domenica 15 dicembre 2024

Il "Saggio" del mese - Dicembre 2024

 

Il “Saggio” del mese

 DICEMBRE 2024

Uno dei più noti miliardari del mondo, Warren Buffett, già nel 2006, intervistato dal New York Times, affermava: Certo che c’è guerra di classe, ed è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, che la sta vincendo”, un concetto ribadito pochi anni dopo sostenendo che “l’aveva già vinta”. Il Saggio di questo mese, pubblicato di recente, affronta esattamente questo tema analizzandolo e affrontandolo soprattutto nello specifico della situazione italiana. Ci offre quindi uno spaccato aggiornato sul quadro delle disuguaglianze economiche e sociali nel nostro paese informando dettagliatamente sui meccanismi che le hanno determinate e offrendo alcune concrete proposte correttive

il suo autore è Riccardo Staglianò (giornalista di La Repubblica, saggista su tematiche economiche e tecnologiche, docente presso l’Università 3 di Roma di corsi di giornalismo on line)

Il saggio si apre con un sintetico elenco di significativi dati relativi alla situazione italiana:

ü -2,9%, di tanto sono diminuiti i salari medi annui dal 1990 al 2020 (dato OCSE)

ü + 22,8% è il parallelo aumento della produttività per ora lavorata nello stesso periodo (sempre dato OCSE), vale a dire che si produce molto di più per guadagnare di meno

ü 11,5% è, non sorprendentemente quindi, la percentuale di coloro che nel 2023, pur lavorando, sono a forte rischio di povertà (dato Istat)

ü 9,8% è la percentuale di italiani in povertà assoluta nel 2023 (sempre dato Istat), il quadro generale entro il quale si colloca il dato precedente

ü 83% è la percentuale dell’Irpef pagata dai lavoratori dipendenti (53,5%) e dai pensionati (29,5%) nel 2023 (dato Ministero Economia e Finanza, Mef)

ü 69,7% percentuale dell’Irpef evasa dai lavoratori autonomi (dato Mef)

ü 72% era l’aliquota Irpef massima nel 1972, oggi scesa al 43% (dato Mef)

ü 0,05% la percentuale del PIL che viene dalle imposte di successione (sempre dato Mef, tanto per aprire una finestra sull’ipotesi di patrimoniale)

che integriamo con il quadro delle disuguaglianze di ricchezza e di reddito nel mondo ed in Italia presentato al Forum Economico Mondiale di Davos del 2022

World Inequality report 2022:

Ricchezza totale

il 50% più povero ne detiene il 2% (in Italia 8%)

il 10% più ricco il 76% (in Italia 63%)

il 40% intermedio il 22% (in Italia 29%)

 Reddito globale annuale

il 50% più povero ne percepisce l’8,5% (in Italia 20,70%)

il 10% più ricco il 52% (in Italia 44,4%)

il 40% intermedio (in Italia 34,9)

Capitolo primo = Anatomia di una caduta. Così i poveri sono diventati più poveri

La situazione italiana fotografata da questi dati evidenzia un sostanziale allineamento all’innegabile crescita delle disuguaglianze economiche e sociali globali (come indicano gli impressionanti dati del World Inequality), ma dall’altra emerge una accentuazione di quelle che hanno colpito il lavoro dipendente italiano in netta controtendenza rispetto al dato generale OCSE (Organizzazione Cooperazione Sviluppo Economico, che raggruppa i 38 paesi di tutto l’Occidente, in senso lato, più industrializzati e sviluppati) che ha registrato nello stesso periodo un aumento, più o meno accentuato, in tutti i paesi aderenti. Una così evidente anomalia impone di capire quali ragioni specifiche, in aggiunta a quelle di ordine generale che valgono per ogni economia inserita nell’attuale ordine capitalistico neoliberista (la causa prima dell’esplosione delle disuguaglianze), possano averla determinata. Ed è esattamente questo che si propone Staglianò ed inizia a farlo nel Capitolo primo “divertendosi” a chiederle all’AI (Artificial Intelligence, ponendo la domanda a ChatGpt di OpenAI, a Bard alias Gemini di Google e a Claude AI di Anthopic). Le risposte fornite condividono alcune possibili ragioni (poste però in diverso ordine di importanza) in particolare “bassa crescita della produttività” e “politiche del mercato del lavoro, alle quali sono aggiunte altre diverse fra loro (ad es. tendenze demografiche, concorrenza globale, scarso tasso di crescita, cambiamenti struttura economica, scarso potere contrattuale dei sindacati). Tralasciando le ovvie considerazioni sull’affidabilità di risposte così diversificate (e quindi sui sistemi di “addestramento” di AI) è su quelle due che Staglianò concentra la sua attenzione, partendo da alcune considerazioni preliminari che, con alcuni fisiologici scarti, valgono per tutte le economie:

