Il “Saggio” del mese
MARZO 2025
Il filo conduttore degli incontri
previsti nel nostro programma 2024/2025 è stato il tema dell’uguaglianza,
affrontato riflettendo sulle varie forme che attualmente nella nostra società
assume il suo opposto. Sono infatti molti gli ambiti collettivi in cui la
disuguaglianza può manifestarsi assumendo aspetti specifici che interessano di
volta in volta determinati gruppi sociali, creando così un quadro complessivo
molto articolato. L’obiettivo di una maggiore uguaglianza deve di conseguenza
essere declinato in modo mirato ad ogni singolo contesto ed ai soggetti che, di
volta in volta, ne sono coinvolti. Un passaggio indispensabile che deve fare i
conti con la frantumazione del corpo sociale ormai tipica dell’attuale contesto
storico. Il Saggio di questo mese offre, in stretta relazione con il tema della
disuguaglianza, una riflessione proprio su questa frantumazione recuperando un
concetto che, dopo aver caratterizzato la contesa politica dei due secoli
precedenti, erroneamente è sembrato essere divenuto obsoleto: quello di “classe sociale”.
l’autore è Pier Giorgio Ardeni (professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo presso l’Università di Bologna. A lungo presidente della Fondazione di ricerca Istituto C. Cattaneo, è autore di diversi volumi e pubblicazioni su giornali e riviste (Il Manifesto, Domani, Il Ponte, Left)
Le attuali disuguaglianze, di
reddito, consumi, stili di vita, quanto sono legate alla classe sociale? di
quali classi possiamo parlare oggi? come le definiamo? quanto sono fra lo loro
collegabili e davvero collegati gruppi sociali, ceti, fasce di reddito e
classi? quale corrispondenza esiste oggi tra l’appartenenza ad una classe o ad un
gruppo e le preferenze politiche? ovvero sono i partiti espressione di classi o
ceti?
Sono le domande che danno avvio al
saggio le cui risposte occupano la sua parte centrale (quella sulla quale di più
concentreremo la nostra attenzione)
dedicata ad una dettagliata analisi dell’attuale struttura del corpo sociale
italiano, preceduta dalla sintetica ricostruzione del dibattito concettuale e
analitico sull’evoluzione delle forme del corpo sociale. Questa nostra sintesi
prende le mosse da qui per recuperare, seppure a grandi linee, teorie sociali,
definizioni, aspetti qualitativi e quantitativi, indispensabili per meglio
comprendere il tema.
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L’idea
di classe si afferma nel pensiero europeo solamente con l’avvento del
capitalismo, in precedenza la ridotta stratificazione sociale era descritta
limitandola alla ripartizione tra tre cosiddetti “stati”: quello nobiliare, quello
ecclesiastico (non
di rado tra loro intrecciati) e un indistinto terzo stato
che raggruppava tutti coloro che semplicemente non appartenevano ai primi due (accorpando quindi figure sociali molto
differenziate).
La “Prima rivoluzione
industriale” (quella
che interessa soprattutto i settori tessile, metallurgico e dei trasporti,
grazie alla tecnologia delle macchine a vapore)
segna
la nascita del capitalismo e l’avvio di uno sconvolgente cambiamento, che vede
irrompere sulla scena sociale nuovi protagonisti, tale da imporre una diversa classificazione
delle figure sociali. Il primo a proporla in modo organico è sicuramente Karl Marx (1818/1883) che
utilizza, in connessione con la sua idea della centralità della struttura economica (i modi di produzione della ricchezza) e
dei suoi “rapporti
di produzione” (la
fonte del reddito) l’inedito termine/concetto di “classe” per
definire le varie parti del “corpo sociale” suddivise in: redditieri (in
gran misura nobiliari), i proprietari delle terre – capitalisti
(la borghesia) i
proprietari delle imprese, dei macchinari, del lavoro salariato (in questa classe era inglobata anche
la piccola borghesia, ossia professionisti e piccoli produttori proprietari dei
mezzi di produzione, ma non di lavoro salariato) - lavoratori,
i proprietari unicamente della propria forza lavoro.
La
visione marxista si impone da subito in ambito culturale e politico come quella
di riferimento (il
moderno sistema dei partiti che, con il progressivo ampliamento del diritto di
voto si viene definendo a cavallo di Ottocento e Novecento, mira di fatto a
rappresentare gli interessi di queste contrapposte classi) ed
in particolare rappresenta, con la sua concezione del ruolo della “coscienza di classe”
(la matura consapevolezza del
proletariato di una sua specifica appartenenza sociale),
il collante fondamentale per la nascita dei movimenti di lotta (partiti, sindacati, movimenti) per
i diritti della classe dei lavoratori.
La
propensione capitalistica al costante perfezionamento dei modi di produzione e
di ampliamento del mercato impone però, già ad inizio Novecento, la necessità
di comprendere le ricadute sul piano sociale di alcuni intervenuti cambiamenti,
in particolare il congiunto realizzarsi di tre processi di scomposizione: quella del capitale fra proprietà e gestione
(alla figura del
proprietario sempre più si affiancano infatti quelle di manager, dirigenti e responsabili di alto livello nel
ciclo produttivo, a formare un nuovo distinto gruppo sociale) – quella del lavoro salariato (determinata
dalla crescente specializzazione di mansioni, ruoli e professioni) – quella più generale
del mondo del lavoro con la nascita dell’inedito “ceto medio”
(un insieme, di evidente
consistenza numerica per quanto ancora non ben definito nei suoi contorni, di variegate
figure sociali, professionisti
autonomi, lavoro impiegatizio di alto/medio livello nell’industria, nei
servizi, nella pubblica amministrazione).
E’
questo il quadro sociale che si realizza nella “seconda rivoluzione industriale” (quella segnata dall’avvento
dell’energia elettrica e del motore a scoppio, con la nascita di tutti i
moderni settori produttivi) rispetto al quale la visione marxista
della divisione in classi (che
pur rimane saldamente centrale a sinistra) si rivela in una
certa misura eccessivamente schematica ed inadeguata, da sola, a cogliere il
nuovo che avanza.
Ed
è proprio in questo solco che si colloca un’altra grande figura di studioso
sociale (borghese, ma non
conservatore) che saprà segnare, con Marx, l’intero
Novecento: Max
Weber (1864/1920).
La
sua idea di struttura sociale non è in così netta contrapposizione con l’idea
marxista di classe, che viene anzi ripresa anche se limitata al campo strettamente economico/produttivo
(in sostanza alla dimensione
del reddito, alla sua formazione ed alla sua ripartizione), è
infatti sua convinzione che il corpo sociale nel suo insieme sia ormai attraversato
anche da un’altra determinante divisione: quella dello “status sociale”.
Agli
interessi di classe legati ai rapporti di lavoro, che pur rimangono, se ne sono
ormai aggiunti a suo avviso altri determinati da fattori come lo stile di vita, il prestigio, l’idea
di sé, il rango percepito, solo in
parte collegabili alla ricchezza ed al reddito, che evidenziano un così forte legame con
l’individuale “ruolo”, ossia la “funzione” svolta dall’individuo all’interno della sua classe, da creare nuove
non trascurabili articolazioni sociali. Per Weber non meno determinanti sono poi,
in una scena politica ormai fortemente segnata dal ruolo di partiti ed
istituzioni, i “rapporti
di potere” che si creano tra l’individuo ed i suoi gruppi di
riferimento, che possono aggiungere un ulteriore valore a funzione, ruolo,
rango e status posseduti (sono
in particolare le caratteristiche di quello che viene a definirsi come “ceto politico” in senso ampio e della sua capacità di rappresentanza).
Al
di là delle evidenti relazioni e contrapposizioni, il corpo congiunto delle
elaborazioni di Marx e Weber è così organicamente definito da indirizzare, il
primo nel campo largo della sinistra ed il secondo in quello liberale, tutte le
analisi e gli studi in campo sociale fissando, almeno fino al secondo
dopoguerra, le figure e le strutture che compongono l’intero quadro della
struttura sociale.
Ancora
una volta però intervengono mutazioni dell’assetto capitalistico, persino più
radicali di quelle precedenti, così profonde da rimettere in discussione tali
acquisite convinzioni.
Sull’onda
lunga dei cambiamenti già avvenuti negli USA anche la struttura economica e
produttiva europea conosce, a partire dagli anni Cinquanta/Sessanta, la
radicale trasformazione della “terza rivoluzione industriale” (ruolo
crescente della tecnologia applicata, in particolare quella elettronica,
aereospaziale, energetica ed informatica) alla base della
sconvolgente evoluzione del mercato dei beni di consumo di massa.
L’analisi
sociologico-economica e la stessa politica sono nuovamente chiamate a
comprendere una struttura sociale sempre più radicalmente diversa da quella
appena precedente.
La sinistra
lo fa restando comunque ben impiantata sulla visione marxista che rielabora,
inglobando le nuove figure sociali apparse sulla mutata scena economica e
produttiva, in un impianto che ancora tutte le accomuna in una sola classe,
anche se più allargata, sempre definita dalla “fonte salariale del reddito”. L’area liberale
al contrario, restando comunque non meno fedele all’impronta weberiana, ingloba
queste nuove più variegate figure (sempre
definite come ceti, gruppi, settori e professioni) all’interno
di una più articolata “relazione tra reddito e concorrenzialità nel nuovo mercato del lavoro”,
in cui diventano determinanti i livelli di istruzione e qualificazione e le individuali
capacità concorrenziali nel mutato mercato del lavoro.
Per
quanto mosse da prospettive differenti le due visioni trovano un elemento
comune destinato ad essere una chiave di lettura fondamentale: la stratificazione
sociale, intesa, con diverse accentuazioni, come fenomeno che si manifesta su
tre livelli fra di loro collegati: quello economico (che, inglobando ricchezza e reddito,
definisce una appartenenza di classe) – quello culturale (che, riguardando istruzione, ambienti
frequentati, propensioni intellettuali e stili di vita, specifica l’inclusione in un ceto) – quello politico (che,
essendo costituito dal diverso accesso alle risorse distribuite dal sistema
sulla base delle relazioni di potere che lo formano, fornisce indicazioni sul ruolo sociale).
