La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
MARZO 2025
Prima o poi doveva succedere. Che lo
spazio di questo artigianale blog utilizzato per esplorare le suggestioni offerte
da una parola fosse destinato alla parola in quanto tale. Nel corso di questi
anni ne abbiamo prese in esame un buon numero, centoventicinque con questa,
alcune complicate, altre all’apparenza più comuni, tutte, perlomeno è questa la
nostra speranza, hanno svolto bene il loro ruolo di provocazione “a fin di curiosità”.
Questo nostro omaggio alla parola passa attraverso la scienza che,
riconoscendone l’importanza, la studia.
ETIMOLOGIA
Etimologìa = voce
dotta, dal latino etymolŏgia, a sua volta derivata dal greco etymología, composta
da étymon (intimo significato della parola)
e da logía (studio, trattazione, teoria, dottrina) = Scienza che studia le parole, indagandone l’origine, ossia la
forma più antica cui si possa risalire percorrendone a ritroso la storia, e
seguendone la successiva evoluzione
Quella che avete
appena letto è quindi un’etimologia, in questo caso della parola etimologia, e l’idea di usarla
come parola del mese, che da tempo in qualche modo già era nell’aria, è stata
rafforzata dall’incontro con un volumetto e con il suo titolo
il cui
autore è Marco Balzano (1978,
scrittore, poeta, italianista)
Il testo di Balzano, non avendo seriosa
ambizione di saggio, richiama bene ed in modo lieve al corretto uso delle
parole che una loro buona conoscenza etimologica può sicuramente consentire (Chi
parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» citazione dal film “Palombella rossa” di Nanni Moretti).
Lo fa
analizzando, nelle ottanta paginette di questo volume, dieci vocaboli di uso comune che politica, pubblicità
e media alterano, semplificano, e quindi impoveriscono, proprio per dimostrare
quanta ricchezza culturale ed esistenziale rischia di andare persa se alle
parole, alla storia loro e di chi le ha inventate, non viene prestata la
giusta attenzione.
E’ evidente la
finalità divulgativa, persino didattica (d’altronde Balzano è professore di
lettere in un liceo milanese) che peraltro riprende ed amplia in altre sue
opere (è autore di un podcast con titolo “La storia delle storie. Le avventure della
parola”).
Come traino della nuova edizione del dizionario Zingarelli, ha scritto la definizione
di cinquanta lemmi il cui significato è cambiato negli anni.
Percorreremo questi dieci vocaboli
esemplificativi come (auto)omaggio alla nostra ben più modesta “Parola del
mese” ma soprattutto come vivida testimonianza del valore di una giusta
attenzione alla pratica costante della etimologia, che per Balzano ben meriterebbe
di divenire, purchè declinata in modo non pedante e pedissequo, materia scolastica.
E’ infatti convinto
che, se ben insegnata in stretto collegamento con altre materie, etimologia è per definizione
una disciplina trasversale che, meglio ancora se integrata con la linguistica, ossia lo studio del linguaggio e delle modalità di comunicazione,
potrebbe fungere da ponte con storia, filosofia, sociologia, religione
Lo dimostra citando alcuni simpatici ma
pertinenti aneddoti: quello del suo professore di filosofia al liceo che per
far meglio comprendere il rapporto uomo/morte/divino puntualizzò che la parola
latina “homo, uomo” ha la
stessa radice di “humus, terreno”, questo
perché l’uomo sta sulla terra, mentre i morti stanno
sotto e gli dei sopra, ottenendo così una inaspettata attenzione.
Piuttosto di un’analoga vicenda raccontata dal filosofo Hans-Georg Gadamer che
per coinvolgere il suo uditorio (era un lezione su Parmenide, il filosofo greco
dell’unicità di essere e pensare) ricorda che la parola “nothing, niente” altro non è che la contrazione di “no thing, nessuna cosa”, piccolo accorgimento che però ha consentito
alla platea di mettere meglio a fuoco il concetto che “l’essere non è una cosa”.
Ma una buona frequentazione dell’etimologia farebbe
bene a tutti, non solo agli studenti. Padroneggiare meglio una lingua aiuta a
capire che attribuire a qualsiasi parola solo il significato più usuale, più
comune, è nel migliore dei casi limitativo (un esempio fra i tanti è quello della parola
“economia”, quando la si pronuncia vengono in mente
numeri, cifre, i dati del PIL. Ma la sua etimologia deriva dal mettere insieme “oikos, casa” e “nomos, legge/norma”, economia quindi è l’insieme delle regole che servono
per mandare avanti la casa).