Ø per una lunghissima fase storica il valore della produzione economica è stabilmente andato per il 75% al lavoro e per il 25% al capitale, a partire dagli anni Ottanta (grazie alla combinazione di neoliberismo e innovazioni tecnologiche) si sta assistendo ad una costante discesa della quota lavoro che si è ormai mediamente assestata sul 58%

Ø fino allo stesso periodo il tasso medio di profitto, fatti salvi picchi eccezionali, valeva il 2% dei ricavi netti, dagli anni Ottanta si è ormai assestato al 7-8%

Ø le politiche fiscali si sono sempre più orientate a premiare questi profitti

In questo quadro va collocato il mantra che da sempre impronta globalmente ogni dibattito sui salari e sul loro possibile aumento: la loro stretta relazione con la produttività, solo se questa cresce si creano infatti margini anche per i salari. Per “produttività” si intende l’efficienza nell’utilizzo delle risorse in un processo produttivo, meglio queste (lavoro, tecnologie usate, sistema organizzativo aziendale) sono impiegate più cresce la competitività e più crescono i margini di guadagno. Prima di vedere come quest’ultimo viene ripartito nel nostro paese è opportuno individuare gli ostacoli che da decenni stanno impedendo al sistema Italia di avere un livello di produttività adeguato alle sfide di mercato (testimoniato da dati inequivocabili: nel periodo 1990/2020 nel nostro paese la produttività è cresciuta per un complessivo 23%,  a fronte del 48% della Germania, piuttosto che del 67% degli USA, ma il confronto è impietoso con quasi tutta l’area OCSE). Il primo ostacolo è rappresentato dalle ridotte dimensioni medie delle imprese italiane che non possono di conseguenza attuare adeguati investimenti in ricerca e sviluppo, la vera arma strategica nell’attuale mercato globale. Era per molti versi già discutibile lo slogan piccolo è bello che negli anni Novanta esaltava la resilienza (in buona misura limitata ad una maggiore flessibilità sul breve periodo) delle imprese sotto i cinquanta dipendenti, la svolta tecnologica avvenuta proprio a partire dagli anni Novanta, il decennio in cui non casualmente l’Italia ha di fatto perso tutta la grande industria (settore chimico, dell’acciaio, dell’auto, del tecnologico/informatico), ha definitivamente imposto livelli di investimento in ricerca e sviluppo che non sono affrontabili dalle piccole imprese (che invece ancora costituiscono la quasi totalità delle nuove imprese, il 98% per l’esattezza. Le stesse celebratissime “start up” sono costituite da imprese con pochi se non pochissimi dipendenti, per quanto iper specializzati). La storia di questo ultimo trentennio evidenza che il mondo produttivo italiano è riuscito a galleggiare, ma proprio grazie alla compressione sistemica dei livelli salariali, lo striminzito 23% di crescita della produttività è di fatto stato ottenuto grazie alla diminuzione del 2,9% dei salari medi. Un processo negativo, per i dipendenti e per la stessa economia, che si è vieppiù rinforzato grazie a miopi politiche del mercato del lavoro, la seconda causa in questione, a partire dal sistema della contrattazione. I 23.310.000 lavoratori italiani dipendenti (dato fine 2023 Istat) sono per il 75% (esclusi quindi i cosiddetti autonomi) coperti da una contrattazione collettiva nazionale (definita di “primo livello”) e, con l’eccezione delle micro (3-9 addetti) e piccole (10-49 addetti) imprese, per il 50% anche da una aziendale o territoriale (definita di “secondo livello”).

