domenica 15 giugno 2025

Il "Saggio" del mese - Giugno 2025

 

Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2025

Riprendiamo con questo saggio, “militante” perché indica sulla base delle considerazioni svolte coerenti azioni politiche, il discorso del “cibo” visto nelle sue diverse implicazioni, più volte già affrontato da CircolarMente:

*  nell’ormai lontano Luglio 2018 il Saggio del mese, “Fame” di Martijn Caparros, denunciava la sua drammatica attuale mancanza in molte aree del mondo spesso determinata dalle storture, create dalle logiche di profitto, della catena di produzione e distribuzione

*  nel 2020 i due Saggi di Febbraio e Marzo “Storia del cibo” di Felipe Armesto e “I padroni del cibo” di Ray Patel avevano approfondito tali problematiche, sulle quali si erano tenute tre specialistiche conferenze del nostro Programma 2019/2020 “Ricucire le ferite”: “Globalizzazione, sistemi del cibo e sovranità alimentare in Africa” relatore Giacomo Pettenati – “La politica locale del cibo: uso del suolo, giustizia sociale, accesso al ciborelatore Egidio Dansero – “La criminalità nella filiera del cibo” relatore Davide Mattiello

*  nello stesso anno a Novembre il Saggio del mese “Presi per la gola” di Tim Spector approfondiva la tematica dei danni alla salute, specie delle popolazioni più povere, provocati dal cibo industriale, troppo spesso l’unico accessibile per gli strati più disagiati

*  ed infine con il Saggio del mese di Ottobre 2023 “Mangiare come Dio comanda” di Marino Niola e Moro Elisabetta si era esaminata la particolare relazione che esiste tra precetti religiosi e usanze alimentari.

Questa costante attenzione è sempre stata sollecitata dalla convinzione che nel cibo, nell’insopprimibile azione del mangiare, si condensano fondamentali aspetti culturali, sociali, politici, medici, che di molto incidono sulla salute dell’individuo e ancor di più su quella complessiva delle nostre società. La stessa considerazione è alla base di questo testo ……

il cui autore è Fabio Ciconte (esperto di filiere alimentari, cofondatore dell’associazione ambientalista “Terra!”, Presidente del Consiglio del Cibo di Roma, collabora con Geo (Rai Tre) su cui tiene la rubrica “Dispensa consapevole”, autore di numerose inchieste e saggi sul tema)


che ripercorre buona parte delle tematiche che ruotano attorno al cibo, in particolare sul ruolo del consumatore, per evidenziare la loro valenza politica e per individuare di conseguenza le azioni più efficaci per affrontarla

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I sistemi alimentari vanno resi sostenibili, bisogna capire come  

Negli ultimi decenni si è fatto davvero consistente il numero di consumatori di ogni parte del mondo che, consapevoli della grande incidenza della filiera del cibo sulla crisi climatica ed ambientale, hanno adottato forme di alimentazione attente ad evitare sprechi, alimenti industriali, privilegiando filiere corte ed ecosostenibili di approvvigionamento.

Ferma restando l’opportunità di mantenere ed estendere tali buone pratiche individuali è però evidente che da sole non sembrano essere riuscite ad incidere in modo adeguato su una situazione globale che, a fronte di un’umanità che ha ormai superato la soglia degli otto miliardi di persone (con un incremento che si è ormai concentrato nei paesi in via di sviluppo mentre in quelli ricchi sono progressivi riduzione ed invecchiamento), vede aumentare la produzione di carne (con il connesso spaventoso impatto degli allevamenti intensivi),  l’utilizzo della plastica per confezionamento alimenti (il cibo senza una qualche forma di imballaggio sembra non esistere più), lo spreco alimentare (i cui record vengono costantemente superati ogni anno), l’occupazione di suolo vergine a fini agricoli (per mezzo di incontrollabili deforestazioni) correlato all’impoverimento del suolo di vaste aree iper-sfruttate grazie a pesticidi e fertilizzanti.

