lunedì 15 luglio 2024

Il "Saggio" del mese - Luglio 2024

 

Il “Saggio” del mese

LUGLIO 2024

E’ comprensibile, persino doveroso, che il dibattito pubblico si concentri sulle problematiche del presente, sulle loro concrete dinamiche, sulle loro più immediate cause. Ad esempio non sfugge a questa inevitabile propensione lo stesso discutere, ad ogni livello, sui tragici conflitti armati che stanno segnando questi nostri incerti tempi. Ma per dare senso e direzione a questo tipo di approccio resta fondamentale guardare, di tanto in tanto, al mondo delle idee e dei valori ultimi che dovrebbero ispirarlo. Ed è proprio questa la convinzione che ha da sempre motivato l’attività di Circolarmente e questo suo blog. Ci proviamo anche con il Saggio di questo mese che propone una riflessione su un tema, quello della convivenza, che sta alla base della vita comunitaria di tutte le società umane ed alla cui definizione dovrebbe costantemente guardare il dibattito pubblico a partire, come bene ricorda il suo sottotitolo, da quello politico

il cui autore è Gabriele Segre (direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, esperto di temi di identità e convivenza, ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate, tra cui La Stampa e Il Sole 24 Ore, tiene una rubrica settimanale su Domani)

Per meglio inquadrare la genesi di questo saggio è utile citare alcuni dei canonici ringraziamenti a fine testo: Gabriele Segre precisa che questo libro è il frutto di almeno cinque anni di riflessioni condivise con tante persone fra le quali: Giovanni De Luna, Maurizio Ferraris, Michele Luzzato, Luciano Canfora, Gianni Cuperlo, Domenico Quirico

Il saggio si apre con la prefazione di Luciano Canfora che in poche righe offre un dotto excursus storico sul millenario discutere attorno al conflittuale rapporto tra convivenza e difesa delle proprie identità (questo saggio è stato presentato nel recente Salone del Libro di Torino in un dibattito a tre voci con l’autore, lo stesso Luciano Canfora ed il giornalista Domenico Quirico). Ed è proprio da questo rapporto che prende avvio la riflessione di Segre

1 – Il bisogno della convivenza

Non è per nulla una forzatura riduttiva leggere l’intera storia sociale dell’homo sapiens, fin dai suoi albori e a maggior ragione dalla comparsa delle comunità stanziali avvenuta con l’affermarsi della rivoluzione agricola e di ciò che comunemente viene inteso come “civiltà”, come il costante alternarsi, spesso in forma di aperto contrasto, fra la tendenza alla socialità, (vivere in comunità ha da sempre rappresentato un indubbio vantaggio evolutivo), a quella della diffidenza verso l’altro, verso lo straniero, individuo o gruppo che sia. Questo tratto della natura umana è di certo rintracciabile anche nell’umanità del nuovo millennio ed anzi per molti versi sembra conoscere una pericolosa accentuazione legata al comune vivere in un ecosistema chiuso sovraffollato e degradato, dove il crescente disputarsi le risorse finite del pianeta, unitamente alla loro divisione ineguale, sempre più rischia di evolvere in conflitti aperti e ingestibili. Non stupisce più di tanto che a giudizio di molti questa fase sia quella in cui, per la prima volta da quando ha iniziato la sua storia, l’umanità possa persino pervenire al proprio annientamento. Concorrono molte cause e molti fattori, ma di certo non poco pesa, inconsapevole sullo sfondo, questo millenario retaggio culturale. Ed è proprio sul piano culturale che l’umanità è chiamata ad attivarsi per rimuoverlo e sostituirlo con una idea di relazioni umane in cui le diversità siano accettate ed in cui sia possibile vivere insieme senza rinunciare a ciò che siamo. La cultura della convivenza è esattamente questo.

