l’identità è contestuale. E sempre e comunque l’identità
così determinata assume
forma e sostanza solamente quando entra in relazione con le altre identità.
La
consapevolezza di questa natura poliedrica di ogni individualità è il primo
requisito per costruire una cultura della convivenza: comprendere la
sua complessità, a partire dalla propria, impedisce di ridurre la conoscenza
dell’altro ad una sua lettura superficiale e stereotipata, conoscere le
complessità dell’identità crea spazi nuovi per la convivenza superando così le
narrazioni superficiali che semplificano le identità altrui. In questo senso è
il miglior antidoto contro l’omogeneizzazione nelle tante macro-identità che,
strumentalmente, riducono la molteplicità a identitarie figure sociali al
servizio di finalità politiche, nazionalistiche, piuttosto che consumistiche. La proprietà
essenziale di ogni identità è quella di poter coesistere distinta insieme a
tutte le altre. E’ questo il secondo fondamentale requisito per una cultura
della convivenza.
3 – La cultura della convivenza
A cui segue, per sviluppo logico, il terzo
requisito base: il diritto di ogni individualità a coesistere in modo distinto,
trascina infatti con sé quello che ad ognuna di esse deve essere riconosciuta: pari dignità.
Ciò detto, va però fin da subito precisato che non esiste coincidenza certa fra convivenza
e cultura della convivenza: la realizzazione della prima rappresenta
l’obiettivo finale a cui puntare, essendo consapevoli che per il suo
raggiungimento è indispensabile un insieme di fattori (ad esempio politiche economiche e sociali, istituzioni
adeguate, istruzione e regole piuttosto che, sul piano delle relazioni fra
stati, una illuminata diplomazia) la cui mancanza può pregiudicare l’esito
finale. La seconda viene prima ed interviene sul mondo delle idee, ben sapendo
però che non di sole idee essa si nutre, per preparare il terreno al suo
concretizzarsi, per indirizzare con consapevole volontà tutte le scelte utili
alla sua realizzazione. A conforto di questa considerazione non mancano nella
storia dell’umanità esempi concreti (si pensi anche solo
alla stessa Roma dei periodi di splendore imperiale) in cui identità
diverse sono riuscite a convivere con pari dignità in uno stesso perimetro
esprimendo così una autentica cultura della convivenza. Uno in particolare
merita di essere citato proprio perché testimonia la differenza tra convivenza
e cultura della convivenza: la convivencia (termine
spagnolo, usato anche dagli storici della cultura occitana per indicare un
tratto simile di pacifico scambio tra culture e tradizioni diverse esistente
nei territori occitani a cavallo del primo millennio prima che ragioni di stato
imponessero, a punta di spada, la sua fine) tra musulmani, ebrei e cristiani
nella Spagna del Califfato di Cordova (929 –
1031 d.C.)
quando, in tempi di contrasti anche sanguinari tra queste opposte identità,
prende comunque forma un atteggiamento culturale di accettazione e
apprezzamento della dignità altrui capace di ispirare riflessioni condivise,
momenti e gesti di sincero rispetto. Sono
confortanti bagliori storici che indicano l’inderogabilità di un quarto
indispensabile requisito per una vera cultura della convivenza: la reciprocità,
ossia la predisposizione al reciproco riconoscimento
di diverse identità che si realizza quando ognuna di esse, avendo piena,
fiduciosa e serena consapevolezza della propria identità (l’esatto opposto della sua celebrazione fine a sé
stessa che alimenta i nazionalismi) , non teme la commistione, non percepisce
nel confrontarsi con le altre culture il timore di essere condizionati se non addirittura plagiati: le relazioni
reciproche sono la condizione essenziale per il riconoscimento dell’altrui
dignità che si crea sulla vicendevole consapevolezza della propria.
Così definita, la cultura della convivenza non punta a garantire risultati
definitivi, che come si è detto si giocano concretamente su più tavoli, ed anzi
si fonda proprio sulla consapevolezza della propria fragilità, sulla matura
accettazione di limiti ed ostacoli, perché sa che a lungo avrà il carattere di
uno sforzo in cui prima di arrivare a dare risposte è più importante il continuare
a farsi delle domande
4 – Convivenza e democrazia
Una di queste è determinante: quale forma della
società meglio si presta alla crescita di una cultura della convivenza?