Occorre quindi prendere coscienza che la sola adozione di corrette scelte individuali non si sta dimostrando in grado, da sola, di trasformare un settore che resta ispirato da precise logiche di profitto su scala globale, perfettamente in grado di (ri)modularsi adeguandosi alle specifiche scelte del consumatore ed ampliando a dismisura l’occupazione della domanda alimentare di tutte le aree del mondo (cancellando così millenari stili di vita alimentare ed innescando una pericolosa riduzione del numero delle specie e varietà vegetali e animali. Sulle tavole di tutto il mondo arrivano cibi ed alimenti che sono infatti il risultato di una scientifica selezione che privilegia quelli che garantiscono la maggiore resa commerciale. Due semplici esempi: delle centinaia di specie cerealicole esistenti solo nove coprono il 66% della produzione totale, il 90% delle specie di mele immesse sul mercato, sono alcune migliaia, è composto da sole cinque varietà). E si sta parlando, aspetto non adeguatamente tenuto in considerazione, di un settore che nel suo complesso a livello globale è stabilmente responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra.

Il salto di qualità che di conseguenza s’impone per sperare di avviare una svolta concreta ed efficace diventa obbligatoriamente quello di adeguare le forme di contrasto alle logiche che guidano l’attuale filiera alimentare, partendo dalla consapevolezza che il cibo è politica, proprio perché riguarda aspetti fondamentali della vita umana, e come tale va affrontato. Ed è esattamente questo il tema al centro di questo saggio.

Come siamo arrivati sin qui?

Per meglio mettere a fuoco il salto di qualità che tale svolta comporta è utile ricostruire il percorso con cui si è articolato negli ultimi decenni il complesso rapporto critico tra consumatore e filiera del cibo che, mai emerso in precedenza, ha iniziato ad avere una sua rilevanza con la comparsa in scena dell’innovativa figura del “consumatore consapevole”. Si tratta di una svolta avvenuta, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso al culmine della definitiva affermazione dell’industria globalizzata del cibo, che è stata determinata da un insieme molto variegato di fattori culturali, sociali e politici (in particolare meritano di essere considerati la crescente attenzione verso comportamenti salutistici, il rifiuto giovanile del “consumismo”, ma soprattutto la nascita dei movimenti ambientalisti) che esprimevano, promuovendo un rapporto ragionato con il cibo, un rifiuto critico dei modi di produrlo e di distribuirlo.

Una data assumibile come momento di nascita del consumatore consapevole italiano (avvenuta con tempistiche appena più ritardate di quelle di altri paesi europei e degli stessi USA) può essere quella del 1990 con la pubblicazione di un testo presto divenuto riferimento di base per la controcultura alimentare: “Lettera ad un consumatore del Nord” edito dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo (fondato nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani, saggista e attivista), un centro di documentazione (tuttora attivo con sede in Toscana) nato con l’obiettivo di dare prospettive al più generale malessere economico, sociale ed ambientale, all’interno del quale trovava da subito ampio spazio proprio la lotta all’ingiusta filiera globalizzata del cibo che, per alimentare un falso benessere alimentare occidentale, sfruttava il cosiddetto “Sud del mondo(punto di riferimento fondamentale era il concetto disovranità alimentareelaborato dalla “Via Campesina, “la vita dei contadini”, un movimento internazionale, nato in Sud America, di contadini di tutto il mondo in lotta contro le multinazionali alimentari che auspicava a tal fine un’alleanza con i consumatori occidentali).

E’ una data chiaramente simbolica, sarebbe infatti una forzatura ritenere che quel documento abbia di per sé stesso dato il via ad un sentire diffuso che, come si è evidenziato, si stava già formando seguendo sotterranei percorsi dettati da più sensibilità, ma che ha avuto l’indubbio merito di arricchirlo inserendolo in un più definito quadro di considerazioni ecologiche e di giustizia sociale capaci di  dare orizzonti a quelle convinzioni e alle motivazioni individuali che confusamente lo stavano delineando.

Un salto di qualità che ha trovato, pochi anni dopo, un ulteriore fondamentale tassello di carattere decisamente politico: nel 1999 nasce infatti il movimento “No global (che prende forma negli USA a Seattle in coincidenza con le forti contestazioni al vertice OCSE, Organizzazione Commercio Sviluppo Economico, una delle istituzioni promotrici della globalizzazione neoliberista, per conoscere da subito una straordinaria, per quanto effimera, diffusione internazionale). Nella piattaforma complessiva di questa opposizione contro la globalizzazione neoliberista, sintetizzata dal famoso slogan “Pensa globalmente, agisci localmente”, il cibo ed i modi di produrlo e consumarlo avevano una grande rilevanza e la conseguente sollecitazione alla lotta contro le logiche politiche ed economiche della loro gestione fornivano alla figura del consumatore consapevole un ulteriore fondamentale bagaglio di motivazioni.