Ma soprattutto (rientra in scena Nanni Moretti) conoscere
meglio i significati (sempre parlare al plurale) delle
parole ha una importante funzione sociale proprio perché l’etimologia, con la
sua richiesta di ascolto e cura, spinge ad una maggiore
etica della lingua perché permette di individuare usi impropri e
mistificatori. Conoscere l’origine e la storia delle parole diventa così anche
un modo per relazionarci al presente e per non restarne ostaggi. Viviamo,
purtroppo, un’epoca in cui la lingua viene banalizzata e semplificata, le
parole si sono fatte tronche se non ridotte in faccine o assurdi caratteri,
uscire fuori da questa gabbia farebbe bene alle menti e alle relazioni.
Ed in più, aspetto che non nuoce perché è di
per sé intrigante, etimologia ha un che di seducente perché consente di
verificare quanti incroci si possono stabilire fra le tantissime lingue che si
sono formate nel lungo viaggio dell’umanità (ad Aprile 2022 il nostro “Saggio del mese” fu
“Storia universale
delle lingue” di Harald Haarman) a
testimoniare l’affascinante ampiezza, geografica e storica, del loro percorso
evolutivo. E poi perché rimanda sempre all’affascinante
mistero della nascita di ogni parola (perché
mai proprio quella?) e del suo ancestrale rapporto con la cosa che,
proprio perché da essa nominata, ha trovato da quel momento vita e condivisione.
Lo svela magistralmente la frase con la quale Umberto Eco chiude il suo “Il
nome della rosa”: Stat rosa pristina
nomine, nomina nuda tenemus ….. “la rosa primigenia esiste nel suo nome,
possediamo solo nudi nomi.
Ma è tempo di passare ai dieci omaggi (che, come presto si scoprirà ne contengono
molti altri): quelli di
Balzano alla etimologia e quelli nostri (a lui rubati) alla nostra “Parola del mese”.
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ancora una necessaria
premessa: Balzano ha scelto parole abitualmente pronunciate nel collettivo
discorrere quotidiano, alcune in particolare appartengono al suo lavoro di
professore, ma tutte (mala tempora currunt!!!!) si sono di recente prestate a
pericolose semplificazioni o distorsioni, recuperarne l’origine etimologica ha
quindi quel significato etico di cui si è in precedenza detto. Sono presentate
in ordine sparso, i collegamenti fra di loro sono lasciati alla libera scelta
del lettore, il quale è libero di percorrerle come meglio crede
DIVERTENTE = comunemente si intende tale qualcuno o
qualcosa che induce al sorriso, che offre una parentesi dilettevole, che regala
una simpatica emozione. Normale che prevalga questa interpretazione in tempi
che del divertimento hanno fatto una sorta di obbligo, di regola di vita, di
misura quasi obbligatoria della quotidianità. L’etimologia ci dice che in effetti “divertente” indica un atteggiamento mentale un pochino
più complesso ed interessante.
Divertire deriva dal latino “de-verto”, dove “de” propone un allontanamento e “vertere” significa girare/volgere, messi insieme indicano quindi “volgersi altrove” e, in senso più ampio anche figurato, cambiare (ad es. percorso, vita, “divorziare” deriva
da qui). Divertente, inteso in
senso letterale, è allora colui che sa cambiare strada e quindi, per farlo, ha
uno sguardo critico, predisposto a vie alternative.
Insomma un individuo che sa
essere diverso e che ha l’ingegno per trovare alternative (ad-vertere, girarsi
verso) a ciò che ha
davanti, che si mette in movimento perché trova il coraggio di abbandonare il
proprio posto per dirigersi verso un posto nuovo. Non proprio quindi un
semplice mattacchione, anche se a ben vedere l’umorismo nasce anche dalla
capacità di ribaltare le situazioni, di invertire i ruoli, di spiazzare ciò che
sembra acquisito. Schopenauer (1788/1860, filosofo tedesco) sosteneva che a farci ridere è la discrepanza
tra “il concetto e la percezione effettiva delle cose”.
Allo stesso modo per Italo Calvino (nella raccolta delle sue “Lezioni americane”) la funzione di divertire è sempre quella di “sottrarre peso”, di dare leggerezza, di riuscire così facendo “a far girare la testa” da ciò, magari non proprio piacevole, che
abbiamo davanti. Di-vertire ha pertanto molto a che fare con di-strarre (de/di aggiunto al verbo trahere, tirare/trainare). Ma solo in parte induce all’allegria, chi/ciò che diverte può essere che renda anche
allegri, ma il suo fine ultimo è quello di una presa di coscienza per un cambio
di prospettiva.
CONFINE = E’ sicuramente una delle parole più enfaticamente presenti
nell’attuale, preoccupante, dibattito politico, dove viene usata per indicare
una barriera invalicabile che può essere superata solo da chi ha determinate
carte in regola.
Per quanto questa interpretazione sia, da tempo, quella corrente l’etimologia attesta che la parola confine non
è quella più giusta per indicare un confine se così inteso. Confine è infatti un termine che nasce dal
latino dalla congiunzione di “cum” (preposizione che vuol dire “con” che cancella unicità e solitudine perché
compare qualcosa o qualcun altro) e di “finis”.