La risposta, per moltissimi versi scontata, consiste nell’etimologia del
termine che la indica: demos e crazia, il potere del popolo. La
democrazia moderna, quella che più compiutamente punta a consegnare ai
cittadini elettori le chiavi del potere, è invenzione relativamente recente e
per molto tempo incompiuta. E non è certo priva di limiti e contraddizioni
anche la sua più recente versione, quella che ha trovato compimento in buona
parte dell’Occidente nel secondo dopoguerra. Ma a ben vedere una “democrazia perfetta”
potrebbe persino dimostrarsi un controsenso là dove, per rispettare fino in
fondo il volere del popolo, fosse chiamata a rinnegare sé stessa consegnandosi,
se tale fosse la decisione della maggioranza, a soluzioni restrittive ed autoritarie
tali da annullarla. Il problema deriva dal fatto che la democrazia è in ultima
istanza nulla di più di una struttura, un contenitore, una modalità ed una
forma di governo, perché ciò che ne definisce la vera essenza sono i contenuti
che la riempiono e la caratterizzano, che concorrono a formare una compiuta “cultura democratica”.
Questi contenuti a ben vedere chiamano in causa, per realizzarsi e divenire
fecondi, le stesse identiche riflessioni che occorre affrontare per la
realizzazione di una cultura della convivenza.
Nelle
società capitalistiche occidentali la richiesta di democrazia è nata in stretta
relazione con le rivendicazioni per migliori condizioni materiali di esistenza,
ma si è ben presto arricchita di altre esigenze, lo testimonia in modo
esemplare lo storico slogan dello sciopero di Lawrence, Massachusetts 1912,
portato avanti insieme da lavoratrici e lavoratori di diverse nazionalità
all’insegna di “vogliamo il pane, ma anche le rose”
che, proprio per la composizione dei partecipanti e per l’ampiezza ideale delle
rivendicazioni, è una splendida
esaltazione di una armonica convivenza
Ma la realtà storica racconta purtroppo
tutt’altra storia: la democrazia occidentale solo in esperienze circoscritte e
provvisorie è stata davvero ispirata da ideali di comunanza troppo presto però
cancellati dalle solite pressioni di realismo politico (si pensi ad esempio alla Comune di Parigi del 1871 ed
alla Repubblica di Weimar del 1919/1933 cancellata dall’avvento del nazismo). Anche solo
guardando alle relazioni tra paesi e culture essa si è al contrario mossa in
direzioni opposte, ne sono tragica evidenza il colonialismo, ancora tragicamente
attivo per buona parte del Novecento e mai davvero criticamente rielaborato,
ispirato, oltre che da cinici interessi economici e di potere, dalla presunzione di una
superiorità culturale e civile, propria
delle nazioni colonialiste, che ha sempre negato
dignità alle diverse identità di popolo via via pesantemente sottomesse.
Venendo poi a tempi più vicini ai nostri, non è stata dissimile la stessa “esportazione della
democrazia”, l’idea cioè di imporre, con ricatti economici se non
con il vero e proprio utilizzo delle armi, giustificato dalla lotta al
terrorismo internazionale, avvenuta all’indomani della caduta del Muro e della
fine del bipolarismo, quando non pochi celebravano la “fine della storia” e l’inizio di
una nuova era segnata dalla definitiva vittoria della democrazia liberale vista
come l’unico sistema di organizzazione sociale umana. Ambedue queste evidenze
storiche raccontano quello che solo apparentemente è un paradosso: la democrazia non è
mai così fragile come quando trionfa, come quando è sicura della sua forza e
delle sue, presunte, ragioni. Ciò non vale solo per le relazioni
esterne, non è per nulla differente la logica per quelle interne: la democrazia
che non accetta le diversità di identità e di opinione, che non si confronta
con le ragioni critiche ed il dissenso, non esprime una corretta cultura
democratica ed è condannata a pagarne le conseguenze. Le forze sociali e
identitarie che ritengono di avere ragioni per esprimere aperta opposizione se
non trovano ascolto ed attenzioni possono infatti divenire un fattore
destabilizzante e persino antidemocratico (in
buona misura poggiano proprio su questo aspetto le ragioni del successo dei
movimenti populisti).