L’insieme di queste congiunzioni motivazionali ha quindi costituito un quadro d’insieme capace di completare in modo armonico le tante diffuse scelte individuali, comunque si fossero determinate, di consumare cibo prestando attenzione a tutte le implicazioni che questo gesto, di per sé stesso del tutto naturale, aveva ormai assunto nell’era della alimentazione industrializzata e globalizzata. In questo innovativo fervore ha così preso considerevole consistenza l’idea che il rapporto diretto fra il singolo consumatore e l’intera filiera del cibo, esercitato nella scelta di acquisto, potesse avere una capacità regolatoria del mercato in grado di influenzarlo fino al punto di rimettere in discussione le stesso logiche che lo ispirano (nella situazione italiana uno dei più influenti ispiratori di questa idea è stato Alexander Langer, 1946/1995, una poliedrica figura di intellettuale a tutto tondo molto conosciuta e ascoltata nei movimenti di sinistra ed ambientalisti).

Va inoltre precisato che non poco ha contribuito a determinare questo sentire diffuso la sua coincidenza temporale con i primi evidenti segnali di declino delle tradizionali forme di partecipazione politica, rispetto alle quali sembrava in grado di ridare concreta importanza, rimotivando l’attivismo individuale, a forme di democrazia partecipativa.

E’ stato però un vento di cambiamento che troppo presto ha smesso di soffiare, forse troppo fragili erano le sue stesse basi e di sicuro esso si è dimostrato incapace di sedimentarsi in adeguati momenti organizzativi minimamente stabili. Quella che con gran probabilità era un’esperienza destinata del suo ad esaurirsi ha comunque trovato, nella situazione specifica italiana, un’altra data simbolica di definitiva fine: i tragici fatti di Genova 2001, con la brutale repressione della contestazione no-global ai grandi della Terra lì riunitisi per un appuntamento G8, ne hanno segnato il definitivo epitaffio.

L’idealtipo del consumatore consapevole, al termine di un percorso comunque significativo di due decenni, si è riscoperto orfano di orizzonti più ampi, riconsegnato a percorsi basati su motivazioni più individualistiche che si sono sempre più dimostrate inadeguate a fronteggiare le ciniche e potenti logiche dell’industria del cibo

Qualcosa è comunque ancora rimasto di quel fervore, alcune idee ed esperienze si sono dimostrate in qualche modo ancora resilienti. Lo sono state, anche nel nuovo millennio, la rete dei negozi di “commercio equo e solidale”, che tuttora rappresentano una esperienza di tutto rispetto, anche se oggettivamente lontane dal fervore che l’accompagnava nei decenni di fine secolo, e lo sono stati i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, sorti con il duplice scopo di dare una mano ai piccoli produttori locali e di sostenere una filiera alternativa alla grande distribuzione, che ancora resistono in alcuni contesti, ma sempre più racchiusi su sé stessi quasi a formare un microcosmo identitario, e sul piano della tutela politica ed anche legale lo sono state, ed ancora oggi lo sono, le associazioni di difesa del consumatore (quali Altroconsumo, Codacons, , Federconsumatori, Aduc, tutte nate a partire dagli anni Settanta).

Occorre purtroppo ribadire che anche  queste esperienze, residuo frutto della fase più significativa del consumatore consapevole, non sono in grado di rappresentare  un’alternativa vera e di massa alla filiera della grande distribuzione organizzata e semmai confermano il rinchiudersi dell’epopea del consumatore consapevole in orizzonti e percorsi individualistici sempre meno significativi.

A determinare l’attuale quadro della filiera del cibo, globale non meno che nazionale, concorre, come contraltare non meno negativo all’esaurirsi della speranza di costruire una alternativa generale operando quasi esclusivamente sul ruolo esercitabile dal consumatore nell’atto dell’acquisto, un secondo elemento: la capacità dell’industria capitalistica del cibo di aver rimodulato sapientemente la propria immagine adottandone su vasta scala una nuova, all’apparenza attenta proprio agli aspetti più oggetto di critica, ma mantenendo ben salde le logiche di profitto ed ottimizzando semmai i metodi di produzione e distribuzione per realizzarle al meglio. Il cibo “green” è infatti divenuto un diffusissimo brand commerciale cavalcato con cinica perizia dalle multinazionali del cibo a fini di profitto.

