sabato 15 febbraio 2025

Il "Saggio" del mese - Febbraio 2025

 

Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2025

Una delle disuguaglianze che da diversi secoli sta maggiormente segnando la storia dell’umanità è sicuramente quella fra paesi ricchi e paesi poveri, fra i cosiddetti Nord e Sud del mondo. Nata come diretta conseguenza della combinazione fra colonialismo europeo, rivoluzione industriale e avvento del capitalismo, ha attraversato, lungo percorsi differenziati, gli ultimi cinquecento anni per assumere, a cavallo del nuovo millennio, una sua nuova configurazione. Il Saggio di questo mese analizza questo articolato processo partendo dalle forme assunte negli ultimi decenni. La chiave di lettura fondamentale consiste nel “divide(termine inglese che indica divario/fattura) fra “paesi sviluppati” e “paesi sottosviluppati” basato su un concetto di “sviluppo”, come vedremo, cinicamente ipocrita ed interessato. 

il suo autore è Jason Edward Hickel (1982, antropologo, professore presso l’Università di Barcellona dopo aver insegnato presso la London School of Economics. La sua ricerca ed i suoi saggi si concentrano sull’antropologia economica all’insegna di una forte critica al capitalismo, al neocolonialismo ed alla crescita economica come misura dello sviluppo umano)

L’illusione dello sviluppo

Nel Settembre 2000 l’ONU ha formalizzato un accordo, sancito all’unanimità, “La Dichiarazione del Millennio” che fissava per il 2015 otto ambiziosi obiettivi (fra i quali spiccava quello di “sradicare la povertà e la fame nel mondo”) ambiziosamente finalizzati a realizzare una situazione globale di migliore uguaglianza fra aree del mondo riprendendo l’analoga manifestazione di nobili intenti fatta nel 1960 da Harry Truman neo eletto Presidente USA.

Diversi erano contesto storico e motivazioni di fondo (per gli USA si trattava di dare una veste di idealità all’acquisito ruolo di potenza egemone, per l’ONU di dare concretezza alla scelta di intervenire sulla frattura sempre più impattante fra paesi ricchi e poveri), ma comune era la condivisione di un valore ritenuto centrale per gli equilibri globali, lo sviluppo, inteso come una condivisa “crescita economica capace di trainare profondi e positivi cambiamenti sociali in tutti i paesi del mondo. I “paesi sviluppati”, avendolo meritoriamente già raggiunto, si proponevano di aiutare quelli “sottosviluppati” rimasti indietro perché ritenuti incapaci da soli di adottare le giuste politiche per raggiungerlo.

L’economista statunitense Walt Rostow (1916/2003), a lungo influente consigliere di diversi Presidenti USA, ha fornito base analitica a tale tesi nel suo famoso saggio “Gli stadi dello sviluppo economico” in cui sosteneva la natura “tecnica del sottosviluppo” tutta determinata, a suo avviso, dai limiti delle politiche interne dei paesi ancora arretrati

Non sono infatti rintracciabili nella Dichiarazione riflessioni, anche solo in parte autocritiche, sul peso del secolare colonialismo, quanto fin lì storicamente avvenuto era di fatto considerato come la naturale conseguenza di differenti percorsi di crescita ai quali era finalmente divenuto possibile porre rimedio grazie alla recente realizzazione di un mercato compiutamente globalizzato.

L’analisi della disuguaglianza globale fatta da Jason Dickel prende le mosse da qui, da una scelta all’apparenza lodevolmente mirata al suo superamento, ma che in effetti, se correttamente analizzata nella sua concretezza, si è rivelata al contrario il suo proseguimento in nuove forme adattate al mutato contesto geopolitico.

A suo avviso infatti le politiche ispirate dalla ideologica esaltazione dello sviluppo della Dichiarazione del Millennio (sostituita alla sua scadenza nel 2015 con un analogo programma di ampio respiro denominato “Agenda 2030”) non soltanto hanno solo parzialmente raggiunto alcuni dei suoi otto obiettivi (in particolare significativi passi in avanti si sono effettivamente registrati relativamente a mortalità infantile, salute materna, contenimento HIV, istruzione primaria, molto meno efficaci invece gli interventi per l’uguaglianza di genere), ma quanto concretamente avvenuto per la lotta alla fame e alla povertà nel mondo, unitamente alla sostenibilità ambientale e alla partnership globale economica, dimostra, ad una valutazione obiettiva, il permanere di evidenti logiche egemoniche a favore dell’Occidente.