il modello su due livelli nasce nel 1993, Governo Ciampi, per supplire almeno in parte, alla cancellazione della “scala mobile” (adeguamento automatico dei salari al tasso di inflazione): al primo livello, quello nazionale, spettava il compito di fissare un aumento biennale legato all’inflazione, al secondo, quello aziendale e territoriale, quello di concedere aumenti reali legati alla produttività

Peccato però che, anche a causa degli incoerenti indirizzi politici, i contratti nazionali italiani siano più di mille (dato Inps 2022), ventisette dei quali (quelli classicamente più citati) riguardano il 78% dei lavoratori con il restante 22% che rientra in più di novecento contratti. Numeri già quanto mai significativi, ma ai quali va aggiunta la consolidata prassi (che riguarda la totalità dei contratti) di rinnovarli anni e anni dopo la loro avvenuta scadenza (nel 2023 il Centro Studi CGIL contava 112 contratti scaduti sui 188 siglati dai sindacati confederali, in pratica 6 su 10) nell’assordante silenzio della politica (che vale a maggior ragione quando il datore di lavoro è, direttamente o indirettamente, lo stesso Stato). Peggio ancora stanno i cinque milioni lavoratori “flessibili-precari esclusi dalla contrattazione di secondo livello e gli oltre tre milioni di lavoratori del “sommerso privi di ogni contratto (non va meglio per quelli che hanno magari un contratto ma siglato con sigle compiacenti che ben poco se non nulla ottengono, i cosiddetti “contratti pirata). Non deve allora stupire che nel 2023 un lavoratore su tre percepisca un salario inferiore alla retribuzione media di categoria e che l’11,5% di chi lavora sia a forte rischio di povertà. A spiegare il processo che nel periodo in esame ha visto i poveri diventare ancora più poveri interviene, un ulteriore elemento: il calo delle ore di lavoro, collegato soprattutto all’utilizzo spinto del part-time. Questa forma di lavoro, introdotta in Italia negli anni Ottanta (inizialmente con l’obiettivo di fornire alle donne la possibilità, su scelta volontaria, di avere un orario ridotto, non a caso furono al tempo introdotte norme che impegnavano il datore di lavoro all’accettazione della richiesta), è ben presto divenuta una opportunità, scientemente utilizzata, per razionalizzare al ribasso il costo del lavoro. In questo trentennio si è così assistito ad una vera esplosione del part-time, più di un lavoratore su quattro lavora a tempo parziale e di certo non per scelta volontaria. Un fenomeno, finora non adeguatamente colto nella sua reale valenza, (di fatto ha sconvolto, anche grazie alla crescente introduzione di misure de-contributive, l’intero mercato del lavoro sfalsando il rapporto fra numero occupati, ore lavorate e salari reali), che ha inciso fortemente sulle dinamiche salariali, colpendo in particolare giovani e donne (passate dal 10% sul totale delle occupate che lo utilizzava su base volontaria nei primi anni Novanta all’attuale 50%). Le dinamiche fin qui esaminate sono sicuramente il frutto di precise logiche imprenditoriali fortemente ispirate dall’ideologia neoliberista, ma nondimeno l’inevitabile conseguenza di scelte politiche, attuate in modo trasversale da governi di destra e, occorre riconoscerlo, di sinistra che in questi decenni hanno costantemente demolito conquiste contrattuali al tempo faticosamente ottenute ed a lungo ritenute inviolabili

Queste sono le leggi più significative che si sono succedute per depotenziare il lavoro:

- pacchetto Treu (dal nome dell’allora Ministro del Lavoro Tiziano Treu) approvato nel 1997 dal primo governo Prodi sulla base di un progetto avviato nel 1993 da Gino Giugni, giurista, di fede socialista, - Decreto Legge Sacconi approvato nel 2001 dal primo governo Berlusconi completato con la Legge Biagi approvata nel 2003 dal secondo governo Berlusconi