Alcune filiere specifiche del cibo raccontano esperienze esemplari in questo senso. Lo è ad esempio quella dello zucchero, che rappresenta un settore globale di grande rilevanza (trenta milioni di ettari di suolo sono dedicati a questa coltivazione). Proprio negli anni della “Lettera ad un consumatore del Nord” lo zucchero bianco prodotto in Occidente con la raffinazione della barbabietola era diventato uno dei simboli della lotta al cibo industriale. Comprare e sostenere la produzione di quello di canna è stata a lungo una delle bandiere del commercio equo e solidale. Peccato però che questa sua acquisita rilevanza, nell’attuale modificato contesto, sostiene ormai una coltivazione industrializzata della canna responsabile di un consistente abbattimento della foresta amazzonica brasiliana (tra il 2000 ed il 2012 si parla di sedicimila chilometri quadrati di foresta abbattuta per fare spazio a piantagioni). Una quantità ormai minima dello zucchero di canna, compreso quello “grezzo”, arriva in Occidente da piccoli produttori locali per sostenere una condivisibile presa di posizione che si è però rivelata un’illusoria alternativa di sistema

E’ lungo l’elenco delle trasformazioni avviate nei settori della produzione alimentare ed ancor di più in quello della distribuzione che testimoniano questa capacità metamorfica presente in tutta la filiera del cibo sollecitata proprio dalle esperienze globali di fine secolo scorso che ponevano al loro centro il ruolo del consumatore consapevole.

L’idea che sosteneva il suo ruolo, quella di poter condizionare con la scelta individuale di acquisto l’intero ciclo del cibo, è stata di fatto espropriata dall’industria alimentare che ha lucidamente compreso la rilevanza commerciale della “dimensione etica del business del cibo”, ovviamente declinandola in modo mirato per sostenere ancor di più il business.

Ormai non c’è prodotto alimentare che non si dichiari “sostenibile”, che non sia confezionato con colori e disegni che richiamano la natura, a creare una grande messa in scena in cui tutto - cibo, confezione e relative informazioni su produzione, modo di consumare e smaltire – è magicamente diventato green.

Tutte le indicazioni così enfaticamente vantate non significano nulla: “agricoltura sostenibile” è parola vuota se non viene specificato in cosa è consistita, e allo stesso modo lo sono “biodegradabile”, “compostabile”, “naturale”, “rispettoso dell’ambiente”, “riciclabile”, “impatto zero”, “carbon neutral”. Nel 2021 sono stati pubblicati i risultati di una indagine UE su queste affermazioni che evidenziavano come nel 42% dei casi fossero palesemente false ed ingannevoli, mentre buona parte del restante 58% era quantomeno strumentalmente enfatizzato

Ha ormai un nome preciso questa prassi consolidata: “greenwashing”, letteralmente “lavare di verde”, lasciando però inalterato il cibo contenuto, i modi di produrlo, di impacchettarlo, trasportarlo, pubblicizzarlo, senza intaccare, ma semmai aumentando, i margini di guadagno. La prassi dell’acquisto si è fatta di conseguenza un’impresa quanto mai complicata anche per un consumatore attento e consapevole perchè è ormai davvero difficile districarsi nella giungla di un mercato così subdolamente architettato.

Le strategie persuasive messe in atto dall’industria alimentare non si concentrano solamente sul prodotto finale, ma molto spesso si articolano in studiate campagne pubblicitarie che assumono la difesa dell’ambiente e la giustizia sociale come testimonial di un più generale impegno ecologico ed etico. Si pensi ad esempio agli spot di Amazon con protagonisti i suoi stessi dipendenti che raccontano della correttezza del trattamento lavorativo piuttosto che ai volti sorridenti e felici dei riders nelle pubblicità delle varie aziende di food delivery. Un esempio ancora più eclatante della mistificazione che passa attraverso queste campagne è quello delle “giornate assieme a te per l’ambiente” da qualche anno organizzate da McDonald’s, il più grande fast food della storia (si stima che globalmente prepari qualcosa come cinquanta milioni di panini ogni giorno), per contrastare l’abbandono di rifiuti nell’ambiente. Sapientemente organizzate e pubblicizzate vantano le migliaia di sacchi di rifiuti raccolti, ma al tempo stesso nascondono in modo elegante che molti di quei rifiuti li produce proprio la catena di hamburger a buon mercato. Sempre McDonald’s si fa vanto di usare solo carne italiana, “100% bovina da allevamenti italiani (il Made in Italy tanto amato dal nostro attuale governo), ben guardandosi dal dire che quella carne viene da qualcosa come 15.000 allevamenti intensivi, concentrati in un fazzoletto di terra compreso tra Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, capaci di produrre una mole impressionante di rifiuti, magari non abbandonati ma non per questo meno impattanti