L’insieme
di questi intrecci arricchisce e completa la semplice appartenenza di classe (per cui, ad esempio, a parità di
reddito un lavoratore autonomo non è uguale ad uno dipendente, un imprenditore
da un commerciante, un addetto ai servizi da un dipendente pubblico).
La
stratificazione, caratteristica di base di una situazione sociale sempre più dinamica,
implica poi un secondo fondamentale aspetto: la mobilità sociale, ovvero la possibilità
di muoversi, in alto o in basso, all’interno di questi tre livelli (nelle diverse forme di mobilità orizzontale, tra settori ma non da classe/ceto ad un altro,
e mobilità verticale, vero passaggio di classe o
ceto).
Un aspetto che, valutato su tempi
lunghi, ha evidenziato una relazione diretta con la
propensione al conflitto sociale perché
l’impossibilità di cambiare la situazione data (mobilità
sociale nulla) accentua di molto l’insopportabilità di una struttura di classe, se al contrario un certo qual grado di mobilità
sociale è possibile anche una struttura fortemente divaricata è
maggiormente tollerata.
Questo
importante fattore è stato comprensibilmente meglio compreso e valorizzato
dalla visione weberiana rispetto a quella marxista che, troppo schiacciata
sulla divisione tra sfruttatori e sfruttati (per quanto pur sempre rilevante),
ha di fatto a lungo sottovalutato la diversificazione dei movimenti sociali consentita dai
cambiamenti tecnologici (che
hanno creato più e più diversificate professioni, più prodotti e beni di
consumo e quindi differenziati stili di vita, più mobilità territoriale ed anche
più trasversali relazioni sociali).
La
crescente importanza assunta dalla stratificazione e dalla mobilità è stata poi
rafforzata da altre chiavi di lettura quali quella della divisione tra lavoro manuale e
lavoro intellettuale (colletti
blu e colletti bianchi) connessa ai fenomeni della borghesizzazione
e della opposta proletarizzazione (tutti
aspetti strettamente connessi allo status reale e percepito), e
quella tra “chi
comanda” e “chi è comandato” (teoria
funzionalistica).
Altri
fenomeni, che appaiono più evidenti e compiuti a cavallo degli anni Ottanta/Novanta,
accentuano questa nuova percezione della struttura sociale: l’ampliamento dei
confini del mercato (con
il progressivo azzeramento di quelli nazionali, più rigidi e praticabili) la
sensazione (peraltro ancora
oggetto di dibattito) di essere entrati in una fase post-industriale (con
l’avvento di un’economia sempre più smaterializzata, più mirata alla finanza ed
ai servizi, la cosiddetta terziarizzazione),
l’impressionante ruolo assunto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (con la collegata esplosione del WEB e
dei social) si rivelano processi
che sembrano contribuire in modo rilevante al superamento delle classiche appartenenze sociali con la
creazione di una rete, di difficile e incerta individuazione e classificazione,
di nuove figure sociali per quanto labili, temporanee, isolate.
La
risultante di tutti questi possibili incroci è inevitabilmente consistita nel
maggiore rilievo assunto dall’idea di una stratificazione sociale fluida (liquida nella lettura di Zygmunt Bauman) e trasversale rispetto alla classica
suddivisione in classi.
Questa
è perlomeno la suggestione, sollecitata da influenze ideologiche neoliberiste (le quali pongono l’individuo al centro
di ogni costrutto relazionale, fino a negare la stessa
esistenza della società in quanto tale),
che si è affermata, verso la fine del secolo scorso, nel mondo della
comunicazione, nel discorso pubblico, in ambito politico, nei quali la stessa parola
“classe” è di fatto sparita da ogni dibattito sul tema.
Ciò
non è però successo nel campo degli studi sociali che conservando, seppure su
nuove più articolate basi, la distinzione fra approccio weberiano e marxista,
hanno mantenuto molto delle precedenti chiavi di lettura. In aggiunta a quelle
usate dal già citato Zygmunt Bauman (1925/2017) le analisi di importanti studiosi quali Ralf Dahrendorf (1929/2009), Anthony Giddens (1938), John Goldthorpe (1935,
autore di un sistema classificatorio della struttura sociale basato su tre
classi, sei sotto-classi e dodici posizioni/funzioni, ufficialmente recepito
poi dalla stessa UE con l’adozione dello schema ESEC-European
Socio Economic Classification) costituiscono una base
molto articolata che mira a conciliare le basi teoriche sia marxiste che weberiane con le oggettive
trasformazioni avvenute in campo sociale.
Ma
è proprio in Italia che si può cogliere una raffinata evoluzione degli studi
sociali che coinvolgono un ampio numero di studiosi che muovendosi, ognuno con
le proprie accentuazioni, formano un corpus teorico ed analitico di grande
rilievo. Fra gli altri compaiono i nomi di Luciano Gallino (1927/2015,
intellettuale a tutto campo, di lui è bene ricordare il saggio “La lotta di classe dopo la lotta di classe” del 2012), Massimo Paci (1936,
autore di numerosi saggi fra cui “Mercato del lavoro e
classi sociali”), Arnaldo Bagnasco (1939, “La
questione del ceto medio”), Alessandro Pizzorno (1924/2019,
“Le classi sociali”), Antonio Schizzerotto (1944,
ha pubblicato numerosi testi sul tema della stratificazione e della mobilità
sociale).
Ma
il nome che più si lega agli studi della struttura sociale è quello di Paolo Sylos Labini (1920/2015),
il suo testo del 1974 “Saggio sulle classi sociali” ancora oggi è di fondamentale
importanza. Lo è perché dal punto di vista storico è una nitida ricostruzione delle
classi sociali in Italia dal 1861, perché è stato concepito per essere
costantemente aggiornato nei decenni successivi (sulla
base dell’impostazione adottata in questo saggio del 1974 è stata puntualmente
aggiornata, prima dallo stesso Sylos Labini e poi da altri, Ardeni compreso, la fotografia della
composizione sociale italiana ad ogni decennale censimento, l’ultima fotografia
è stata pubblicata nel 2023 e riporta i dati del censimento del 2021),
ma lo è soprattutto perché ha segnato una netta svolta metodologica nell’analisi della struttura sociale.
Quello
che fino a quel momento era stato un dibattito puramente concettuale esce dal campo della
discussione teorica “alta” per entrare in quello, “basso”, della ricerca
empirica sulla reale consistenza
delle figure sociali. L’assunto di partenza è chiaro: per dare sostanza alle ipotesi concettuali è
necessario capire se i reali numeri della popolazione le confortano, e sono
sempre i numeri che possono testimoniare ogni eventuale cambiamento.
Sylos Labini lavora quindi sui numeri ponendoli in relazione ad una
suddivisione sociale di chiara derivazione marxista (ma
completata da indicatori di natura weberiana), le
cui tre tradizionali classi e i sottogruppi che le compongono sono determinati
da reddito e ricchezza posseduti, profilo professionale ed istruzione
schema usato da Sylos Labini
Borghesia:
Proprietari,
Imprenditori, Dirigenti
Professionisti
(alto livello)
Classi medie:
Piccola
borghesia impiegatizia:
Impiegati
privati
Impiegati
pubblici
Insegnanti
Sanità
e servizi sociali
Piccola
borghesia autonoma:
Coltivatori
diretti
Artigiani
Commercianti
Trasporti
e altri servizi
Classe operaia:
Salariati
agricoli
Salariati
industria
Salariati
edilizia
Salariati
commercio
Salariati
trasporti e altri servizi
Salariati
domestici
Appare
evidente l’ispirazione marxista così come una certa difficoltà di inserimento
delle figure sociali e professionali di recente nascita (ad esempio quelle connesse alle nuove
tecnologie, all’attuale economia del turismo e del divertimento) ma
lo spaccato sociale che emerge dalla sua applicazione mantiene intatta la sua
valenza.
E’
interessante il confronto con lo schema, di chiara ispirazione weberiana,
utilizzato nel Regno Unito nel 2011, il Great Britain Class Survey, per fotografare attraverso un
sondaggio la struttura sociale inglese del tempo. A differenza di quello di
Sylos Labini, non è basato solo sui tre fondamentali parametri del
reddito/ricchezza-professione-istruzione ma prende in considerazione molti
altri aspetti (stili
di vita, età propensioni culturali, etnia) che completano gli
elementi per una aggiornata classificazione sociale suddivisa in sette
categorie
al primo gradino = il proletariato precario
al secondo = i
lavoratori dei servizi emergenti
al terzo = la
classe operaia tradizionale
al quarto = i nuovi
lavoratori abbienti
al quinto = la classe
media tecnica
al sesto = la
classe media affermata
al gradino di vertice = l’élite
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Ambedue questi schemi, che
in qualche modo sintetizzano l’articolato percorso degli studi e delle analisi
sulla struttura sociale delle moderne società capitalistiche fin qui visto,
confermano, sia partendo da un approccio marxista che da uno weberiano, la
persistenza di una sua suddivisione per classi. La classi quindi ancora esistono nell’ambito degli
studi sociali semplicemente perché ancora esistono, al di là di una loro
differente articolazione, nella realtà. Certo non sono più quelle di
un tempo perché non corrispondono più, come a lungo è stato, semplicemente a
fasce di reddito e a categorie occupazionali (e
di questo era ben consapevole lo stesso Sylos Labini, convinto però che ancora
fossero indispensabili per classificare la struttura sociale) perché
progressivamente hanno iniziato a contemplare anche altri vantaggi e svantaggi (status, relazioni sociali, contenuti
culturali, stili di vita). La classe inoltre comporta, anche se
vissuta in modo non consapevole, una sua valenza simbolica, incide cioè su
molti aspetti del vivere quotidiano: il modo di parlare, di vestirsi, di
mangiare, di stare insieme. Ed anche queste manifestazioni sono una vivida testimonianza del suo
permanere ed al tempo stesso del suo diverso
esprimersi.
