La Parola del mese
Una
parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
FEBBRAIO 2025
Si presta,
comprensibilmente e giustamente, molta attenzione ai fenomeni migratori sia di
chi, globalmente, fugge da insostenibili situazioni di fame, guerre, degradate
condizioni ambientali, per tentare di raggiungere paesi più sicuri e
benestanti, sia di chi, nel nostro paese, decide di emigrare, verso altre
Regioni o verso altri paesi europei, nella speranza di trovare migliori sbocchi
lavorativi ed esistenziali. La Parola di questo mese, di recente conio,
racconta invece le ragioni che spiegano la scelta diversa di chi, pur alle
prese con identiche difficoltà e problematiche, coraggiosamente decide di
rimanere
RESTANZA
Restanza = Nome astratto
derivato da restante (participio presente del verbo restare con l’aggiunta del suffisso “za” che identifica nomi di qualità,
come erranza, militanza, predominanza) = Atteggiamento di chi, nonostante le difficoltà e
sulla spinta del desiderio, resta nella propria terra d’origine, con intenti
propositivi e iniziative di rinnovamento. Probabile l’influsso del francese restance/résistance parola attribuita al
filosofo francese Jacques Derrida nel significato di “resistenza psicoanalitica” (in Résistances
de la psychanalyse, 1999).
Vocabolario Treccani online, Neologismi 2017
Si è detto del
suo essere un termine di conio recente, e lo è nell’accezione che ha da poco
assunto, ma a dire il vero “restanza” non è parola nuova per
l’italiano, è infatti attestata già nel Trecento ma con il diverso significato
di “ciò che avanza, che resta”. Nella sua nuova
versione è stata per la prima volta utilizzata dall’antropologo Vito Teti
….. la restanza indica l’essere rimasto, né atto di
debolezza né atto di coraggio, è un dato di fatto, una condizione. Può
diventare un modo di essere, una vocazione, se vissuto senza sudditanza, senza
soggezione, ma anche senza boria, senza compiacimento, senza angustie e
chiusure, con un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione ….. L’avventura
del restare, la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza, non
è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono
complementari, vanno colte e narrate insieme.” (Pietre di pane. Un’antropologia del
restare, Quodlibet, 2011, pp. 21-22)
Nel decennio
successivo il termine ha cominciato a diffondersi anche in testi non
specialistici e ad essere meglio conosciuto e inteso. Di restanza parla molto
anche lo scrittore siciliano Roberto Alajmo nel suo romanzo Palermo è una cipolla (Laterza, 2012). Già nel
2012 la parola era presente, sebbene con una sfumatura semantica non del tutto
sovrapponibile a quella proposta da Teti nelle Considerazioni generali - 46°
Rapporto annuale del Censis
sulla situazione sociale del Paese: una collocazione che ha garantito
alla parola citazioni e quindi rilanci sui mezzi d’informazione e una
circolazione fuori dall’ambito specifico degli studi antropologici. Grazie alla
teorizzazione di Teti la restanza comincia a emergere come tema narrativo, di
rappresentazione e di impegno sociale e politico: nel 2018 il premio Strega è
assegnato al romanzo di Marco Balzano “Resto qui” (Einaudi 2018), nel 2020
esce il libro di Savino Monterisi “Cronache della restanza” (Riccardo
Condò Editore). Nel 2021 Alessandra Coppola
presenta al Torino Film Festival il documentario “La restanza”, dedicato ad alcuni giovani salentini di
Castiglione d’Otranto che rifiutano la fuga come soluzione ai problemi
economici e, recuperando colture di grani antichi, sviluppano una nuova
economia in piccola scala trasformando Castiglione nel “paese della restanza”. Ma è ancora Teti che in un suo nuovo testo di
recente uscita con titolo omonimo approfondisce il tema
Il libro di Teti è una appassionata
e approfondita ricostruzione dei processi che, con particolare riferimento alla
situazione calabrese, hanno segnato la trasformazione di paesi e dei loro
abitanti nel corso del Novecento. Lo fa recuperando esperienze dirette sul
campo (Teti ha alle spalle decenni di indagini antropologiche ed etnografiche
sul tema) integrandole con richiami e citazioni di altri studi e di numerose
opere narrative, che spaziano in mille intriganti direzioni. Emerge un’opera
complessa e ricca di spunti di riflessione sul senso del migrare, del tornare,
del difendere e valorizzare il patrimonio umano e culturale delle cosiddette
“aree interne” e dei centri minori. In questo post ci siamo limitati a
recuperare gli spunti più utili a illustrare il significato della nostra Parola
del mese.
Appare evidente fin dalla copertina (e già nella
precedente citazione) come per Teti la restanza si definisca per contrapposizione con il suo
opposto, con la partenza, l’erranza, o meglio ancora
con il migrare, in generale con l’innata propensione umana allo
spostamento (la colonizzazione umana dell’intero pianeta è frutto
proprio delle continue e progressive migrazioni di homo sapiens dalla primordiale
Africa).