“Cosa posso fare come consumatore?” è una domanda sbagliata = La solitudine e lo spaesamento che il consumatore, consapevole o inconsapevole, costantemente prova nel gestire i suoi acquisti alimentari (peraltro come di qualsiasi altro prodotto) si sono infatti accentuati in un contesto come quello attuale che oggettivamente vede la totale egemonia dell’industria alimentare in tutte le fasi della catena del cibo. In questo mutato contesto sono ormai divenute stabili e consistenti le due caratteristiche che contraddistinguono l’attuale rapporto consumatore-filiera del cibo: da una parte il definitivo tramonto della speranza che un consumo attivamente consapevole possa incidere sulle logiche di fondo della catena di approvvigionamento e dall’altra il fatto che l’industria del cibo si sia rivelata in grado di affinare la sua capacità di controllo dell’intera filiera anche mettendo a frutto, per i propri fini speculativi, la stessa storica esperienza del consumatore consapevole.

Il quale deve allora (re)interrogarsi sul proprio ruolo ponendo però questa domanda su basi completamente differenti da quelle degli anni Settanta, perché appare ormai evidente che da sole sono insufficienti e inadeguate le classiche prassi di sprecare meno, di mangiare meno carne e cibi industriali, di leggere attentamente le etichette, di rifornirsi il più possibile da produttori locali e da negozi di commercio equo e solidale (per quanto tutte quante mantengano intatti valore e importanza). L’attuale stato delle cose dimostra infatti che il concentrarsi esclusivamente sull’ultimo anello della catena, ovvero sull’atto individuale dell’acquisto, non può essere una forma di lotta vincente se non si aggrediscono, su un piano politico collettivo, le logiche di fondo della filiera del cibo. (papa Francesco in una intervista, dal titolo “Il peccato di gola sta uccidendo il mondo”, concessa al giornale “Avvenire” a Gennaio 2024 sintetizzava lucidamente questa constatazione affermando che “abbiamo abiurato il nome di uomini per assumere quello di consumatori”).

Al tempo stesso, per dare concreto avvio a queste azioni di più mirato contrasto, non ha senso alcuno stigmatizzare i pur evidenti comportamenti non corretti del consumatore “standard”, è molto più utile, individuando e denunciando con adeguate azioni politiche le ragioni che li mettono in atto, far emergere quanto essi siano funzionali all’attuale filiera del cibo proprio perché sono il risultato indotto di sofisticate politiche commerciali

una situazione esemplare è quella delle verdure già selezionate e lavate vendute in buste plastificate. Non vi è dubbio alcuno che siano un acquisto assurdo perchè costano molto di più delle verdure fresche, perché sono ecologicamente molto impattanti, oltre ad essere non proprio salutari, eppure stanno da anni conoscendo un successo crescente grazie alla loro comodità e velocità di uso tali da aver   incontrato il favore ormai consolidato di molti consumatori. Un successo ottenuto dall’industria del cibo sulla base di accurate ricerche di mercato mirate ad individuare e sfruttare le motivazioni esistenziali e psicologiche alla base dell’acquisto

Il passaggio a forme di contrasto che, sul piano politico, sappiano denunciare e contrastare il monopolio capitalistico della filiera del cibo prevede, di conseguenza, che al loro centro stiano tutti i cittadini (gli uomini indicati da papa Francesco) nella loro valenza di soggetti politici e non solo nella loro veste di consumatori. E’ quindi ormai evidente che il consumatore in quanto tale, consapevole o inconsapevole che sia, è troppo segnato da mancanza di informazioni, da bombardamenti pubblicitari, da pressioni contraddittorie determinate da tempi di vita e possibilità economiche, per restare il protagonista principale di una battaglia che deve essere combattuta su un terreno che non può più restringersi alla sola fase dell’acquisto finale.