Se le classi dunque ancora
esistono ma non sono più quelle di un tempo, cosa sono diventate? come ed in
cosa sono cambiate? è possibile ridisegnare una geografia delle classi? Gli elementi
che l’hanno sin qui costituita sono così
riassumbili: raggruppamenti
sociali di individui accomunati dalla medesima condizione lavorativa e
occupazionale definita dai rapporti di produzione capitalistica
(Marx) a cui si
aggiungono lo status ed una comunanza di destino sociale (Weber), soggetti agli stessi rapporti di potere politico (Dahrendorf), che condividono in buona misura istruzione e conoscenze
(Giddens) e
che sulla base di tutto questo definiscono formazioni sociali (Gallino) che danno un senso collettivo alla loro identità sociale.
Ed è forse proprio questo
l’aspetto che meglio può aiutare a ridisegnare la geografia delle classi,
perché queste, pur conservando la loro valenza identitaria, si sono parcellizzate,
atomizzate, i cambiamenti radicali che hanno portato all’avvento del
capitalismo consumistico e tecnologizzato hanno accentuato come mai in
precedenza una
ibrida identità individualizzata di classe: oggi lo stesso individuo può
riassumere in sé molteplici tratti sociali.
Da un punto di vista
classificatorio resta possibile mantenere un certo qual grado di aggregazione,
la classe operaia ad esempio ancora definisce, per quanto ormai frastagliati in
mille figure professionali, lavoratori salariati alle dipendenze di altri perché
privi di mezzi di produzione. Ma a questa base comune, che da sola non
definisce più l’identità sociale del singolo, vanno aggiunti altri tratti solo
più in parte dati dalla dimensione del lavoro. Si può cioè essere in una o in un’altra classe “a
parità di professione e reddito”.
Vanno riletti in questa
ottica i due fenomeni che più hanno segnato, nei primi decenni del secondo
dopoguerra, la trasformazione della struttura sociale: l’allargamento della classe media e la mobilità
sociale.
Ambedue questi processi
hanno, a cavallo del cambio di secolo, subito un primo rallentamento e poi un
sostanziale arresto, il cui effetto è consistito nell’impressionante
allargamento della disuguaglianza fra chi sta più in alto e chi sta più in
basso accompagnato però anche da un rilevante impoverimento di chi, dal punto
di vista del reddito, sta in mezzo che ha interessato molte delle figure
sociali che erano sin lì rientrate nell’ampia classe media. La fine della
mobilità poi, con buona pace di chi aveva annunciato la scomparsa della classe operaia ed il trionfo della
classe media, ha reso nuovamente rigidi i confini fra classi appena in
precedenza diventati più porosi. E sono sempre queste due le classi su cui concentrare lo sguardo per
tentare di ridisegnare la geografia sociale nel suo complesso.
Con il definitivo passaggio
ad una economia post-industriale, con la fine della lunga fase
fordista-taylorista e con l’avvento della robotica, si completa la radicale
trasformazione dei modi di produrre e di lavorare. I numeri della classe
operaia tradizionale subiscono un calo notevolissimo compensati però da un
aumento non meno rilevante dell’occupazione nel settore terziario in cui a ben
vedere viene applicato, seppure con tempistiche storiche ritardate, un modello
lavorativo di stampo fordista (si
pensi ad esempio alla grande distribuzione, alla logistica e trasporti)
con prestazioni “povere”
a contenuto ripetitivo. Il quadro entro cui queste trasformazioni
trovano luogo è quello dell’affermazione di quella che è stata definita “economia posizionale”,
ovvero un modello economico in cui nel caratterizzare una posizione sociale i beni materiali di
consumo hanno lasciato il posto a quelli più immateriali. La ricaduta sul
mercato del lavoro è consistita nella crescente “segmentazione” delle professioni fra “lavori standard”
(quelli tradizionali, meglio contrattualizzati e più
stabili) e “lavori non standard” (spesso
precari, a tempo parziale, meno tutelati e meno retribuiti).
La precarietà è di fatto divenuta una
condizione strutturale, una vera condizione di classe (non a caso individuata
come tale dal Great Britain class survey al gradino più basso) con dimensioni
ormai ragguardevoli: i precari con contratti atipici sono più di un quarto del
totale dipendenti nella UE, in Italia valgono qualcosa come 2,5 milioni di
lavoratori. Fra questi precari quelli autonomi (i costretti alla Partita IVA)
valgono il 14% dei lavoratori autonomi senza dipendenti
Nei confini ampi che
contengono la proletaria condizione del lavoro precario (che riguardano l’economia materiale e
quella immateriale del terziario) rientrano quindi professioni della classe operaia ma
anche della classe medio bassa impiegatizia. La loro comune “condizione di classe”
è però vissuta con una diversa “coscienza di classe”, per i lavoratori “standard” ha spesso
implicato una chiusura su sé stessi in difesa (sempre
più difficile) dei propri vantaggi acquisiti, per quelli
“non standard” invece non è stato fin qui nemmeno possibile vivere la propria
condizione, troppo individualizzata, in termini di classe (una differenza che separa anche lavoratori garantiti da quelli non garantiti).
La classe operaia non è
sparita, non si è dissolta, per quanto sia diminuita la sua componente più classica,
è anzi cresciuta se si considerano i lavoratori non industriali non standard e
non garantiti (sono
operai a tutti gli effetti i lavoratori nel terziario della manutenzione,
distribuzione, ristorazione collettiva, pulizie, a formare quella che viene
definita “la classe operaia nascosta”) ed
in più condividono una identica disagiata condizione sociale di disuguaglianza,
una vasta gamma di nuove professionalità (per
certi versi ancora classificabili come classe media ancorché così bassa da
essersi ormai proletarizzata).
Si entra così, passando dal
suo gradino più basso, nell’ampio e diversificato mondo della classe media, non
meno colpita, seppure con modi e percorsi diversi, dalla de-industrializzazione
di fine Novecento dopo che, a cavallo degli anni Settanta/Ottanta, era assurta,
sia in termini numerici che in quota percentuale della distribuzione del
reddito, a valere più della metà dei due totali (sono
gli anni del “grande imborghesimento” di P.P.
Pasolini e della “cetomedizzazione della società” del
Censis di De Rita, che pure evidenziava la mancata acquisizione di una vera e
propria “cultura borghese”).
Già a partire dagli anni Novanta ed in successiva accentuazione, con la
mobilità verso l’alto che si ferma, il ceto medio non smette di crescere
numericamente ma al tempo stesso si impoverisce.
Nel campo dell’analisi sociologica si
distingue la ricerca di Arnaldo Bagnasco condensata nel suo saggio “La questione del ceto medio”. Bagnasco evidenzia in particolare una
confusione di fondo: si parla indistintamente di “classi
medie” e di “ceto medio”, un plurale ed un
singolare che non aiutano a capire chi davvero sta al centro della
stratificazione (negli USA si parla unicamente di “middle
class”). Il ceto medio, che definisce uno status sociale, dipende oltre
che dal reddito da un insieme di fattori riconducibili ad una condizione
sociale, può pertanto contenere al suo interno diverse classi medie. A seconda
del tema affrontato è quindi opportuno usare uno o le altre.
E’ una distinzione utile
per meglio capire le ricadute che la diversa economia globalizzata e
tecnologizzata ha avuto sul ceto medio, sia in ambito pubblico, sia privato,
che sulla base della precedente euforica crescita, si era auto-illuso di essere
una sorta di “ceto
protetto”. E’ soprattutto la grande recessione del 2008 a segnare la fine di
questa illusione, le classi medie si dividono lungo una linea di
fraglia che da una parte vede quelle del ceto medio superiore che (sfruttando una serie di fattori economici
ma anche di maggiore tutela politica) mantengono intatte, semmai
accentuandole, le proprie condizioni di reddito e ricchezza, dall’altra invece
quelle del ceto medio basso che risentono, forse persino più della classe
operaia, gli effetti negativi delle trasformazioni della struttura economica e
produttiva “senza più Stato”.
La situazione delle classi medie si
inserisce nel più ampio quadro di una stratificazione sociale bloccata a causa
della sostanziale fine della mobilità verso l’alto che però qui si evidenzia in
modo particolare per i ceti medio bassi, proprio quelli che fin qui avevano
goduto delle più ampie possibilità di salita. I ceti medio alti si sono chiusi
divenendo di fatto irraggiungibili, salvo casi sporadici ed eccezionali, e
lasciano spazio solo più alla mobilità intergenerazionale interna
La piccola borghesia
autonoma, quella impiegatizia, quella dei tecnici professionisti, quella dei
lavoratori qualificati, non avanzano più né sul piano del reddito nè su quello
dello status, e
così una parte significativa delle classi medie di fatto si proletarizza.
E’ leggermente più stabile, rispetto al
reddito, la quota di ricchezza in possesso a queste classi (valutata attorno al
15% della ricchezza nazionale), ma muta radicalmente la fonte: nella
generazione precedente era in gran parte frutto di accumulo risparmio,
attualmente, dopo la svolta di inizio millennio, è divenuta quasi
esclusivamente frutto di eredità
La fine dell’illusione di
essere in qualche modo “ceto protetto” fa il paio con quella del mito
neoliberista del “trickle down”, l’idea che se si aiutano i ricchi ad esserlo
ancora di più a ricaduta possono stare meglio anche le classi inferiori, la realtà dimostra che
così facendo cresce soltanto la disuguaglianza.
Eppure, per quanto clamorosamente
smentita resiste ancora, soprattutto nel dibattito politico, la concezione
ideologica neo-liberista di una società in cui tutti sono “middle class”,
in cui ogni individuo può giocare il suo capitale umano per la migliore
affermazione sociale che dipenderà unicamente dal suo valore e dalle sue
motivazioni. Questa idea di middle class (per
quanto ormai classificabile come autentico mito),
intesa come un insieme indistinto di autodeterminazioni individuali, sembra
essere così permeata nel comune sentire da rappresentare, a dispetto delle
evidenze opposte, un pesante ostacolo a ciò che il termine classe, in tutte le sue
declinazioni, ha sempre indicato: una comunità di interessi. E qui
si ferma l’analisi della struttura di classe ed entra in gioco la “politica”.