- Legge Fornero) approvata nel 2012 dal governo “tecnico” Monti

- Jobs Act, riforma organica del mercato del lavoro del 2014 dal governo Renzi (centro-sinistra)

Primo intermezzo = I ricchi, tra Gran Crudi, chalet e vita eterna

Staglianò alterna i tre Capitoli di analisi con altri, denominati “intermezzi”, in cui recupera alcuni dei reportage del suo viaggio nel mondo dei ricchi ed in quello dei poveri a suo tempo pubblicati nell’inserto “Venerdì” di “La Repubblica”. Sono, per il mondo dei ricchi, delle annotazioni di colore sulla ostentazione, spesso di scarso gusto, di ricchezza (ad esempio in quel di Forte dei Marmi dove va di gran moda un piatto, ovviamente carissimo, di pesce crudo, il “Gran Crudi”, che riunisce a tavola oligarchi russi e ucraini senza imbarazzo alcuno, oppure in quel di Cortina d’Ampezzo, in fervida attesa delle Olimpiadi invernali del 2026, e a Gstaad dove si misura l’evoluzione culturale dei “ricchi da sempre”) e sulla irreversibile trasformazione di Milano sempre più proiettata al ruolo di metropoli internazionale con prezzi degli immobili schizzati alle stelle tanto da farla classificare tra le prime tre città più care d’Europa.

Capitolo secondo = la grande rapina. Così i ricchi sono diventati più ricchi

Per capirlo occorre innanzitutto convenire su chi abbia titolo per definirsi “ricco”. Non esistono condivisi parametri oggettivi (ovviamente molto dipende dal singolo contesto) che definiscano soglie “scientifiche” per le due fonti di ricchezza: reddito e patrimonio. Per il primo convenzionalmente in Italia si dice benestante chi guadagna tra 70.000 e 100.000 euro l’anno (ed è tale l’1,49% dei contribuenti), ricco chi sta tra i 100.000 e i 300.000 euro (l’1,01%) mentre il superricco supera la soglia dei 300.000 euro (0,10%). Per il patrimonio la catalogazione di riferimento (Credit Suisse) considera ricchi quelli sopra il milione di euro e superricchi quelli sopra i 50 milioni (sono queste la classificazioni che determinano il quadro della ripartizione della ricchezza e del reddito annualmente prodotto fotografato dal World Inequality Report 2022 qui inserito in precedenza. Tanto per personificare tale ripartizione l’uomo più ricco d’Italia, Giovanni Ferrero, con i suoi 34 miliardi di patrimonio vale quanto possiedono 300.000 italiani considerati poveri). Questi dati raccontano una situazione che è ormai aspetto storico acquisito ed ampiamente analizzato in tutte le sue componenti da molti economisti (a partire da Thomas Piketty con il suo “Il Capitale nel XXI secolo” uscito nel 2014 e sintetizzato in più “pillole” in questo nostro blog nel corso dei primi mesi del 2015, che attesta, sulla base di una impressionante mole di dati, come la concentrazione di ricchezza, dopo essere rallentata nei primi decenni del secondo dopoguerra sia rapidamente tornata ai livelli della Belle Epoque di inizio Novecento).

Staglianò lo enfatizza riprendendo alcune delle annotazioni contenute nel “Rapporto di ricerca sulla ricchezza in Italia” del 2021 (curato da Giulio Marcon, portavoce dell’Associazione “Sbilanciamoci”, in collaborazione con la sezione fiorentina della Scuola Normale di Pisa) nel quale, in aggiunta a dati e rilevazioni, sono raccolte trenta interviste ad italiani molto ricchi. Colpisce in particolare l’impressionante candore con cui in tutte viene data per naturale (così va il mondo) la concentrazione di ricchezza a cui Staglianò, come contraltare, risponde con le accorate critiche che un’altra superricca (Abigail Disney, erede dell’omonima dinastia) muove, a nome di “Patriotic Millionaires” (un’organizzazione apartitica di multimilionari statunitensi ed inglesi, con più di 200 aderenti, che promuove la ristrutturazione dei sistemi fiscali americani affinchè i ricchi paghino una quota maggiore del loro reddito in tasse) affermando esplicitamente che trova scandaloso pagare meno tasse della sua segretaria.