2 – Una questione di identità

Il concetto di ”identità”, fondamentale per impostare una nuova cultura della convivenza, si presta a molte interpretazioni e viene declinato in modi differenti a seconda dell’ambito culturale in cui compare. La definizione di identità, forse non rigorosa da un punto di vista concettuale, ma adatta ad una riflessione sul senso della convivenza, è quella che guarda all’unicità di ogni individuo e da nome a tutto ciò che lo definisce. In questo senso però identità non è per nulla sinonimo di unicità, certo ogni individuo è in quanto tale unico, ma nessun individuo è una sola cosa, al contrario sono molti e molto variegati gli aspetti che concorrono a definirlo (sesso, età, luogo di nascita e cultura, passioni, interessi, esperienze vissute, tanto per citarne alcuni), l’identità è multipla. E questo insieme di aspetti evolve costantemente, alcuni si accentuano nel tempo, altri si perdono, tutti si modificano in una continua metamorfosi, l’identità è dinamica. Una dinamicità che implica il susseguirsi altrettanto costante di scelte, alcune consapevoli, altre inconsapevoli perché determinate dallo specifico contesto esterno, l’identità è contestuale. E sempre e comunque l’identità così determinata assume forma e sostanza solamente quando entra in relazione con le altre identità. La consapevolezza di questa natura poliedrica di ogni individualità è il primo requisito per costruire una cultura della convivenza: comprendere la sua complessità, a partire dalla propria, impedisce di ridurre la conoscenza dell’altro ad una sua lettura superficiale e stereotipata, conoscere le complessità dell’identità crea spazi nuovi per la convivenza superando così le narrazioni superficiali che semplificano le identità altrui. In questo senso è il miglior antidoto contro l’omogeneizzazione nelle tante macro-identità che, strumentalmente, riducono la molteplicità a identitarie figure sociali al servizio di finalità politiche, nazionalistiche, piuttosto che consumistiche. La proprietà essenziale di ogni identità è quella di poter coesistere distinta insieme a tutte le altre. E’ questo il secondo fondamentale requisito per una cultura della convivenza.

3 – La cultura della convivenza

A cui segue, per sviluppo logico, il terzo requisito base: il diritto di ogni individualità a coesistere in modo distinto, trascina infatti con sé quello che ad ognuna di esse deve essere riconosciuta: pari dignità. Ciò detto, va però fin da subito precisato che non esiste coincidenza certa fra convivenza e cultura della convivenza: la realizzazione della prima rappresenta l’obiettivo finale a cui puntare, essendo consapevoli che per il suo raggiungimento è indispensabile un insieme di fattori (ad esempio politiche economiche e sociali, istituzioni adeguate, istruzione e regole piuttosto che, sul piano delle relazioni fra stati, una illuminata diplomazia) la cui mancanza può pregiudicare l’esito finale. La seconda viene prima ed interviene sul mondo delle idee, ben sapendo però che non di sole idee essa si nutre, per preparare il terreno al suo concretizzarsi, per indirizzare con consapevole volontà tutte le scelte utili alla sua realizzazione. A conforto di questa considerazione non mancano nella storia dell’umanità esempi concreti (si pensi anche solo alla stessa Roma dei periodi di splendore imperiale) in cui identità diverse sono riuscite a convivere con pari dignità in uno stesso perimetro esprimendo così una autentica cultura della convivenza. Uno in particolare merita di essere citato proprio perché testimonia la differenza tra convivenza e cultura della convivenza: la convivencia (termine spagnolo, usato anche dagli storici della cultura occitana per indicare un tratto simile di pacifico scambio tra culture e tradizioni diverse esistente nei territori occitani a cavallo del primo millennio prima che ragioni di stato imponessero, a punta di spada, la sua fine) tra musulmani, ebrei e cristiani nella Spagna del Califfato di Cordova (929 – 1031 d.C.) quando, in tempi di contrasti anche sanguinari tra queste opposte identità, prende comunque forma un atteggiamento culturale di accettazione e apprezzamento della dignità altrui capace di ispirare riflessioni condivise, momenti e gesti di sincero rispetto.  Sono confortanti bagliori storici che indicano l’inderogabilità di un quarto indispensabile requisito per una vera cultura della convivenza: la reciprocità, ossia la predisposizione al  reciproco riconoscimento di diverse identità che si realizza quando ognuna di esse, avendo piena, fiduciosa e serena consapevolezza della propria identità (l’esatto opposto della sua celebrazione fine a sé stessa che alimenta i nazionalismi) , non teme la commistione, non percepisce nel confrontarsi con le altre culture il timore  di essere condizionati se non addirittura plagiati: le relazioni reciproche sono la condizione essenziale per il riconoscimento dell’altrui dignità che si crea sulla vicendevole consapevolezza della propria. Così definita, la cultura della convivenza non punta a garantire risultati definitivi, che come si è detto si giocano concretamente su più tavoli, ed anzi si fonda proprio sulla consapevolezza della propria fragilità, sulla matura accettazione di limiti ed ostacoli, perché sa che a lungo avrà il carattere di uno sforzo in cui prima di arrivare a dare risposte è più importante il continuare a farsi delle domande