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in quest’ultima parte del suo saggio
Ardeni propone alcune considerazioni sulla capacità del quadro politico
italiano di rappresentare l’attuale struttura sociale e le classi sociali che
la compongono. Per farlo ripercorre a grandi linee (qui ancor più sintetizzate)
l’evoluzione storica del collegamento fra quadro politico e strati sociali avvenuta
nel secondo dopoguerra
Non diversamente dal resto
dell’Europa il quadro politico italiano novecentesco si è da subito strutturato
come forma di rappresentanza delle diverse componenti sociali, il conflitto sociale
dei paesi capitalistici industriali a democrazia rappresentativa ha cioè dato
espressione ad un correlato scontro politico tra partiti che rappresentavano istanze
sociali antagoniste. Con l’ovvia eccezione del ventennio fascista
così è stato fino agli ultimi decenni del secolo scorso, un lungo percorso in
cui, a fronte di una stratificazione sociale relativamente bloccata,
altrettanto stabile si è mantenuto, pur nel fisiologico variare delle sigle, il
quadro politico. Nel secondo dopoguerra la riconquistata democrazia ha
mantenuto questa caratteristica articolandosi in un sostanziale bipolarismo (parzialmente integrato da partiti
satelliti minori) che ha visto da una parte il grosso della classe
operaia avere come partito di rappresentanza il PCI e dall’altra la DC, aiutata
dall’identificazione religiosa, a rappresentare i ceti medio bassi, i contadini
medi e piccoli, e le classi medie e medio-alte.
E’ una situazione che resta
stabile (per alcuni versi
anche forzatamente stante la divisione geopolitica nei due blocchi)
fino agli anni Settanta, perché ancora parziali e timidi sono i primi cambiamenti
nella struttura sociale, allorquando la centralità operaia raggiunge il suo culmine
(non a caso il PCI ottiene
il massimo del suo consenso nelle elezioni del 1975 e 1976).
Sono gli anni Ottanta, con le prime trasformazioni della struttura sociale che
si fa più frastagliata (perde
peso la cultura operaia con il calare della sua consistenza e si fa più
consistente quello delle aspettative di avanzamento delle classi medie in
costante espansione), in relazione alle correlate variazioni nel
quadro politico: il
sostanziale bipolarismo vacilla (sono gli anni del Pentapartito e del
progressivo allontanamento del PCI dall’esperienza sovietica) proprio perché più articolate sono anche le esigenze di rappresentanza
espresse da una società in evidente trasformazione.
Gli anni Novanta si aprono
con cambiamenti epocali: la fine dell’URSS e del mondo diviso in due blocchi, la
globalizzazione neoliberista, l’Europa di Maastricht, Tangentopoli, segnano il
capolinea della Prima Repubblica con la frantumazione dei due partiti che
l’hanno contraddistinta. Ma sta cambiando, ed in fretta, anche la società italiana: la
breve stagione della mobilità sociale verso l’alto è già finita, i ceti medio
alti si chiudono a salvaguardare i propri interessi, la classe operaia gioca ormai
in una stentata difesa, i ceti medio bassi, sempre più frazionati in molteplici
figure, sentono girare il vento.
E’ in questo contesto che
nasce, con una moderna veste mediatica, Forza Italia di Berlusconi che,
raccogliendo il testimone della DC ed anche quello del defunto PSI, fa inaspettata incetta
dei consensi del ceto medio nella sua estensione più ampia (quindi
comprensivi anche dello strato alto della classe operaia),
spartendo al più quelli localistici della Lega Nord e quelli nostalgici degli
eredi dell’MSI.
E’ un quadro politico
frazionato ed in continua evoluzione nel quale gli eredi della sinistra storica
fanno evidente fatica a ricostruire, scontando la perdita di centralità della
classe operaia, una relazione di rappresentanza sociale ampia, le politiche di
PDS/DS/PD, in sintonia con l’idea di “siamo tutti classe media” di blairiana memoria spostano sempre più le
proposte politiche dal conflitto distributivo a quello delle opportunità (raccogliendo
in effetti i consensi di buona parte dei cedi medi garantiti).
Il
primo decennio del nuovo secolo scivola via senza che nessuna delle componenti politiche riesca a
consolidare un livello sufficientemente stabile e vincente (gli
spostamenti dei voti si fanno molto marcati da una elezione all’altra) tale da consentire un
minimo di politiche di lungo respiro. Nel mentre l’economia italiana
dimostra di non riuscire più ad uscire da una crisi strisciante di perdita di
produttività fatta di bassi tassi di crescita (e
con la pesantissima incidenza del debito pubblico) gli
oggettivi e non superabili limiti del quadro spiegano il ricorso (per certi versi inevitabile ancorchè
imposto dalla UE) ai cosiddetti governi tecnici. Ma
soprattutto, mentre il quadro sociale entra in evidente sofferenza, in tale
stato di cose si innescano due fenomeni che a partire dal secondo decennio sconvolgeranno
la scena politica italiana (così
come quella europea): astensionismo (nostra recente Parola del
mese di Gennaio 2025 che analizza la sue forme e le sue variegate motivazioni) e populismo (tema
quanto mai complesso, Ardeni si limita a registrare la sua crescita rispetto al
corpo sociale).
I due fenomeni si
intrecciano nelle elezioni del 2013, con il primo sostanzioso calo dei votanti (al 75,2%, meno 5,3% rispetto al 2008) e
con la prima affermazione del M5s, per poi esplodere nella loro piena portata
in quelle successive del 2018 (con
l’astensionismo che sale ulteriormente, vota il 72,9%) con
la clamorosa vittoria del M5s e l’ottimo risultato della Lega nella sua nuova
veste di partito personale nazionale. Il governo giallo-verde mette insieme
capra e cavoli seppure di identica ispirazione populista anti casta, le
rispettive basi sociali sono infatti davvero molto, troppo, differenziate (il primo ottiene voti nelle cinture
urbane, nel voto giovanile e adulto dei ceti medi impiegatizi, e soprattutto
nel voto del ceto medio e medio basso e nelle crescenti aree di marginalizzazione
dei ceti più bassi specie al Sud, la seconda mantiene i voti delle classi medie
e medio alte del Nord, compresa la working class più garantita, ai quali
aggiunge inaspettati consensi nelle stesse fasce di disagio meridionale) ed
inevitabilmente cade dopo poco.
A ben guardare anche quello del 2018 è un voto di classe anche se determinato
da nuove linee di divisione sociale (come è di classe anche il consenso, in
forte calo, del PD in gran misura costituito dal tradizionale voto territoriale
e da quello dei ceti medi garantiti delle grandi aree urbane, ma solo nei
centri storici).
Non regge neppure il
rabberciato tentativo del successivo governo giallo rosso che si chiude con la
nascita di un nuovo governo tecnico (Draghi).
L’inevitabile ricorso anticipato alle urne del 2022 vede la più bassa affluenza
di sempre (63,9% con un calo
di ben nove punti percentuali), il paese ha ormai preso le
distanze dal suo corpo politico, a non votare più sono soprattutto le fasce sociali marginali delle
periferie come delle aree interne perché non scorgono più differenza tra destra
e sinistra, lasciando così immeritato spazio alla più solida
coalizione di centrodestra, che vince per i demeriti altrui (M5s e Lega pagano un dazio
pesantissimo, il PD arretra ancora pur mantenendo l’appoggio delle sue ormai
consolidate fasce di riferimento). Una meglio orchestrata
campagna elettorale, sempre all’insegna di posizioni anti casta e securitarie, premia
una leader ed il suo partito che, visti come gli unici ancora “vergini”
rispetto alla gestione del potere, sanno intercettare il voto residuo delle
stesse classi che avevano in precedenza premiato M5s e Lega.
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Considerazioni finali
Anche il voto del 2022, per
quanto foriero di alcune novità, racconta in sostanza di una società sempre più
sfiduciata e disillusa, in particolare nelle sue fasce sociali meno protette,
che prosegue nella sua separazione dal sistema politico (fenomeno che interessa, con
accentuazioni diverse l’intera Europa). Un aspetto che testimonia un duplice ed incrociato rischio: da una parte quello che la
politica, questa politica, non sia in grado di esprimere proposte adeguate all’attuale
complicatissimo contesto economico, sociale, ambientale, dall’altra quello che
la società, nelle sue varie componenti abbandonata a sé stessa, accentui
sfiducia e rassegnazione (in
ispecie nelle fasce più povere) piuttosto che miopi
chiusure egoistiche (delle
classi medie e medio basse).
Per tentare di uscire da
una situazione che al momento appare senza immediate soluzioni è necessario che
la politica, perlomeno la parte della politica che per storia e sistema di
valori più dovrebbe avere a cuore giustizia sociale e valori democratici,
prenda consapevolezza, per correggere di conseguenza la sua proposta politica,
del pesante errore di aver fatto propria la visione sociale neoliberista di una
società schiacciata su una mitica classe media.
Troppo in fretta a sinistra
si è decretata la fine della classe operaia, che di certo aveva mutato forma e
composizione, come agente della trasformazione complessiva della società, per
fare propria la prospettiva di governare la crescita capitalistica con qualche
parziale correttivo equilibratore. Senza rendersi conto che non è per nulla
vero, e sempre più drammaticamente lo è in termini di disagio sociale, che
“siamo tutti classe media”, e che averla assunta come componente sociale di
riferimento ha annacquato senza rimedio ogni possibile idea di vero
cambiamento.
Quello che dovrebbe essere
emerso da quanto finora esaminato è che le classi sociali ancora esistono,
seppure in mutate forme, e che ancora dicono molto in termini di domanda politica.
Esiste ancora una larga fascia di lavoratori – operai, tecnici, impiegati, che
compongono quella che gli anglosassoni chiamano working class - nella quale
stanno da tempo confluendo consistenti fasce, quelle delle classi più basse,
del “ceto medio”. Sono accomunate dal dover vendere la propria forza lavoro (magari nelle forme mascherate di
collaboratori autonomi) e sono quindi, ancora e sempre,
qualcosa di distinto dalla classe dei datori di lavoro, la ruling class.