Due prime macro constatazioni di merito evidenziano il mancato raggiungimento dell’obiettivo per fame e povertà: se a cavallo del nuovo secolo si stimavano in 850 milioni le persone che non raggiungevano gli standard nutrizionali minimi oggi si calcola che siano circa due miliardi, mentre quelle considerabili povere sono, in questo stesso arco temporale, quadruplicate raggiungendo l’impressionante cifra di circa 4 miliardi di persone (circa il 60% dell’attuale umanità). Non deve quindi stupire se nel frattempo la disuguaglianza fra Nord e Sud del mondo non sia certamente diminuita: nel 1960 il rapporto tra il reddito medio pro capite dei paesi più ricchi rispetto a quello medio dei paesi più poveri era di 32 a 1, nel 2020 è stato calcolato in qualcosa come 134 a 1.

Non soltanto le azioni di sostegno dei paesi ricchi per fame e povertà si sono, dati alla mano, rivelate inadeguate, ma le logiche che le hanno ispirate, se messe a nudo, rivelano tutt’altre finalità. L’idea di uno sviluppo mirato a coinvolgere più equamente l’intera umanità si è dimostrato, nella sua concreta attuazione, molto più funzionale agli interessi dei paesi “sviluppati” che a quelli “sottosviluppati”.

Lo attestano innanzitutto i dati dei flussi finanziari avvenuti nei quindici anni dei programmi ONU avviati con la Dichiarazione del 2000 che (dati ufficiali ONU e OCSE) hanno messo in atto interventi di sostegno allo sviluppo dei paesi poveri per una media di circa 128 miliardi di dollari all’anno (dato di per sé di tutto rispetto), ma al contempo, durante questo stesso periodo, i flussi finanziari fra Nord e Sud del mondo, se valutati nella loro interezza, evidenziano un impressionante saldo a favore dei paesi sviluppati, vale a dire un gigantesco deflusso di risorse finanziarie, frutto dei concreti rapporti commerciali, dai paesi sottosviluppati.

L’Ong americana Global Financial ha raccolto dati che sintetizzano, per l’anno 2012 (ultimo anno di disponibilità di dati certi)  questo incrocio fra la globalità di flussi e deflussi in un saldo che dà una precisa idea di cosa è concretamente avvenuto: a fronte di flussi in entrata, comprensivi del sostegno ONU di 128 miliardi, pari a circa 2.000 miliardi  di dollari (comprendono in particolare  le rimesse degli emigrati e gli attivi da commercio estero)  i deflussi in uscita dal Sud del mondo sono stati di circa 5.000 miliardi di dollari, ben più del doppio.

In questo stesso studio del 2012 una collegata analisi riassumeva, per il trentennio precedente, il valore complessivo dei movimenti finanziari in entrata ed in uscita fra Nord e Sud, dalla quale emergeva un dato inequivocabile: a partire dal 1980 i paesi del Sud del mondo avevano sostenuto, senza alcuna variazione a partire dal 2000, i profitti economici di quelli ricchi del Nord per l’impressionante cifra di 26.500 miliardi di dollari (l’equivalente del PIL annuo medio di USA ed Europa sommati insieme).

Le più rilevanti voci che hanno concorso a determinare un valore così importante sono, fra le altre, quelle degli interessi pagati per prestiti ottenuti, dei ricavi ottenuti dalle multinazionali per investimenti in loco, delle perdite derivanti da meccanismi di scambio ineguale, non di rado davvero fraudolenti, dei crescenti costi per gli effetti del riscaldamento climatico in gran misura innescato proprio dai paesi ricchi.

Il problema va quindi ben oltre l’inefficacia in sé delle politiche di sostegno allo sviluppo e consiste nel permanere di logiche di sfruttamento intensivo delle risorse naturali e della forza lavoro da parte dei paesi sviluppati a danno di quelli che, ufficialmente, si sosteneva di voler aiutare. La loro povertà, innescata dal secolare saccheggio colonialistico, continua quindi ad essere mantenuta tale perché, altra spiegazione non si ha, sono state mantenute, in più velata forma, le identiche logiche di spietato profitto alla base del colonialismo.

Un dato di fatto che purtroppo confligge con la sincera buona volontà degli organi dell’ONU che hanno concretamente gestito i programmi (denominati Osm, Obiettivi sviluppo millennio) e che chiama apertamente in causa i decisori, pubblici e privati, delle strategie politiche ed economiche occidentali.

