La Parola del mese
Una parola in grado
di offrirci nuovi spunti di riflessione
GIUGNO 2025
Nel campo, questo sì
davvero “largo”, dei diritti civili da conquistare, consolidare e difendere, da
tempo occupa una posizione centrale il diritto della singola persona di
decidere, a fronte di una sofferenza fisica senza speranza di risoluzione e
divenuta ormai insopportabile, tempi e modalità della propria morte. Da troppo
tempo la politica, bloccata da strumentali contrapposizioni ideologiche, si sta
dimostrando incapace di fornire concrete risposte ad una esigenza sempre più
diffusamente condivisa che già sconta la divisione fra credenti, ispirati dal
valore della “sacralità della
vita”, e non credenti, più attenti al valore della “qualità della vita”. E’ quindi elemento di conforto constatare che
anche nell’ambito degli studi teologici non mancano importanti contributi che
si propongono di andare oltre questa contrapposizione offrendo nel merito della
questione spunti di riflessione che meritano, al di là della loro condivisione,
di essere attentamente valutati. La Parola di questo mese, scelta proprio per meglio
conoscerli, è ….. (dal Vocabolario Treccani on line)
FINIS VITAE
“fīnis” = parola
latina traducibile in “limite, cessazione”
vale a dire l’ultima parte,
l’ultimo tempo di una cosa, ma anche la finalità di un’azione che, associata
all’altra parola latina “vita/vitae”,
“vita”, intesa in
particolare nel suo indicare ciò che ne costituisce l’essenza, la ragione,
rappresenta al tempo stesso “il fine fondamentale
della vita” ossia ciò che le dà valore e significato e, come
suo indissolubile legame e controcanto, il suo venire meno con l’inevitabile
fine biologica
Ci faremo guidare in
questo approfondimento da un interessante testo
che
ha rappresentato il testamento culturale del suo autore Giannino Piana (1939/2023,
teologo moralista, docente di etica cristiana presso l’Università di Urbino e
di Etica ed economia presso l’Università di Torino, a lungo Presidente dell’
“Associazione Studi Teologici Italiana per lo studio della Morale”)
Lo spunto per utilizzare
questo saggio di Giannino Piana ci è stato fornito da un articolo di Enzo
Bianchi, monaco e saggista, che lo segnalava come importante riflessione sul fīnis vitae, e sul connesso
enigma del “dolore”, avviata
proprio per tentare di individuare un punto di incontro tra razionalismo laico
e confessionalismo religioso, esprimendo al contempo, con un passaggio di
significativa apertura, l’opportunità per i credenti di non trasformare, per
eccesso di schematismo dottrinale, la sacralità della vita” in “biolatria”, (l’adorazione
della vita in quanto tale).
”””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””
PARTE PRIMA = Le ragioni di una nuova prospettiva di approccio
Se è pur vero che il tema
della morte, del suo perché e dei suoi come, da sempre accompagna il percorso
esistenziale e culturale di tutta l’umanità, qualcosa deve pur essere intervenuto
nella modernità occidentale per farlo divenire una delle tematiche più
dirimenti nel dibattito culturale e politico sui diritti civili. Questo
qualcosa si compone di almeno tre aspetti, va da sé tra di loro intrecciati,
che richiedono di essere comunque distintamente presi in esame, il primo ed il
più recente in ordine temporale, è sicuramente rappresentato dagli straordinari sviluppi della medicina
ed in particolare di quelli delle biotecnologie.
Negli ultimi decenni si è infatti
gradualmente modificata la stessa identità della (bio)medicina che al suo tradizionale essere
curativa, preventiva e riabilitativa, ha aggiunto una formidabile capacità,
progettuale e sperimentale, di incidere in profondità in tutti i meccanismi
biologici che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte, ottenendo impressionanti
successi su malattie e sofferenze che hanno (perlomeno nella parte
ricca del mondo)
migliorato tantissimo la qualità della vita.
Si tratta di un cambio di
paradigma così radicale che, come preoccupante controcanto, ha persino
innescato in alcuni settori della ricerca medica una sorta di “hybris”, una superba
tentazione prometeica di poter forgiare un uomo nuovo sganciato dai suoi
presunti limiti biologici e fisiologici, procedendo ad ogni modificazione
divenuta possibile avendo come criterio esclusivo quello della sua fattibilità
e della sua utilità senza porsi fastidiose domande sul suo senso ultimo.