L’esercito dei lavoratori stabili, dei tanti precari, degli esclusi, dei
marginalizzati, potrebbe essere aggregato in una proposta di cambiamento, non
solo difensiva, che non sia “contro” le classi medie più garantite, rubando
così spazio a chi ad esse si rivolge, ma a destra in chiave conservatrice.
Sono ancora e sempre le
esigenze di giustizia sociale che emergono da queste fasce sociali, da questa
classe, i presupposti per un vero cambiamento della società, di una società in
cui il ruolo di ognuno, nella dimensione socio-economica, non sia fonte di
inaccettabile disuguaglianza.
Le attuali disuguaglianze, di
reddito, consumi, stili di vita, quanto sono legate alla classe sociale? di
quali classi possiamo parlare oggi? come le definiamo? quanto sono fra lo loro
collegabili e davvero collegati gruppi sociali, ceti, fasce di reddito e
classi? quale corrispondenza esiste oggi tra l’appartenenza ad una classe o ad un
gruppo e le preferenze politiche? ovvero sono i partiti espressione di classi o
ceti?
Sono le domande che danno avvio al
saggio le cui risposte occupano la sua parte centrale (quella sulla quale di più
concentreremo la nostra attenzione)
dedicata ad una dettagliata analisi dell’attuale struttura del corpo sociale
italiano, preceduta dalla sintetica ricostruzione del dibattito concettuale e
analitico sull’evoluzione delle forme del corpo sociale. Questa nostra sintesi
prende le mosse da qui per recuperare, seppure a grandi linee, teorie sociali,
definizioni, aspetti qualitativi e quantitativi, indispensabili per meglio
comprendere il tema.
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L’idea
di classe si afferma nel pensiero europeo solamente con l’avvento del
capitalismo, in precedenza la ridotta stratificazione sociale era descritta
limitandola alla ripartizione tra tre cosiddetti “stati”: quello nobiliare, quello
ecclesiastico (non
di rado tra loro intrecciati) e un indistinto terzo stato
che raggruppava tutti coloro che semplicemente non appartenevano ai primi due (accorpando quindi figure sociali molto
differenziate).
La “Prima rivoluzione
industriale” (quella
che interessa soprattutto i settori tessile, metallurgico e dei trasporti,
grazie alla tecnologia delle macchine a vapore)
segna
la nascita del capitalismo e l’avvio di uno sconvolgente cambiamento, che vede
irrompere sulla scena sociale nuovi protagonisti, tale da imporre una diversa classificazione
delle figure sociali. Il primo a proporla in modo organico è sicuramente Karl Marx (1818/1883) che
utilizza, in connessione con la sua idea della centralità della struttura economica (i modi di produzione della ricchezza) e
dei suoi “rapporti
di produzione” (la
fonte del reddito) l’inedito termine/concetto di “classe” per
definire le varie parti del “corpo sociale” suddivise in: redditieri (in
gran misura nobiliari), i proprietari delle terre – capitalisti
(la borghesia) i
proprietari delle imprese, dei macchinari, del lavoro salariato (in questa classe era inglobata anche
la piccola borghesia, ossia professionisti e piccoli produttori proprietari dei
mezzi di produzione, ma non di lavoro salariato) - lavoratori,
i proprietari unicamente della propria forza lavoro.
La
visione marxista si impone da subito in ambito culturale e politico come quella
di riferimento (il
moderno sistema dei partiti che, con il progressivo ampliamento del diritto di
voto si viene definendo a cavallo di Ottocento e Novecento, mira di fatto a
rappresentare gli interessi di queste contrapposte classi) ed
in particolare rappresenta, con la sua concezione del ruolo della “coscienza di classe”
(la matura consapevolezza del
proletariato di una sua specifica appartenenza sociale),
il collante fondamentale per la nascita dei movimenti di lotta (partiti, sindacati, movimenti) per
i diritti della classe dei lavoratori.
La
propensione capitalistica al costante perfezionamento dei modi di produzione e
di ampliamento del mercato impone però, già ad inizio Novecento, la necessità
di comprendere le ricadute sul piano sociale di alcuni intervenuti cambiamenti,
in particolare il congiunto realizzarsi di tre processi di scomposizione: quella del capitale fra proprietà e gestione
(alla figura del
proprietario sempre più si affiancano infatti quelle di manager, dirigenti e responsabili di alto livello nel
ciclo produttivo, a formare un nuovo distinto gruppo sociale) – quella del lavoro salariato (determinata
dalla crescente specializzazione di mansioni, ruoli e professioni) – quella più generale
del mondo del lavoro con la nascita dell’inedito “ceto medio”
(un insieme, di evidente
consistenza numerica per quanto ancora non ben definito nei suoi contorni, di variegate
figure sociali, professionisti
autonomi, lavoro impiegatizio di alto/medio livello nell’industria, nei
servizi, nella pubblica amministrazione).
E’
questo il quadro sociale che si realizza nella “seconda rivoluzione industriale” (quella segnata dall’avvento
dell’energia elettrica e del motore a scoppio, con la nascita di tutti i
moderni settori produttivi) rispetto al quale la visione marxista
della divisione in classi (che
pur rimane saldamente centrale a sinistra) si rivela in una
certa misura eccessivamente schematica ed inadeguata, da sola, a cogliere il
nuovo che avanza.
Ed
è proprio in questo solco che si colloca un’altra grande figura di studioso
sociale (borghese, ma non
conservatore) che saprà segnare, con Marx, l’intero
Novecento: Max
Weber (1864/1920).
La
sua idea di struttura sociale non è in così netta contrapposizione con l’idea
marxista di classe, che viene anzi ripresa anche se limitata al campo strettamente economico/produttivo
(in sostanza alla dimensione
del reddito, alla sua formazione ed alla sua ripartizione), è
infatti sua convinzione che il corpo sociale nel suo insieme sia ormai attraversato
anche da un’altra determinante divisione: quella dello “status sociale”.
Agli
interessi di classe legati ai rapporti di lavoro, che pur rimangono, se ne sono
ormai aggiunti a suo avviso altri determinati da fattori come lo stile di vita, il prestigio, l’idea
di sé, il rango percepito, solo in
parte collegabili alla ricchezza ed al reddito, che evidenziano un così forte legame con
l’individuale “ruolo”, ossia la “funzione” svolta dall’individuo all’interno della sua classe, da creare nuove
non trascurabili articolazioni sociali. Per Weber non meno determinanti sono poi,
in una scena politica ormai fortemente segnata dal ruolo di partiti ed
istituzioni, i “rapporti
di potere” che si creano tra l’individuo ed i suoi gruppi di
riferimento, che possono aggiungere un ulteriore valore a funzione, ruolo,
rango e status posseduti (sono
in particolare le caratteristiche di quello che viene a definirsi come “ceto politico” in senso ampio e della sua capacità di rappresentanza).
Al
di là delle evidenti relazioni e contrapposizioni, il corpo congiunto delle
elaborazioni di Marx e Weber è così organicamente definito da indirizzare, il
primo nel campo largo della sinistra ed il secondo in quello liberale, tutte le
analisi e gli studi in campo sociale fissando, almeno fino al secondo
dopoguerra, le figure e le strutture che compongono l’intero quadro della
struttura sociale.
Ancora
una volta però intervengono mutazioni dell’assetto capitalistico, persino più
radicali di quelle precedenti, così profonde da rimettere in discussione tali
acquisite convinzioni.
Sull’onda
lunga dei cambiamenti già avvenuti negli USA anche la struttura economica e
produttiva europea conosce, a partire dagli anni Cinquanta/Sessanta, la
radicale trasformazione della “terza rivoluzione industriale” (ruolo
crescente della tecnologia applicata, in particolare quella elettronica,
aereospaziale, energetica ed informatica) alla base della
sconvolgente evoluzione del mercato dei beni di consumo di massa.
L’analisi
sociologico-economica e la stessa politica sono nuovamente chiamate a
comprendere una struttura sociale sempre più radicalmente diversa da quella
appena precedente.
La sinistra
lo fa restando comunque ben impiantata sulla visione marxista che rielabora,
inglobando le nuove figure sociali apparse sulla mutata scena economica e
produttiva, in un impianto che ancora tutte le accomuna in una sola classe,
anche se più allargata, sempre definita dalla “fonte salariale del reddito”. L’area liberale
al contrario, restando comunque non meno fedele all’impronta weberiana, ingloba
queste nuove più variegate figure (sempre
definite come ceti, gruppi, settori e professioni) all’interno
di una più articolata “relazione tra reddito e concorrenzialità nel nuovo mercato del lavoro”,
in cui diventano determinanti i livelli di istruzione e qualificazione e le individuali
capacità concorrenziali nel mutato mercato del lavoro.
Per
quanto mosse da prospettive differenti le due visioni trovano un elemento
comune destinato ad essere una chiave di lettura fondamentale: la stratificazione
sociale, intesa, con diverse accentuazioni, come fenomeno che si manifesta su
tre livelli fra di loro collegati: quello economico (che, inglobando ricchezza e reddito,
definisce una appartenenza di classe) – quello culturale (che, riguardando istruzione, ambienti
frequentati, propensioni intellettuali e stili di vita, specifica l’inclusione in un ceto) – quello politico (che,
essendo costituito dal diverso accesso alle risorse distribuite dal sistema
sulla base delle relazioni di potere che lo formano, fornisce indicazioni sul ruolo sociale).
L’insieme
di questi intrecci arricchisce e completa la semplice appartenenza di classe (per cui, ad esempio, a parità di
reddito un lavoratore autonomo non è uguale ad uno dipendente, un imprenditore
da un commerciante, un addetto ai servizi da un dipendente pubblico).
La
stratificazione, caratteristica di base di una situazione sociale sempre più dinamica,
implica poi un secondo fondamentale aspetto: la mobilità sociale, ovvero la possibilità
di muoversi, in alto o in basso, all’interno di questi tre livelli (nelle diverse forme di mobilità orizzontale, tra settori ma non da classe/ceto ad un altro,
e mobilità verticale, vero passaggio di classe o
ceto).