I quali, lungo tutto il periodo in esame, hanno ipocritamente portato avanti una trionfalistica narrazione ufficiale che vantava successi e riscontri positivi sul fronte della lotta a fame e povertà fondata su dati strumentalmente interpretati, quando non furbescamente manipolati. Una più obiettiva ricostruzione di quanto concretamente realizzato, racconta una storia molto diversa e mette a nudo gli accorgimenti di comodo messi in atto, qui riassunti sinteticamente iniziando dalla povertà:

Ø l’iniziale obiettivo di dimezzare la percentuale delle persone povere in tutto il mondo, partendo da quella registrata nel 2000, è stato poi concentrato solo su quella delle persone residenti nei paesi sottosviluppati registrata nel 1990

Ø la “soglia di povertà”, parametro base per calcolare il numero di poveri, indica di norma “il costo complessivo di tutte le risorse essenziali per sopravvivere ad un adulto medio”. Nel 1990, essendo diversamente calcolata per ogni paese, era stata determinata (come pura media matematica) nella cifra di “un dollaro al giorno” adottata nella Dichiarazione del millennio come parametro di riferimento (con un modesto aggiustamento a 1,08 dollari), per essere successivamente portata al definitivo importo di 1,25 dollari/giorno. Si tratta con ogni evidenza di importi così modesti da poter essere in qualche modo superati in molti paesi che hanno comunque evidenti condizioni di povertà acclamata, ma tali da restringere il numero dei poveri accertati e da far così risultare efficace ogni seppur minimo intervento correttivo. Fin dall’inizio del programma ONU, e a maggior ragione venendo a tempi più recenti, una visione più onesta (da più parti sollecitata) della povertà, in grado quindi di fotografare con maggiore obiettività situazioni di oggettiva indigenza sollecitata da più parti, fissa una soglia non inferiore a 5 dollari giorno (a titolo di raffronto in Italia la soglia di povertà, fissata dalle singole Regioni con riferimento ad una famiglia di due persone, se riportata ad una singola persona in media la definisce povera se possiede un reddito inferiore a 22 euro/giorno)

Ø i dati ufficiali 2022 (e quindi ancora sette anni dopo la fine del Programma ONU del 2000) attestano che l’85% della popolazione mondiale vive con meno di 30 dollari/giorno, il 75% con meno di 10 dollari/giorno, ed ancora il 10% con meno di 2 dollari/giorno. Il conto di quelle che dispongono meno di 5 dollari giorno si attesterebbe quindi a circa 4 miliardi di persone

Ø nel calcolo delle persone “ufficialmente” uscite dalla povertà rientra la situazione cinese che ha conosciuto uno “sviluppo” straordinario, avvenuto senza il sostegno ONU e in un quadro politico ed economico radicalmente diverso da quello capitalistico, un dato che da solo riduce in modo molto significativo i numeri vantati dall’ONU

Non è per nulla diverso il quadro dell’altro obiettivo Osm: la fame nel mondo. La quale, se considerata non in fuorvianti termini di percentuali, ma in numero di persone coinvolte, è purtroppo sostanzialmente costante da diversi decenni se valutata nelle sue forme più acute (nel 1996 erano 788 milioni, nel 2023 sono state 733 milioni), ed in più risulta fortemente salita, fino a 2,3 miliardi, se si prendono in considerazione tutti coloro che soffrono una condizione di insicurezza alimentare acuta o moderata.

La relazione diretta con la povertà è evidente, così come quella con lo spreco alimentare dei paesi ricchi del mondo (è calcolato che tagliandolo anche solo di un quarto e reindirizzandolo dove è più necessario il problema della fame verrebbe davvero ridimensionato. Ma nulla è mai stato seriamente tentato in questo senso)

Non sono meno indicativi i dati relativi alla disuguaglianza globale che, spiegando povertà e fame, illustrano la differenza di ricchezza complessiva fra aree del mondo. Anche per questa sua particolare declinazione è ormai prassi consolidata ricorrere ad analisi basate sull’ “indice di Gini”. (un sistema di misurazione, messo a punto dall’economista statistico italiano Corrado Gini, della disuguaglianza in una scala che va da 0, uguaglianza perfetta: tutta la ricchezza è suddivisa in parti uguali, a 100, disuguaglianza perfetta: una sola persona possiede tutto. In pratica: più alto è il punteggio più alta è la disuguaglianza).

