Il “Saggio” del mese
FEBBRAIO
2025
Una delle disuguaglianze che da diversi
secoli sta maggiormente segnando la storia dell’umanità è sicuramente quella
fra paesi ricchi e paesi poveri, fra i cosiddetti Nord e Sud del mondo. Nata
come diretta conseguenza della combinazione fra colonialismo europeo, rivoluzione
industriale e avvento del capitalismo, ha attraversato, lungo percorsi
differenziati, gli ultimi cinquecento anni per assumere, a cavallo del nuovo
millennio, una sua nuova configurazione. Il Saggio di questo mese analizza questo
articolato processo partendo dalle forme assunte negli ultimi decenni. La
chiave di lettura fondamentale consiste nel “divide”
(termine inglese che indica
divario/fattura)
fra “paesi sviluppati” e “paesi
sottosviluppati” basato su un concetto di “sviluppo”,
come vedremo, cinicamente ipocrita ed interessato.
il suo autore è Jason Edward Hickel (1982, antropologo, professore presso
l’Università di Barcellona dopo aver insegnato presso la London School of
Economics. La sua ricerca ed i suoi saggi si concentrano sull’antropologia
economica all’insegna di una forte critica al capitalismo, al neocolonialismo
ed alla crescita economica come misura dello sviluppo umano)
L’illusione dello sviluppo
Nel
Settembre 2000 l’ONU ha formalizzato un accordo, sancito all’unanimità, “La Dichiarazione del Millennio”
che fissava per il 2015 otto ambiziosi obiettivi (fra
i quali spiccava quello di “sradicare
la povertà e la fame nel mondo”) ambiziosamente
finalizzati a realizzare una situazione globale di migliore uguaglianza fra
aree del mondo riprendendo l’analoga manifestazione di nobili intenti fatta nel
1960 da Harry Truman neo eletto Presidente USA.
Diversi
erano contesto storico e motivazioni di fondo (per
gli USA si trattava di dare una veste di idealità all’acquisito ruolo di
potenza egemone, per l’ONU di dare concretezza alla scelta di intervenire sulla
frattura sempre più impattante fra paesi ricchi e poveri), ma
comune era la condivisione di un valore ritenuto centrale per gli equilibri
globali, lo
sviluppo, inteso come una condivisa “crescita economica” capace di trainare profondi e positivi
cambiamenti sociali in tutti i paesi del mondo. I “paesi sviluppati”, avendolo meritoriamente
già raggiunto, si proponevano di aiutare quelli “sottosviluppati” rimasti indietro
perché ritenuti incapaci da soli di adottare le giuste politiche per raggiungerlo.
L’economista statunitense Walt Rostow
(1916/2003), a lungo influente consigliere di diversi Presidenti USA, ha fornito
base analitica a tale tesi nel suo famoso saggio “Gli
stadi dello sviluppo economico” in cui sosteneva la natura “tecnica del sottosviluppo” tutta determinata,
a suo avviso, dai limiti delle politiche interne dei paesi ancora arretrati
Non
sono infatti rintracciabili nella Dichiarazione riflessioni, anche solo in
parte autocritiche, sul peso del secolare colonialismo, quanto fin lì
storicamente avvenuto era di fatto considerato come la naturale conseguenza di differenti
percorsi di crescita ai quali era finalmente divenuto possibile porre
rimedio grazie alla recente realizzazione di un mercato compiutamente
globalizzato.
L’analisi
della disuguaglianza
globale fatta da Jason Dickel
prende le mosse da qui, da una scelta all’apparenza lodevolmente mirata al suo
superamento, ma che in effetti, se correttamente analizzata nella sua concretezza,
si è rivelata al contrario il suo proseguimento in nuove forme adattate al
mutato contesto geopolitico.
A
suo avviso infatti le politiche ispirate dalla ideologica esaltazione dello
sviluppo della Dichiarazione del Millennio (sostituita
alla sua scadenza nel 2015 con un analogo programma di ampio respiro denominato
“Agenda 2030”)
non soltanto hanno solo parzialmente raggiunto alcuni dei suoi otto obiettivi (in particolare significativi passi in
avanti si sono effettivamente registrati relativamente a mortalità infantile, salute
materna, contenimento HIV, istruzione primaria, molto meno efficaci invece
gli interventi per l’uguaglianza di genere), ma
quanto concretamente avvenuto per la lotta alla fame e alla povertà nel mondo,
unitamente alla sostenibilità
ambientale e alla partnership globale
economica, dimostra, ad una valutazione obiettiva, il permanere di
evidenti logiche egemoniche a favore dell’Occidente.