4 – Convivenza e democrazia

Una di queste è determinante: quale forma della società meglio si presta alla crescita di una cultura della convivenza? La risposta, per moltissimi versi scontata, consiste nell’etimologia del termine che la indica: demos e crazia, il potere del popolo. La democrazia moderna, quella che più compiutamente punta a consegnare ai cittadini elettori le chiavi del potere, è invenzione relativamente recente e per molto tempo incompiuta. E non è certo priva di limiti e contraddizioni anche la sua più recente versione, quella che ha trovato compimento in buona parte dell’Occidente nel secondo dopoguerra. Ma a ben vedere una “democrazia perfetta” potrebbe persino dimostrarsi un controsenso là dove, per rispettare fino in fondo il volere del popolo, fosse chiamata a rinnegare sé stessa consegnandosi, se tale fosse la decisione della maggioranza, a soluzioni restrittive ed autoritarie tali da annullarla. Il problema deriva dal fatto che la democrazia è in ultima istanza nulla di più di una struttura, un contenitore, una modalità ed una forma di governo, perché ciò che ne definisce la vera essenza sono i contenuti che la riempiono e la caratterizzano, che concorrono a formare una compiuta “cultura democratica”. Questi contenuti a ben vedere chiamano in causa, per realizzarsi e divenire fecondi, le stesse identiche riflessioni che occorre affrontare per la realizzazione di una cultura della convivenza.

Nelle società capitalistiche occidentali la richiesta di democrazia è nata in stretta relazione con le rivendicazioni per migliori condizioni materiali di esistenza, ma si è ben presto arricchita di altre esigenze, lo testimonia in modo esemplare lo storico slogan dello sciopero di Lawrence, Massachusetts 1912, portato avanti insieme da lavoratrici e lavoratori di diverse nazionalità all’insegna di “vogliamo il pane, ma anche le rose” che, proprio per la composizione dei partecipanti e per l’ampiezza ideale delle rivendicazioni,  è una splendida esaltazione di una armonica convivenza

Ma la realtà storica racconta purtroppo tutt’altra storia: la democrazia occidentale solo in esperienze circoscritte e provvisorie è stata davvero ispirata da ideali di comunanza troppo presto però cancellati dalle solite pressioni di realismo politico (si pensi ad esempio alla Comune di Parigi del 1871 ed alla Repubblica di Weimar del 1919/1933 cancellata dall’avvento del nazismo). Anche solo guardando alle relazioni tra paesi e culture essa si è al contrario mossa in direzioni opposte, ne sono tragica evidenza il colonialismo, ancora tragicamente attivo per buona parte del Novecento e mai davvero criticamente rielaborato, ispirato, oltre che da cinici interessi economici e di potere, dalla presunzione di una superiorità culturale e civile, propria delle nazioni colonialiste, che ha sempre negato dignità alle diverse identità di popolo via via pesantemente sottomesse. Venendo poi a tempi più vicini ai nostri, non è stata dissimile la stessa “esportazione della democrazia”, l’idea cioè di imporre, con ricatti economici se non con il vero e proprio utilizzo delle armi, giustificato dalla lotta al terrorismo internazionale, avvenuta all’indomani della caduta del Muro e della fine del bipolarismo, quando non pochi celebravano la “fine della storia” e l’inizio di una nuova era segnata dalla definitiva vittoria della democrazia liberale vista come l’unico sistema di organizzazione sociale umana. Ambedue queste evidenze storiche raccontano quello che solo apparentemente è un paradosso: la democrazia non è mai così fragile come quando trionfa, come quando è sicura della sua forza e delle sue, presunte, ragioni. Ciò non vale solo per le relazioni esterne, non è per nulla differente la logica per quelle interne: la democrazia che non accetta le diversità di identità e di opinione, che non si confronta con le ragioni critiche ed il dissenso, non esprime una corretta cultura democratica ed è condannata a pagarne le conseguenze. Le forze sociali e identitarie che ritengono di avere ragioni per esprimere aperta opposizione se non trovano ascolto ed attenzioni possono infatti divenire un fattore destabilizzante e persino antidemocratico (in buona misura poggiano proprio su questo aspetto le ragioni del successo dei movimenti populisti). Una vera cultura democratica non è congegnata per resistere alle critiche, per quanto queste possano essere forti, ma al contrario punta a incorporarle nel dibattito pubblico al fine di migliorarsi, è quindi un costante esercizio autocritico che accetta pienamente tutte le identità che la compongono anche quando diverse, anche quando si pongono in aperto dissenso. Ed è quindi in piena coincidenza con la cultura della convivenza allorquando sa concretizzarsi nella costante ricerca di un punto di equilibrio tra le due contrapposte logiche espresse dalla Ragion di Stato e dalla Ragion Politica. Da una parte, la Ragione di Stato, quella che guarda al bene comune di tutti i membri di una società, dall’altra, la Ragion Politica, quella che sintetizza con il gioco democratico di maggioranza ed opposizione l’insieme delle loro necessità, dei loro interessi, delle loro idee. La prima si incarna nelle istituzioni più alte (nel sistema italiano è rappresentato dal Presidente della Repubblica) ed è la massima espressione della convivenza, la seconda si articola nel sistema dei partiti e delle forze politiche e rappresenta le varie identità. Queste due Ragioni sono entrambi essenziali per il corretto svolgimento della cultura democratica, e per una compiuta realizzazione democratica, a patto che nessuna delle due soverchi l’altra. In una democrazia sana, funzionante e matura, la differenza tra le due Ragioni va ricercata e preservata tanto quanto la loro armoniosa convivenza. Quando questo equilibrio viene minacciato e soprattutto allorquando la Ragion Politica prende il sopravvento su quella di Stato, diventa forte il rischio che l’intera società, e la cultura democratica che essa esprime, veda degradare la sua concreta convivenza. Vale a dire che, in un rapporto di reciproco sostentamento, una cultura della convivenza non si ha senza cultura della democrazia, là dove viene a mancare una della due anche l’altra è destinata a patirne. Affinché ciò non succeda servono concreti ed adeguati strumenti, tre sono quelli fondamentali: politica, partecipazione, comunità