E’ questo un vocabolo molto antico che indica di norma la “fine”, intesa in senso ampio (è un termine, ma anche una finalità). Letteralmente quindi il confine sarebbe “un luogo dove si finisce insieme”, un punto dove ci si incontra. Arrivando magari da direzioni diverse diventa
quindi il luogo dove “ci si trova di fronte
qualcun’altro” e dove, per
capire il da farsi, lo si guarda negli occhi (Valter Benjamin, 1892/1940, filosofo tedesco
di origine ebrea, diceva che “nello sguardo è
implicita l’attesa di essere ricambiato”).
Se pertanto da una parte il confine segna una delimitazione (l’individuazione
di una linea) dall’altra
non la segnala come inevitabile limitazione (l’apposizione di una invalicabilità su quella
linea), nega cioè il muro non la soglia. E’ nella natura umana l’istinto (divenuto
cultura nella classicità greco-romana) di avere dei confini che aiutino a fissare chi siamo, a cosa
apparteniamo, ma non di meno lo è quello, avendone consapevolezza, di andare
oltre (homo sapiens ha colonizzato la Terra superando
continuamente confini).
Il confine segna quindi, a ben vedere, lo spazio del viaggiatore, di
colui che va, che emigra (la divisione tra chi “e-migra” e chi “im-migra” non ha
valore in sé, ogni spostamento, al di là della sua direzione, è semplicemente
un cambiamento, non per nulla il verbo latino “migro” è
un’espansione della radice “mig” che si
ricollega al verbo “cambiare”).
Forse il termine italiano che meglio può rendere il concetto di
“cum-finis” è “varco”, parola che esplicita l’idea di un
attraversamento, che è legittimazione di uno spostamento. Non esattamente
quello che intendono i vari difensori dei confini, i quali in effetti nella
loro interpretazione andrebbero associati ad un altro vocabolo latino: “limes” (in origine indicava il sentiero che fa da confine fra due
campi ma si è poi, in età imperiale, esteso in ambito militare per indicare una
“frontiera”, un posto di blocco presidiato da soldati lungo una strada). Solo se inteso come limes il confine è in
effetti una linea da non superare
FELICITA’ = Una parola fra le più complesse e delicate del vocabolario, una
parola di cristallo che da sempre ha occupato pensieri e speranze trovando
infinite declinazioni. Anche solo restando nell’ampio ambito culturale europeo a
cui apparteniamo sarebbe infinito l’elenco delle definizioni che di felicità
hanno dato poeti, scrittori, filosofi, ma anche politici, costituzionalisti, economisti,
conservatori piuttosto che rivoluzionari, sociologi e statistici.
Limitando la nostra curiosità a ciò che di felicità può raccontarci la
sua etimologia si scopre però che tutte queste sue
interpretazioni, per quanto fascinose ed interessanti, non condividono nulla (inspiegabilmente nulla!) con l’origine della parola.
L’aggettivo latino “felix” ha la stessa radice di “fecundus”, è cioè un termine che si riferisce alla capacità di generare. Per i
Romani infatti “Felicitas” era una dea che portava frutti, ovvero fortuna
ed abbondanza (sulle monete era rappresentata come una
cornucopia (un vaso a forma di corno, riempito di frutti e
coronato d'erbe e di fiori). Scavando nell’etimologia di felicitas e di felix si scopre anche, ma a
questo punto non è più una sorpresa, che la loro radice è “fela”, la mammella (da cui anche il verbo “felo”,
succhiare, da cui a loro volta derivano numerose varianti, anche molto
piccanti).
Insomma felicitas, la
felicità nelle sue origini, è una parola seminale che evoca la creazione ed il
nutrimento, è la fertile pienezza (femminile!) di chi, avendo dato vita, gode
nel nutrirla e nel farla crescere. Racconta cioè il piacere che si riceve
quando si dà.
Il campo semantico è femminile e più precisamente materno, oltre che per
“fela”, anche per l’infisso “ic” che la segue, il quale ha uso soprattutto in
parole non a caso di genere femminile (nutr-ic-e, levatr-ic-e ad es.), e d’altronde “femina”, femmina/donna” ha la stessa radice di “fecundus”, cosa che vale anche per “feto” e per alcuni anche per “figlio”.
Qualcosa deve poi essere successo se questo significato è andato perso,
se felicità è progressivamente passata ad indicare una associazione, oltretutto
interpretata in mille modi, con il generico benessere individuale. La perdita
della felicità intesa come dono, come cura per l’altro, sostituiti da una
escludente dimensione individuale non è solo etimologicamente una forzatura, ma
persino una stortura esistenziale, non a caso già Aristotele sosteneva che …. si può essere ricchi
da soli, ma per essere felici bisogna essere almeno in due ….