Ed è proprio su misurazioni effettuate con l’indice di Gini che nel 2016 la Banca Mondiale ha attestato che la disuguaglianza (corretta in base alla popolazione) fra Nord e Sud del mondo si era significativamente ridotta ad un accettabile 47 a fronte del picco di 63 registrato nel 1960. Un dato confortante quindi ed in più rafforzato dall’evidenza della straordinaria crescita economica avvenuta, a cavallo del cambio di millennio, in molti paesi (Cina ed Est Asia in primis) ancora nei primi decenni del secondo dopoguerra in evidenti condizioni di sottosviluppo. Un successo che il pensiero economico mainstream ha immediatamente vantato come la conferma dell’efficacia delle politiche neoliberiste alla base dell’avvenuta globalizzazione. Peccato però che sia stata proprio l’incidenza delle economie cinesi ed est-asiatiche (dove ben poco, nulla per la Cina, sono state adottate riforme strutturali neoliberiste) a determinare tale risultato che, senza di esse, si sarebbe fermato ad un più modesto 58.

Un dato comunque ancora confortante, ma che ad una più attenta analisi si dimostra non realistico: la misurazione Gini della Banca Mondiale è “in termini relativi, misura cioè il tasso di crescita del reddito dei paesi poveri in relazione a quello dei paesi ricchi ed indica così una effettiva disuguaglianza decrescente, ma se si prendono in esame i rispettivi tassi di crescita “in termini assoluti”, e cioè di quanto sono effettivamente salite le rispettive economie, il reddito dei paesi ricchi è comunque aumentato di più

un esempio per meglio capire: se in un paese/area il reddito pro capite sale da 5000 a 5500 dollari si ha un aumento del 10% e se in un altro paese/area sale da 50.000 a 54.500 l’aumento è solo del 9%, e quindi si ha disuguaglianza decrescente, ma se si considera il valore dell’aumento, 4.500 vs 500, si ha disuguaglianza crescente

La misurazione fatta con questo criterio da alcuni economisti (Sudhir Anand e Paul Segal) porta a risultati opposti l’indice Gini in termini assoluti della disuguaglianza fra Nord e Sud del mondo è al contrario salita dal 63 del 1960  ad un impressionante 72 nel 2016 (I dati del PIL procapite, fonte Banca Mondiale, usati per misurare l’indice Gini in termini assoluti sono stati da questi stessi economisti tradotti in un significativo grafico che mette a confronto la crescita di USA con quella delle aree del mondo più a rischio di povertà)


Appare evidente la persistente crescita di un divario (divide) che vede i paesi poveri restare costantemente tali. Ed è d’altronde difficile, al di là del permanere degli interessi egemonici di cui si è detto, creare condizioni per una vera svolta se la principale strategia è quella di uno sviluppo declinato unicamente in funzione di una crescita economica misurata nel suo dato generale. Tutti i dati relativi alla crescita del PIL pro-capite mondiale (più 65% dal 1990 ad oggi) si accompagnano infatti alla parallela crescita del numero di persone che sono costrette e vivere con meno di 5 dollari/giorno.

La spiegazione può consistere unicamente nel fatto che le attuali strategie di crescita economica, alias sviluppo, sono intrinsecamente legate agli interessi dei paesi ricchi (e questi, al loro interno, alle fasce alte e altissime di reddito), non deve quindi costituire sorpresa constatare, al di là della retorica ottimistica sui processi di accompagnamento allo sviluppo, che la distribuzione delle sue ricadute continui a premiare in misura decisamente maggiore i paesi già ricchi.

Con queste logiche di crescita e di ripartizione della ricchezza è stato calcolato che l’obiettivo di debellare la povertà estrema consentendo agli ultimi di superare almeno la fatidica soglia dei 5 dollari/giorno (il che come si è detto garantirebbe quantomeno di accedere ai livelli essenziali di esistenza) occorrerebbe che il PIL mondiale crescesse di 175 volte rispetto ad ora. Un dato che si commenta da solo su un pianeta dalle risorse finite.

Resta quindi evidente la necessità di una svolta radicale, di un modello economico ispirato da un’idea di sviluppo più equo e sostenibile che imponga innanzitutto di fare finalmente e veramente i conti con il passato e con i modelli che lo hanno sin qui ispirato. Questa rilettura storica non può di certo limitarsi al passato prossimo, ma richiede di riavvolgere il nastro della storia fino al Cinquecento, al momento in cui l’avvio del colonialismo, reso possibile dalle grandi scoperte geografiche, ha sconvolto, con un processo secolare, la storia dell’intera umanità che fin lì non aveva conosciuto, per il tenore di vita, particolari differenze fra il vecchio continente ed il resto del mondo (al contrario l’Europa aveva a lungo conosciuto minori condizioni di benessere diffuso, se confrontata con altre aree del mondo).