5 – Di cosa parliamo quando parliamo di politica

E’ in primo luogo tempo di recuperare il significato originario di politica che non è certo riducibile a quello di democrazia e tantomeno alla sola dimensione dei partiti. Infatti se per politica si deve intendere l’insieme delle scelte che mirano ad organizzare e regolare la vita pubblica di una comunità appare evidente che essa è da sempre presente nella storia dell’umanità ed è quindi precedente alla stessa democrazia ed al collegato sistema dei partiti. Quando si chiama in causa la politica non si giudica quindi la democrazia, ma si compie un altro tipo di esercizio critico mai evitabile proprio per quello che essa è “se non ti occupi di politica, la politica si occuperà di te(citatissima frase coniata da Ralph Nader, 1934 - politico statunitense molto attivo nelle lotte per i diritti civili e l’ambiente) e quindi, per la stessa identica ragione, anche ciò che può essere inteso come cultura politica mantiene una relazione molto stretta con quella della convivenza. L’hanno non soltanto le azioni concrete messe in atto dalla politica, ma soprattutto le strutture di pensiero, il mondo delle idee e di valori che le ispirano e le promuovono, ossia l’insieme delle visioni definibili con la parola ideologia (non a caso la nostra Parola del mese di questo Luglio 2024). Nel corso dei millenni il mondo delle ideologie si è arricchito ed ampliato ed ha accompagnato, ed al tempo stesso ispirato l’evoluzione delle società umane, sempre esprimendo come ideale da perseguire una specifica idea di convivenza. E’ operazione difficile quella di tentare, per coglierne l’essenza ultima, di mettere in ordine questo variegato mondo di visioni ideologiche, può quindi essere utile individuare almeno una linea di demarcazione che, per quanto molto sinteticamente, le separi in due opposti campi. Un tentativo in questo senso è stato fatto da Thomas Sowel (1930, economista statunitense di chiara ispirazione neoliberista) nel suo saggio “A conflict of visions” (Un conflitto di visioni) che, prendendo spunto dal famoso affresco di Raffaello “La Scuola di Atene(si trova nelle Stanze Vaticane) ha suddiviso le ideologie in due categorie: quella di chi indica il cielo, nell’affresco lo fa Platone, e quella di chi indica la terra, lo fa Aristotele,  per separare quelle che hanno finalità utopiche e quelle che si concentrano su idee più pragmatiche (il particolare dell’affresco con Platone e Aristotele è riprodotto sulla copertina del saggio). Questa suddivisione, in effetti strumentalmente ed in modo un po’ azzardato, introdotta da Sowel per separare le ideologie di sinistra (Platone) da quelle di destra (Aristotele), può però essere utile proprio per capire cosa si debba intendere per sinistra e destra quando si riflette sull’idea di convivenza e su come essa possa rappresentare un auspicato punto di equilibro ideale fra il “vivere insieme”, l’agenda sociale che tutti coinvolge, e “l’individualità”, la sfera dei diritti di singoli e gruppi. Ed è proprio nella combinazione tra questi due aspetti che va individuata la differenza ideologica fra destra e sinistra, con la prima che in campo economico e sociale punta decisamente a valorizzare l’individualità, salvo poi porle limiti anche molto netti, dettati da un’etica conservatrice, per quanto riguarda i diritti civili, e con  la seconda che, all’esatto contrario, in campo economico e sociale fa prevalere l’aspetto collettivo del vivere insieme, normando e limitando gli spazi di manovra individuali dimostrandosi al contempo più disponibile all’estensione dei diritti civili. Si tratta, ovviamente, di una semplificazione che non tiene conto delle infinite sfumature che intervengono in ambedue i campi, ma che mette bene a fuoco l’incidenza dei valori ideologici sulle rispettive culture politiche e, di conseguenza, sulle