Due
prime macro constatazioni di merito evidenziano il mancato raggiungimento
dell’obiettivo per fame e povertà: se a cavallo del nuovo secolo si stimavano in 850
milioni le persone che non raggiungevano gli standard nutrizionali minimi oggi
si calcola che siano circa due miliardi, mentre quelle considerabili povere sono, in
questo stesso arco temporale, quadruplicate raggiungendo l’impressionante cifra
di circa 4 miliardi di persone (circa il 60% dell’attuale umanità). Non
deve quindi stupire se nel frattempo la disuguaglianza fra Nord e Sud del mondo
non sia certamente diminuita: nel 1960 il rapporto tra il reddito medio pro capite dei paesi più
ricchi rispetto a quello medio dei paesi più poveri era di 32 a 1, nel 2020 è
stato calcolato in qualcosa come 134 a 1.
Non
soltanto le azioni di sostegno dei paesi ricchi per fame e povertà si sono,
dati alla mano, rivelate inadeguate, ma le logiche che le hanno ispirate, se
messe a nudo, rivelano tutt’altre finalità. L’idea di uno sviluppo mirato a
coinvolgere più equamente l’intera umanità si è dimostrato, nella sua concreta
attuazione, molto
più funzionale agli interessi dei paesi “sviluppati” che a quelli
“sottosviluppati”.
Lo
attestano innanzitutto i dati dei flussi finanziari avvenuti nei quindici anni
dei programmi ONU avviati con la Dichiarazione del 2000 che (dati ufficiali ONU e OCSE) hanno
messo in atto interventi di sostegno allo sviluppo dei paesi poveri per una media di circa 128
miliardi di dollari all’anno (dato
di per sé di tutto rispetto), ma al contempo, durante questo
stesso periodo, i flussi finanziari fra Nord e Sud del mondo, se valutati nella
loro interezza, evidenziano un impressionante saldo a favore dei paesi sviluppati,
vale a dire un
gigantesco deflusso di risorse finanziarie, frutto dei concreti rapporti
commerciali, dai paesi sottosviluppati.
L’Ong
americana Global Financial ha raccolto dati che sintetizzano, per l’anno 2012 (ultimo anno di disponibilità di dati
certi) questo incrocio
fra la globalità di flussi e deflussi in un saldo che dà una precisa idea di
cosa è concretamente avvenuto: a fronte di flussi in entrata, comprensivi
del sostegno ONU di 128 miliardi, pari a circa 2.000 miliardi di
dollari (comprendono
in particolare le rimesse degli emigrati
e gli attivi da commercio estero) i deflussi in
uscita dal Sud del mondo sono stati di circa 5.000 miliardi di dollari, ben più
del doppio.
In
questo stesso studio del 2012 una collegata analisi riassumeva, per il trentennio
precedente, il valore complessivo dei movimenti finanziari in entrata ed in
uscita fra Nord e Sud, dalla quale emergeva un dato inequivocabile: a partire dal
1980 i paesi del Sud del mondo avevano sostenuto, senza alcuna variazione a
partire dal 2000, i profitti economici di quelli ricchi del Nord per l’impressionante
cifra di 26.500 miliardi di dollari (l’equivalente
del PIL annuo medio di USA ed Europa sommati insieme).
Le più rilevanti voci che hanno
concorso a determinare un valore così importante sono, fra le altre, quelle
degli interessi pagati per prestiti ottenuti,
dei ricavi ottenuti dalle multinazionali per investimenti
in loco, delle perdite derivanti da meccanismi di scambio
ineguale, non di rado davvero fraudolenti, dei crescenti costi per gli effetti del riscaldamento climatico in gran misura innescato proprio dai paesi
ricchi.
Il
problema va quindi ben oltre l’inefficacia in sé delle politiche di sostegno
allo sviluppo e consiste nel permanere di logiche di sfruttamento intensivo
delle risorse naturali e della forza lavoro da parte dei paesi sviluppati a
danno di quelli che, ufficialmente, si sosteneva di voler aiutare. La loro povertà,
innescata dal secolare saccheggio colonialistico, continua quindi ad essere
mantenuta tale perché, altra spiegazione non si ha, sono state mantenute, in
più velata forma, le identiche logiche di spietato profitto alla base del
colonialismo.
Un
dato di fatto che purtroppo confligge con la sincera buona volontà degli organi
dell’ONU che hanno concretamente gestito i programmi (denominati Osm, Obiettivi sviluppo
millennio) e che chiama apertamente in causa i decisori, pubblici
e privati, delle strategie politiche ed economiche occidentali.