Non è noto solo il fenomeno storico, lo è il suo indiscusso protagonista: il rampante neoliberismo che fin dai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher (anni Ottanta) ha uniformato ideologia e concreti comportamenti del capitalismo globale (il nostro Saggio del mese di Marzo 2023 “Dominio” di Marco D’Eramo ricostruisce con accuratezza la nascita e la diffusione del pensiero neoliberista). Staglianò evidenzia, in questo acquisito quadro, il peso di alcuni specifici processi sui quali si è articolata la vittoria del neoliberismo globalizzato, a partire dalla “delocalizzazione (alias outsourcing) ossia la pratica di spostare attività produttive nei paesi poveri e quindi con manodopera a basso/bassissimo costo (il dato italiano è impressionante: questo tipo di investimenti all’estero, che nel 1980 valeva 1,86% del PIL, è arrivato nel 2012 a quasi un terzo del capitale investito, pari a circa 475 miliardi di euro, una cifra in grado di generare più di due milioni di posti di lavoro) innescando così una insostenibile concorrenzialità che non poco ha negativamente inciso sulle dinamiche salariali e occupazionali (la rabbia dei ceti operai per le ricadute della globalizzazione, spesso vista come una scelta delle élite progressiste, sta alimentando la crescita delle destre sovraniste in molti paesi occidentali, Italia compresa). Non meno decisiva per la crescita della ricchezza in capo ai ricchi è poi stata la finanziarizzazione dell’economia: un autentico mostro (gli attivi della finanza globale sono passati dal 109% del 1980 al 316% del 2005, appena prima della crisi epocale dei subprime del 2007/2008, per poi riprendere a salire subito dopo) che vale oggi qualcosa come 109.000 miliardi di dollari a fronte di un PIL reale di 60.000 miliardi, ossia una ricchezza che rende cifre spaventose di interessi, ma che non ha basi concrete. La finanziarizzazione dell’economia, resa possibile e persino incentivata dall’ideologia neoliberista fa il paio con una versione molto aggressiva del capitale produttivo, i luoghi di lavoro sono diventati, sempre a partire dagli anni Ottanta (proprio l’anno 1980 con la citatissima “marcia dei quarantamila” e la durissima, ma persa, lotta degli operai Fiat contro la cassa integrazione, può essere assunta come data cardine della svolta in Italia) , autentici campi di battaglia dove si dispiega la guerra totale alle rappresentanze sindacali ed al diritto di organizzarsi dei lavoratori. Con il costante supporto della politica, la contrattazione che fin lì era stata attivamente condotta dai lavoratori e dalle loro storiche rappresentanze sindacali, si trasforma in una continua pressione al ribasso da parte del mondo imprenditoriale all’insegna della totale libertà di mercato (in questo quadro l’incapacità dei sindacati tradizionali di mettere in atto adeguate risposte, unitamente alla loro totale assenza nel vasto mondo dei nuovi, sotto-pagatissimi, lavori apre le porte ad una grande frammentazioni di sigle, nelle quali non mancano i cosiddetti “sindacati gialli” di fatto filo-padronali). Va da sé che i margini reali di profitto per il capitale produttivo, in un mercato sempre più globalizzato e sconvolto dalle radicali trasformazioni tecnologiche, restano di molto inferiori alle rese finanziarie, purtuttavia non è certo indifferente il loro contributo al processo che vede i ricchi sempre più ricchi. A mantenere e difendere le ricchezze che si accumulano, sia in termini di reddito che di patrimonio, interviene poi un decisivo strumento tutto in mano alla politica: l’imposizione fiscale. Il distorto uso della leva fiscale finalizzato a premiare i ricchi in genere, società finanziarie ed imprese in modo più specifico, è un tratto distintivo del neoliberismo globale (che si è affiancato negli ultimi decenni ai consolidati “paradisi fiscali”, come le famose Isole Cayman, con la parallela crescita della concorrenza fra