Nel corso dei secoli successivi le potenze europee hanno letteralmente depredato tutte le altre aree del pianeta di risorse naturali, ricchezze già accumulate, elementi di cultura e tecnologici, per non dire di forza lavoro umana (il numero di africani schiavizzati è calcolato in 12 milioni), cancellando intere civiltà ed economie ed imponendo, con un asfissiante e spesso crudele dominio politico, l’idea europea di rapporti sociali ed economici. E’ opinione storica condivisa, il ruolo decisivo dell’estrazione coloniale, nel contribuire alla formazione dell’accumulazione originaria propedeutica alla nascita del capitalismo che, nella forma matura assunta con l’imperialismo ottocentesco, ha poi dato struttura compiuta alla disuguaglianza fra Occidente e resto del mondo.

Questo lungo ed impressionante processo storico ha conosciuto una prima battuta d’arresto solamente nei primi decenni del Novecento (segnati dagli spaventosi conflitti mondiali) ed una definitiva fine all’indomani del secondo conflitto mondiale con l’instaurarsi di un nuovo equilibrio geopolitico globale. In questo mutato contesto, con le storiche potenze europee soppiantate nel ruolo di padroni del mondo dagli USA (fronteggiati nella divisione in blocchi dall’URSS), nei primissimi decenni della seconda metà del Novecento si sono manifestate alcune importanti esperienze di recupero post-coloniale.

In Sud America, in Asia, in Africa, si sono affermati movimenti nazionalistici che hanno tentato di accompagnare la raggiunta maggiore indipendenza politica con nuove forme di gestione dell’economia, della società, delle istituzioni politiche, realizzando nel loro insieme ragguardevoli  risultati alla base di quello che gli storici hanno definito il “miracolo post coloniale (negli anni Sessanta e Settanta la crescita economica realizzata in molte aree del mondo ha raggiunto straordinarie percentuali di incremento).

L’ideologia di fondo in campo socio-economico che ha sostenuto questo possente movimento (anche nei paesi che, salvo alcune limitate eccezioni, erano rientrati nella sfera d’influenza sovietica e quindi teoricamente più vicine ad una visione socialista della società) è però consistita nella orgogliosa visione di uno sviluppo non troppo dissimile da quello di stampo europeo ereditato dalla lunga fase colonialista. Per quanto caratterizzato da alcune simboliche nazionalizzazioni ed espropriazioni, così come da significativi miglioramenti in campo sociale, si è in effetti rivelato un movimento potenzialmente in grado di riequilibrare le relazioni economiche globali (anche se nel quadro bipolare globale il movimento dei “paesi non allineati”, nato per offrire una alternativa alla divisione in blocchi, non è mai stato in grado di creare relazioni economiche internazionali alternative) ciò nondimeno non poco indebolito dalle singole tensioni interne conseguenti alla nascita avvenuta pressochè ovunque di nuove strutture sociali non prive di accentuate disuguaglianze interne.

Pur tuttavia in questi due decenni il divario di reddito fra il Nord ed il Sud del mondo ha conosciuto, per la prima volta dopo secoli, una significativa riduzione: se nel 1960 il reddito medio USA era 13,6 volte più alto di quello dell’intera Asia orientale, alla fine degli anni Settanta si era ridotto a 10,1 volte, il 26% in meno, non diversamente quello fra USA e l’America Latina dell’11% e del 23% quello con Medio Oriente e Nord Africa.

Si trattava quindi di una situazione che sembrava andare proprio nella direzione ufficialmente auspicata nel 1960 dal Presidente USA Truman, eppure questa seppure parziale inversione di tendenza è stata, all’atto pratico, vissuta dall’Occidente ed in primis dagli USA, nella loro veste di nuovo gendarme del mondo,  come un fattore di rischio (investimenti bloccati o condizionati, dazi protezionistici delle nascenti produzioni locali, incertezze sul mercato delle materie prime) che è stato affrontato non soltanto con aggressive politiche commerciali, ma anche con il condizionamento del quadro politico interno dei paesi che sembravano più problematici, non di rado ricorrendo all’uso cinico di autentici colpi di stato.