I
quali, lungo tutto il periodo in esame, hanno ipocritamente portato avanti una trionfalistica
narrazione ufficiale che vantava successi e riscontri positivi sul fronte della
lotta a fame e povertà fondata su dati strumentalmente interpretati, quando non
furbescamente manipolati. Una più obiettiva ricostruzione di quanto
concretamente realizzato, racconta una storia molto diversa e mette
a nudo gli accorgimenti di comodo messi in atto, qui riassunti sinteticamente iniziando dalla
povertà:
Ø l’iniziale obiettivo di dimezzare la
percentuale delle persone povere in tutto il mondo, partendo da quella
registrata nel 2000, è stato poi concentrato solo su
quella delle persone residenti nei paesi sottosviluppati registrata nel 1990
Ø la “soglia
di povertà”, parametro
base per calcolare il numero di poveri, indica di norma “il costo complessivo di tutte le risorse essenziali per sopravvivere ad un
adulto medio”. Nel
1990, essendo diversamente calcolata per ogni paese, era stata determinata (come pura media matematica) nella cifra di “un dollaro al giorno” adottata
nella Dichiarazione del millennio come parametro di riferimento (con un modesto
aggiustamento a 1,08 dollari), per essere successivamente portata al definitivo importo di 1,25 dollari/giorno. Si tratta con ogni evidenza di importi così modesti da
poter essere in qualche modo superati in molti paesi che hanno comunque
evidenti condizioni di povertà acclamata, ma tali da restringere il numero dei
poveri accertati e da far così risultare efficace ogni seppur minimo intervento
correttivo. Fin dall’inizio del programma ONU, e a maggior ragione venendo a
tempi più recenti, una visione più onesta (da più parti sollecitata) della povertà, in grado quindi di
fotografare con maggiore obiettività situazioni di oggettiva indigenza sollecitata da più parti, fissa una soglia non
inferiore a 5 dollari giorno (a titolo di raffronto in Italia la soglia di povertà, fissata
dalle singole Regioni con riferimento ad una famiglia di due persone, se
riportata ad una singola persona in media la definisce povera se possiede un
reddito inferiore a 22 euro/giorno)
Ø i dati ufficiali 2022 (e quindi ancora sette anni dopo la
fine del Programma ONU del 2000)
attestano che l’85% della popolazione mondiale vive con
meno di 30 dollari/giorno, il 75% con meno di 10 dollari/giorno, ed ancora il
10% con meno di 2 dollari/giorno. Il conto di
quelle che dispongono meno di 5 dollari giorno si attesterebbe quindi a circa 4
miliardi di persone
Ø nel calcolo delle persone “ufficialmente”
uscite dalla povertà rientra la situazione cinese che ha conosciuto uno “sviluppo” straordinario, avvenuto senza il sostegno ONU e in un quadro
politico ed economico radicalmente diverso da quello capitalistico, un dato che da solo riduce in modo
molto significativo i numeri vantati dall’ONU
Non
è per nulla diverso il quadro dell’altro obiettivo Osm: la fame nel mondo. La quale, se
considerata non in fuorvianti termini di percentuali, ma in numero di persone
coinvolte, è purtroppo sostanzialmente costante da diversi decenni se valutata
nelle sue forme più acute (nel
1996 erano 788 milioni, nel 2023 sono state 733 milioni),
ed in più risulta fortemente salita, fino a 2,3 miliardi, se si prendono in
considerazione tutti coloro che soffrono
una condizione di insicurezza alimentare acuta o moderata.
La relazione diretta con
la povertà è evidente, così come quella con lo spreco alimentare dei paesi
ricchi del mondo (è
calcolato che tagliandolo anche solo di un quarto e reindirizzandolo dove è più
necessario il problema della fame verrebbe davvero ridimensionato. Ma nulla è
mai stato seriamente tentato in questo senso)
Non sono meno indicativi i
dati relativi alla disuguaglianza globale che, spiegando povertà e fame,
illustrano la differenza di ricchezza complessiva fra aree del mondo. Anche per
questa sua particolare declinazione è ormai prassi consolidata ricorrere ad
analisi basate sull’ “indice di Gini”. (un sistema di misurazione,
messo a punto dall’economista statistico italiano Corrado Gini, della
disuguaglianza in una scala che va da 0, uguaglianza perfetta: tutta la ricchezza
è suddivisa in parti uguali, a 100, disuguaglianza perfetta: una sola persona
possiede tutto. In pratica: più alto è il punteggio più alta è la
disuguaglianza).