Una vera
cultura democratica non è congegnata per resistere alle critiche,
per quanto queste possano essere forti, ma al contrario punta a incorporarle nel dibattito
pubblico al fine di migliorarsi, è quindi un costante esercizio
autocritico che accetta pienamente tutte le identità che la compongono anche
quando diverse, anche quando si pongono in aperto dissenso. Ed è quindi in
piena coincidenza con la cultura della convivenza allorquando sa concretizzarsi
nella costante ricerca di un punto di equilibrio tra le due contrapposte logiche espresse dalla
Ragion di Stato e dalla Ragion Politica. Da una parte, la Ragione di
Stato, quella che guarda al bene comune di tutti i membri di una società,
dall’altra, la Ragion Politica, quella che sintetizza con il gioco democratico
di maggioranza ed opposizione l’insieme delle loro necessità, dei loro
interessi, delle loro idee. La prima si incarna nelle istituzioni più alte (nel sistema italiano è rappresentato dal Presidente
della Repubblica)
ed è la massima espressione della convivenza, la seconda si articola nel
sistema dei partiti e delle forze politiche e rappresenta le varie identità.
Queste due Ragioni sono entrambi essenziali per il corretto svolgimento della
cultura democratica, e per una compiuta realizzazione democratica, a patto che nessuna
delle due soverchi l’altra. In una democrazia sana, funzionante e matura, la
differenza tra le due Ragioni va ricercata e preservata tanto quanto la loro
armoniosa convivenza. Quando questo equilibrio viene minacciato e
soprattutto allorquando la Ragion Politica prende il sopravvento su quella di
Stato, diventa forte il rischio che l’intera società, e la cultura democratica
che essa esprime, veda degradare la sua concreta convivenza. Vale a dire che,
in un rapporto di reciproco sostentamento, una cultura della convivenza non si
ha senza cultura della democrazia, là dove viene a mancare una della due anche
l’altra è destinata a patirne. Affinché ciò non succeda servono concreti ed
adeguati strumenti, tre sono quelli fondamentali: politica,
partecipazione, comunità
5 – Di cosa parliamo quando parliamo di politica
E’ in primo luogo tempo di recuperare il
significato originario di politica che non è certo riducibile a quello di
democrazia e tantomeno alla sola dimensione dei partiti. Infatti se per
politica si deve intendere l’insieme delle scelte che mirano ad organizzare e
regolare la vita pubblica di una comunità appare evidente che essa è da sempre
presente nella storia dell’umanità ed è quindi precedente alla stessa
democrazia ed al collegato sistema dei partiti. Quando si chiama in causa la politica non si
giudica quindi la democrazia, ma si compie un altro tipo di esercizio critico
mai evitabile proprio per quello che essa è “se non ti occupi di politica, la politica si
occuperà di te” (citatissima frase
coniata da Ralph Nader, 1934 - politico statunitense molto attivo nelle lotte
per i diritti civili e l’ambiente) e quindi, per la stessa identica ragione, anche
ciò che può essere inteso come cultura politica mantiene una relazione
molto stretta con quella della convivenza. L’hanno non soltanto le azioni
concrete messe in atto dalla politica, ma soprattutto le strutture di pensiero,
il mondo delle idee e di valori che le ispirano e le promuovono, ossia
l’insieme delle visioni definibili con la parola ideologia (non a caso la nostra Parola
del mese di questo Luglio 2024). Nel corso dei millenni il mondo delle
ideologie si è arricchito ed ampliato ed ha accompagnato, ed al tempo stesso
ispirato l’evoluzione delle società umane, sempre esprimendo come ideale da
perseguire una specifica idea di convivenza. E’ operazione difficile quella di
tentare, per coglierne l’essenza ultima, di mettere in ordine questo variegato
mondo di visioni ideologiche, può quindi essere utile individuare almeno una
linea di demarcazione che, per quanto molto sinteticamente, le separi in due
opposti campi. Un tentativo in questo senso è stato fatto da Thomas Sowel (1930, economista statunitense di chiara ispirazione neoliberista) nel suo saggio “A
conflict of visions” (Un conflitto di
visioni) che,
prendendo spunto dal famoso affresco di Raffaello “La Scuola di Atene” (si trova nelle Stanze Vaticane) ha suddiviso le
ideologie in due categorie: quella di chi indica il cielo,
nell’affresco lo fa Platone, e quella di chi indica la terra,
lo fa Aristotele, per separare quelle che hanno finalità
utopiche e quelle che si concentrano su idee più pragmatiche (il particolare dell’affresco con Platone e Aristotele è
riprodotto sulla copertina del saggio). Questa suddivisione, in effetti
strumentalmente ed in modo un po’ azzardato, introdotta da Sowel per separare
le ideologie di sinistra (Platone) da quelle di destra
(Aristotele), può però essere
utile proprio per capire cosa si debba intendere per sinistra e destra quando
si riflette sull’idea di convivenza e su come essa possa rappresentare un
auspicato punto di equilibro ideale fra il “vivere insieme”, l’agenda sociale che
tutti coinvolge, e “l’individualità”, la sfera dei diritti di
singoli e gruppi. Ed è proprio nella combinazione tra questi due aspetti che va
individuata la
differenza ideologica fra destra e sinistra, con la prima che in
campo economico e sociale punta decisamente a valorizzare l’individualità,
salvo poi porle limiti anche molto netti, dettati da un’etica conservatrice,
per quanto riguarda i diritti civili, e con la seconda che, all’esatto contrario, in campo
economico e sociale fa prevalere l’aspetto collettivo del vivere insieme,
normando e limitando gli spazi di manovra individuali dimostrandosi al contempo
più disponibile all’estensione dei diritti civili. Si tratta, ovviamente, di una
semplificazione che non tiene conto delle infinite sfumature che
intervengono in ambedue i campi, ma che mette bene a fuoco l’incidenza dei valori ideologici
sulle rispettive culture politiche e,
di conseguenza, sulle rispettive concrete modalità di governare la convivenza.