Stati nell’offrire migliori trattamenti fiscali) anche se con significative diversità fra paese e paese (è noto ad esempio che il livello di imposizione resta elevato nei paesi del Nord a fronte però di uno Stato sociale molto presente ed articolato e di una intatta capacità concorrenziale). Il caso italiano rappresenta in questo quadro un caso paradigmatico di passaggio da una concezione sufficientemente egualitaria del fisco ad una fortemente sbilanciata a favore di alcuni strati sociali. Staglianò riassume dettagliatamente i vari passaggi legislativi (in gran prevalenza adottati da governi di centro destra, ma con qualche significativo contributo da parte di quelli di centro sinistra) che hanno segnato un percorso che si è snodato dal1974 , allorquando viene istituita l’IRPEF (Imposta Reddito Persone fisiche) articolata su qualcosa come 32 distinti scaglioni con il più alto chiamato a concorrere per una aliquota (udite, udite!!!) del 72%, all’attuale sua modulazione 2024 basata su 3 soli scaglioni con l’aliquota massima fissata al 43% con in vista, almeno nelle intenzioni, la mitica Flat Tax, tassa piatta unica per tutti i contribuenti. La trasformazione dell’IRPEF da una tassazione molto articolata e fortemente progressiva ad una che appiattisce le differenze di reddito a clamoroso vantaggio dei ceti più ricchi è solo l’emblema di una concezione del fisco che concentra la grande maggioranza del gettito fiscale su lavoratori e pensionati (vedi tabella iniziale, le entrate da IRPEF coprono poco meno della metà dei due terzi dell’intero introito fiscale italiano derivante dalle imposte dirette, il restante terzo è dato dalle imposte indirette come l’IVA che valgono allo stesso modo per ricchi e poveri). Non basta, perché all’ingiusta ripartizione IRPEF si aggiungono numerosi altri sbilanciamenti a favore dei ceti privilegiati: la tassazione sugli immobili che con l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, (decisa dal governo Berlusconi nel 2008, ma completata nel 2013 dal governo Letta e a seguire da quello Renzi con l’abolizione anche dell’IMU) premia allo stesso modo alloggi modesti e residenze di valore - l’inesistente lotta all’evasione fiscale (che vale, stima prudente, il 10% del PIL rendendo gli italiani i contribuenti meno fedeli d’Europa, a non evadere sono solo i contribuenti tassati alla fonte, alle altre categorie sono concessi, anche per ragioni di consenso elettorale, ampi spazi discrezionali, con gli autonomi che, ad esempio, evadono per una percentuale vicina al 70% anche grazie agli assurdi limiti di pagamento in contanti) di fatto basata su sanatorie, condoni, concordati - l’insostenibile leggerezza del capital gain, la tassazione delle plusvalenze da capitale finanziario (che prevede una cedolare secca del 26% che vale allo stesso modo per i modesti guadagni su piccoli investimenti e per quelli ben più sostanziosi di grandi capitali) l’irrisoria incidenza delle imposte di successione (introdotta, assieme all’IRPEF nel 1972, prevedeva, con una buona franchigia di partenza, otto scaglioni differenziati in base al valore complessivo dell’eredità con una aliquota massima che arrivava attorno al 30%, dopo aggiustamenti vari introdotti da governi di destra e di sinistra oggi incide per un 4% sul valore ereditato da eredi in linea diretta, per salire ad un massimo dell’8% per soggetti terzi per ogni grandezza di valore ereditato. Non a caso il gettito totale così ottenuto vale lo 0,05% del PIL italiano, Francia Germania e Spagna ottengono rispettivamente 14, 8 e 6 volte tanto). L’evidente disparità di trattamento che emerge da tutto ciò non viene neppure negata, ma giustificata in nome di una teoria economica, il “trickle down” (favorire i ceti ricchi incentiva spese ed investimenti che mettono in moto un effetto a cascata positivo per l’intero sistema, classi povere comprese) ampiamente smentito dalle evidenze storiche.