Questo faticoso e lento camminare (durato
decine di migliaia di anni) non va confuso con il nomadismo, periodico e ciclico, dei cacciatori/raccoglitori, perché da
sempre è stato un continuo migrare per necessità di sopravvivenza (ma non di rado anche solo per curiosità) che (soprattutto
con il progressivo, variegato e tormentato avvento dell’agricoltura) si è
intrecciato con il bisogno di fermarsi, di avere un luogo protetto, in una
costante sospensione tra viaggio e sosta, tra altrove e casa, sino a creare una
dialettica archetipica tra questi due opposti, che ha accompagnato,
nel lungo cammino dell’umanità, tutte le piccole e grandi migrazioni, fino a
quelle epocali avvenute tra metà Ottocento e primi decenni del Novecento, ma
non di meno a quelle attuali, per molti versi persino più drammatiche, dando sempre
corpo, sia quando lo spostamento era definitivo sia quando implicava un
ritorno, ad
un nuovo vivere, sintesi culturale
dell’incontro con altre mentalità, altri modi di essere uomini.
E d’altronde a ben vedere la stessa
scelta di partire verso un altrove, per quanto imposta da contingenze esterne,
è comunque un progetto, magari in qualche misura inconsapevole, che già rende
impossibile un ritorno esatto a ciò che si è lasciato. Non a caso
quindi le grandi migrazioni italiane di fine Ottocento verso paesi lontani,
così come quelle del secondo dopoguerra dal Sud al Nord, hanno visto intere comunità
spostarsi altrove, non di rado lì ricreando, illusoriamente, un paese sosia,
inevitabilmente destinato però ad essere una falsa ombra di quello lasciato.
Non diversa è stata la parabola di
chi è riuscito a tornare anni dopo, il benessere acquisito consentiva di ridare
vita al paese natio, ma erano ormai cambiati nei loro modi di essere gli uomini
tornati. Si può quindi, a ragione, sostenere che l’emigrazione, l’erranza, inesorabilmente
cancellano ciò che era e, anche quando il cerchio si chiude con un ritorno, lo
sostituiscono con un diverso nuovo.
E’ in questo contraddittorio e
millenario incrociarsi fra muoversi, tornare, restare che Teti declina il suo
concetto di restanza utile a dare nome
all’insieme delle ragioni che spiegano nuove scelte di restare e di trovare, lì dove già si
è, il nuovo. Tali scelte, da subito si devono però confrontare con
difficoltà ed ostacoli: infatti se, come si è appena detto, partire è di per sè
un nuovo progetto di vita, è altrettanto vero che il dilemma fra andare o
restare, specie in circostanze difficili, comporta sempre e comunque
lacerazioni e conflitti interiori.
Perché il luogo a lungo abitato, in
cui molto spesso si è nati, è una dimensione spaziale, un luogo antropologico, che
racchiude, fissandoli fisicamente al posto stesso, i tratti caratteristici
della propria umanità, della propria personalità. Ed è al tempo stesso un
insieme di relazioni, di legami che, anche se controversi e mutevoli, non di
meno spiegano quel che siamo (l’antropologia rintraccia questo sentire nelle
antiche tradizioni sacrali del genius loci e nelle memorie fisiche che lo
compongono: le case, gli alberi, le vie ed i torrenti, la chiesa, la scuola, i
cibi e così via). E’ il primo, inamovibile, presupposto su cui nasce e
matura la restanza.
Teti consolida questa constatazione richiamando
l’usanza calabra di definire “pane della restanza”, quello di solito
fatto con diversi cereali, che “avanzava” e che
veniva consumato per molti giorni a venire. E’ il pane che lo scrittore Corrado
Alvaro nel suo “Il treno del Sud” cita, assieme alle pietre delle case, come suo
primo indissolubile legame con il paese dal quale fu obbligato ad emigrare. Si
spiega così il titolo dell’articolo di Teti “Pietre
di pane” (riassunto all’inizio di questo post) che ha dato avvio all’uso
della parola “restanza”
La quale, quasi sempre, si lega, con
buona probabilità, alla dimensione del paese (o, per alcuni versi, del suo
surrogato urbano del quartiere) perché
queste forme di legame spazio-temporale richiedono, per meglio fissarsi, di essere
concentrate in piccoli luoghi. Ed è
proprio in questa relazione, e nelle forme che via via ha assunto, che si fonda
un secondo fondamentale aspetto della restanza.
Il paese, soprattutto, ha a lungo
costituito un topos narrativo (ma anche scientifico in particolare negli studi
antropologici) con carattere universale perché per secoli e millenni ha rappresentato
lo spazio esistenziale di buona parte dell’umanità. Un carattere
costitutivo che è entrato in crisi sull’onda lunga dell’industrializzazione ottocentesca
con le città divenute calamite per inurbamenti ad essa funzionali, e poi
letteralmente esplose lungo tutto il Novecento.