i golpe più famosi di questo tipo sono avvenuti, a partire proprio dal 1960, in Iran (Mossadeq vsReza Pahlavi), in Guatemala (Arbenz vs Armas), in Brasile (Goulart vs Giunta militare), i vari tentativi falliti su Cuba, invasione diretta degli USA nella Repubblica Domenicana ed in Guatemala, in Indonesia (Suharto vs Sukarto), in Ghana (Nkrumah vs Giunta militare), in Congo (Lumumba vs Mobutu), in Uganda (Obote vs Idi Amin), e per finire quello, più direttamente connesso al nascente neoliberismo in Cile (Allende vs Pinochet)

Se è quindi vero, in sintesi, che l’ideologia dello sviluppo che ha ispirato il miracolo post coloniale non è stata esente da problematiche (la scarsa se non inesistente attenzione all’ambiente non dissimile da quella predatoria del colonialismo è una delle testimonianze più significative in questo senso), tali da indurre Raul Prebish (1901/1986, economista argentino, uno dei principali ispiratori del movimento di riscatto post coloniale) ad affermare che “pensavamo che la sola accelerazione del tasso di crescita avrebbe risolto tutti i problemi ma questo è stato un errore, il vero grande problema”, non è meno vero che anche solo la parziale e timida inversione di tendenza nel rapporto fra Nord e Sud del mondo è stata osteggiata in ogni modo dai paesi ricchi, quelli stessi che a parole si dichiaravano contro il sottosviluppo, anche ricorrendo alla più spietata violenza.

Per quanto di drammatico impatto sulle singole situazioni il ricorso ad interventi armati non ha tuttavia bloccato del tutto il percorso di affrancamento dei paesi del Sud del mondo (che ha trovato dal punto di vista politico istituzionale il suo apice nell’approvazione ONU di un “nuovo ordine economico internazionale” (Noei) che si proponeva di intervenire sulle cause strutturali della disuguaglianza fra aree del mondo)  ed inoltre si è comunque  intrinsecamente dimostrato una soluzione non sostenibile sul lungo periodo. Era diventata quindi necessaria una svolta capace di salvaguardare lo status quo da un cambiamento che minacciava di incrinarlo alle sue basi: la soluzione venne individuata nel 1975 nel corso di una riunione (presso il castello di Rambouillet in Francia) di quello che, pochi mesi dopo, sarebbe divenuto il G7 (il forum intergovernativo che raggruppa USA, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Giappone, Canada): il rapporto con i paesi sottosviluppati veniva strutturato su una più ampia e generosa elargizione di aiuti condizionati trasformati però nella formula di prestiti onerosi (una soluzione che, sul piano pratico, consentiva inoltre di dare sbocco alla enorme disponibilità di risorse finanziarie in petrodollari che si erano accumulate in quegli anni).

Nasce così il sistema di relazioni finanziarie fra Nord e Sud del mondo che, gestito nelle stanze decisionali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ha da subito rappresentato una potente leva per condizionare e forzatamente indirizzare le politiche economiche dei paesi poveri costretti ad usarlo per ottenere investimenti finalizzati allo sviluppo (e progressivamente sempre più indispensabili per coprire lo stesso crescente debito).

il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale (World Bank) nascono nell’ambito degli storici accordi di Bretton Woods del 1944 per costituire l’impalcatura istituzionale preposta alla gestione delle relazioni commerciali e finanziarie globali. Al loro interno si sono scontrate due opposte visioni: quella suggerita da Keynes di un fondo di cooperazione tra Stati e quella targata USA che immaginava un’autentica banca finanziaria. Le politiche di sostegno finanziario avviate nel 1975 hanno sancito la definitiva vittoria dell’idea USA

Nel giro di pochi anni il livello dell’indebitamento del Sud del mondo è salito vertiginosamente (già nel 1982 era quadruplicato rispetto al livello del 1975) ed in molti paesi in breve tempo il debito pubblico si è di fatto assestato al di sopra della metà del PIL, tant’è che non pochi paesi (fra i quali Messico, Brasile, Argentina) sono stati costretti a formale dichiarazione di insolvenza. Il sostegno FMI e Banca Mondiale è continuato ma a fronte dell’accettazione di pressanti “programmi di aggiustamento strutturale(di chiara impronta neoliberista fondati su: austerità, privatizzazione, liberalizzazione) ossia politiche economiche che di fatto rinunciavano a perseguire idee di sviluppo. Nel giro di pochi anni con la leva, apparentemente neutra del debito, il Nord del mondo ha ridimensionato le speranze di inversione di tendenza del Sud del mondo che si erano provvisoriamente aperte nei decenni precedenti.