rispettive concrete modalità di governare la convivenza. Semmai è opportuno chiederci se questa considerazione, dopo essere indubbiamente valsa per i primi secoli della Modernità occidentale, sia rimasta altrettanto valida nell’era della globalizzazione neoliberista e della, presunta, crisi/fine delle ideologie, ovvero se in un’epoca che sta conoscendo trasformazioni radicali ad una velocità mai vista prima non siano conseguentemente intervenute modifiche culturali tali da porre in crisi la stessa contrapposizione tra Platone e Aristotele. Ancora una volta la “Scuola di Atene” sembra fornire una preziosa indicazione in questo senso. Ai piedi della scala dalla quale essi stanno scendendo sta un terzo personaggio che si dimostra del tutto indifferente verso i primi due: è Diogene, il filosofo che non cerca la verità nel rapporto con gli altri, ma nel guardare in sé stesso. Ebbene Diogene, in questo profetico quadro, rappresenta perfettamente una cifra culturale che sta davvero segnando la cultura dei tempi attuali: l’iper-individualismo, il perseguimento della realizzazione di sé attraverso il benessere economico, una motivazione individuale ormai assurta a cultura collettiva. Che si accompagna ad un’altra fondamentale cifra contemporanea: l’essere entrati nel “regno della tecnica”, vista non solo come la benefica dispensatrice di irrinunciabili strumenti tecnologici, (quelli che compongono l’ideale benessere economico e che determinano lo status sociale), ma soprattutto come la sola soluzione a tutti i problemi esistenziali e sociali. Il connubio tra iper-individualismo e ruolo salvifico della tecnica, del pensiero tecnico, sta soffocando la cultura politica e cancellando ogni possibile immaginazione collettiva alternativa. Ne sta soffrendo il mondo delle idee, con le inaridite ideologie novecentesche incapaci di rimodularsi al mutato contesto sociale, così come i concreti stili di vita ormai schiacciati su un futuro a breve e tanto dispensatori di illusorie compensazioni quanto impotenti di fronte alla complessità dell’attuale contesto sociale. In un quadro simile la convivenza, se per convivenza ancora e sempre si deve intendere il progettare, grazie all’apporto della cultura democratica e della cultura politica, un futuro in comune, si trova a doversi misurare con un problema storicamente del tutto nuovo che, conseguentemente, non trova immediate risposte in ambedue quelle culture nate e cresciute in ben altri contesti. Non sono certo una soluzione l’antipolitica, sterile valvola di sfogo contro il peraltro indifendibile sistema dei partiti, così come le varie forme di populismo con le sue limitate e insostenibili soluzioni semplicistiche a problemi complessi, piuttosto che il sovranismo con il suo ritirarsi su identità nazionali ormai improponibili. Non esistono di certo soluzioni immediate miracolose, ed anzi a maggior ragione nell’era del regno della tecnica per tenere aperta la possibilità di rianimare le culture della democrazia, della politica e della convivenza il primo e più importante passo da compiere è quello di recuperare una piena consapevolezza delle complessità da affrontare. Accettare la complessità è la condizione sine qua non per (ri)costruire una cultura della convivenza. Complesso non è però sinonimo di complicato, ancora e sempre il modo di uscirne fuori resta quello di recuperare conoscenza, approfondimenti, ma soprattutto   nuove visioni di lungo periodo “ideologiche” in grado di rianimarla come sistemi valoriali in grado di tradursi immediatamente in progetti concreti. Servirebbe cioè la volontà di far interagire senza pregiudizi le identità sociali, all’interno di ogni singolo contesto sociale, e nazionali, nel quadro delle relazioni globali, al fine di sviluppare pensiero, visioni, progettualità. Una bella suggestione non priva però di complicazioni