L’equazione che ne
consegue, fra il “tecnicamente
possibile” e l’ “eticamente
lecito” è però sostenibile solo con la riduzione, definitiva e
totale, del corpo “a mero
oggetto”, ad un insieme di organi, modificabili a piacimento,
privato della sua ben più complessa connotazione di “persona”, di vivente dotato di
coscienza. La consapevolezza, sempre più trasversalmente diffusa, di essere in
questo modo giunti di fronte ad un non più aggirabile bivio etico ha innescato
reazioni di perplessità, persino di ansietà, che hanno posto domande ed
obiezioni di indubbia consistenza.
In particolare in molti si
è fatta strada la convinzione che, essendo scienza e tecnica un sapere mai del
tutto neutrale, dietro questa hybris stiano, in aggiunta all’indubbio peso
degli interessi che le sostengono, idee dell’uomo e del suo essere in questo
mondo che stanno stravolgendo la tradizionale filosofia che ha sin qui ispirato
la medicina. La possibilità di intervenire in modo sempre più efficace sul
corpo dell’uomo sta sempre più rendendo distinti due fini che dovrebbero al
contrario essere tenuti strettamente connessi: quello del “curare”, il correggere
tecnicamente le imperfezioni delle sue singole parti, e quello del “prendersi cura”, l’attenzione
che guarda invece alla persona nel suo insieme.
Si tratta di considerazioni
che incidono direttamente su tutte le tematiche collegabili al finis vitae. Il ricorso
eccessivo al “curare tecnico” porta infatti con sé una duplice tentazione:
quella di intervenire, non di rado in modo ossessivo, sulla persona con la
finalità di prolungarne la pura vita biologica, ciò che viene definito “accanimento terapeutico”, o
all’opposto di abbandonarla a sé stessa quando la tecnica si dimostri incapace
di guarigione. In entrambi questi casi però ciò che drammaticamente emerge è
che “l’inguaribilità”
si traduce in una inaccettabile “incurabilità”,
in un cinico rifiuto del “prendersi cura” che al contrario dovrebbe non venire
mai meno fino al momento della morte.
Si può già qui anticipare
un primo giudizio: la domanda
di eutanasia, di suicidio assistito, il rifiuto dell’accanimento terapeutico
hanno spesso origine da questa situazione, dalla percezione che la
persona ha di sentirsi lasciata sola al suo dolore, al suo destino.
Più in generale sembra
inoltre emergere una forma di contraddittorio rapporto tra “natura” e “cultura”: se da sempre
nascita e morte, eventi naturali, sono stati dall’uomo vissuti ed elaborati con
processi culturali sempre più elaborati e raffinati, l’attuale sviluppo
scientifico, fattore altrettanto culturale, pone per la prima volta l’umanità nella
condizione potenziale di modificare l’evento naturale.
In questo contesto anche eutanasia e accanimento terapeutico, pur essendo di segno opposto, vanno viste come possibili conseguenze
di questo cambio di paradigma che di fatto sancisce il passaggio della sfera
della “natura” a quella della “cultura”. Ed è esattamente in questo
snodo che si colloca, con la sua specifica incidenza, il secondo fattore di
novità da prendere in considerazione: l’affermarsi del concetto di “dignità umana”.
In realtà l’idea di
attribuire alla persona umana una specifica categoria valoriale, quella della
dignità, non è poi così nuova, era infatti già ben presente nella cultura
romana, la dignitas,
anche se attribuita unicamente al “civis romanus liber”, ai cittadini romani liberi, a segnare
un tratto distintivo da tutti gli altri uomini. La piena trasformazione nella
sua attuale declinazione, come caratteristica
appartenente ad ogni persona in quanto essere unico e irripetibile che implica il
suo pieno rispetto, è però avvenuta molto più tardi a partire
dall’Illuminismo e dalla sua traduzione nelle rivoluzionarie Costituzioni
americana e francese di fine Settecento che l’hanno fatta rientrare a pieno
titolo nel campo dei “diritti
umani”.
Il concetto di dignità
umana ha successivamente conosciuto, nel corso dei complessi processi storici
ottocenteschi e novecenteschi, una tormentata evoluzione caratterizzata da due
sue differenti interpretazioni: una prima che ha accentuato il suo aspetto più
“individualista”
di “diritto soggettivo”
, alla base della cosiddetta “cultura
dei diritti”, ed una seconda più attenta al suo aspetto “relazionale”, al suo
ineliminabile rapporto con l’ “alterità”
tradotto nella cultura dei “diritti
e dei doveri”. Non appare così semplice la sintesi tra queste due
interpretazioni che segnando, va da sé con molti altri fattori, la stessa linea
di divisione fra una visione di destra ed una di sinistra rischiano di
esasperarsi fino a divenire fra di loro conflittuali.