Ed è proprio su
misurazioni effettuate con l’indice di Gini che nel 2016 la Banca Mondiale ha attestato
che la disuguaglianza (corretta in base alla popolazione) fra Nord e Sud del
mondo si era significativamente ridotta ad un accettabile 47 a fronte del picco
di 63 registrato nel 1960. Un dato confortante quindi ed in più
rafforzato dall’evidenza della straordinaria crescita economica avvenuta, a
cavallo del cambio di millennio, in molti paesi (Cina ed Est Asia in primis) ancora nei primi decenni del
secondo dopoguerra in evidenti condizioni di sottosviluppo. Un successo che il
pensiero economico mainstream ha immediatamente vantato come la conferma
dell’efficacia delle politiche neoliberiste alla base dell’avvenuta
globalizzazione. Peccato però che sia stata proprio l’incidenza delle economie
cinesi ed est-asiatiche (dove ben poco, nulla per
la Cina, sono state adottate riforme strutturali neoliberiste) a determinare tale
risultato che, senza di esse, si sarebbe fermato ad un più modesto 58.
Un dato comunque ancora
confortante, ma che ad una più attenta analisi si dimostra non realistico: la
misurazione Gini della Banca Mondiale è “in termini relativi”, misura cioè il tasso di
crescita del reddito dei paesi poveri in relazione a quello dei paesi ricchi ed
indica così una effettiva disuguaglianza decrescente, ma se si prendono in
esame i rispettivi tassi di crescita “in termini assoluti”, e cioè di quanto sono
effettivamente salite le rispettive economie, il reddito dei paesi ricchi è comunque
aumentato di più
un esempio per meglio capire: se in un
paese/area il reddito pro capite sale da 5000 a 5500 dollari si ha un aumento
del 10% e se in un altro paese/area sale da 50.000 a 54.500 l’aumento è solo
del 9%, e quindi si ha disuguaglianza decrescente, ma se si considera il valore
dell’aumento, 4.500 vs 500, si ha disuguaglianza crescente
La misurazione fatta con
questo criterio da alcuni economisti (Sudhir Anand e Paul Segal) porta a risultati
opposti l’indice Gini in termini assoluti della disuguaglianza fra Nord e Sud del
mondo è al contrario salita dal 63 del 1960 ad un impressionante 72 nel 2016 (I dati del PIL procapite, fonte Banca Mondiale, usati per misurare
l’indice Gini in termini assoluti sono stati da questi stessi economisti
tradotti in un significativo grafico che mette a confronto la crescita di USA con
quella delle aree del mondo più a rischio di povertà)
Appare evidente la persistente crescita di un divario (divide) che vede i paesi poveri restare costantemente tali. Ed è d’altronde difficile, al di là del permanere degli interessi egemonici di cui si è detto, creare condizioni per una vera svolta se la principale strategia è quella di uno sviluppo declinato unicamente in funzione di una crescita economica misurata nel suo dato generale. Tutti i dati relativi alla crescita del PIL pro-capite mondiale (più 65% dal 1990 ad oggi) si accompagnano infatti alla parallela crescita del numero di persone che sono costrette e vivere con meno di 5 dollari/giorno.
La spiegazione può consistere
unicamente nel fatto che le attuali strategie di crescita economica, alias sviluppo, sono
intrinsecamente legate agli interessi dei paesi ricchi (e questi, al loro interno, alle fasce alte e altissime di
reddito), non deve quindi costituire sorpresa constatare, al di là della
retorica ottimistica sui processi di accompagnamento allo sviluppo, che la
distribuzione delle sue ricadute continui a premiare in misura decisamente
maggiore i paesi già ricchi.
Con queste logiche di
crescita e di ripartizione della ricchezza è stato calcolato che l’obiettivo di
debellare la povertà estrema consentendo agli ultimi di superare almeno la fatidica
soglia dei 5 dollari/giorno (il che come si è detto
garantirebbe quantomeno di accedere ai livelli essenziali di esistenza) occorrerebbe che il
PIL mondiale crescesse di 175 volte rispetto ad ora. Un dato che si commenta da
solo su un pianeta dalle risorse finite.
Resta quindi evidente la
necessità di una svolta radicale, di un modello economico ispirato da un’idea
di sviluppo più equo e sostenibile che imponga innanzitutto di fare finalmente
e veramente i conti con il passato e con i modelli che lo hanno sin qui
ispirato. Questa rilettura storica non può di certo limitarsi al passato
prossimo, ma richiede di riavvolgere il nastro della storia fino al Cinquecento, al momento in cui
l’avvio del colonialismo, reso possibile dalle grandi scoperte geografiche, ha
sconvolto, con un processo secolare, la storia dell’intera umanità che fin lì non
aveva conosciuto, per il tenore di vita, particolari differenze fra il vecchio
continente ed il resto del mondo (al contrario l’Europa
aveva a lungo conosciuto minori condizioni di benessere diffuso, se confrontata
con altre aree del mondo).