6 – La nascita dell’egocene

La prima delle quali consiste proprio nell’iper-individualismo di cui si è detto, assurto ormai a modello standard di vita tanto da giustificare l’appellativo di “egocene” per l’attuale epoca sociale. Così come “La scuola di Atene” è una straordinaria trasposizione artistica delle diverse ideologie un’altra immagine iconica del Rinascimento italiano, “L’uomo vitruviano” di Leonardo da Vinci, è la iconica espressione dell’uomo che pone sé stesso come misura armonica del tutto, il suo essere perfetto corpo geometrico ed al tempo stesso spirito libero che disdegna limiti   ed   autorità   esterne.   E’   una   potente   rappresentazione   che   anticipa l’atteggiamento etico-politico che troverà completamento e piena espressione nel “liberalismo” della nascente borghesia precapitalistica che sarà alla base delle tante, indiscutibili, conquiste umane   da   lì   in   poi   avvenute.   La   vittoria   del   liberalismo, dell’individuo che si pone al centro del creato, è potuta avvenire demolendo le precedenti grandi architetture di ordine sociale, economico e culturale, che per secoli avevano dispoticamente compresso l’agire umano. Ma tale vittoria si è progressivamente accompagnata   ad   una   pericolosa   contraddizione   determinata   proprio dall’eccesso   di   individualismo   che   troverà   espressione   incontrollata nell’egocene. Il liberalismo si è infatti dimostrato una formidabile forza s-catenante, nella precisa   accezione   dell’aver   tolto   catene, ma   non aggregante, capace cioè di esaltare la libertà ma senza adeguatamente indicare una sua forma sociale se non quella della piena autonomia della scelta individuale. Il problema non è però consistito nel liberalismo in sé, è stata infatti la sua forza innovativa a rendere possibile la stessa cultura democratica, ma nel fatto che esso si sia poi (auto)proclamato come l’unico e vero obiettivo finale della società, tutt’altra cosa quindi dall’essere un fecondo contenitore di una più ampia e completa gamma di contenuti. Le linee che delimitano l’Uomo vitruviano hanno cioè progressivamente disegnato uno spazio, divenuto poi asfissiante nei tempi attuali, in   cui   sono   scomparsi   ideali, visioni   e   cultura   politica, in   cui l’innovazione si nuove fine a sé stessa senza trasformazione di pensiero, ed in cui   si   è   sbiadita   l’idea   stessa   di   un   futuro   collettivo. In un simile contesto, divenuto   in questo modo liquido  (la società liquida   di   Zigmunt   Bauman) l’ambizione, la necessità, di   creare  interazioni,   confronto,   ovvero   convivenza,   si   sono inevitabilmente fatti tenui, e a nulla porta l’idea che essa possa essere sostituita dalla condivisione, l’unica dimensione sociale ormai consentita dalla tecnologia e dalla Rete. La community dei social è qualcosa di molto diverso da una vera comunità perché è totalmente priva di un carattere fondante, di un elemento essenziale per una adeguata tenuta sociale: la libera, ma diffusamente condivisa, scelta di lavorare ad un comune progetto di vera convivenza.