Un ulteriore ammonimento in questo senso viene dalle stesse campagne greenwashing di cui si è detto, le quali non a caso sempre si rivolgono all’individuo, al singolo consumatore e utente, chiamato a comportamenti correttamente ecocompatibili purché ininfluenti sulle logiche di fondo del sistema. In queste campagne si chiamano ad esempio in causa i comportamenti individuali per le emissioni di gas serra sottacendo però che il 70% di esse è prodotto dalle grandi attività industriali ed agricole. Così come, restando nel contesto del cibo e del suo spreco, enfatizzano con clamore il peso virtuoso di acquisti calibrati, delle azioni di recupero e corretto smaltimento, di quelle stesse famiglie che tempo stesso sono invogliate da pubblicità asfissianti a comprare cibi di ogni genere. Passano quotidianamente su media e social messaggi in cui si parla tanto di spreco domestico e nulla si dice di quello della produzione primaria (ad esempio frutta e verdura che non raggiungendo i previsti canoni estetici restano a marcire sui campi) e su quello dell’industria di trasformazione, che insieme (dati Ispra) valgono il 69% dello spreco alimentare totale mentre quello domestico (in gran parte determinato proprio dall’eccesso indotto di acquisto) vale per il restante 31%.

In questa riflessione concentrata sul rapporto tra filiera del cibo e consumatore non c’è spazio per entrare nel merito delle tante problematiche legate al criminale consumo e impoverimento dei suoli agricoli, allo sfruttamento senza scrupoli dei contadini poveri del Sud del mondo piuttosto che a quello degli addetti ai lavori agricoli nei paesi ricchi, alla crudele gestione degli allevamenti intensivi, alle impressionanti ricadute ambientali dell’intera filiera alimentare, ossia a tutti gli aspetti che segnano l’attuale gestione capitalistica del cibo. All’interno di questo quadro vale la pena di approfondire il peso di quelli che di più sembrano chiamare direttamente in causa il ruolo del consumatore: il ruolo del supermercato, il prezzo del cibo e la filiera della carne.

 

Purtroppo non c’è alternativa al supermercato = è ormai il luogo ideale per mettere a fuoco la valenza politica del cibo. Lo è perché è lì, nei venticinquemila punti vendita (piccoli, medi, grandi, giganteschi) che costituiscono la grande distribuzione italiana, che si concentra la stragrande maggioranza degli acquisti agroalimentari per una percentuale pari all’80% del totale di acquisti (con una crescita negli ultimi dieci anni di ben dieci punti percentuali) capaci di generare un fatturato complessivo di 155 miliardi di euro (un valore pari al 7% del PIL italiano totale). E pensare che quella dei supermercati è una storia recente in Italia (il primo venne aperto all’Eur a Roma nel 1956, mentre negli USA erano già diffusi negli anni Trenta) che racconta una loro costante evoluzione capace di accompagnare e, sempre di più, indirizzare le italiche modalità di acquisto.

La sua ormai totale egemonia non è solo una questione di prezzo, tutti gli studi sulla capacità attrattiva del supermercato evidenziano un insieme di fattori che vanno da aspetti sociologici (ogni marchio ed ogni prodotto hanno un loro corrispondente status) a quelli psicologici (come la sensazione di stare in un posto conosciuto, familiare, dove ci si muove con sicurezza). La  loro crescente diffusione territoriale (tale da suscitare comprensibili perplessità sulla sua stessa sostenibilità peraltro sempre smentite dal costante successo di vendite) spiega il significativo trend di crescita di cui si è detto a riprova di una modalità di vendita che crea nel consumatore l’illusione di essere in grado di governare al meglio i suoi acquisti (magari grazie alla quotidiana faticosa ricerca dell’offerta migliore) anche se, aspetto ampiamente confermato da studi e riscontri statistici, molto spesso succede esattamente il contrario (sempre “si inciampa” in qualche offerta imperdibile anche se non messa in conto).

I supermercati sono la dimensione terminale di una catena alimentare industrializzata che se da una parte ha appiattito, ormai globalmente, gusti, sapori, culture alimentari, dall’altra ha costruito la sua forza attrattiva proprio su questo appiattimento scientificamente studiato per fornire al consumatore la sensazione di muoversi in una bolla rassicurante. L’incontestabile risultato è che non esiste al momento alcuna alternativa al supermercato realmente competitiva: sono in difficoltà non solo quelle sorte attorno alla figura del consumatore consapevole di cui si è detto, ma anche le forme di vendita tradizionali del negozio di vicinato e dei mercati rionali e di paese, che in buona misura sono oramai sostenute solo più dalle generazioni più anziane di consumatori (la stessa sfida dell’e-commerce non sembra aver incrinato la dittatura del supermercato nel settore specifico delle vendite di cibo)