Un aspetto che, valutato su tempi
lunghi, ha evidenziato una relazione diretta con la
propensione al conflitto sociale perché
l’impossibilità di cambiare la situazione data (mobilità
sociale nulla) accentua di molto l’insopportabilità di una struttura di classe, se al contrario un certo qual grado di mobilità
sociale è possibile anche una struttura fortemente divaricata è
maggiormente tollerata.
Questo
importante fattore è stato comprensibilmente meglio compreso e valorizzato
dalla visione weberiana rispetto a quella marxista che, troppo schiacciata
sulla divisione tra sfruttatori e sfruttati (per quanto pur sempre rilevante),
ha di fatto a lungo sottovalutato la diversificazione dei movimenti sociali consentita dai
cambiamenti tecnologici (che
hanno creato più e più diversificate professioni, più prodotti e beni di
consumo e quindi differenziati stili di vita, più mobilità territoriale ed anche
più trasversali relazioni sociali).
La
crescente importanza assunta dalla stratificazione e dalla mobilità è stata poi
rafforzata da altre chiavi di lettura quali quella della divisione tra lavoro manuale e
lavoro intellettuale (colletti
blu e colletti bianchi) connessa ai fenomeni della borghesizzazione
e della opposta proletarizzazione (tutti
aspetti strettamente connessi allo status reale e percepito), e
quella tra “chi
comanda” e “chi è comandato” (teoria
funzionalistica).
Altri
fenomeni, che appaiono più evidenti e compiuti a cavallo degli anni Ottanta/Novanta,
accentuano questa nuova percezione della struttura sociale: l’ampliamento dei
confini del mercato (con
il progressivo azzeramento di quelli nazionali, più rigidi e praticabili) la
sensazione (peraltro ancora
oggetto di dibattito) di essere entrati in una fase post-industriale (con
l’avvento di un’economia sempre più smaterializzata, più mirata alla finanza ed
ai servizi, la cosiddetta terziarizzazione),
l’impressionante ruolo assunto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (con la collegata esplosione del WEB e
dei social) si rivelano processi
che sembrano contribuire in modo rilevante al superamento delle classiche appartenenze sociali con la
creazione di una rete, di difficile e incerta individuazione e classificazione,
di nuove figure sociali per quanto labili, temporanee, isolate.
La
risultante di tutti questi possibili incroci è inevitabilmente consistita nel
maggiore rilievo assunto dall’idea di una stratificazione sociale fluida (liquida nella lettura di Zygmunt Bauman) e trasversale rispetto alla classica
suddivisione in classi.
Questa
è perlomeno la suggestione, sollecitata da influenze ideologiche neoliberiste (le quali pongono l’individuo al centro
di ogni costrutto relazionale, fino a negare la stessa
esistenza della società in quanto tale),
che si è affermata, verso la fine del secolo scorso, nel mondo della
comunicazione, nel discorso pubblico, in ambito politico, nei quali la stessa parola
“classe” è di fatto sparita da ogni dibattito sul tema.
Ciò non è però successo nel campo degli studi sociali che conservando, seppure su nuove più articolate basi, la distinzione fra approccio weberiano e marxista, hanno mantenuto molto delle precedenti chiavi di lettura. In aggiunta a quelle usate dal già citato Zygmunt Bauman (1925/2017) le analisi di importanti studiosi quali Ralf Dahrendorf (1929/2009), Anthony Giddens (1938), John Goldthorpe (1935, autore di un sistema classificatorio della struttura sociale basato su tre classi, sei sotto-classi e dodici posizioni/funzioni, ufficialmente recepito poi dalla stessa UE con l’adozione dello schema ESEC-European Socio Economic Classification) costituiscono una base molto articolata che mira a conciliare le basi teoriche sia marxiste che weberiane con le oggettive trasformazioni avvenute in campo sociale.
Ma
è proprio in Italia che si può cogliere una raffinata evoluzione degli studi
sociali che coinvolgono un ampio numero di studiosi che muovendosi, ognuno con
le proprie accentuazioni, formano un corpus teorico ed analitico di grande
rilievo. Fra gli altri compaiono i nomi di Luciano Gallino (1927/2015,
intellettuale a tutto campo, di lui è bene ricordare il saggio “La lotta di classe dopo la lotta di classe” del 2012), Massimo Paci (1936,
autore di numerosi saggi fra cui “Mercato del lavoro e
classi sociali”), Arnaldo Bagnasco (1939, “La
questione del ceto medio”), Alessandro Pizzorno (1924/2019,
“Le classi sociali”), Antonio Schizzerotto (1944,
ha pubblicato numerosi testi sul tema della stratificazione e della mobilità
sociale).
Ma
il nome che più si lega agli studi della struttura sociale è quello di Paolo Sylos Labini (1920/2015),
il suo testo del 1974 “Saggio sulle classi sociali” ancora oggi è di fondamentale
importanza. Lo è perché dal punto di vista storico è una nitida ricostruzione delle
classi sociali in Italia dal 1861, perché è stato concepito per essere
costantemente aggiornato nei decenni successivi (sulla
base dell’impostazione adottata in questo saggio del 1974 è stata puntualmente
aggiornata, prima dallo stesso Sylos Labini e poi da altri, Ardeni compreso, la fotografia della
composizione sociale italiana ad ogni decennale censimento, l’ultima fotografia
è stata pubblicata nel 2023 e riporta i dati del censimento del 2021),
ma lo è soprattutto perché ha segnato una netta svolta metodologica nell’analisi della struttura sociale.
Quello
che fino a quel momento era stato un dibattito puramente concettuale esce dal campo della
discussione teorica “alta” per entrare in quello, “basso”, della ricerca
empirica sulla reale consistenza
delle figure sociali. L’assunto di partenza è chiaro: per dare sostanza alle ipotesi concettuali è
necessario capire se i reali numeri della popolazione le confortano, e sono
sempre i numeri che possono testimoniare ogni eventuale cambiamento.
Sylos Labini lavora quindi sui numeri ponendoli in relazione ad una
suddivisione sociale di chiara derivazione marxista (ma
completata da indicatori di natura weberiana), le
cui tre tradizionali classi e i sottogruppi che le compongono sono determinati
da reddito e ricchezza posseduti, profilo professionale ed istruzione
schema usato da Sylos Labini
Borghesia:
Proprietari,
Imprenditori, Dirigenti
Professionisti
(alto livello)
Classi medie:
Piccola
borghesia impiegatizia:
Impiegati
privati
Impiegati
pubblici
Insegnanti
Sanità
e servizi sociali
Piccola
borghesia autonoma:
Coltivatori
diretti
Artigiani
Commercianti
Trasporti
e altri servizi
Classe operaia:
Salariati
agricoli
Salariati
industria
Salariati
edilizia
Salariati
commercio
Salariati
trasporti e altri servizi
Salariati
domestici
Appare
evidente l’ispirazione marxista così come una certa difficoltà di inserimento
delle figure sociali e professionali di recente nascita (ad esempio quelle connesse alle nuove
tecnologie, all’attuale economia del turismo e del divertimento) ma
lo spaccato sociale che emerge dalla sua applicazione mantiene intatta la sua
valenza.
E’
interessante il confronto con lo schema, di chiara ispirazione weberiana,
utilizzato nel Regno Unito nel 2011, il Great Britain Class Survey, per fotografare attraverso un
sondaggio la struttura sociale inglese del tempo. A differenza di quello di
Sylos Labini, non è basato solo sui tre fondamentali parametri del
reddito/ricchezza-professione-istruzione ma prende in considerazione molti
altri aspetti (stili
di vita, età propensioni culturali, etnia) che completano gli
elementi per una aggiornata classificazione sociale suddivisa in sette
categorie
al primo gradino = il proletariato precario
al secondo = i
lavoratori dei servizi emergenti
al terzo = la
classe operaia tradizionale
al quarto = i nuovi
lavoratori abbienti
al quinto = la classe
media tecnica
al sesto = la
classe media affermata
al gradino di vertice = l’élite
**********************************
Ambedue questi schemi, che
in qualche modo sintetizzano l’articolato percorso degli studi e delle analisi
sulla struttura sociale delle moderne società capitalistiche fin qui visto,
confermano, sia partendo da un approccio marxista che da uno weberiano, la
persistenza di una sua suddivisione per classi. La classi quindi ancora esistono nell’ambito degli
studi sociali semplicemente perché ancora esistono, al di là di una loro
differente articolazione, nella realtà. Certo non sono più quelle di
un tempo perché non corrispondono più, come a lungo è stato, semplicemente a
fasce di reddito e a categorie occupazionali (e
di questo era ben consapevole lo stesso Sylos Labini, convinto però che ancora
fossero indispensabili per classificare la struttura sociale) perché
progressivamente hanno iniziato a contemplare anche altri vantaggi e svantaggi (status, relazioni sociali, contenuti
culturali, stili di vita). La classe inoltre comporta, anche se
vissuta in modo non consapevole, una sua valenza simbolica, incide cioè su
molti aspetti del vivere quotidiano: il modo di parlare, di vestirsi, di
mangiare, di stare insieme. Ed anche queste manifestazioni sono una vivida testimonianza del suo
permanere ed al tempo stesso del suo diverso
esprimersi.
Se le classi dunque ancora
esistono ma non sono più quelle di un tempo, cosa sono diventate? come ed in
cosa sono cambiate? è possibile ridisegnare una geografia delle classi? Gli elementi
che l’hanno sin qui costituita sono così
riassumbili: raggruppamenti
sociali di individui accomunati dalla medesima condizione lavorativa e
occupazionale definita dai rapporti di produzione capitalistica
(Marx) a cui si
aggiungono lo status ed una comunanza di destino sociale (Weber), soggetti agli stessi rapporti di potere politico (Dahrendorf), che condividono in buona misura istruzione e conoscenze
(Giddens) e
che sulla base di tutto questo definiscono formazioni sociali (Gallino) che danno un senso collettivo alla loro identità sociale.