7 – Nati per condividere

Questo sguardo sul presente non sembra offrire molte ragioni di ottimismo, nell’era dell’egocene e dell’iper-individualismo la diffidenza verso l’altro, le sue ragioni e la sua identità (di cui si è detto nel Capitolo 1) pare proprio aver sopraffatto l’opposta tendenza alla socialità, eppure in soccorso a quest’ultima interviene, ancora oggi, una forza che ha sempre accompagnato il progredire umano: la cultura della comunità. L’idea del noi, della cooperazione e del gioco di squadra, è insita nella cultura umana perché è stata una risorsa fondamentale per il successo evolutivo di homo sapiens e perché si è da subito consolidata nelle sue prime manifestazioni culturali (le prime sepolture rituali compaiono già 200.000 anni fa appena dopo la comparsa di homo sapiens sulla scena evolutiva, la prima pittura rupestre è datata 45.000 anni fa, il primo strumento musicale, un flauto, ha 35.000 anni, sono tutti esempi emblematici della propensione umana alla condivisione di gioie, piaceri e dolori) nate proprio per cementare la forza del gruppo, la coesione della comunità. L’antropologo Francesco Remotti (1943, a lungo Direttore del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Torino) ha mutuato dalla microbiologia un termine (usato per indicare un insieme di organismi distinti che, raggruppandosi, ne formano uno più complesso) per definire questa culturale propensione umana alla comunità: coindividuo. Il termine si è poi felicemente esteso anche alle scienze sociali (coindividuo sociale) dove definisce l’esito consolidato in una struttura sociale di una collaborazione tra individui che permette allo stesso tempo la realizzazione dei singoli e dell’intero organismo sociale. Si tratta di un concetto che offre preziosi spunti di riflessione per il recupero di una cultura della convivenza. In analogia con la microbiologia anche una comunità sociale è infatti un organismo complesso la cui salute, vale a dire la capacità di fronteggiare le relazioni con ambiente, con altri organismi e contesti, è di molto determinata dal contributo fornito dai singoli organismi semplici che lo formano. Più questo contributo è articolato e composito più è ricca la dotazione di risorse dell’organismo e migliore è la sua salute e la sua capacità di fronteggiare le sfide, al contrario una eccessiva uniformità dei singoli organismi rischia di comprometterle. Il dinamismo assicurato dalla molteplicità, che passando ad un coindividuo sociale è costituita dalle diverse identità che lo compongono, è quindi un fattore decisivo per la sua sopravvivenza ed il suo sviluppo: più identità si hanno più ciascuna può fornire un supporto. Non è né semplice né automatica questa collaborazione, mai mancheranno ragioni di apparente incompatibilità e di reciproca diffidenza, ma la cultura della convivenza proprio a questo serve, questo e non altro è il suo vero obiettivo. L’antropologia offre, in questo senso, un secondo concetto non meno utile a capire di cosa debba nutrirsi la cultura della convivenza: immaginario collettivo. E’ un’espressione coniata nel 1912 da Emile Durkheim (1858/1917, sociologo, filosofo, antropologo francese) per indicare l’insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e nell’immaginazione degli individui di una comunità e da questi condivisi e messi a fattor comune sino a divenire un decisivo fattore di coesione. E’ stata poi mutuata, non sempre con altrettanta esattezza, in molti altri contesti, in questa riflessione “immaginario collettivo” può essere efficacemente utilizzato per definire l’esito di una buona convivenza, il risultato fecondo dell’aver accettato ed integrato le diverse individualità costruendo così un comune sentire che condivide memorie e visioni. Ciò non significa per nulla, è bene ribadirlo, appiattimento e uniformità di idee, anzi: la diversità di identità va preservata proprio perché, come appena detto, rappresenta una risorsa preziosa per la salute di un coindividuo sociale e per la stessa ricchezza del suo immaginario collettivo. Riprendendo quanto già evidenziato nel Capitolo 3 riguardo alla evidenza che non esiste coincidenza certa fra convivenza e cultura della convivenza ciò che davvero conta non è la realizzazione, sempre condizionata da complicazioni e difficoltà, ma l’intenzione, la volontà di perseguire una visione comune, aspetto questo che costituisce l’essenza vera di una comunità. La quale è un coindividuo ben diverso dalla community della Rete, perché ci sia vera comunità è innanzitutto indispensabile la condivisione di spazi reali in cui l’assunzione di scelte sia sancita da una partecipazione vera, e non da un click o un like che premiamo la leadership di turno, condizione essenziale per sentirsi, anche fisicamente, parte di un qualcosa in divenire. Non sarà per nulla semplice scalfire la forza dell’iper-individualismo per tentare di ri-costruire una vera convivenza, ma non esiste alternativa, la sfida che pongono la crisi climatica ed ambientale congiuntamente all’ingiustizia sociale ed alle disuguaglianze può essere affrontata solo recuperando una cultura della convivenza adeguata a questi tempi incerti.

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