Più complesso è semmai il tema della tassazione delle imprese che in teoria dovrebbe limitare, se progressiva, eventuali extraprofitti, ma senza deprimere margini per gli investimenti, al momento in Italia le imprese pagano tasse (Ires + Irap) sul netto di bilancio per un 28% fisso, in perfetto allineamento con la media dei paesi G7, ma non esistono adeguati meccanismi fiscali di incentivazione agli investimenti

La considerazione finale è che la pressione fiscale italiana, attestandosi al 42,9% (dato OCSE 2022) è nel suo complesso più elevata della media OCSE (34%) e di quella USA (27,7%), peccato però che questa maggiore pressione gravi tutta sulle spalle dei ceti medio-bassi ed in particolare sul lavoratori dipendenti e pensionati, essendo un sistema progressivo per i redditi bassi, proporzionale per quelli medi e regressivo per i ricchi.

Secondo intermezzo = I poveri, tra contabilità al centesimo e sogni mignon

Le storie di poveri, in qualche modo esemplari, che Staglianò recupera dai suoi reportage del “Venerdì”, sono quelle di: Giuseppe, operaio cinquantenne di San Giuliano Milanese, separato dalla moglie alla quale ha lasciato l’appartamentino di proprietà in cui vivevano con tre figli. Si dice fortunato perché ha trovato rifugio nella casa di un parente che non gli chiede affitto, in compenso del suo stipendio di 1.300 euro, tolti gli alimenti a moglie e figli e alcune spese fisse, gli restano puliti 570 euro con cui deve pagarsi tutto quello che gli serve per vivere facendo quadrare i centesimi – di Salvina che sopravvive in quel di Palermo vivendo con i magri introiti che tira su facendo pulizie qua e là e rimpiangendo i tempi felici di quando godeva del reddito di cittadinanza – di Claudia, immigrata sudamericana in quel di Napoli, che vive di lavori saltuari e in nero perché non ha ancora ottenuto il permesso di soggiorno e che vive in una sorta di comune con parenti e conoscenti con cui condivide, alternandosi, i letti disponibili e quello che riescono a mettere in tavola – di Vittorina che, romana non più giovanissima, in qualche modo alla fine del mese ci arriva anche se sempre giusta-giusta, i momenti duri per lei sono i giorni in cui tarda l’accredito dell’assegno sociale di 735 euro che arrotonda facendo qualche ora da badante a chi è più vecchio di lei

Capitolo terzo = Perché nessuno si arrabbia? Come far diventare i ricchi meno ricchi ed i poveri meno poveri

Di fronte a questa fotografia della profonda frattura che divide la società italiana, non diversamente da quelle dell’intero Occidente, colpisce la mancanza di una forte reazione civile e politica, stupisce che buona parte dei ceti che più sono colpiti da questa grande disuguaglianza premino le forze politiche che di fatto propugnano le logiche che la stanno determinando, rammarica constatare che quelle che storicamente di più li dovrebbero rappresentare non riescano (talvolta per deliberate scelte in senso opposto) a proporre organiche e concrete vie d’uscita. Gli attuali elevatissimi livelli di disuguaglianza sono, come si è sottolineato, l’inevitabile conseguenza delle logiche che ispirano il contemporaneo (turbo)capitalismo neoliberista, conseguentemente per essere strutturalmente superati richiedono che economia e società siano ispirate da una diversa visione complessiva, ma questo inderogabile sforzo nulla toglie all’impegno di attuare da subito ogni possibile azione di contenimento e mitigazione. Non mancano, nel panorama globale delle analisi sul tema e delle concrete esperienze, indicazioni utili in questa direzione. E’ sempre più urgente superare l’inadeguatezza dell’attuale reazione valorizzando al meglio, situazione per situazione, le analisi e le idee che ne emergono:

sul piano della redistribuzione = per quanto insufficiente, la leva fiscale resta lo strumento principale da utilizzare, capovolgendo però in modo radicale i suoi attuali indirizzi politici:

Ø la progressività, sempre più accentuata salendo la scala di valore di redditi e ricchezze, deve cioè tornare ad essere la filosofia di base delle politiche fiscali

Ø nel computo delle fonti di reddito e ricchezza individuali devono rientrare, nessuna esclusa, tutte le variegate voci che le compongono (in particolare quelle derivanti da patrimoni finanziari ed azionari).