Eppure una qualche loro
conciliazione rappresenta un passaggio obbligato allorquando il concetto di
dignità umana entra in gioco nel finis vitae. Per realizzarla la prima domanda alla
quale occorre rispondere è se il rispetto incondizionato per la persona e la
sua dignità si completa nel suo mero dato biologico, aspetto totalmente
individuale, o se al contrario deve guardare alla dimensione complessiva della
sua esistenza comprensiva quindi del sistema di relazioni che la compongono e
del suo ruolo sociale.
Nel primo caso il rispetto
potrebbe infatti essere limitato alla sola gestione “curativa” della sofferenza biologica,
nel secondo invece è lo stesso percorso di avvicinamento verso la morte nella sua
interezza che deve essere “preso
in cura”. Ciò che viene condensato nel concetto di “morte dignitosa”, in questa
seconda accezione, deve consistere nel diritto di vivere il finis vitae,
soprattutto quando resa difficile e dolorosa da malattie e traumi, conservando
il più possibile la sua complessiva dignità di persona. Questa concezione di
morte dignitosa, per i tanti che in modo trasversale la sostengono, deve in
primo luogo consistere nel riconoscimento della facoltà di autodeterminazione, vale a
dire nella possibilità di decidere in “autonomia” della propria morte, scegliendone quindi
momento e modalità.
Non meno diffusa è l’idea
che il diritto di autonomia decisionale deve, proprio per poter essere realizzato
nella sua interezza, integrarsi con quello della “benificità”, ossia l’accertamento che la scelta
di tempi e modi possa essere concretamente perseguita avendo come finalità
prioritaria il maggior benessere possibile della persona, ma anche quella della “giustizia/equità sociale”, garantendo
cioè a tutti, nessuno escluso al di là della loro condizione socio-economica, pari
opportunità di poterla pienamente esercitare (Giannino Piana
integra queste considerazioni valoriali evidenziando il ruolo centrale del “rapporto medico-paziente” che
deve essere improntato ad una loro “alleanza
terapeutica” la quale a sua volta chiama in causa un adeguato modello di
“medicina di relazione”).
A completare questi due
primi fattori subentra infine il terzo che, avendo valenza di fondo, dà ad
entrambi il loro senso ultimo: il
difficile rapporto dell’uomo di oggi nei confronti della morte.
La paura, l’angoscia, il rifiuto,
la speranza, sono i tratti fondamentali che hanno da sempre segnato
universalmente il rapporto dell’uomo con il mistero della morte e che,
limitandoci al mondo occidentale, sono chiaramente rintracciabili nella cultura
che qui si è progressivamente costruita a partire dal Medioevo, con la sua
commistione fra forme mitiche del mondo classico pagano e tradizione cristiana,
per poi conoscere una svolta decisiva con il settecentesco Illuminismo e la sua
messa in discussione di sacralità e visione cristiana dell’aldilà che hanno
dato forma al moderno laicismo.
Questo quadro millenario
sta però conoscendo nell’attuale contemporaneità una trasformazione, alla base
dei primi due fattori di cambiamento, che sembra aver davvero messo in
definitiva crisi l’idea di “naturalità
del morire” che lo ha sin qui ispirato. Le più rilevanti
caratteristiche di questa trasformazione, che formano un connubio non privo di
contraddizioni, sembrano essere:
una “de-naturalizzazione”, ossia, come già
evidenziato in precedenza, il passaggio della morte da evento naturale ad
evento culturale, un aspetto che ha accentuato i sentimenti di paura e rifiuto
una “de-socializzazione”, la riduzione del morire,
riferito alla “persona”,
ad evento privato, sganciato da riferimenti sociali salvo i limitati casi di
morti determinate da particolari eventi pubblici
una “de-simbolizzazione”, il passaggio da una “comprensione” della morte,
fornita dal viverla come mistero irrisolvibile e dal trasferirla in un
orizzonte simbolico (che se coincide con una visione religiosa
chiama in causa anche una “de-sacralizzazione”), ad una sua “spiegazione” resa possibile dal suo
collocarla in un contesto neutro esterno all’uomo, alla persona
una “de-temporalizzazione”, la rimozione della morte
dal procedere naturale del tempo di vita per viverla, in una sorta di “presentismo”, di piena
concentrazione sul presente, come evento a sé stante privo di passato e, nella
visione desacralizzata, di futuro
una “de-contestualizzazione”, ovvero il morire al di
fuori del contesto, familiare e relazionale, in cui si è vissuti perché la sua
normale gestione medica implica, ormai quasi sempre, che la morte avvenga in
strutture separate (ospedali, cliniche, case per anziani e
cronicari) negando
così la sua condivisione con i legami che hanno segnato la vita
Dall’insieme di questi
tratti sembra emergere un quadro, non armonico ed anzi decisamente disturbato, in
gran misura composto da rimozione, un di più di paura, isolamento, solitudine,
freddezza, che sottrae la morte, e la sua naturalità, dal generale ambito della
vita rendendolo un fatto a sé e come tale estraneo, quando non antagonista, ai
valori del vivere. Una evoluzione culturale che rende ormai difficile concepire
la morte come il “normale
compimento” del vivere umano così come per tutte le forme di vita
terrestri.