Sono i tanti decenni di svuotamento,
di spostamento magari di breve distanza ma non per questo meno irreversibile (si pensi anche solo all’inurbamento
torinese di tanti piemontesi della provincia), di abbandono di intere aree
come quelle montane (ricordiamo a questo riguardo il nostro Saggio del
mese di Luglio 2023 “Assalto alle Alpi” di Albino Ferrari). L’epilogo (concretizzato
nei decenni di fine Novecento) di questo particolare movimento
migratorio interno è consistito, come ricaduta diretta, in una nuova geografia (non solo
italiana) di
solitudine dolorosa per chi per una qualche ragione decideva, per libera scelta
oppure per una qualche costrizione, di restare che è però
inevitabilmente divenuto, ed a lungo così è rimasto, un rimanere passivo e
rassegnato allo svuotamento totale, alla cancellazione definitiva di ciò che
fin lì era stato.
L’esatto opposto di ciò che, proprio
grazie alla crescente consapevolezza di questo dramma della morte di un mondo
esistenziale e culturale, ha in tempi più recenti dato forma alla restanza (i cui caratteri, con riferimento
agli effetti di quel processo di svuotamento ed abbandono, sono in buona parte già
al centro di un altro nostro Saggio del mese, quello di Febbraio 2024,
“L’Italia vuota” di Filippo Tantillo dedicato all’evoluzione delle cosiddette “aree interne”, in cui, come contraltare, sono
raccontate le significative esperienze di una “resistenza
orientata ad un nuovo futuro” già presente in molte aree marginali
dell’Italia, a Sud come a Nord).
Tale allora è nata per indicare un senso del restare
diverso ispirato da una idea di
paese lontanissima da un improbabile ritorno ad un mitizzato passato che valorizzando anche
economicamente il capitale di risorse ambientali, paesaggistiche, culturali, ricrea
un tessuto di relazioni umane fatto di solidarietà e sostenibilità.
Lo scopo, consapevole e dichiarato, è proprio quello di fermare spopolamento, perdita
di tradizioni, degrado di ambiente naturale ed umano, e quindi quello di
ricucire l’antica
irrisolta dialettica fra il restare e l’andare realizzando un “nuovo” comunitario che renda possibile il
rimanere e il tornare.
Non si tratta di un sogno utopico, con il termine “restanza”
Teti ha dato nome ad un fermento di iniziative ed esperienze che è già presente
in diverse aree interne del nostro paese: in aggiunta a quelle raccontate da
Tantillo nel suo “L’Italia vuota”, sono ad esempio quelle trovate da Marco
Revelli nel suo “Non ti riconosco più" del 2016, un viaggio nelle tante
metamorfosi, positive e negative, italiane. Non a caso nel 2020 un’indagine
sulle aree interne condotta dall’associazione “Riabitare
l’Italia” (pubblicata nello stesso anno dalla Donzelli Editore,
l’editoriale che la presentava non a caso a titolo “La restanza dei giovani”) aveva
accertato che ben il 67% del
campione di giovani fra i 18 e i 39 anni intervistato, era fermamente orientato
a restare nel paese di nascita/residenza per costruire lì il suo futuro, “nuovo”
Il concetto di nuovo è quindi fondamentale per
comprendere il fenomeno della restanza,
la quale è innanzitutto la cosciente consapevolezza che gli antichi rapporti
sociali e relazionali sono ormai profondamente mutati. Con essi sono scomparse
anche le tradizionali forme di conflitto e di coesione (generazionali,
di censo, di mestiere) che a lungo hanno segnato la dimensione sociale ed
esistenziale di questi luoghi, che sono ormai state sostituite da altre che si relazionano
proprio ai progetti di cambiamento.
La restanza non si alimenta cioè di nostalgia, ma è indissolubilmente
proiettata verso un futuro, per quanto in buona misura ancora da capire, da
costruire. Esprime cioè una tensione positiva di rifiuto della rassegnazione e
di voglia di lottare contro le logiche che hanno prodotto il dramma
dell’abbandono e dello svuotamento. Va però anche detto che tutto ciò,
inevitabilmente, rappresenta una cesura, un ostacolo insormontabile per chi (vecchi
emigrati in città o altrove) torna perché mosso solamente dalla
nostalgia per un mondo che, comunque, non ritroverà più.
Perché tutto è sicuramente cambiato,
la restanza di un tempo, perché di essa
una qualche forma è sempre esistita, non ha più modo di essere alla luce delle
profonde modificazioni intervenute nel significato di concetti come “qui”, “altrove”, “perché e per cosa
restare”, in un mondo globalizzato e iper-tecnologizzato,
interconnesso e già attraversato da flussi crescenti di spostamenti, ma
soprattutto unificato
dall’emergenza climatica ed ambientale. Teti cita, nelle ultime
pagine di questo suo testo, una frase contenuta in una lettera ricevuta da
Demetrio Paolin (scrittore torinese, già in concorso al Premio Strega del
2016 con il suo romanzo “Conforme alla gloria”) che bene
sintetizza molti aspetti della restanza:
….. Cosa resta del verbo restare? E’ un rimanere dopo essere arrivati, è qualcosa che non riguarda ciò che è stato, ma ciò che sarà, quindi non tanto il passato, ma il futuro, resta ciò che sopravvive al passato, al passaggio, e ciò che sopravvive al passato è il futuro …… La restanza quindi non è statica come azione, ma dinamica, non cristallizza il presente ma si permea di futuro …..
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