Ø allo stesso modo devono essere tassati (salvaguardando con appropriate esenzioni gli investimenti in ricerca e sviluppo) i redditi di imprese e società possibilmente con coefficienti di prelievo il più possibile omogenei per aree comuni (ad esempio per l’intera UE)

Ø in particolare poi gli Stati devono assumere il ruolo di esattori di ultima istanza per combattere i cosiddetti “paradisi fiscali” (ciò significa che le multinazionali che fissano la sede fiscale in un paese con aliquote fiscali inferiori a quello dove avviene la produzione/prestazione di servizi devono comunque versare il differenziale a quest’ultimo)

Ø una revisione vera e veritiera dei catasti urbani, condizione preliminare per una più giusta tassazione degli immobili (attualmente esistono differenziazioni che, guarda caso, spesso premiano quelli di più recente costruzione e di maggior valore)

Ø l’introduzione di patrimoniali sulle ricchezze accumulate (immobili e prodotti finanziari) che, prima della messa a sistema di un compiuta politica fiscale organicamente progressiva ed ugualitaria, consentano, partendo da una ragionevole soglia e con una accentuata progressività, di recuperare risorse per mirate politiche di redistribuzione, di sostegno ai redditi deboli, di finanziamento di attività di formazione ed istruzione

sul piano della prevenzione = si tratta di interventi, a differenza di quelli visti in precedenza, che si prefiggono di incidere a valle della creazione di alti redditi e di ricchezze, mirano a correggere a monte i meccanismi che creano disuguaglianze. Sono quindi le politiche che più guardano a modifiche strutturali del sistema socio-economico, alcune delle quali sono qui indicate a titolo esemplificativo:

Ø politiche di controllo della concentrazione delle attività produttive e finanziarie in poche mani, oligopoli e monopoli sono all’opposto di pratiche ugualitarie

Ø promozione della compartecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale e societaria, una prassi già presente in economie forti come quella tedesca e in settori innovativi

Ø massicci investimenti in istruzione e formazione  finalizzati alla valorizzazione di ogni capitale umano nel campo del lavoro

Ø con un occhio di riguardo alle donne storicamente le più colpite dalla disuguaglianza di genere

Ø tutelare e rafforzare il ruolo dei corpi sociali di intermediazione insostituibile strumento per una strutturata rete di relazioni capace di dare voce a tutti

Ø fissare e sostenere, con adeguati strumenti, livelli di salario minimo e misure di sostegno al reddito per garantire la giusta dignità a chi lavora e per non “lasciare indietro nessuno”

EPILOGO

Il quadro politico, nazionale ed estero, non sembra però muoversi in questa direzione e ad aggravare questa constatazione si sta profilando una ulteriore incognita: l’introduzione capillare dell’Intelligenza Artificiale nel mondo della produzione, dei servizi, dell’intero sistema di relazioni sociali.  Senza entrare nel merito delle tante problematiche comunque generate da questa svolta che si preannuncia davvero epocale non si può non rilevare che è consistente il rischio che l’IA possa diventare un moltiplicatore di disuguaglianza. Questo possibile rischio aggiuntivo avvalora ulteriormente la necessità, urgente!, di una politica che si prefigga il compito di superare questi innegabili processi di accentuazione delle disuguaglianze. Per farlo deve conoscere, analizzare, decidere e concretizzare azioni adeguate.

Aggiunta:

Integriamo i dati di Staglianò con quelli, recentissimi, forniti dall’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica sulle entrate IRPEF 2023:

Ø il 45,16% degli italiani non dichiara redditi o non raggiunge il minimo tassabile

Ø il 75,57% dell'intera Irpef è pagato dai contribuenti compresi nella fascia di reddito lordo che va da € 7.500 a € 100.000, vale a dire i ceti bassi e medi, mentre quelli da € 100.000 in su ne pagano il 24,43%

 



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