SOCIAL = si entra con questa parola inglese, ma con una evidente etimologia di origine
latina così come l’italiano “sociale”, nella
dimensione delle relazioni interpersonali. Che fino ad alcuni decenni addietro
avevano la “piazza”, la greca “agorà”, come luogo principale di incontro, in gran
misura ormai sostituito da questa sua virtuale corrispondente: la “piattaforma”.
Ed è qui infatti che ormai hanno luogo tre azioni che, non diversamente
dal passato ma con forme e spirito molto diversi, costruiscono l’attuale sfera
delle relazioni sociali: “amicizia”, “condividere”, “consultare”. Per meglio
capire la differenza tra piazza e piattaforma è utile ripercorrerle
etimologicamente partendo però prima da “social”.
Come “sociale” deriva dal latino “socius” che letteralmente
indica “colui
che accompagna, con cui si fa strada insieme” (un buon sinonimo di socius è “comes, colui che viene
con noi” dunque un “companio, compagno, che è colui con cui si divide il pane” il
cibo essenziale per eccellenza) condividendo il piacere del cammino, così come i possibili rischi e
problemi (magari nel campo degli affari, da cui “societas, compagnia” e “socius in quanto socio”). Emerge da questo insieme di termini una
dimensione esistenziale che non sembra valere con pari consistenza nello spazio
delle piattaforme social in cui, anche se immersi in tante relazioni (contarne
tante, al di là della loro reale validità, è motivo di vanto), ognuno comunque fa strada per proprio conto.
E d’altronde “l’amicizia” (che condivide con “amore” la stessa radice “am” che
indica in senso ampio il concetto di amare), che prima dei social si avverava perché “la si faceva” (l’apparentemente banale “farsi un amico” indica
al contrario qualcosa di complesso, di articolato, che con il tempo si “costruisce”, dal
latino “ cum struo, letteralmente “sovrapporre degli
strati”), adesso nel web “la si dà”, ha cioè
smesso di essere la faticosa costruzione in comune di una relazione ed è diventata
una sorta di concessione, che colloca chi la dà in una posizione di superiorità
rispetto a chi la richiede. Ed allora non è certo un caso se molto spesso il “dare l’amicizia” non si
concretizzi in un vero “fare amicizia”.
Anche perché la stessa essenza dell’amicizia, che consiste in ultima
istanza nel “condividere, dividere con ……”, raramente trova spazio sui social. Tutto quello che si condivide su
di essi – file, immagini, link, storie, testi – non rappresenta mai il pane che
si divide con qualcuno, (con un com-pagno) non è qualcosa di cui ci si priva per
celebrare, costruendolo, un rapporto di unione, ma un’amorfa appendice, più o
meno virtuale, che si distribuisce, si diffonde, si propaga, quasi sempre senza
nemmeno chiedere il permesso ai destinatari. In questa forma di “con-divisione”
non c’è il “cum” e neppure il “dividere”.
E non va meglio per l’altra frequente azione che si compie nel mondo
social: la “consultazione”. Parola che deriva dal latino “consulo”, che vuol dire “riunirsi per decidere, per deliberare”, e che indicava anche il “console”, o meglio
ancora i “consoli”, coloro
che decidono insieme”, i due eletti dal popolo romano per esercitare il ruolo
di comando e di potere. Un modo di governare che richiede, per essere efficace,
sicuramente di rappresentare la parte del popolo da cui si è stati eletti (patrizi
e plebei) ma anche di riconoscere
i propri limiti di conoscenza superabili proprio grazie al sapere dell’altro.
Purtroppo nel mare magnum delle fonti presenti nel web è davvero
difficile individuare questo “altro”, questo qualcuno che davvero ne sa di più.
Per farlo si dovrebbero già possedere preliminari criteri di valutazione e
selezione che si alzano di livello quanto più complesso è il tema. La realtà è che il
singolo utente, per quanto accorto e diffidente, è quasi sempre in balia degli
interessi, espliciti ma non di rado mascherati, che costruiscono gli archivi e
le modalità per il loro accesso. E’ un rischio reale per la stessa tenuta delle attuali democrazie,
anche perché investe direttamente la sfera della memoria collettiva
MEMORIA = è lo strumento, la procedura mentale con la quale si instaura il
rapporto con il passato attraverso il recupero di ricordi. Passato, memoria,
ricordo, formano così una
fondamentale triade che, esplorata etimologicamente, presenta alcuni
interessanti aspetti.
L’etimologia di “passato” è semplice, deriva dalla parola latina “passus, il passo”, inteso in particolare come misura di
lunghezza (il passus latino valeva 1,479 mt). Segna quindi, lungo l’unica direzione
temporale concessa all’uomo (dalla nascita alla morte), tutto ciò che ogni individuo, e l’umanità
intera, lascia alle proprie spalle man mano che compie dei passus. E’ un
contenitore immenso, impossibile recuperare tutti i fatti che continuamente lo
compongono (non a caso la mente si è attrezzata per rimuoverne una gran parte),
ma per tentare di farlo occorre una precisa scelta: quella di “attivare la memoria”.