Semmai è opportuno chiederci se questa considerazione, dopo essere
indubbiamente valsa per i primi secoli della Modernità occidentale, sia rimasta
altrettanto valida nell’era della globalizzazione neoliberista e della,
presunta, crisi/fine delle ideologie, ovvero se in un’epoca che sta conoscendo
trasformazioni radicali ad una velocità mai vista prima non siano
conseguentemente intervenute modifiche culturali tali da porre in crisi la
stessa contrapposizione tra Platone e Aristotele. Ancora una volta la “Scuola
di Atene” sembra fornire una preziosa indicazione in questo senso. Ai piedi
della scala dalla quale essi stanno scendendo sta un terzo personaggio che si
dimostra del tutto indifferente verso i primi due: è Diogene, il filosofo che non
cerca la verità nel rapporto con gli altri, ma nel guardare in sé stesso.
Ebbene Diogene, in questo profetico quadro, rappresenta perfettamente una cifra
culturale che sta davvero segnando la cultura dei tempi attuali: l’iper-individualismo,
il perseguimento della realizzazione di sé attraverso il benessere economico,
una motivazione individuale ormai assurta a cultura collettiva. Che si
accompagna ad un’altra fondamentale cifra contemporanea: l’essere entrati nel “regno della tecnica”,
vista non solo come la benefica dispensatrice di irrinunciabili strumenti
tecnologici, (quelli che
compongono l’ideale benessere economico e che determinano lo status sociale), ma soprattutto come
la sola soluzione a tutti i problemi esistenziali e sociali. Il connubio tra
iper-individualismo e ruolo salvifico della tecnica, del pensiero tecnico, sta
soffocando la cultura politica e cancellando ogni possibile immaginazione
collettiva alternativa. Ne sta soffrendo il mondo delle idee, con le
inaridite ideologie novecentesche incapaci di rimodularsi al mutato contesto
sociale, così come i concreti stili di vita ormai schiacciati su un futuro a
breve e tanto dispensatori di illusorie compensazioni quanto impotenti di
fronte alla complessità dell’attuale contesto sociale. In un quadro simile la
convivenza, se
per convivenza ancora e sempre si deve intendere il progettare, grazie
all’apporto della cultura democratica e della cultura politica, un futuro in
comune, si trova a doversi
misurare con un problema storicamente del tutto nuovo che, conseguentemente, non
trova immediate risposte in ambedue quelle culture nate e cresciute in ben
altri contesti. Non sono certo una soluzione l’antipolitica, sterile valvola di
sfogo contro il peraltro indifendibile sistema dei partiti, così come le varie
forme di populismo con le sue limitate e insostenibili soluzioni semplicistiche
a problemi complessi, piuttosto che il sovranismo con il suo ritirarsi su
identità nazionali ormai improponibili. Non esistono di certo soluzioni immediate
miracolose, ed anzi a maggior ragione nell’era del regno della tecnica per
tenere aperta la possibilità di rianimare le culture della democrazia, della
politica e della convivenza il primo e più importante passo da compiere è
quello di recuperare una piena consapevolezza delle complessità da affrontare. Accettare la
complessità è la condizione sine qua non per (ri)costruire una cultura della
convivenza. Complesso non è però sinonimo di complicato, ancora e
sempre il modo di uscirne fuori resta quello di recuperare conoscenza,
approfondimenti, ma soprattutto nuove visioni di lungo periodo “ideologiche”