Il vecchio colonialismo, morto all’indomani del secondo conflitto mondiale, lasciava il posto ad un nuovo colonialismo, meno sfacciato e violento, più raffinato e scientifico, ma altrettanto sbilanciato ed egemonico.

il tasso di crescita annuale del reddito medio pro-capite del Sud del mondo è così passato dal significativo 3,2% registrato nel periodo 50/70 al ben più modesto 0,7% degli anni 80/90.  Non deve quindi stupire che la curva della disuguaglianza fra aree del mondo (vedi grafico precedente) abbia conosciuto in questi anni una evidente accelerazione. Altrettanto significativa è la sorprendente crescita economica di alcuni paesi, appena prima ancora annoverabili fra quelli poveri (Cina, Turchia e le cosiddette tigri dell’Asia orientale: Hong Kong, Corea del Sud, Taiwan, Singapore) in grado, per differenti ragioni, di non ricorrere troppo pesantemente a finanziamenti esteri e liberi quindi di non applicare altrettanto rigorosamente le ricette neoliberiste

Nel solco delle politiche avviate e gestite sulla base di queste logiche da FMI e Banca Mondiale si è poi inserito un terzo decisivo protagonista: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), nata nel 1995 per sostituire il precedente accordo GATT (General Agreement Tarifs and Trade) del 1947 con lo scopo, ispirato da una visione apertamente neoliberista, di aprire l’intero mondo ai flussi di merci e capitali eliminando eventuali ostacoli nazionali al libero scambio globale.

Sul piano teorico il libero scambio è da sempre inteso come uno strumento che, nel gioco fra domanda ed offerta, dovrebbe meglio ottimizzare le specifiche peculiarità economiche e produttive, incentivando, non diversamente dalle singole imprese, anche i paesi che abbondano di manodopera a buon mercato a specializzarsi nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro e quelli che al contrario dispongono di abbondanti capitali a mirare ad attività ad alta intensità di capitale. La teoria del libero scambio puro era già stata a suo tempo smontata da Marx che aveva evidenziato come queste specializzazioni non potevano essere considerate naturali essendo il frutto di processi storici e politici di lungo periodo, non così facilmente modificabili e quindi tali da sfalsare queste stesse predisposizioni di partenza.

Più di cento anni dopo la critica di Marx trova ampia conferma nella reale applicazione del concetto di libero scambio da parte dell’Omc: i paesi del Sud del mondo, dopo secoli di colonizzazione, sono privi di autonome risorse di capitale e quindi obbligati a puntare su produzioni di basso valore destinate alle esportazioni, le quali però, in un mercato ormai globalizzato, sono rigidamente governate dalle logiche delle multinazionali che, cinicamente giocano proprio sulla concorrenza fra paesi poveri, spostando a seconda del minor costo del lavoro produzioni là dove di conseguenza i margini di profitto sono più alti.

In questo quadro (in netto contrasto con la sbandierata purezza teorica del mercato) le politiche messe in atto dall’OMC sono state sempre indirizzate ad eliminare le pur timide barriere e i modesti sostegni statali che i paesi poveri hanno timidamente tentato di adottare per resistere all’insostenibile impatto della concorrenza globale governata da tali logiche. Per converso si sono sempre dimostrate molto meno inflessibili nei confronti di quelle analoghe adottate dai paesi ricchi oltretutto applicate in modo decisamente sbilanciato a proprio favore. La concreta politica messa in atto dall’Omc si è sempre dimostrata a senso unico: dazi e quote di mercato protetto erano messi sotto accusa se adottati da paesi poveri per legittime esigenze di sopravvivenza e solo blandamente condannate se decise da paesi ricchi (tutt’al più la questione si è fatta complessa quando i contrasti sono sorti fra di loro)

un esempio emblematico è quello della produzione di cotone affidata dalle multinazionali in una prima fase a paesi subsahariani poveri come Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad (definiti non a caso i “quattro del cotone”) creando così un settore che è arrivato a contare più di dieci milioni di lavoratori e a costituire una decisiva fonte di ricchezza. Questi paesi sono stati spiazzati dalla decisione USA di sovvenzionare con sussidi la produzione interna di cotone, ma il loro ricorso all’Omc non ha sortito effetto perché le sanzioni che, teoricamente, potevano imporre agli USA, stante la loro debolezza contrattuale non sono state applicate