Nel corso dei secoli
successivi le potenze europee hanno letteralmente depredato tutte le altre aree
del pianeta di risorse naturali, ricchezze già accumulate, elementi di cultura
e tecnologici, per non dire di forza lavoro umana (il numero di africani schiavizzati è calcolato in 12 milioni), cancellando intere
civiltà ed economie ed imponendo, con un asfissiante e spesso crudele dominio
politico, l’idea europea di rapporti sociali ed economici. E’ opinione storica condivisa,
il ruolo decisivo dell’estrazione coloniale, nel contribuire alla formazione
dell’accumulazione originaria propedeutica alla nascita del capitalismo che, nella
forma matura assunta con l’imperialismo ottocentesco, ha poi dato struttura compiuta
alla disuguaglianza fra Occidente e resto del mondo.
Questo lungo ed
impressionante processo storico ha conosciuto una prima battuta d’arresto solamente
nei primi decenni del Novecento (segnati dagli spaventosi
conflitti mondiali) ed una definitiva fine all’indomani del secondo conflitto mondiale con l’instaurarsi di un
nuovo equilibrio geopolitico globale. In questo mutato contesto, con le
storiche potenze europee soppiantate nel ruolo di padroni del mondo dagli USA (fronteggiati nella divisione in blocchi dall’URSS), nei primissimi decenni
della seconda metà del Novecento si sono manifestate alcune importanti
esperienze di recupero post-coloniale.
In Sud America, in Asia,
in Africa, si sono affermati movimenti nazionalistici che hanno tentato di accompagnare
la raggiunta maggiore indipendenza politica con nuove forme di gestione
dell’economia, della società, delle istituzioni politiche, realizzando nel loro
insieme ragguardevoli risultati alla
base di quello che gli storici hanno definito il “miracolo post
coloniale” (negli anni Sessanta e Settanta la crescita economica realizzata
in molte aree del mondo ha raggiunto straordinarie percentuali di incremento).
L’ideologia di fondo in
campo socio-economico che ha sostenuto questo possente movimento (anche nei paesi che, salvo alcune limitate eccezioni, erano
rientrati nella sfera d’influenza sovietica e quindi teoricamente più vicine ad
una visione socialista della società) è però consistita nella
orgogliosa visione di uno sviluppo non troppo dissimile da quello di stampo europeo ereditato dalla
lunga fase colonialista. Per quanto caratterizzato da alcune simboliche nazionalizzazioni
ed espropriazioni, così come da significativi miglioramenti in campo sociale, si
è in effetti rivelato un movimento potenzialmente in grado di riequilibrare le
relazioni economiche globali (anche se nel quadro
bipolare globale il movimento dei “paesi non allineati”, nato per offrire una alternativa alla divisione in blocchi, non
è mai stato in grado di creare relazioni economiche internazionali alternative)
ciò
nondimeno non poco indebolito dalle singole tensioni interne conseguenti alla
nascita avvenuta pressochè ovunque di nuove strutture sociali non prive di accentuate disuguaglianze interne.
Pur tuttavia in questi
due decenni il divario di reddito fra il Nord ed il Sud del mondo ha
conosciuto, per la prima volta dopo secoli, una significativa riduzione: se nel 1960 il
reddito medio USA era 13,6 volte più alto di quello dell’intera Asia orientale,
alla fine degli anni Settanta si era
ridotto a 10,1 volte, il 26% in meno, non diversamente quello fra USA e l’America Latina
dell’11% e del 23% quello con Medio Oriente e Nord Africa.
Si trattava quindi di una
situazione che sembrava andare proprio nella direzione ufficialmente auspicata nel
1960 dal Presidente USA Truman, eppure questa seppure parziale inversione di tendenza è stata, all’atto
pratico, vissuta dall’Occidente ed in primis dagli USA, nella loro veste di
nuovo gendarme del mondo, come un
fattore di rischio (investimenti bloccati o condizionati, dazi protezionistici delle
nascenti produzioni locali, incertezze sul mercato delle materie prime) che è stato affrontato
non soltanto con aggressive politiche commerciali, ma anche con il
condizionamento del quadro politico interno dei paesi che sembravano più
problematici, non di rado ricorrendo all’uso cinico di autentici colpi di
stato.