Il cibo costa troppo ed al tempo stesso troppo poco = I fattori concorrenziali che hanno consentito al supermercato di divenire il luogo predominante in cui si chiude la lunga filiera del cibo sono di diversa natura (economie di scala, forte potere contrattuale su fornitori, trasportatori e lavoratori, offerta completa ed articolata capace di coprire la gamma completa di prodotti alimentari, sinergie con altri venditori, accordi di cartello, per citarne alcuni, ma tutti contribuiscono a formare il risultato finale vincente: il prezzo. In generale, al di là della vincente capacità concorrenziale della grande distribuzione, il prezzo del cibo merita uno specifico approfondimento perché, molto più di quello di altre tipologie di merci, è determinato da una serie di storture strutturali che, investendo l’intera sua filiera, in effetti lo falsificano (a tutto vantaggio dell’industria del cibo) così tanto da poter affermare che il cibo costa al tempo stesso troppo e troppo poco. L’argomento è decisamente complesso è richiederebbe un’analisi molto approfondita, merita qui riprendere alcune di queste storture, quelle che di più consentono di capire il determinarsi di questo paradosso.

Il prezzo del cibo infatti, se si applicassero correttamente tutte le voci che concorrono a determinarlo, dovrebbe davvero essere decisamente più alto, così alto però da renderlo di fatto inaccessibile per buona parte della massa dei consumatori. Trattandosi però del “bene primario” per eccellenza, intervengono di norma alcuni correttivi di mercato che consentono, aspetto che non vale alla stessa maniera per la quasi totalità dei cosiddetti “beni secondari”, di non contabilizzare nella sua definizione alcuni costi, sociali, ambientali ed etici, mantenendolo così a livelli tutto sommato accessibili alla maggioranza (anche se sempre troppo alti per i consumatori indigenti). Questi costi sono quelli che gli esperti definiscono “esternalità negative” che, per non gravare sul prezzo finale del cibo, sono fatte ricadere sulla collettività e sui sistemi naturali.

Alle voci che di norma concorrono a determinare il prezzo del cibo – produzione, trasformazione, trasporto, marketing, distribuzione e vendita, margini concorrenziali di profitto in ognuno di questi passaggi – non si aggiungono infatti i “costi sanitari(quelli collegabili alle patologie dei consumatori causate dalla sua qualità e dalle modalità di produzione, si pensi ai cibi ultra-processati con additivi chimici o all’uso eccessivo di antibiotici) che sono coperti dai sistemi sanitari pubblici, i “costi ambientali(ossia l’insieme degli impatti che la filiera del cibo ha sugli eco-sistemi con l’emissione di gas serra e sostanze inquinanti, con la perdita di biodiversità, con il consumo e il degrado del suolo), per coprire i quali interviene la spesa pubblica, ed i “costi sociali ed etici(quelli determinati dal ricorso all’iper-sfruttamento incontrollato della manodopera agricola) almeno parzialmente compensati dalla fiscalità generale. Appare evidente che se questi costi fossero, come logica vorrebbe (e come almeno in parte avviene per i beni secondari), fatti sostenere dall’industria agro-alimentare sarebbero, seguendo le normali logiche del mercato, da essa ribaltati sul prezzo finale del cibo rendendolo di fatto inaccessibile ai più (uno studio ONU del 2023, “The true cost and true price of food” – “Il vero costo e prezzo del cibo”, stima una ricaduta pari al suo raddoppio).

Non esiste soltanto il problema politico della determinazione del giusto prezzo del cibo, certamente non affrontabile dal solo consumatore nella fase di acquisto se non in termini di una insostenibile ricaduta, non è infatti meno grave la ripartizione dei guadagni fra i vari soggetti che operano nella filiera del cibo, nella quale emerge con evidenza una scorretta ed ingiusta redistribuzione della catena del valore. Restando alla sola situazione italiana (ma i dati su scala globale sono persino più gravi) l’ISMEA, l’ente pubblico che analizza i mercati agroalimentari, nel suo ultimo rapporto del 2024 fa emergere che su 100 euro di spesa al supermercato il guadagno netto che va al settore agricolo  varia in una forbice da va da 1,5 a 7 euro, tutto il resto copre i profitti dei vari soggetti che intervengono a vario titolo nella filiera con circa 36 euro medi (lordi) che finiscono alla grande distribuzione finale