La seconda parte del testo di Giannino
Piana si interroga, sulla base di queste prime riflessioni, sui modi di vivere
in quanto preparatori per una morte davvero dignitosa.
PARTE SECONDA = Alcune questioni preliminari
Si è già detto come
l’attuale difficoltà di definire un condiviso quadro normativo del finis vitae
consista, oltre che nell’ingiustificabile ignavia della politica, nella netta
contrapposizione tra l’idea della “sacralità della vita”, sostenuta dal pensiero cattolico, e
quella della “qualità della
vita”, valore fondante del pensiero laico. Ma si è davvero di fronte
a posizioni così graniticamente compatte al loro interno da escludere punti di
incontro e di mediazione? E se questa si dimostrasse in qualche modo possibile
quali potrebbero essere i suoi elementi caratterizzanti?
Una risposta a queste
domande deve, per una corretta conoscenza e gestione dei termini della
contrapposizione, entrare nel merito delle concezioni del mondo e dell’uomo che
le sostengono. Nel primo campo, quello della sacralità della vita, la sua idea
poggia indubbiamente su una visione religiosa: la vita viene da Dio e solo Dio può toglierla (è questa la motivazione
ufficialmente addotta nella “Dichiarazione
sull’eutanasia” della Congregazione per la dottrina della fede del 1974
che ancora oggi vale come indicazione dottrinale sul tema). Questa valenza così assoluta sembrerebbe
escludere qualsivoglia possibilità di mediazione con l’idea laica della qualità
della vita che in contrapposizione altrettanto netta viene, in quanto valore
non tanto biologico quanto “biografico”,
interamente attribuita alla
singola persona ed al suo intero vissuto.
Anche se non mancano nel
campo laico posizioni che, partendo da un punto di vista filosofico e non
religioso, comunque attribuiscono alla vita un carattere, per alcuni versi
assimilabile a quello di sacralità, di “inviolabilità” (Giannino Piana cita
le controverse prese di posizione assunte da Norberto Bobbio in occasione del
referendum sull’aborto, in quel
specifico contesto però lo stesso Bobbio precisava che il concetto di
inviolabilità non significava automaticamente totale intangibilità), così come in quello cattolico
corrispondenti riflessioni che molto riconoscono al concetto di qualità della
vita, sembra ancora difficile, a fronte di una così netta contrapposizione di
partenza, superare l’incompatibilità delle conseguenti bioetica cattolica e
bioetica laica.
Per tentare di definire una
convergente bioetica, il primo passo utile deve necessariamente consistere nel
risalire a queste loro differenti
concezioni antropologiche, alle diverse idee dell’essere uomini che
ne conseguono, per cercare, in questo sforzo, di individuare quale punto di
incontro possa esistere fra la maggiore importanza attribuita dalla visione
cattolica alla tutela della vita fisica rispetto a quella laica della qualità
della vita, così come alle non meno diversificate priorità attribuite al
concetto di individuo piuttosto che di persona.
La convergenza che si deve
ricercare fra queste così marcate differenze può essere costruita, al termine
di un percorso di reciproco rispettoso ascolto, cercando ostinatamente di
individuare un “minimo comune
morale”, una concezione dell’uomo e della sua vita capace di fissare
un condiviso livello di accettazione morale sotto il quale non sarebbe data
alcuna coesione sociale. Un obiettivo irrinunciabile che richiede ad entrambe le differenti concezioni antropologiche una
sincera messa in atto non solamente della pur indispensabile rispettiva “razionalità”, ma anche il
supporto di una non meno sincera “ragionevolezza”, vale a dire la capacità di arricchire la
riflessione razionale con la concreta “esperienza” umana nella sua completezza così
come si è sin qui costruita e così come è chiamata a rimodularsi in relazione
al radicale cambio di paradigma di cui si è detto nella Parte prima.
Questa prospettiva, se
davvero convintamente condivisa, non può non legarsi al concetto di “dignità umana”, non a caso già
al centro delle discussioni sul finis vitae, concordemente inteso come il diritto di ogni individuo/persona, a prescindere dalle
sue condizioni contingenti, ad essere protetto da qualsiasi forma di violazione
e strumentalizzazione tenendo in debito conto la sua “relazionalità sociale”, il
suo essere inserito in un contesto sociale ed umano ed al tempo stesso l’elemento trascendentale del concetto
di umano che va oltre il suo essere un soggetto meramente biologico.