i golpe più famosi di questo tipo sono avvenuti, a partire proprio dal 1960, in Iran (Mossadeq vsReza Pahlavi), in Guatemala (Arbenz vs Armas), in Brasile (Goulart vs Giunta militare), i vari tentativi falliti su Cuba, invasione diretta degli USA nella Repubblica Domenicana ed in Guatemala, in Indonesia (Suharto vs Sukarto), in Ghana (Nkrumah vs Giunta militare), in Congo (Lumumba vs Mobutu), in Uganda (Obote vs Idi Amin), e per finire quello, più direttamente connesso al nascente neoliberismo in Cile (Allende vs Pinochet)
Se è quindi vero, in
sintesi, che l’ideologia dello sviluppo che ha ispirato il miracolo post
coloniale non è stata esente da problematiche (la scarsa se non inesistente attenzione all’ambiente non dissimile
da quella predatoria del colonialismo è una delle testimonianze più
significative in questo senso), tali da indurre Raul
Prebish (1901/1986, economista
argentino, uno dei principali ispiratori del movimento di riscatto post
coloniale) ad affermare che “pensavamo che la sola accelerazione del tasso di crescita avrebbe risolto
tutti i problemi ma questo è stato un errore, il vero grande problema”, non è meno vero che
anche solo la parziale e timida inversione di tendenza nel rapporto fra Nord e
Sud del mondo è stata osteggiata in ogni modo dai paesi ricchi, quelli stessi
che a parole si dichiaravano contro il sottosviluppo, anche ricorrendo alla più
spietata violenza.
Per quanto di drammatico impatto
sulle singole situazioni il ricorso ad interventi armati non ha tuttavia
bloccato del tutto il percorso di affrancamento dei paesi del Sud del mondo (che ha trovato dal punto di vista politico istituzionale il suo
apice nell’approvazione ONU di un “nuovo ordine economico
internazionale” (Noei) che si proponeva
di intervenire sulle cause strutturali della disuguaglianza fra aree del mondo) ed inoltre si è comunque intrinsecamente dimostrato una soluzione non sostenibile
sul lungo periodo. Era diventata quindi necessaria una svolta capace di salvaguardare
lo status quo da un cambiamento che minacciava di incrinarlo alle sue basi: la
soluzione venne individuata nel 1975 nel corso di una riunione (presso il castello di Rambouillet in Francia) di quello che, pochi mesi
dopo, sarebbe divenuto il G7 (il forum intergovernativo
che raggruppa USA, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Giappone, Canada): il rapporto con i
paesi sottosviluppati veniva strutturato su una più ampia e generosa
elargizione di aiuti condizionati trasformati però nella formula di prestiti
onerosi (una soluzione che, sul
piano pratico, consentiva inoltre di dare sbocco alla enorme disponibilità di
risorse finanziarie in petrodollari che si erano accumulate in quegli anni).
Nasce così il sistema di
relazioni finanziarie fra Nord e Sud del mondo che, gestito nelle stanze
decisionali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ha da subito
rappresentato una potente leva per condizionare e forzatamente indirizzare le
politiche economiche dei paesi poveri costretti ad usarlo per ottenere
investimenti finalizzati allo sviluppo (e progressivamente sempre più indispensabili per coprire lo
stesso crescente debito).
il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale (World Bank) nascono nell’ambito degli storici accordi di Bretton Woods del 1944 per costituire l’impalcatura istituzionale preposta alla gestione delle relazioni commerciali e finanziarie globali. Al loro interno si sono scontrate due opposte visioni: quella suggerita da Keynes di un fondo di cooperazione tra Stati e quella targata USA che immaginava un’autentica banca finanziaria. Le politiche di sostegno finanziario avviate nel 1975 hanno sancito la definitiva vittoria dell’idea USA
Nel giro di pochi anni il
livello dell’indebitamento del Sud del mondo è salito vertiginosamente (già nel 1982 era quadruplicato rispetto al livello del 1975) ed in molti paesi in
breve tempo il debito pubblico si è di fatto assestato al di sopra della metà
del PIL, tant’è che non pochi paesi (fra i quali Messico, Brasile, Argentina) sono stati costretti a
formale dichiarazione di insolvenza. Il sostegno FMI e Banca Mondiale è continuato
ma a fronte dell’accettazione di pressanti “programmi di
aggiustamento strutturale” (di chiara impronta neoliberista fondati su: austerità,
privatizzazione, liberalizzazione) ossia politiche economiche che di fatto rinunciavano a perseguire
idee di sviluppo. Nel giro di pochi anni con la leva, apparentemente neutra del
debito, il Nord del mondo ha ridimensionato le speranze di inversione di
tendenza del Sud del mondo che si erano provvisoriamente aperte nei decenni
precedenti.