Lo sforzo richiesto per farlo è tutto descritto nell’etimologia della parola
memoria che deriva dal verbo latino “memini” e dal suo corrispondente
greco “mimnèsko” che indicano più ancora che l’atto in sé del
ricordare la capacità di rappresentare un evento accaduto [i
derivati di memini, inteso in questo senso, sono vari, ad esempio lo è “mens, la mente”, il
verbo “moneo,
ammonire per far tornare alla mente”, “dementicare, dimenticare ossia far uscire dalla mente” fino a
“monumentum, la
memoria che si fissa in un artefatto (di solito di pietra)”].
Vale a dire che dal punto di vista etimologico il passato è una parola
statica, passiva, mentre memoria al contrario è parola dinamica, attiva. Questa funzione, che inevitabilmente assume
anche una valenza etica (si ricorda ciò che si ritiene giusto ricordare), vale
nella sfera individuale, ma non di meno, seppure con qualche complicazione in
più legata alla sua “con-divisione” (vedi il
precedente Social), in quella
collettiva.
In accordo con quanto le neuroscienze hanno da tempo accertato
l’attivazione della memoria riesce meglio quando questa è rafforzata dai sentimenti, dalle
emozioni, quando cioè si entra, etimologicamente, nel campo del “ricordo” che, derivando dal latino “re-cor"(dove il prefisso re indica
un movimento all’indietro e cor il cuore”), chiama in
causa qualcosa che non è solo uno sforzo della mente. In questo senso i
ricordi, che sono sicuramente più soggettivi, “non escono dalla mente”, non
si “di-menticano”, ma si “s-scordano” quando cioè
“escono dal
cuore”.
In entrambi i casi, memoria o ricordo, l’uomo è ciò che ricorda, sia
quello che recupera attivando la prima, sia quello che l’inconscio emotivo
ripresenta. Quando ciò avviene anche il corso del tempo muta, il passato
ritorna in scena ed il tempo cronologico, il “chronos greco” che sempre scorrendo in avanti lo crea,
si trasforma in “kairòs, il tempo giusto, opportuno” che coinvolge il soggetto e lo proietta fuori dal suo passato.
Si riaffacciano le precedenti preoccupazioni sul mondo del social, sulla
particolare memoria che li supporta, quella degli spazi di archiviazione dei
dispositivi elettronici. Dove tutto, ma proprio tutto, viene raccolto,
immagazzinato, archiviato, e da dove diventa possibile tutto recuperare. Senza
entrare più di tanto nel merito di problemi inter disciplinari quanto mai
complessi, va però detto che la memoria non è soltanto un accumulo di informazioni, ma, come si è
etimologicamente evidenziato, la capacità di selezionarle e di metterle in
relazione. Una prerogativa
dell’uomo che sarebbe bene non perdere consegnandola ad un irrecuperabile
passato.
SCUOLA = Si entra con quest’ultima considerazione in una tematica nella quale è
fondamentale il ruolo di quell’istituzione che va sotto il nome di “scuola”.
Cosa ci dice al suo riguardo l’etimologia? che la sua origine si trova nella parola
greca “scholè” che, udite udite, vuol dire “vacanza, riposo, tempo
libero”. Un concetto che nella
cultura romana si è più organicamente associato all’idea di “educazione” intesa come “e-ducere, condurre fuori da una condizione ad un’altra” (il grammatico Sesto Pompeo Festo, autore di un
enciclopedico volume intitolato “De verborum significatu (sul significato delle parole)”
pioneristico dizionario etimologico, scrive che “la scuola è così detta
perché i fanciulli, lasciate tutte le altre occupazioni (ecco la
vacanza) possono dedicarsi agli studi umanistici”).
Questa idea riprende quella greca di educazione (“paidèia”) basata sulla conoscenza della parola e sulla capacità di usarla
pubblicamente. La finalità è quella di poter imparare senza però dover
faticare, perché come per tutti i cuccioli anche quello di uomo “impara giocando”. Se il lavoro è inevitabilmente “negotium” (attività,
occupazione, incombenza, incarico) la scuola, perché sia tale,
richiede al contrario l’ “otium”
(tempo libero dal negotium).
Dal punto di vista etimologico le attuali impostazioni didattiche, che
hanno evidenti finalità “imprenditoriali”, sono all’esatto opposto del concetto
greco e romano di scuola la cui finalità non era una preparazione al lavoro, ma quella di “e-ducere” i fanciulli al traguardo
di divenire adulti in grado di partecipare alla vita sociale (e politica).