Sono questi i concetti ed i valori sui
quali Giannino Piana analizza, nelle successive parti del suo testo, l’attuale
situazione delle più importanti problematiche che concorrono a definire ciò che
s’intende, nell’attuale contesto sociale e politico, come tema del finis
vitae, nella convinzione che una loro sincera ed obiettiva
condivisione aiuti a superare l’attuale stallo
PARTE TERZA e QUARTA = Eutanasia – suicidio assistito –
accanimento terapeutico – cure palliative – testamento biologico
Eutanasia: Etimologicamente indica una “buona morte”, quella che il pensiero millenario di cui si è detto faceva coincidere con una “morte naturale la meno dolorosa possibile” e che nell’attuale mutato contesto è passata ad indicare più esattamente un “atto, passivo o attivo, finalizzato a mettere fine ad una vita umana ormai ridotta ad uno stato di insopportabile sofferenza”.
Questa casistica di
massima, proprio grazie agli sviluppi delle biotecnologie, si è di molto
ampliata comprendendo, oltre ai malati oncologici ormai terminali, altre patologie
altrettanto impattanti. Essa chiama in causa essenzialmente due valori, non
sempre così facilmente componibili: quello della vita e quello della morte dignitosa, che a
seconda della specifica patologia implicano diverse loro modulazioni.
Il pensiero ufficiale della Chiesa Cattolica è quello di una sua ferma
condanna qualunque sia la situazione specifica in cui viene invocata. Questa posizione di irremovibile
condanna poggia, come si è visto nella Parte Seconda, nella inviolabilità della
vita il cui solo padrone è Dio creatore e redentore. Non si discosta, in generale, da questa convinzione
la ricerca teologica seppure con una certa dose di maggiore modulazione (che giunge, vedi Enzo
Bianchi, alla denuncia di un rischio di “biolatria”).
Non mancano tuttavia prese di posizione teologiche di aperto dissenso, la più
famosa delle quali è sicuramente quella di Hans Kùng (1928/2021,
teologo svizzero, la cui riflessione sul tema, come da lui stesso evidenziato,
è stata influenzata dalla dolorosissima morte di un fratello, stroncato da un
tumore al cervello a soli 22 anni, e da quella non meno dolorosa di un collega
ed amico morto di Alzheimer dopo tanti anni di sofferenza e di totale
stravolgimento della personalità).
Kùng considera il diritto
ad una morte dignitosa, ancorchè indotta, un “diritto morale prima ancora che legale”, essendo
convinto che dal diritto
della vita non deriva un assoluto dovere di vita, soprattutto quando
questa è ridotta a condizioni impossibili. Il “dono” della vita all’uomo da parte di Dio, che
per il vero credente rappresenta comunque una parentesi terrena in attesa della
vita eterna, è dato per
essere gestito responsabilmente sulla base del principio dell’auto-disposizione
di sé, e può quindi implicare anche la possibilità dell’eutanasia per
quanto doverosamente circoscritta ad alcuni casi rigorosamente verificabili.
Sulla scia di Kung sono
molti gli intellettuali cattolici che manifestano, e spesso promuovono, diffuse
prese di posizione a favore dell’eutanasia, (una recente inchiesta
condotta dal sociologo Franco Garelli, torinese e cattolico, ha indicato nel
63% la percentuale di coloro, cattolici e non, che si dichiarano favorevoli a
tale soluzione). Le
ragioni che spiegano questo dissenso di merito nei confronti della dottrina
ufficiale cattolica sono di diverse ragioni, ma quella dichiaratamente più
condivisa è proprio l’esperienza di accompagnare il finis vitae di amici e parenti duramente colpiti da dolorose
malattie inguaribili e l’argomentazione quasi sempre addottata per spiegarne la
legittimazione è la constatazione che in quelle condizioni estreme la vita non è più degna di essere
vissuta.
Questa argomentazione
ricalca nella sua sostanza quella che, semmai con maggiore enfasi, viene
sostenuta dal fronte laico. Dal quale viene aggiunta una constatazione statistica
di importante rilievo: in Olanda, il primo paese a legalizzare la pratica
dell’eutanasia nel 1994, la percentuale sul totale della popolazione di coloro
che vi hanno fino ad oggi fatto ricorso è di circa il 2%, un dato che testimonierebbe come, a
fronte di una chiarezza normativa, non si innescano per nulla i temuti fenomeni
di incontrollabile abuso, così come paventato nei documenti
ufficiali della Chiesa Cattolica sul tema.