Ed è forse proprio questo
l’aspetto che meglio può aiutare a ridisegnare la geografia delle classi,
perché queste, pur conservando la loro valenza identitaria, si sono parcellizzate,
atomizzate, i cambiamenti radicali che hanno portato all’avvento del
capitalismo consumistico e tecnologizzato hanno accentuato come mai in
precedenza una
ibrida identità individualizzata di classe: oggi lo stesso individuo può
riassumere in sé molteplici tratti sociali.
Da un punto di vista
classificatorio resta possibile mantenere un certo qual grado di aggregazione,
la classe operaia ad esempio ancora definisce, per quanto ormai frastagliati in
mille figure professionali, lavoratori salariati alle dipendenze di altri perché
privi di mezzi di produzione. Ma a questa base comune, che da sola non
definisce più l’identità sociale del singolo, vanno aggiunti altri tratti solo
più in parte dati dalla dimensione del lavoro. Si può cioè essere in una o in un’altra classe “a
parità di professione e reddito”.
Vanno riletti in questa
ottica i due fenomeni che più hanno segnato, nei primi decenni del secondo
dopoguerra, la trasformazione della struttura sociale: l’allargamento della classe media e la mobilità
sociale.
Ambedue questi processi
hanno, a cavallo del cambio di secolo, subito un primo rallentamento e poi un
sostanziale arresto, il cui effetto è consistito nell’impressionante
allargamento della disuguaglianza fra chi sta più in alto e chi sta più in
basso accompagnato però anche da un rilevante impoverimento di chi, dal punto
di vista del reddito, sta in mezzo che ha interessato molte delle figure
sociali che erano sin lì rientrate nell’ampia classe media. La fine della
mobilità poi, con buona pace di chi aveva annunciato la scomparsa della classe operaia ed il trionfo della
classe media, ha reso nuovamente rigidi i confini fra classi appena in
precedenza diventati più porosi. E sono sempre queste due le classi su cui concentrare lo sguardo per
tentare di ridisegnare la geografia sociale nel suo complesso.
Con il definitivo passaggio
ad una economia post-industriale, con la fine della lunga fase
fordista-taylorista e con l’avvento della robotica, si completa la radicale
trasformazione dei modi di produrre e di lavorare. I numeri della classe
operaia tradizionale subiscono un calo notevolissimo compensati però da un
aumento non meno rilevante dell’occupazione nel settore terziario in cui a ben
vedere viene applicato, seppure con tempistiche storiche ritardate, un modello
lavorativo di stampo fordista (si
pensi ad esempio alla grande distribuzione, alla logistica e trasporti)
con prestazioni “povere”
a contenuto ripetitivo. Il quadro entro cui queste trasformazioni
trovano luogo è quello dell’affermazione di quella che è stata definita “economia posizionale”,
ovvero un modello economico in cui nel caratterizzare una posizione sociale i beni materiali di
consumo hanno lasciato il posto a quelli più immateriali. La ricaduta sul
mercato del lavoro è consistita nella crescente “segmentazione” delle professioni fra “lavori standard”
(quelli tradizionali, meglio contrattualizzati e più
stabili) e “lavori non standard” (spesso
precari, a tempo parziale, meno tutelati e meno retribuiti).
La precarietà è di fatto divenuta una
condizione strutturale, una vera condizione di classe (non a caso individuata
come tale dal Great Britain class survey al gradino più basso) con dimensioni
ormai ragguardevoli: i precari con contratti atipici sono più di un quarto del
totale dipendenti nella UE, in Italia valgono qualcosa come 2,5 milioni di
lavoratori. Fra questi precari quelli autonomi (i costretti alla Partita IVA)
valgono il 14% dei lavoratori autonomi senza dipendenti
Nei confini ampi che
contengono la proletaria condizione del lavoro precario (che riguardano l’economia materiale e
quella immateriale del terziario) rientrano quindi professioni della classe operaia ma
anche della classe medio bassa impiegatizia. La loro comune “condizione di classe”
è però vissuta con una diversa “coscienza di classe”, per i lavoratori “standard” ha spesso
implicato una chiusura su sé stessi in difesa (sempre
più difficile) dei propri vantaggi acquisiti, per quelli
“non standard” invece non è stato fin qui nemmeno possibile vivere la propria
condizione, troppo individualizzata, in termini di classe (una differenza che separa anche lavoratori garantiti da quelli non garantiti).
La classe operaia non è
sparita, non si è dissolta, per quanto sia diminuita la sua componente più classica,
è anzi cresciuta se si considerano i lavoratori non industriali non standard e
non garantiti (sono
operai a tutti gli effetti i lavoratori nel terziario della manutenzione,
distribuzione, ristorazione collettiva, pulizie, a formare quella che viene
definita “la classe operaia nascosta”) ed
in più condividono una identica disagiata condizione sociale di disuguaglianza,
una vasta gamma di nuove professionalità (per
certi versi ancora classificabili come classe media ancorché così bassa da
essersi ormai proletarizzata).
Si entra così, passando dal
suo gradino più basso, nell’ampio e diversificato mondo della classe media, non
meno colpita, seppure con modi e percorsi diversi, dalla de-industrializzazione
di fine Novecento dopo che, a cavallo degli anni Settanta/Ottanta, era assurta,
sia in termini numerici che in quota percentuale della distribuzione del
reddito, a valere più della metà dei due totali (sono
gli anni del “grande imborghesimento” di P.P.
Pasolini e della “cetomedizzazione della società” del
Censis di De Rita, che pure evidenziava la mancata acquisizione di una vera e
propria “cultura borghese”).
Già a partire dagli anni Novanta ed in successiva accentuazione, con la
mobilità verso l’alto che si ferma, il ceto medio non smette di crescere
numericamente ma al tempo stesso si impoverisce.
Nel campo dell’analisi sociologica si
distingue la ricerca di Arnaldo Bagnasco condensata nel suo saggio “La questione del ceto medio”. Bagnasco evidenzia in particolare una
confusione di fondo: si parla indistintamente di “classi
medie” e di “ceto medio”, un plurale ed un
singolare che non aiutano a capire chi davvero sta al centro della
stratificazione (negli USA si parla unicamente di “middle
class”). Il ceto medio, che definisce uno status sociale, dipende oltre
che dal reddito da un insieme di fattori riconducibili ad una condizione
sociale, può pertanto contenere al suo interno diverse classi medie. A seconda
del tema affrontato è quindi opportuno usare uno o le altre.
E’ una distinzione utile
per meglio capire le ricadute che la diversa economia globalizzata e
tecnologizzata ha avuto sul ceto medio, sia in ambito pubblico, sia privato,
che sulla base della precedente euforica crescita, si era auto-illuso di essere
una sorta di “ceto
protetto”. E’ soprattutto la grande recessione del 2008 a segnare la fine di
questa illusione, le classi medie si dividono lungo una linea di
fraglia che da una parte vede quelle del ceto medio superiore che (sfruttando una serie di fattori economici
ma anche di maggiore tutela politica) mantengono intatte, semmai
accentuandole, le proprie condizioni di reddito e ricchezza, dall’altra invece
quelle del ceto medio basso che risentono, forse persino più della classe
operaia, gli effetti negativi delle trasformazioni della struttura economica e
produttiva “senza più Stato”.
La situazione delle classi medie si
inserisce nel più ampio quadro di una stratificazione sociale bloccata a causa
della sostanziale fine della mobilità verso l’alto che però qui si evidenzia in
modo particolare per i ceti medio bassi, proprio quelli che fin qui avevano
goduto delle più ampie possibilità di salita. I ceti medio alti si sono chiusi
divenendo di fatto irraggiungibili, salvo casi sporadici ed eccezionali, e
lasciano spazio solo più alla mobilità intergenerazionale interna
La piccola borghesia
autonoma, quella impiegatizia, quella dei tecnici professionisti, quella dei
lavoratori qualificati, non avanzano più né sul piano del reddito nè su quello
dello status, e
così una parte significativa delle classi medie di fatto si proletarizza.
E’ leggermente più stabile, rispetto al
reddito, la quota di ricchezza in possesso a queste classi (valutata attorno al
15% della ricchezza nazionale), ma muta radicalmente la fonte: nella
generazione precedente era in gran parte frutto di accumulo risparmio,
attualmente, dopo la svolta di inizio millennio, è divenuta quasi
esclusivamente frutto di eredità
La fine dell’illusione di
essere in qualche modo “ceto protetto” fa il paio con quella del mito
neoliberista del “trickle down”, l’idea che se si aiutano i ricchi ad esserlo
ancora di più a ricaduta possono stare meglio anche le classi inferiori, la realtà dimostra che
così facendo cresce soltanto la disuguaglianza.
Eppure, per quanto clamorosamente
smentita resiste ancora, soprattutto nel dibattito politico, la concezione
ideologica neo-liberista di una società in cui tutti sono “middle class”,
in cui ogni individuo può giocare il suo capitale umano per la migliore
affermazione sociale che dipenderà unicamente dal suo valore e dalle sue
motivazioni. Questa idea di middle class (per
quanto ormai classificabile come autentico mito),
intesa come un insieme indistinto di autodeterminazioni individuali, sembra
essere così permeata nel comune sentire da rappresentare, a dispetto delle
evidenze opposte, un pesante ostacolo a ciò che il termine classe, in tutte le sue
declinazioni, ha sempre indicato: una comunità di interessi. E qui
si ferma l’analisi della struttura di classe ed entra in gioco la “politica”.