Che sia stato davvero un modo completamente diverso di e-ducare lo
dimostrano anche le materie insegnate, che nella scuola greca e romana erano di
fatto solo tre: la memorizzazione, la ginnastica e la musica. Senza forse le
tre attività più cadute in disgrazia nell’odierna idea di scuola, ed in
particolare proprio quella dell’esercizio della memoria (vedi appena
prima) (non è meno curioso notare come lo
studio della musica altro non fosse che
l’abilità di tradurre le parole in suoni poeticamente musicali, il poeta
greco e romano è stato sempre raffigurato con una cetra in mano, strumento solo
più tardi sostituito dalla piuma, dalla penna).
CONTENTO = per ricostruirne l’etimologia è necessario fare un passo indietro per
tornare a quella di “felicità” recuperando
in primis l’idea che di essa aveva Giacomo Leopardi, il quale associandola
senza mezza termini al “piacere” così la
definiva: felicità
altro non è che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere,
soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato
si sia, e fosse pur anco il più spregevole”. Peccato però che per lo stesso Leopardi la felicità, la
contentezza del proprio essere, si ha solo se i desideri che lo animano sono
realizzati e
ciò non avviene perché i desideri dell’uomo sono infiniti.
Constatazione
che impone per conoscere etimologicamente la contentezza di iniziare dall’etimologia di “desiderio”, una delle parole più affascinanti delle lingue romanze (quelle che derivano
dal latino). Che nasce da quella
latina composta dal prefisso “de”. che indica una mancanza, e dal
sostantivo “sidus, stella, ” il cui plurale è “sidera”. Letteralmente quindi “de-sidera” vuol dire “mancanza della
stella”, assenza cioè dell’elemento astrale che, per i greci prima e per i
romani poi, conteneva l’indicazione del nostro futuro, del nostro destino. Dunque il desiderio
altro non è che l’impossibilità di leggere il nostro destino.
E’ cioè
l’espressione dell’inquietudine che coglie l’uomo quando non sa capire quale
sia la sua rotta (le stelle sono la bussola dei naviganti) e che cerca di
riempire agognando dei porti, dei traguardi, da raggiungere.
Leopardi,
in molte sue opere ed in molti passaggi del suo “Zibaldone”, riflette proprio su
questo snodo esistenziale, su questa dinamica che, seppure può regalare solo
parziali e provvisori momenti di felicità, di contentezza, l’uomo non può non seguire.
Ed etimologicamente ragiona allora sull’etimologia di quest’ultima che
giustamente individua nella parola latina “continere, contenere” che all’indicativo
presente prima persona fa “contineo”, il quale è composto da “cum, con” e da “teneo, tengo” a significare “mantenere unito,
racchiudere, portare dentro con sé”. Vale a
dire che in sostanza è contento “colui che sa essere appagato di quello che ha, di ciò che possiede nel suo
spazio
(esistenziale)”.
Peccato
però, è questa è l’amara constatazione di Leopardi, che l’uomo, incapace di
sottrarsi al desiderio, sia allora tra tutti “l’essere meno capace di contentezza”. Per
sperare di esserlo egli dovrebbe “apprezzare” (dare il giusto prezzo)
quello che ha, ciò che già possiede.
Se come si
è visto “felicità” è tutt’altra cosa, la contentezza potrebbe manifestarsi solo
smontando etimologicamente il “de-siderio”, consapevolmente passando dal “de-siderare” al suo
esatto contrario “con-siderare” guardando cioè a ciò che si ha con sé (cum) e
non a quello che manca (de).
Va però
detto che la contentezza così intesa non è priva di pericoli, il contento
rischia di essere colui “che si accontenta”, che si limita a vivere “sine cura, senza
preoccupazione”, che si fa bastare il
poco che ha spacciandolo per un tutto, che vive il suo spazio delimitandolo di
“limes” di cui si è detto.
C’è poi
un’ultima possibilità per essere contenti e questa sì richiama la felicità
nella sua vera etimologia: come si può essere felici nel nutrire colui a cui si
è data la vita allo stesso modo si può essere contenti “accontentando” qualcuno con-dividendo con lui ciò che possediamo, che
abbiamo. Realizzando in questo modo un desiderio che può ridare una giusta
rotta al nostro vivere
FIDUCIA = Esiste uno stretto legame tra due parole, fede e credere, che non
appare etimologicamente giustificato, la prima deriva infatti dalla parola
latina “fides” e la seconda dal verbo latino “credo”. Questa differenza si spiega con la forzata
traduzione nel tardo latino medioevale dei corrispondenti vocaboli greci, questi
sì etimologicamente uniti, “pistis, fede” e “pisteu, credere”.
Poco male, in ambito religioso la “pistis, fides” tutto spiega e
giustifica, quello che qui interessa recuperare è il significato che fides ha
parallelamente assunto nel diritto, quello di “fedeltà alla parola data”. Al di là del diverso contesto in cui fides è stata declinata è pur
vero che “avere fede, credere” e “avere fiducia” esprimono due concetti fra di
loro differenti. La fede è assoluta, persino dogmatica, si ha o non si ha, la
fiducia al contrario è un atto sempre sospeso e reversibile, il cui esito è
incerto perché dipende in gran misura dall’altro a cui viene concessa.