La legislazione italiana
sulla quale occorre intervenire, se mai un fronte ampio di sostegno alla sua
riforma avesse successo, avendo prima concordemente definito il minimo comune
morale sul tema, è al riguardo particolarmente rigida: l’art. 579 del Codice
Penale considera infatti l’eutanasia un reato di “omicidio del consenziente”. Il problema è però
complicato dal fatto che, ad aggravare l’ignavia parlamentare in materia,
l’eccesso ideologico del dibattito sulla questione ha prodotto una così lunga
serie di proposte di legge in materia, che vanno dalla piena legalizzazione al
totale rifiuto, da rendere al momento impraticabile una qualche sintesi
concretamente realizzabile.
Una ulteriore complicazione
è inoltre data dalla differenza di opinioni, ben presente all’interno del
possibile fronte comune di sostegno ad una riforma, sulle forme di eutanasia da
legalizzare: se su quella “attiva”
(la
morte del paziente direttamente indotta, di solito mediante endovena) una sintesi normativa è, per certi
versi, paradossalmente più semplice su quella “passiva” (la cessazione di ogni trattamento
medico che mantiene in vita il paziente) le opinioni sono più variegate perché si entra in una
sorta di zona grigia in cui non è semplice distinguere tra eutanasia vera e
propria e cessazione di accanimento terapeutico. [Un
possibile compromesso sul quale sembra vertere la discussione è quello di
distinguere i trattamenti applicabili tra “mezzi proporzionati” e “mezzi sproporzionati”, per indicare che lo stesso
tipo di trattamento deve essere valutato in relazione alla situazione specifica
del paziente, una scelta totalmente in capo al medico che deve valutare “in scienza e coscienza”]
Suicidio assistito:
la finalità è identica a quella dell’eutanasia, ma sono diverse le modalità, in
questo caso è il paziente stesso a darsi, seppur aiutato, la morte, e non di
meno le situazioni che ne determinano la scelta. Se infatti di norma
l’eutanasia interessa malati terminali in situazioni di grande sofferenza quasi
sempre non più lucidi, il suicidio assistito è un atto di sostegno fornito ad
un paziente mentalmente
lucido colpito da identiche
situazioni, ma in altri casi impedito, da traumi o malattie neurodegenerative,
alle normali attività fisiologiche in forme fortemente invasive e senza
speranza di soluzione.
Il termine “suicidio” (etimologicamente
l’omicidio su di sé) evoca un atto umano da sempre
presente, con motivazioni e finalità molto differenziate, in tutte le culture
umane, non di rado messo in atto anche con complesse procedure rituali a
significarne un’autentica valenza culturale. Se a lungo la sua messa in atto ha
comportato il ricorso a modalità violente, recentemente la disponibilità di
mezzi molto meno invasivi e traumatici lo ha reso una pratica meno estrema e
più facilmente praticabile, al punto che il ricorso al suicidio ha assunto un
così diffuso e preoccupante incremento da porre significativi interrogativi
sociologici, psicologici e financo culturali. Un quadro che nulla ha a che
vedere con quello qui in questione, ma che evidenzia nella comune opinione
pubblica un generale mutamento di valutazione del suicidio di cui tenere conto.
Nell’ambito del finis vitae i giudizi etici sul suicidio assistito si
articolano su prese di posizione, altrettanto diversificate di quelle viste per
l’eutanasia, che vanno da rifiuto radicale alla totale legittimazione passando
per diversi livelli di accettazione a certe condizioni più o meno restrittive. Quella della Chiesa Cattolica è, sulla
base dell’identico assunto dottrinale della sacralità della vita, per certi versi più rigida di quella
sull’eutanasia (per il suicida è sancito il rifiuto della
sepoltura ecclesiastica, un norma leggermente attenuata con la concessione al
Vescovo di sancire un’eccezione per casi clamorosamente dolorosi) anche se vanno storicamente registrate
delle significative eccezioni
di suicidi giustificati perché commessi per difendere fino all’estremo i valori
della fede (esemplare
è il caso di Pelagia suicida per non cedere ai persecutori e per questa sua
scelta persino proclamata santa)
che lascerebbero intendere che la vita in sé non sia sempre e comunque il
valore ultimo dell’uomo, ma che possa
essere sacrificato in ragione di valori giudicati più alti.