Il vecchio
colonialismo, morto all’indomani del secondo conflitto mondiale, lasciava il
posto ad un nuovo colonialismo, meno sfacciato e violento, più raffinato e
scientifico, ma altrettanto sbilanciato ed egemonico.
il tasso di crescita annuale del reddito
medio pro-capite del Sud del mondo è così passato dal significativo 3,2% registrato
nel periodo 50/70 al ben più modesto 0,7% degli anni 80/90. Non deve quindi stupire che la curva della
disuguaglianza fra aree del mondo (vedi grafico precedente) abbia conosciuto in
questi anni una evidente accelerazione. Altrettanto significativa è la
sorprendente crescita economica di alcuni paesi, appena prima ancora
annoverabili fra quelli poveri (Cina, Turchia e le cosiddette tigri dell’Asia
orientale: Hong Kong, Corea del Sud, Taiwan, Singapore) in grado, per
differenti ragioni, di non ricorrere troppo pesantemente a finanziamenti esteri
e liberi quindi di non applicare altrettanto rigorosamente le ricette
neoliberiste
Nel solco delle politiche
avviate e gestite sulla base di queste logiche da FMI e Banca Mondiale si è poi
inserito un terzo decisivo protagonista: l’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC), nata nel 1995 per sostituire il precedente
accordo GATT (General Agreement Tarifs
and Trade) del 1947 con lo scopo, ispirato da una visione apertamente
neoliberista, di aprire l’intero mondo ai flussi di merci e capitali eliminando
eventuali ostacoli nazionali al libero scambio globale.
Sul piano teorico il libero scambio è da sempre inteso come uno strumento che, nel gioco fra domanda ed offerta, dovrebbe meglio ottimizzare le specifiche peculiarità economiche e produttive, incentivando, non diversamente dalle singole imprese, anche i paesi che abbondano di manodopera a buon mercato a specializzarsi nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro e quelli che al contrario dispongono di abbondanti capitali a mirare ad attività ad alta intensità di capitale. La teoria del libero scambio puro era già stata a suo tempo smontata da Marx che aveva evidenziato come queste specializzazioni non potevano essere considerate “naturali” essendo il frutto di processi storici e politici di lungo periodo, non così facilmente modificabili e quindi tali da sfalsare queste stesse predisposizioni di partenza.
Più di cento anni dopo la
critica di Marx trova ampia conferma nella reale applicazione del concetto di libero
scambio da parte dell’Omc: i paesi del Sud del mondo, dopo secoli di colonizzazione, sono privi di
autonome risorse di capitale e quindi obbligati a puntare su produzioni di
basso valore destinate alle esportazioni, le quali però, in un
mercato ormai globalizzato, sono rigidamente governate dalle logiche delle
multinazionali che, cinicamente giocano proprio sulla concorrenza fra paesi
poveri, spostando a seconda del minor costo del lavoro produzioni là dove di
conseguenza i margini di profitto sono più alti.
In questo quadro (in netto contrasto con la sbandierata purezza teorica del mercato) le politiche messe in
atto dall’OMC sono state sempre indirizzate ad eliminare le pur timide barriere
e i modesti sostegni statali che i paesi poveri hanno timidamente tentato di
adottare per resistere all’insostenibile impatto della concorrenza globale
governata da tali logiche. Per converso si sono sempre dimostrate
molto meno inflessibili nei confronti di quelle analoghe adottate dai paesi
ricchi oltretutto applicate in modo decisamente sbilanciato a proprio favore. La
concreta politica messa in atto dall’Omc si è sempre dimostrata a
senso unico: dazi e quote di
mercato protetto erano messi sotto accusa se adottati da paesi poveri per
legittime esigenze di sopravvivenza e solo blandamente condannate se decise da paesi
ricchi (tutt’al più la questione si è fatta complessa quando i contrasti
sono sorti fra di loro)
un esempio emblematico è quello della
produzione di cotone affidata dalle multinazionali in una prima fase a paesi
subsahariani poveri come Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad (definiti non a caso
i “quattro del cotone”) creando così un
settore che è arrivato a contare più di dieci milioni di lavoratori e a
costituire una decisiva fonte di ricchezza. Questi paesi sono stati spiazzati
dalla decisione USA di sovvenzionare con sussidi la produzione interna di cotone,
ma il loro ricorso all’Omc non ha sortito effetto perché le sanzioni che,
teoricamente, potevano imporre agli USA, stante la loro debolezza contrattuale
non sono state applicate
Le disparità di partenza di
cui si è detto incidono poi in modo rilevante in un mercato globale
sempre più tecnologizzato dove la disponibilità di risorse destinabili a
ricerca ed innovazione fanno la differenza. Ed anche in questo caso
l’Omc gioca, in un quadro di base che già vede molto penalizzato il Sud del
mondo, un ulteriore ruolo protettivo verso il Nord del mondo con l’adozione di
provvedimenti, come il trattato TRIPs che fissa gli standard per la tutela
della “proprietà intellettuale”, che hanno alzato, in clamorosa
contraddizione con le vantate liberalizzazioni, la durata media di un
brevetto a livello mondiale a ben 20 anni, costringendo così i
paesi poveri, impossibilitati a perfezionarli in proprio, ad attendere decenni
prima di usarli liberamente ovvero a pagarli ai prezzi imposti dalla
convenienza dei paesi ricchi.