**********************************
in quest’ultima parte del suo saggio
Ardeni propone alcune considerazioni sulla capacità del quadro politico
italiano di rappresentare l’attuale struttura sociale e le classi sociali che
la compongono. Per farlo ripercorre a grandi linee (qui ancor più sintetizzate)
l’evoluzione storica del collegamento fra quadro politico e strati sociali avvenuta
nel secondo dopoguerra
Non diversamente dal resto
dell’Europa il quadro politico italiano novecentesco si è da subito strutturato
come forma di rappresentanza delle diverse componenti sociali, il conflitto sociale
dei paesi capitalistici industriali a democrazia rappresentativa ha cioè dato
espressione ad un correlato scontro politico tra partiti che rappresentavano istanze
sociali antagoniste. Con l’ovvia eccezione del ventennio fascista
così è stato fino agli ultimi decenni del secolo scorso, un lungo percorso in
cui, a fronte di una stratificazione sociale relativamente bloccata,
altrettanto stabile si è mantenuto, pur nel fisiologico variare delle sigle, il
quadro politico. Nel secondo dopoguerra la riconquistata democrazia ha
mantenuto questa caratteristica articolandosi in un sostanziale bipolarismo (parzialmente integrato da partiti
satelliti minori) che ha visto da una parte il grosso della classe
operaia avere come partito di rappresentanza il PCI e dall’altra la DC, aiutata
dall’identificazione religiosa, a rappresentare i ceti medio bassi, i contadini
medi e piccoli, e le classi medie e medio-alte.
E’ una situazione che resta
stabile (per alcuni versi
anche forzatamente stante la divisione geopolitica nei due blocchi)
fino agli anni Settanta, perché ancora parziali e timidi sono i primi cambiamenti
nella struttura sociale, allorquando la centralità operaia raggiunge il suo culmine
(non a caso il PCI ottiene
il massimo del suo consenso nelle elezioni del 1975 e 1976).
Sono gli anni Ottanta, con le prime trasformazioni della struttura sociale che
si fa più frastagliata (perde
peso la cultura operaia con il calare della sua consistenza e si fa più
consistente quello delle aspettative di avanzamento delle classi medie in
costante espansione), in relazione alle correlate variazioni nel
quadro politico: il
sostanziale bipolarismo vacilla (sono gli anni del Pentapartito e del
progressivo allontanamento del PCI dall’esperienza sovietica) proprio perché più articolate sono anche le esigenze di rappresentanza
espresse da una società in evidente trasformazione.
Gli anni Novanta si aprono
con cambiamenti epocali: la fine dell’URSS e del mondo diviso in due blocchi, la
globalizzazione neoliberista, l’Europa di Maastricht, Tangentopoli, segnano il
capolinea della Prima Repubblica con la frantumazione dei due partiti che
l’hanno contraddistinta. Ma sta cambiando, ed in fretta, anche la società italiana: la
breve stagione della mobilità sociale verso l’alto è già finita, i ceti medio
alti si chiudono a salvaguardare i propri interessi, la classe operaia gioca ormai
in una stentata difesa, i ceti medio bassi, sempre più frazionati in molteplici
figure, sentono girare il vento.
E’ in questo contesto che
nasce, con una moderna veste mediatica, Forza Italia di Berlusconi che,
raccogliendo il testimone della DC ed anche quello del defunto PSI, fa inaspettata incetta
dei consensi del ceto medio nella sua estensione più ampia (quindi
comprensivi anche dello strato alto della classe operaia),
spartendo al più quelli localistici della Lega Nord e quelli nostalgici degli
eredi dell’MSI.
E’ un quadro politico
frazionato ed in continua evoluzione nel quale gli eredi della sinistra storica
fanno evidente fatica a ricostruire, scontando la perdita di centralità della
classe operaia, una relazione di rappresentanza sociale ampia, le politiche di
PDS/DS/PD, in sintonia con l’idea di “siamo tutti classe media” di blairiana memoria spostano sempre più le
proposte politiche dal conflitto distributivo a quello delle opportunità (raccogliendo
in effetti i consensi di buona parte dei cedi medi garantiti).
Il
primo decennio del nuovo secolo scivola via senza che nessuna delle componenti politiche riesca a
consolidare un livello sufficientemente stabile e vincente (gli
spostamenti dei voti si fanno molto marcati da una elezione all’altra) tale da consentire un
minimo di politiche di lungo respiro. Nel mentre l’economia italiana
dimostra di non riuscire più ad uscire da una crisi strisciante di perdita di
produttività fatta di bassi tassi di crescita (e
con la pesantissima incidenza del debito pubblico) gli
oggettivi e non superabili limiti del quadro spiegano il ricorso (per certi versi inevitabile ancorchè
imposto dalla UE) ai cosiddetti governi tecnici. Ma
soprattutto, mentre il quadro sociale entra in evidente sofferenza, in tale
stato di cose si innescano due fenomeni che a partire dal secondo decennio sconvolgeranno
la scena politica italiana (così
come quella europea): astensionismo (nostra recente Parola del
mese di Gennaio 2025 che analizza la sue forme e le sue variegate motivazioni) e populismo (tema
quanto mai complesso, Ardeni si limita a registrare la sua crescita rispetto al
corpo sociale).
I due fenomeni si
intrecciano nelle elezioni del 2013, con il primo sostanzioso calo dei votanti (al 75,2%, meno 5,3% rispetto al 2008) e
con la prima affermazione del M5s, per poi esplodere nella loro piena portata
in quelle successive del 2018 (con
l’astensionismo che sale ulteriormente, vota il 72,9%) con
la clamorosa vittoria del M5s e l’ottimo risultato della Lega nella sua nuova
veste di partito personale nazionale. Il governo giallo-verde mette insieme
capra e cavoli seppure di identica ispirazione populista anti casta, le
rispettive basi sociali sono infatti davvero molto, troppo, differenziate (il primo ottiene voti nelle cinture
urbane, nel voto giovanile e adulto dei ceti medi impiegatizi, e soprattutto
nel voto del ceto medio e medio basso e nelle crescenti aree di marginalizzazione
dei ceti più bassi specie al Sud, la seconda mantiene i voti delle classi medie
e medio alte del Nord, compresa la working class più garantita, ai quali
aggiunge inaspettati consensi nelle stesse fasce di disagio meridionale) ed
inevitabilmente cade dopo poco.
A ben guardare anche quello del 2018 è un voto di classe anche se determinato
da nuove linee di divisione sociale (come è di classe anche il consenso, in
forte calo, del PD in gran misura costituito dal tradizionale voto territoriale
e da quello dei ceti medi garantiti delle grandi aree urbane, ma solo nei
centri storici).
Non regge neppure il
rabberciato tentativo del successivo governo giallo rosso che si chiude con la
nascita di un nuovo governo tecnico (Draghi).
L’inevitabile ricorso anticipato alle urne del 2022 vede la più bassa affluenza
di sempre (63,9% con un calo
di ben nove punti percentuali), il paese ha ormai preso le
distanze dal suo corpo politico, a non votare più sono soprattutto le fasce sociali marginali delle
periferie come delle aree interne perché non scorgono più differenza tra destra
e sinistra, lasciando così immeritato spazio alla più solida
coalizione di centrodestra, che vince per i demeriti altrui (M5s e Lega pagano un dazio
pesantissimo, il PD arretra ancora pur mantenendo l’appoggio delle sue ormai
consolidate fasce di riferimento). Una meglio orchestrata
campagna elettorale, sempre all’insegna di posizioni anti casta e securitarie, premia
una leader ed il suo partito che, visti come gli unici ancora “vergini”
rispetto alla gestione del potere, sanno intercettare il voto residuo delle
stesse classi che avevano in precedenza premiato M5s e Lega.
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Considerazioni finali
Anche il voto del 2022, per
quanto foriero di alcune novità, racconta in sostanza di una società sempre più
sfiduciata e disillusa, in particolare nelle sue fasce sociali meno protette,
che prosegue nella sua separazione dal sistema politico (fenomeno che interessa, con
accentuazioni diverse l’intera Europa). Un aspetto che testimonia un duplice ed incrociato rischio: da una parte quello che la
politica, questa politica, non sia in grado di esprimere proposte adeguate all’attuale
complicatissimo contesto economico, sociale, ambientale, dall’altra quello che
la società, nelle sue varie componenti abbandonata a sé stessa, accentui
sfiducia e rassegnazione (in
ispecie nelle fasce più povere) piuttosto che miopi
chiusure egoistiche (delle
classi medie e medio basse).
Per tentare di uscire da
una situazione che al momento appare senza immediate soluzioni è necessario che
la politica, perlomeno la parte della politica che per storia e sistema di
valori più dovrebbe avere a cuore giustizia sociale e valori democratici,
prenda consapevolezza, per correggere di conseguenza la sua proposta politica,
del pesante errore di aver fatto propria la visione sociale neoliberista di una
società schiacciata su una mitica classe media.
Troppo in fretta a sinistra
si è decretata la fine della classe operaia, che di certo aveva mutato forma e
composizione, come agente della trasformazione complessiva della società, per
fare propria la prospettiva di governare la crescita capitalistica con qualche
parziale correttivo equilibratore. Senza rendersi conto che non è per nulla
vero, e sempre più drammaticamente lo è in termini di disagio sociale, che
“siamo tutti classe media”, e che averla assunta come componente sociale di
riferimento ha annacquato senza rimedio ogni possibile idea di vero
cambiamento.
Quello che dovrebbe essere
emerso da quanto finora esaminato è che le classi sociali ancora esistono,
seppure in mutate forme, e che ancora dicono molto in termini di domanda politica.
Esiste ancora una larga fascia di lavoratori – operai, tecnici, impiegati, che
compongono quella che gli anglosassoni chiamano working class - nella quale
stanno da tempo confluendo consistenti fasce, quelle delle classi più basse,
del “ceto medio”. Sono accomunate dal dover vendere la propria forza lavoro (magari nelle forme mascherate di
collaboratori autonomi) e sono quindi, ancora e sempre,
qualcosa di distinto dalla classe dei datori di lavoro, la ruling class.
L’esercito dei lavoratori stabili, dei tanti precari, degli esclusi, dei
marginalizzati, potrebbe essere aggregato in una proposta di cambiamento, non
solo difensiva, che non sia “contro” le classi medie più garantite, rubando
così spazio a chi ad esse si rivolge, ma a destra in chiave conservatrice.
Sono ancora e sempre le
esigenze di giustizia sociale che emergono da queste fasce sociali, da questa
classe, i presupposti per un vero cambiamento della società, di una società in
cui il ruolo di ognuno, nella dimensione socio-economica, non sia fonte di
inaccettabile disuguaglianza.
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