In questa sottilissima
breccia si sono inserite riflessioni teologiche sul suicidio legato a
situazioni di estrema gravità in cui, per l’appunto, intervengono altri valori
oltre a quello della sacralità della vita. A fronte di un sostanziale
allineamento alla posizione ufficiale della Chiesa Cattolica si possono infatti
registrare in campo teologico coraggiose prese di posizione (come
quella di Adrian Holderegger,
professore di teologia presso l’Università di Friburgo in Svizzera) che (sempre in nome del
principio dell’auto-disposizione
di sé già evidenziato da Kung riguardo l’eutanasia) ritengono possibile che in situazioni
estreme di grave perdita del
senso della vita, esattamente quelle riscontrabili nelle due esemplari
vicende di Dj Fabo (tetraplegico dopo un
incidente) e di Piergiorgio Welby (colpito da una gravissima
forma di distrofia muscolare),
sia possibile riconoscere al soggetto la possibilità del suicido ancorchè
assistito per ovvie ragioni di impedimento fisico.
Si tratta per ora di
potenziali aperture ad un dialogo meno rigidamente precostituito che giocano,
anche in questo caso, la loro possibile evoluzione sulla definizione di un
minimo comune morale basato sulla condivisa individuazione delle situazioni in
cui si rende possibile constatare una inaccettabile perdita del senso di vita.
La strada appare al momento tutta in salita e la modifica dell’Art. 580 del
Codice Penale che prevede pene severissime (dai cinque ai dodici
anni di carcere) per
chi fornisce assistenza (perché valutata come rafforzamento al suicidio)
è ancora molto lontana.
Accanimento terapeutico
= Consiste nell’uso esasperato, che spesso confina il paziente in una sorta di
limbo privo di relazioni e stimoli affettivi, dell’apparato tecnologico medico
sempre più perfezionato e potente, una pratica che trova una crescente e
condivisa opposizione perché ritenuta la negazione del diritto di non essere
sottoposti ad inutili e spesso molto invasive pratiche che impediscono una “morte dignitosa”. Le
critiche che vengono mosse all’uso esasperato, e troppo spesso non motivato, di
tutte le potenzialità tecnologiche in campo medico si basano sul concetto di “proporzionalità delle cure”
altrimenti definito “proporzionalità
terapeutica” che, per poter essere applicato con empatica
oggettività, necessariamente chiama in causa “la competenza e la coscienza del medico”.
Su queste valutazioni si
registra, ormai da tempo, una confortante convergenza fra tutti i soggetti sin
qui presi in esame per le tematiche del finis vitae: la condanna dell’accanimento
terapeutico della Chiesa cattolica è netta ed ormai consolidata in quanto ciò
che eticamente è in questione non è la soppressione di una vita ma il suo prolungamento oltre i limiti
accertabili di una morte naturale. In campo laico si evidenzia ormai
una concorde limitazione in tutte le legislazioni dei paesi occidentali, quella
italiana lo ha fissato già nella stessa Costituzione del 1948 che all’articolo
32 cita testualmente che “nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario ………. (oltre) ….. i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Si è in questo caso di
fronte ad una convergenza che potrebbe, al di là delle positive ricadute sulla
specifica materia, rappresentare una importante base di partenza per la
definizione di una estendibile concezione
umanistica della medicina che ha al suo centro la persona del malato nella
concretezza della sua situazione clinica ed esistenziale.
Cure palliative =
L’importanza di una concezione umanistica della medicina trova una prima
rilevante conferma nel caso del “prendersi
cura” dei malati terminali di malattie incurabili che procurano
forti sofferenze fisiche e psicologiche. Il termine “palliativo” viene dall’inglese (palliative
cure), ma ha radici etimologiche nel latino “pallium”, il mantello di lana usato dai pastori
per proteggersi da freddo e malattie, che bene esprimono l’idea di cure da
attivare, quando non sussistono più speranze di guarigione, per garantire la
migliore qualità possibile di vita dignitosa per il tempo che rimane.
Comprendono, di
conseguenza, un insieme di attenzioni mediche, psicologiche, assistenziali,
relazionali, per giungere, al loro culmine, alla “sedazione terminale” ultimo baluardo contro il
dolore psicofisico e la stessa paura della morte. Sia l’etica laica che quella
cattolica riconoscono l’importanza delle cure palliative nell’umanizzazione del
finis vitae,
ma non di meno si interrogano su alcune questioni ad esse collegate. Quella più
importante riguarda proprio il ricorso alla sedazione terminale che
oggettivamente impedisce al malato la possibilità di assumere decisioni e che
comunque determina un inevitabile accorciamento della vita, una questione che
coinvolge, su versanti opposti, ambedue queste etiche.