E d’altronde la fiducia nasce dalla consapevolezza di un limite, di una
mancanza di conoscenza, che obbliga a supplirla ricorrendo all’altrui sapere ed
agire [un istinto che Freud fa risalire alla primissima infanzia, a suo avviso
infatti il pianto del neonato che chiama la madre ad allattarlo (vedi “felicità”) altro
non è che una espressione di fiducia sul suo buon esito] aspetto che non esiste nella certezza delle
fede.
Ma questo istinto, che trova origine nella caratteristica di “animale sociale” propria dell’uomo, necessità di riscontro, di
concreta verifica dell’altrui capacità e lealtà. Per fidarsi l’uomo deve
superare la diffidenza dell’ “homo hominis lupo, l’uomo è un lupo per l’uomo” per giungere a considerare l’altro il “socius” di cui si è detto. Ma sempre resta, salvo
quando la fiducia è tale da divenire “cieca”, un granello di paura,
di timore, che bene spiega il suo essere un “atto sospeso”, di scoprirsi
deluso, tradito.
Non per nulla per i Romani la Fides, nel senso di fiducia, era una dea (come
per i Greci lo era la “Pistis”), tradirla equivaleva ad infrangere una norma divina. Eppure non sono
purtroppo mai mancati i tradimenti della fiducia ricevuta, e non a caso quindi
è persino subentrata una sorta di rassegnazione che di fatto ha accentuata la
fisiologica diffidenza iniziale.
A maggior ragione in tempi, come quelli attuali, in cui la velocità e la
superficialità sono regola per quasi tutte le relazioni umane, mentre la fides ha un
gran bisogno di tempo, di conoscenza, di intimità. Eppure, altro paradosso dei
giorni nostri, la fiducia che sempre meno sembra essere praticata nella sfera
privata viene invocata in quella pubblica come indispensabile requisito per il
buon funzionamento della società. E’ diventata cioè fondamentale la fiducia nei mercati, nell’azione di
governo (che
spesso sopravvivono ricorrendo allo strumento parlamentare della fiducia), nella scienza, nella tecnologia, e via discorrendo.
Ma questa è un’altra fiducia, non è il legame che con un altro abbiamo
stabilito dopo reciproca conoscenza ed esplorazione, non chiama in causa la
nostra razionalità e tanto la nostra emotività, al punto che persino il suo
tradimento non ci scuote più di tanto, e diventa troppo spesso l’esito ormai
dato per scontato. A voler giocare con le parole si potrebbe allora dire che, nella sfera
pubblica, non si ha più fiducia nella fiducia.
PAROLA = Per completare questo nostro omaggio alla “parola” è giusto recuperare la
sua etimologia, ed anche in
questo caso non mancano sorprese. E’ sempre alle radici linguistiche romane che
bisogna risalire per scoprire che inizialmente veniva usato il termine “verbum” che tutto comprende non solo il nome in sé, ossia il “vocabulum”, (da verbum derivano parole come “verbale”, “verboso”, “diverbio”, ed altre ancora).
Il
Cristianesimo ha però poi monopolizzato il termine (et verbum caro factum est
….. ed il verbo si fece carne) lasciando spazio a “parabola”
che, nella lunga fase di passaggio al volgare, è poi definitivamente evoluta in
“parola” che, riferendosi
all’atto del parlare in tutta la su ampiezza, implica un suono che sempre va da chi lo pronuncia a chi lo
ascolta. Una comunicazione
(dal greco koinòs che significa
comune, di
tutti) che per realizzarsi compiutamente richiede “ascolto” (da auris, orecchio) e “comprensione” (dal latino cum, con –prehendere, prendere, ossia prendere con sé,
appropriarsi, contenere), quando l’ascolto è vero ed attento e la comprensione si realizza
nasce il “dialogo” (dal latino “dialogus”, composto da “dia, attraverso” e “logos, parola” e quindi parola che
attraversa due o più persone).
Si entra qui in un terreno quanto mai complesso, alla base
dell’intera cultura sociale, limitandoci, per curiosità etimologica, agli atti
principali del dialogare, si scopre che “domandare”
(dal latino “de-mandare”, letteralmente “mandare fuori”)
di fatto significa “affidarsi, confidare”, ossia un’azione che presuppone una certa fiducia (vedi sopra) in colui a cui domandiamo. La parola che indica l’azione che si
mette in atto per accogliere la domanda, e quindi contraccambiare la fiducia
ricevuta, ha un che di solenne nella sua etimologia: “rispondere” deriva infatti dal
latino “re-spondeo” (composto da “re”, indica un movimento indietro, di
rimando, e “spondeo”, promettere) che nasce con una valenza
sacra, associabile al “responso”
dell’oracolo piuttosto che per accettare una proposta di matrimonio (da cui “sponsa,
sposa”).