in grado di rianimarla come sistemi valoriali in grado di tradursi
immediatamente in progetti concreti. Servirebbe cioè la volontà di far
interagire senza pregiudizi le identità sociali, all’interno di ogni singolo
contesto sociale, e nazionali, nel quadro delle relazioni globali, al fine di
sviluppare pensiero, visioni, progettualità. Una bella suggestione non priva
però di complicazioni
6 – La nascita dell’egocene
La prima delle quali consiste proprio
nell’iper-individualismo di cui si è detto, assurto ormai a modello standard di
vita tanto da giustificare l’appellativo di “egocene” per l’attuale epoca
sociale. Così come “La scuola di Atene” è una straordinaria trasposizione
artistica delle diverse ideologie un’altra immagine iconica del Rinascimento
italiano, “L’uomo
vitruviano” di Leonardo da Vinci, è la iconica espressione dell’uomo
che pone sé stesso come misura armonica del tutto, il suo essere perfetto corpo
geometrico ed al tempo stesso spirito libero che disdegna limiti ed
autorità esterne. E’
una potente rappresentazione che
anticipa l’atteggiamento etico-politico che troverà completamento e
piena espressione nel “liberalismo” della nascente borghesia
precapitalistica che sarà alla base delle tante, indiscutibili, conquiste umane da
lì in poi
avvenute. La vittoria
del liberalismo, dell’individuo
che si pone al centro del creato, è potuta avvenire demolendo le precedenti
grandi architetture di ordine sociale, economico e culturale, che per secoli
avevano dispoticamente compresso l’agire umano. Ma tale vittoria si è
progressivamente accompagnata ad una
pericolosa contraddizione determinata
proprio dall’eccesso di individualismo che
troverà espressione incontrollata nell’egocene. Il liberalismo
si è infatti dimostrato una formidabile forza s-catenante, nella precisa accezione
dell’aver tolto catene, ma
non aggregante,
capace cioè di esaltare la libertà ma senza adeguatamente indicare una sua
forma sociale se non quella della piena autonomia della scelta individuale. Il
problema non è però consistito nel liberalismo in sé, è stata infatti la sua
forza innovativa a rendere possibile la stessa cultura democratica, ma nel
fatto che esso si sia poi (auto)proclamato come l’unico e vero obiettivo finale
della società, tutt’altra cosa quindi dall’essere un fecondo contenitore di una
più ampia e completa gamma di contenuti. Le linee che delimitano l’Uomo
vitruviano hanno cioè progressivamente disegnato uno spazio, divenuto poi
asfissiante nei tempi attuali, in
cui sono scomparsi
ideali, visioni e cultura
politica, in cui l’innovazione
si nuove fine a sé stessa senza trasformazione di pensiero, ed in cui si
è sbiadita l’idea
stessa di un
futuro collettivo. In un simile
contesto, divenuto in questo modo liquido (la società liquida
di Zigmunt Bauman) l’ambizione, la necessità, di creare
interazioni, confronto, ovvero
convivenza, si sono inevitabilmente fatti tenui, e a nulla
porta l’idea che essa possa essere sostituita dalla condivisione, l’unica dimensione
sociale ormai consentita dalla tecnologia e dalla Rete. La community dei social è qualcosa
di molto diverso da una vera comunità perché è totalmente priva di un
carattere fondante, di un elemento essenziale per una adeguata tenuta sociale:
la libera, ma diffusamente condivisa, scelta di lavorare ad un comune progetto di
vera convivenza.