Il concetto di minimo comune morale comune fin qui seguito in questi casi è stato quello del “bene assoluto” del malato
che, declinato in termini medici, comportava la priorità di annullare con la
sedazione lo stato di sofferenza del malato. Si sta però sempre più affermando
un concetto diverso, quello del “bene
possibile”, molto spesso semplicemente tradotto nel “male minore”. Alla base di
questo concetto sta il riconoscimento dei limiti delle azioni che, in questi
casi estremi, si possono mettere in atto, tutte indistintamente pongono
conflitti di valori, e quindi di doveri, che impediscono la formulazione di una procedura
standard adottabile in tutti i casi (per
quanto la legislazione italiana in materia abbia attuato costanti miglioramenti
ed ampliamenti delle risorse coinvolgibili in materia).
Torna così in scena, inevitabilmente,
il controverso ricorso a forme di eutanasia, con tutto il loro carico di
irrisolta conflittualità etica.
Testamento biologico =
E’ di per sé una definizione equivoca, il termine testamento di norma lascia
intendere la destinazione di beni agli eredi, nella fattispecie del finis vitae non c’è nulla di tutto questo essendo in effetti la
dichiarazione anticipata, per prevenire la possibilità di non essere più nella
condizione di esprimerlo di persona (stato terminale con
condizioni di incoscienza),
delle modalità con cui un individuo vorrebbe che venisse gestita.
Al di là della definizione
non mancano anche in questo caso interrogativi di ordine etico che non poco
hanno condizionato la sua definizione legislativa, in aggiunta alle procedure, quale l’eutanasia (che
comunque compare in molti testamenti biologici), che come si è visto richiedono una gestione a
sé stante, sono in
particolare due quelle che di più hanno contraddistinto il confronto sul tema:
la scelta di non essere sottoposti a nutrizione/idratazione forzate, e fino a che punto le indicazioni testamentarie
devono essere considerate vincolanti ovvero se vi sia spazio per una eventuale
diversa indicazione del medico che segue il caso.
Sulla prima questione il
dibattito, a suo tempo molto accentuato dalla nota vicenda di Eluana Englaro (una
giovane donna caduta a seguito di un incidente in stato vegetativo tenuta in
vita per ben 17 anni grazie alla nutrizione artificiale, fino alla sua morte
avvenuta nel 2009 per l’interruzione di tale trattamento), fra le diverse concezioni etiche si è
articolato attorno a quale definizione si debba attribuire alla nutrizione artificiale:
quella di “sostegno vitale”,
e quindi di una pratica che non può essere interrotta, o quella di “cura medica”, il che
consentirebbe, a fronte di una precisa scelta in tal senso, di essere
interrotta? La prima interpretazione è stata sostenuta dalla Chiesa Cattolica e
da uno schieramento di forze politiche in gran prevalenza di centro-destra, la
seconda invece dal fronte laico (al cui interno è stato forte
l’impegno del padre di Eluana, Beppino Englaro) con l’appoggio del centro-sinistra.
Dopo un acceso confronto, ancora una volta segnato da strumentalizzazioni
ideologiche, è prevalsa la seconda tesi (Legge 219 del 2017), il che ha consentito che tale scelta
possa ormai rientrare a pieno titolo nel testamento biologico.
La seconda invece resta un
tema aperto (non riferito solamente alla nutrizione
artificiale). Fortunatamente non altrettanto condizionato da
strumentalizzazioni politiche, che rimanda, per essere meglio compreso, al tema
dell’ “alleanza terapeutica”
segnalato in precedenza. Il dibattito ruota attorno alla natura vincolante del
testamento biologico che, se per certi versi deve pur avere una sua concreta
accettazione, potrebbe però impedire di dare spazio ad eventuali progressi in
campo medico intervenuti successivamente alla stesura del testamento biologico.
Potrebbe conformarsi come soluzione l’affidamento di una maggiore delega
decisionale alla figura del “rappresentante
legale” (una persona di fiducia indicata nel
testamento biologico come portavoce del testamentario) ponendolo nella condizione di essere
parte attiva nell’ambito dell’alleanza terapeutica con il medico
””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””
Giannino Piana chiude
questa sua pacata riflessione sul finis vitae e sulle
tante, e tanto complesse, problematiche che lo contraddistinguono, con
un’ultima considerazione che riprende un’idea della “morte” che ha attraversato tutto questo suo testo:
……. Il senso di paura e di angoscia che
oggi caratterizzano l’umana esperienza della morte, spingendolo alla sua
rimozione, è un sintomo di uno stato di malessere esistenziale proprio
dell’odierna condizione umana …. che impedisce all’uomo di prendere serena
coscienza di un limite che gli è connaturale ….. e quindi di viverlo
altrettanto serenamente come fatto naturale …..
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