Quello che l’etimologia non può dire è la qualità
del dialogo che deriva dalla capacità della parola, di per sé termine generico,
di arricchirsi di significato, di salire nella scala espressiva che al suo
culmine ha la parola poetica, la parola che si fa “poesia” (dal latino “poésis” a sua volta derivato dal
greco “poiein”, letteralmente “fare, inventare, creare”, da qui anche “poiesis”, il processo per cui qualcosa che prima non c’era viene
all’esistenza).
La parola poetica, che non coincide esclusivamente con un valore
estetico, è in effetti quella che, se afferrata nella sua potenza, crea
l’interpretazione di sé stessa, e cioè un’appropriazione che si fa sempre più
ricca man mano che la parola diventa nostra. E ciò avviene soprattutto quando la parola si fa
segno, quando viene scritta, letta, quindi con essa si dialoga (scrivere viene dal latino “scribere”, che equivale al greco “grafo”, entrambi indicano l’incidere, il
grattare una superficie per lasciarci dei segni. Leggere ha invece una etimologia complessa, di norma lo si fa derivare
dal verbo latino “legere” il cui significato
originario è quello di “cogliere, raccogliere” i frutti della terra, è possibile che da qui
si sia evoluto per indicare anche il “cogliere il
significato dei segni scritti”)
Si chiude con
“parola” l’elenco degli omaggi di cui si è detto composto da termini con un
significato che, per quanto etimologicamente consolidato, era però necessario
recuperare perché troppo spesso erroneamente dato per scontato o peggio ancora
manipolato in modo fuorviante. Ne resta ancora uno scelto da Balzano come
esempio della eterna vitalità delle parole e della loro capacità di
rigenerarsi, di adattarsi a nuove esigenze, di rispondere a nuove domande
RESISTENZA = E’ figlia del verbo latino “stare”, che possiede una gamma infinita di
derivati dal suo significato originario che coincide quello italiano (e di altre lingue
romanze), che è preceduto dalla particella “re”, altrettanto frequente, che qui ha funzione rafforzativa,
intensiva. Dunque “resistenza” intende uno stare denso
di volontà, di fermezza, che può indicare uno “stare contro”, un “opporsi”, un “reggere l’urto”. In questo senso le si
potrebbe assegnare un ruolo statico di conservazione ad un cambiamento non
condiviso (in
fisica indica proprio la capacità di reggere una forza d’urto).
Ma nella
storia dell’uomo può succedere che si inneschi una dinamica che stravolge
l’iniziale etimologia di una parola: in questo
caso è successo con la “guerra partigiana” che ha cancellato la staticità di
“resistenza” facendola divenire dinamica, un termine carico di futuro, tanto da
richiedere l’aggiustamento per nulla secondario in “Resistenza”.
I protagonisti
di questa evoluzione non ne hanno inizialmente avuto piena coscienza,
preferivano definirsi “ribelli”, dal latino “re-bellis (da bellum, guerra)” ossia “colui che torna a fare
la guerra”, alcuni “patrioti”, “colui che ama la patria e lotta per essa” o
meglio ancora “partigiani” ossia quelli “che prendono parte, che si schierano” (per i tedeschi erano
semplicemente dei “banditi, banditen”, tant’è che Primo Levi, da loro catturato, preferì dire che
era ebreo, come tale sarebbe andato in un campo di concentramento, come
partigiano combattente sarebbe stato subito fucilato).
Sono tutte
parole, compresa la stessa Resistenza (parola che è stata sistematizzata nelle lezioni dello
storico valdostano Federico Chabod e dalla sua prima ricostruzione dettagliata
dello storico Roberto Battaglia nel volume “Storia della Resistenza” del 1953), che hanno acquisito senso compiuto “dopo”, lungo tutti i
venti mesi di combattimenti di quella che tecnicamente era definibile come “guerra per bande”, spesso disperate per la disparità di forze e risorse. E’
successo quando molti dei suoi protagonisti, al coraggio di opporsi a costo
della vita al nazifascismo hanno aggiunto un ruolo determinante nel ricostruire
un paese avendo l’idea di mondo, di uomo, di società fissato nella nuova
Costituzione.
Chi ha
combattuto in quelle bande ha dimostrato, anche dopo la guerra, di essere più
di un ribelle perché non era solo “contro”, ma anche “per” una società diversa,
più di un patriota perché il nuovo per cui combatteva andava oltre i confini
della patria, e la stessa Resistenza non è consistita, come etimologia avrebbe indicato, in un
“opporre”, ma è evoluta in un “pro-porre”.
Resistenza
è quindi una parola che ammonisce e ricorda, che richiede ancora oggi di andare
oltre il suo puro significato etimologico, è uno straordinario esempio di come l’etimologia possa trasformarsi in un “sapere militante” che, come diceva il filosofo francese Michel Foucault “non serve solo a
conoscere, ma a prendere posizione”
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