Le disparità di partenza di cui si è detto incidono poi in modo rilevante in un mercato globale sempre più tecnologizzato dove la disponibilità di risorse destinabili a ricerca ed innovazione  fanno la differenza. Ed anche in questo caso l’Omc gioca, in un quadro di base che già vede molto penalizzato il Sud del mondo, un ulteriore ruolo protettivo verso il Nord del mondo con l’adozione di provvedimenti, come il trattato TRIPs che fissa gli standard per la tutela della “proprietà intellettuale”, che hanno alzato, in clamorosa contraddizione con le vantate liberalizzazioni, la durata media di un brevetto a livello mondiale a ben 20 anni, costringendo così i paesi poveri, impossibilitati a perfezionarli in proprio, ad attendere decenni prima di usarli liberamente ovvero a pagarli ai prezzi imposti dalla convenienza dei paesi ricchi.

Altrettanto decisiva per l’imposizione forzata del “nuovo colonialismo” è inoltre la prassi di affiancare le già sbilanciate politiche dell’Omc con specifici accordi commerciali che fissano condizioni vincolanti per tutti i paesi più deboli, gioco forza costretti ad accettarli per non restare esclusi dai flussi di commercio internazionale, apertamente fissate a proprio vantaggio dai paesi più ricchi. Il più famoso è il NAFTA (accordo di libero scambio nordamericano fra USA, Canada e Messico) che ha letteralmente messo in ginocchio la produzione messicana di mais e che sta per essere ulteriormente esteso (trattato TPP) a Sud America e paesi dell’Oceano Pacifico (più controversa, perché è materia di scontro fra paesi ricchi, è l’adozione del trattato TTIP che dovrebbe disciplinare gli scambi commerciali fra USA e UE).

In questo quadro è poi forte l’incidenza di alcuni specifici fattori, fra i quali: la spaventosa evasione fiscale, spesso accompagnata da corruzione, delle multinazionali – il cosiddetto “deflusso illecito(nelle forme dell’ “hot money, spostamento incontrollato di risorse finanziarie, del “trade misinvoicing”, false fatturazioni, e del “transfer mispricing”, manipolazione dei prezzi) – paradisi fiscali accaparramento delle terre. Incide poi sempre di più l’impatto del cambiamento climatico e del degrado ambientale che, provocati in gran misura dai paesi ricchi, colpiscono di più quelli poveri)

Postfazione = Dall’insieme delle considerazioni fin qui raccolte emerge con forza la tesi che l’attuale, crescente, disuguaglianza fra aree del mondo sia ancora la diretta conseguenza del secolare colonialismo occidentale mai sottoposto a sincera autocritica e mai adeguatamente ripianato. Al contrario le logiche predatorie che lo hanno così a lungo ispirato sono proseguite anche nella nuova fase geo-politica globale, incautamente definita postcoloniale, seppure in mutate forme più congeniali al mercato ormai globalizzato. I coraggiosi tentativi di costruzione di nuovi equilibri avviati nel secondo dopoguerra da alcuni paesi del Sud del mondo sono stati molto spesso soffocati con la violenza delle armi e poi annullati dalla progressiva costruzione di un soffocante sistema di relazioni commerciali affidato ad istituzioni internazionali al servizio degli interessi del Nord del mondo. In questo contesto, non altrimenti definibile che “nuovo colonialismo”, anche le politiche di aiuto e sostegno ai cosiddetti paesi sottosviluppati altro non sono state che un ipocrito strumento di controllo e di imposizione di relazioni sbilanciate. Una reale correzione di rotta non è quindi all’orizzonte e potrebbe iniziare a manifestarsi soltanto se, in luogo di caritatevoli aiuti, il Nord del mondo attuasse alcuni fondamentali passaggi: cancellazione del debito dei paesi poverivera democratizzazione delle istituzioni di governance globale (FMI, Banca Mondiale, Omc)nuove più eque regole del commercio internazionale l’introduzione di una salario minimo globaleomogenee politiche fiscali per colpire evasione e occultamento di profittiblocco dell’accaparramento delle terre e restituzione di quelle già acquisite considerate inalienabile bene comune.

Un ultimo fondamentale passaggio consiste nella comune costruzione di un’idea di sviluppo non più basata sulla sola crescita economica, il pianeta Terra non può sostenere quella attuale a maggior ragione se, per quanto equamente, fatta propria anche dal Sud del mondo




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