7 – Nati per condividere
Questo sguardo sul
presente non sembra offrire molte ragioni di ottimismo, nell’era dell’egocene e
dell’iper-individualismo la diffidenza verso l’altro, le sue ragioni e la sua
identità (di cui si è detto nel Capitolo 1) pare proprio aver
sopraffatto l’opposta tendenza alla socialità, eppure in soccorso a
quest’ultima interviene, ancora oggi, una forza che ha sempre accompagnato il
progredire umano: la cultura della comunità. L’idea del noi, della cooperazione e
del gioco di squadra, è insita nella cultura umana perché è stata una risorsa
fondamentale per il successo evolutivo di homo sapiens e perché si è da subito consolidata
nelle sue prime manifestazioni culturali (le prime sepolture rituali compaiono già 200.000 anni fa appena dopo la
comparsa di homo sapiens sulla scena evolutiva, la prima pittura rupestre è
datata 45.000 anni fa, il primo strumento musicale, un flauto, ha 35.000 anni,
sono tutti esempi emblematici della propensione umana alla condivisione di
gioie, piaceri e dolori) nate proprio per cementare la forza del gruppo, la
coesione della comunità. L’antropologo Francesco Remotti (1943, a lungo Direttore del Dipartimento di
Antropologia dell’Università di Torino) ha mutuato dalla microbiologia un termine
(usato per indicare un insieme di
organismi distinti che, raggruppandosi, ne formano uno più complesso) per definire questa
culturale propensione umana alla comunità: coindividuo. Il termine si è poi
felicemente esteso anche alle scienze sociali (coindividuo sociale) dove
definisce l’esito consolidato in una struttura sociale di una collaborazione
tra individui che permette allo stesso tempo la realizzazione dei singoli e
dell’intero organismo sociale. Si tratta di un concetto che offre preziosi spunti
di riflessione per il recupero di una cultura della convivenza. In analogia con
la microbiologia anche una comunità sociale è infatti un organismo complesso la cui salute, vale a
dire la capacità di fronteggiare le relazioni con ambiente, con altri organismi
e contesti, è di molto determinata dal contributo fornito dai singoli organismi
semplici che lo formano. Più questo contributo è articolato e
composito più è ricca la dotazione di risorse dell’organismo e migliore è la
sua salute e la sua capacità di fronteggiare le sfide, al contrario una
eccessiva uniformità dei singoli organismi rischia di comprometterle. Il dinamismo assicurato
dalla molteplicità, che passando ad un coindividuo sociale è costituita dalle
diverse identità che lo compongono, è quindi un fattore decisivo per la sua
sopravvivenza ed il suo sviluppo: più identità si hanno più ciascuna
può fornire un supporto. Non è né semplice né automatica questa collaborazione,
mai mancheranno ragioni di apparente incompatibilità e di reciproca diffidenza,
ma la cultura della convivenza proprio a questo serve, questo e non altro è il
suo vero obiettivo. L’antropologia offre, in questo senso, un secondo concetto
non meno utile a capire di cosa debba nutrirsi la cultura della convivenza: immaginario
collettivo. E’ un’espressione coniata nel 1912 da Emile Durkheim (1858/1917, sociologo, filosofo, antropologo francese) per indicare l’insieme
di simboli e concetti presenti nella memoria e nell’immaginazione degli
individui di una comunità e da questi condivisi e messi a fattor comune sino a
divenire un decisivo fattore di coesione. E’ stata poi mutuata, non sempre con
altrettanta esattezza, in molti altri contesti, in questa riflessione
“immaginario collettivo” può essere efficacemente utilizzato per definire
l’esito di una buona convivenza, il risultato fecondo dell’aver accettato ed
integrato le diverse individualità costruendo così un comune sentire che
condivide memorie e visioni. Ciò non significa per nulla, è bene ribadirlo,
appiattimento e uniformità di idee, anzi: la diversità di identità va preservata proprio
perché, come appena detto, rappresenta una risorsa preziosa per la salute di un
coindividuo sociale e per la stessa ricchezza del suo immaginario collettivo.
Riprendendo quanto già evidenziato nel Capitolo 3 riguardo alla evidenza che non esiste coincidenza certa fra convivenza
e cultura della convivenza ciò che davvero conta non è la realizzazione, sempre
condizionata da complicazioni e difficoltà, ma l’intenzione, la volontà di
perseguire una visione comune, aspetto questo che costituisce l’essenza vera di una
comunità. La quale è un coindividuo ben diverso dalla community
della Rete, perché ci sia vera comunità è innanzitutto indispensabile la
condivisione di spazi reali in cui l’assunzione di scelte sia sancita da una
partecipazione vera, e non da un click o un like che premiamo la leadership di
turno, condizione essenziale per sentirsi, anche fisicamente, parte di un
qualcosa in divenire. Non sarà per nulla semplice scalfire la forza
dell’iper-individualismo per tentare di ri-costruire una vera convivenza, ma
non esiste alternativa, la sfida che pongono la crisi climatica ed ambientale
congiuntamente all’ingiustizia sociale ed alle disuguaglianze può essere
affrontata solo recuperando una cultura della convivenza adeguata a questi
tempi incerti.
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