Altrettanto decisiva per
l’imposizione forzata del “nuovo colonialismo” è inoltre la prassi di affiancare le già sbilanciate politiche
dell’Omc con specifici accordi commerciali che fissano condizioni vincolanti
per tutti i paesi più deboli, gioco forza costretti ad accettarli per non
restare esclusi dai flussi di commercio internazionale, apertamente fissate a
proprio vantaggio dai paesi più ricchi. Il
più famoso è il NAFTA
(accordo
di libero scambio nordamericano fra USA, Canada e Messico) che ha letteralmente
messo in ginocchio la produzione messicana di mais e che sta per essere ulteriormente
esteso (trattato TPP) a Sud America e paesi
dell’Oceano Pacifico (più controversa, perché è
materia di scontro fra paesi ricchi, è l’adozione del trattato TTIP che dovrebbe disciplinare gli scambi commerciali fra USA e UE).
In questo quadro è poi forte l’incidenza di
alcuni specifici fattori, fra i quali: la spaventosa evasione fiscale, spesso accompagnata da corruzione, delle multinazionali – il cosiddetto “deflusso illecito” (nelle forme dell’ “hot money”, spostamento incontrollato di risorse
finanziarie, del “trade misinvoicing”,
false fatturazioni, e del “transfer mispricing”,
manipolazione dei prezzi) – paradisi fiscali – accaparramento delle
terre. Incide poi sempre di più l’impatto del cambiamento climatico e del degrado ambientale che, provocati in gran
misura dai paesi ricchi, colpiscono di più quelli poveri)
Postfazione = Dall’insieme delle
considerazioni fin qui raccolte emerge con forza la tesi che l’attuale,
crescente, disuguaglianza fra aree del mondo sia ancora la diretta conseguenza
del secolare colonialismo occidentale mai sottoposto a sincera autocritica e
mai adeguatamente ripianato. Al contrario le logiche predatorie che lo hanno
così a lungo ispirato sono proseguite anche nella nuova fase geo-politica
globale, incautamente definita postcoloniale, seppure in mutate forme più
congeniali al mercato ormai globalizzato. I coraggiosi tentativi di costruzione
di nuovi equilibri avviati nel secondo dopoguerra da alcuni paesi del Sud del
mondo sono stati molto spesso soffocati con la violenza delle armi e poi annullati
dalla progressiva costruzione di un soffocante sistema di relazioni commerciali
affidato ad istituzioni internazionali al servizio degli interessi del Nord del
mondo. In questo contesto, non altrimenti definibile che “nuovo colonialismo”, anche le politiche di
aiuto e sostegno ai cosiddetti paesi sottosviluppati altro non sono state che
un ipocrito strumento di controllo e di imposizione di relazioni sbilanciate. Una
reale correzione di rotta non è quindi all’orizzonte e potrebbe iniziare a
manifestarsi soltanto se, in luogo di caritatevoli aiuti, il Nord del mondo
attuasse alcuni fondamentali passaggi: cancellazione del
debito dei paesi poveri – vera democratizzazione delle istituzioni di governance globale (FMI, Banca Mondiale, Omc) – nuove più eque regole
del commercio internazionale – l’introduzione di una
salario minimo globale – omogenee politiche fiscali per colpire evasione e occultamento di profitti – blocco
dell’accaparramento delle terre e restituzione di quelle già acquisite
considerate inalienabile bene comune.
Un ultimo fondamentale
passaggio consiste nella comune costruzione di un’idea di sviluppo non più
basata sulla sola crescita economica, il pianeta Terra non può sostenere quella
attuale a maggior ragione se, per quanto equamente, fatta propria anche dal Sud
del mondo