Il paradosso della carne = E’ sicuramente il cibo nel quale di più si condensano le problematiche e le contraddizioni dell’intera filiera e che più rappresenta il possibile equilibrio tra consumi individuali ed aspetti politici generali. A partire dalla sua quantità che è spaventosamente alta: la produzione globale di carne è stimata in circa trecentocinquanta milioni di tonnellate all’anno fornite da qualcosa come settanta miliardi di capi tra avicoli, bovini, suini, ovini e caprini, che complessivamente per essere allevati richiedono il 70% della terra agricola anche se coprono solo il 20% delle proteine mangiate. Sono cifre che bene spiegano l’impressionante incidenza del settore della carne (specie bovina) sulla produzione di gas serra e sull’ inquinamento ambientale. Se ne mangia comunque davvero tanta e, se gli attuali trend si confermeranno, se ne mangerà sempre di più (in Cina e India, che fino a pochi anni fa ne consumavano pochissima, il consumo di carne conosce una impressionante crescita).

La soluzione globalmente proposta, a vario titolo e da differenti protagonisti, è finora consistita nell’appello/raccomandazione a “mangiare meno carne(con tutte le conseguenti diatribe fra carnivori e vegetariani/vegani) sono ben poche invece le voci che si sono levate per proporre di “produrre meno carne”, sembra una sottigliezza semantica, ma non lo è. Perché il consumo di carne (che sostiene, come si è visto, i profitti delle maggiori industrie alimentari) rappresenta l’esempio paradigmatico della necessità di spostare le strategie alternative dalla dimensione del consumatore a quella della politica. Non si può infatti prevedere quanto consenso avrà l’invito, per quanto condivisibile sotto diversi punti di vista, a mangiare meno carne (proprio mentre i dati indicano una costante crescita globale del suo consumo), è però certo che i tempi di una augurabile svolta saranno quanto meno molto lunghi, mentre è impellente la necessità di ridimensionare l’impatto di un settore così energivoro e così impattante.

Ed è quindi la politica che è chiamata ad intervenire da subito e con la maggiore efficacia possibile. Lo deve fare a livello locale, nazionale e internazionale, adottando strategie mirate di diversa natura che vanno dal fermare un’ulteriore espansione della zootecnia a sostegni per una sua sostenibile riconversione, dall’adozione di menù con una calibrata offerta di carne per le mense scolastiche e aziendali (aspetto che può sembrare marginale ma che a ben vedere riguarda l’erogazione di centinaia di migliaia di pasti giornalieri)

Le misure ecologiche nel mirino dell’agroindustria = Esiste infine, oltre a quello della carne, un secondo paradosso, che ancor più e meglio conferma l’opportunità di chiamare in causa la politica in luogo della indistinta figura del consumatore, che consiste in un capovolgimento della storia in base al quale i responsabili dell’attuale crisi alimentare sarebbero le misure ecologiche e chi le propone. Se si vuole davvero capire la dimensione politica del cibo questo è un ottimo punto di partenza, confermato da quanto sta succedendo nella stessa UE, ossia nella parte del mondo dove oggettivamente da tempo queste problematiche ricevono le maggiori attenzioni alle quali seguono concreti provvedimenti, come quello della strategia “Farm to fork(dalla fattoria alla forchetta) del 2019 che, nell’ambito del Green Deal europeo, aveva l’obiettivo di rendere più sostenibile il settore agricolo. Purtroppo per un insieme di ragioni che vanno dalla ferma opposizione dell’agro-industria, compresa quella di parte del mondo contadino (le marce dei trattori) troppo succube rispetto alla grande distribuzione, ai timori innescati dalle turbolenze nel mercato alimentare seguite allo scoppio del conflitto russo-ucraino, l’attenzione si è presto riposizionata sulla necessità di difendere, costi quel che costi, i modi tradizionali di produrre cibo. Una svolta retrograda, fatta propria dalle destre sovraniste e populiste, finalizzata a screditare le misure ecologiche in agricoltura e ad attribuire al valore della sostenibilità la responsabilità dei costi del cibo. In base a quanto fin qui evidenziato non deve certo stupire che questa politica al servizio delle lobby strizzi l’occhio al consumatore, alle sue comprensibili esigenze di bilancio ed alle sue molto meno condivisibili abitudini alimentari, per averlo alleato contro l’opposta politica che, seppure ancora troppo timidamente, guarda finalmente ad un cibo ambientalmente e socialmente sostenibile.  


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