domenica 1 giugno 2025

La Parola del mese - Giugno 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GIUGNO 2025

Nel campo, questo sì davvero “largo”, dei diritti civili da conquistare, consolidare e difendere, da tempo occupa una posizione centrale il diritto della singola persona di decidere, a fronte di una sofferenza fisica senza speranza di risoluzione e divenuta ormai insopportabile, tempi e modalità della propria morte. Da troppo tempo la politica, bloccata da strumentali contrapposizioni ideologiche, si sta dimostrando incapace di fornire concrete risposte ad una esigenza sempre più diffusamente condivisa che già sconta la divisione fra credenti, ispirati dal valore della “sacralità della vita”, e non credenti, più attenti al valore della “qualità della vita”.  E’ quindi elemento di conforto constatare che anche nell’ambito degli studi teologici non mancano importanti contributi che si propongono di andare oltre questa contrapposizione offrendo nel merito della questione spunti di riflessione che meritano, al di là della loro condivisione, di essere attentamente valutati. La Parola di questo mese, scelta proprio per meglio conoscerli, è ….. (dal Vocabolario Treccani on line)

FINIS VITAE

fīnis = parola latina traducibile in limite, cessazionevale a dire   l’ultima parte, l’ultimo tempo di una cosa, ma anche la finalità di un’azione che, associata all’altra parola latina “vita/vitae”, “vita”, intesa in particolare nel suo indicare ciò che ne costituisce l’essenza, la ragione, rappresenta al tempo stesso “il fine fondamentale della vita” ossia ciò che le dà valore e significato e, come suo indissolubile legame e controcanto, il suo venire meno con l’inevitabile fine biologica

Ci faremo guidare in questo approfondimento da un interessante testo


che ha rappresentato il testamento culturale del suo autore Giannino Piana (1939/2023, teologo moralista, docente di etica cristiana presso l’Università di Urbino e di Etica ed economia presso l’Università di Torino, a lungo Presidente dell’ “Associazione Studi Teologici Italiana per lo studio della Morale”)

Lo spunto per utilizzare questo saggio di Giannino Piana ci è stato fornito da un articolo di Enzo Bianchi, monaco e saggista, che lo segnalava come importante riflessione sul fīnis vitae, e sul connesso enigma del “dolore”, avviata proprio per tentare di individuare un punto di incontro tra razionalismo laico e confessionalismo religioso, esprimendo al contempo, con un passaggio di significativa apertura, l’opportunità per i credenti di non trasformare, per eccesso di schematismo dottrinale, la sacralità della vita” in “biolatria”, (l’adorazione della vita in quanto tale).

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PARTE PRIMA = Le ragioni di una nuova prospettiva di approccio

Se è pur vero che il tema della morte, del suo perché e dei suoi come, da sempre accompagna il percorso esistenziale e culturale di tutta l’umanità, qualcosa deve pur essere intervenuto nella modernità occidentale per farlo divenire una delle tematiche più dirimenti nel dibattito culturale e politico sui diritti civili. Questo qualcosa si compone di almeno tre aspetti, va da sé tra di loro intrecciati, che richiedono di essere comunque distintamente presi in esame, il primo ed il più recente in ordine temporale, è sicuramente rappresentato dagli straordinari sviluppi della medicina ed in particolare di quelli delle biotecnologie.

Negli ultimi decenni si è infatti gradualmente modificata la stessa identità della (bio)medicina che al suo tradizionale essere curativa, preventiva e riabilitativa, ha aggiunto una formidabile capacità, progettuale e sperimentale, di incidere in profondità in tutti i meccanismi biologici che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte, ottenendo impressionanti successi su malattie e sofferenze che hanno (perlomeno nella parte ricca del mondo) migliorato tantissimo la qualità della vita.

Si tratta di un cambio di paradigma così radicale che, come preoccupante controcanto, ha persino innescato in alcuni settori della ricerca medica una sorta di “hybris”, una superba tentazione prometeica di poter forgiare un uomo nuovo sganciato dai suoi presunti limiti biologici e fisiologici, procedendo ad ogni modificazione divenuta possibile avendo come criterio esclusivo quello della sua fattibilità e della sua utilità senza porsi fastidiose domande sul suo senso ultimo.

L’equazione che ne consegue, fra il “tecnicamente possibile” e l’ “eticamente lecito” è però sostenibile solo con la riduzione, definitiva e totale, del corpo “a mero oggetto”, ad un insieme di organi, modificabili a piacimento, privato della sua ben più complessa connotazione di “persona”, di vivente dotato di coscienza. La consapevolezza, sempre più trasversalmente diffusa, di essere in questo modo giunti di fronte ad un non più aggirabile bivio etico ha innescato reazioni di perplessità, persino di ansietà, che hanno posto domande ed obiezioni di indubbia consistenza.

In particolare in molti si è fatta strada la convinzione che, essendo scienza e tecnica un sapere mai del tutto neutrale, dietro questa hybris stiano, in aggiunta all’indubbio peso degli interessi che le sostengono, idee dell’uomo e del suo essere in questo mondo che stanno stravolgendo la tradizionale filosofia che ha sin qui ispirato la medicina. La possibilità di intervenire in modo sempre più efficace sul corpo dell’uomo sta sempre più rendendo distinti due fini che dovrebbero al contrario essere tenuti strettamente connessi: quello del “curare”, il correggere tecnicamente le imperfezioni delle sue singole parti, e quello del “prendersi cura”, l’attenzione che guarda invece alla persona nel suo insieme.

Si tratta di considerazioni che incidono direttamente su tutte le tematiche collegabili al finis vitae. Il ricorso eccessivo al “curare tecnico” porta infatti con sé una duplice tentazione: quella di intervenire, non di rado in modo ossessivo, sulla persona con la finalità di prolungarne la pura vita biologica, ciò che viene definito “accanimento terapeutico”, o all’opposto di abbandonarla a sé stessa quando la tecnica si dimostri incapace di guarigione. In entrambi questi casi però ciò che drammaticamente emerge è che “l’inguaribilità” si traduce in una inaccettabile “incurabilità”, in un cinico rifiuto del “prendersi cura” che al contrario dovrebbe non venire mai meno fino al momento della morte.

Si può già qui anticipare un primo giudizio: la domanda di eutanasia, di suicidio assistito, il rifiuto dell’accanimento terapeutico hanno spesso origine da questa situazione, dalla percezione che la persona ha di sentirsi lasciata sola al suo dolore, al suo destino.

Più in generale sembra inoltre emergere una forma di contraddittorio rapporto tra “natura” e “cultura”: se da sempre nascita e morte, eventi naturali, sono stati dall’uomo vissuti ed elaborati con processi culturali sempre più elaborati e raffinati, l’attuale sviluppo scientifico, fattore altrettanto culturale, pone per la prima volta l’umanità nella condizione potenziale di modificare l’evento naturale.

In questo contesto anche eutanasia e accanimento terapeutico, pur essendo di segno opposto, vanno viste come possibili conseguenze di questo cambio di paradigma che di fatto sancisce il passaggio della sfera della “natura” a quella della “cultura”. Ed è esattamente in questo snodo che si colloca, con la sua specifica incidenza, il secondo fattore di novità da prendere in considerazione: l’affermarsi del concetto di “dignità umana”.

In realtà l’idea di attribuire alla persona umana una specifica categoria valoriale, quella della dignità, non è poi così nuova, era infatti già ben presente nella cultura romana, la dignitas, anche se attribuita unicamente al “civis romanus liber”, ai cittadini romani liberi, a segnare un tratto distintivo da tutti gli altri uomini. La piena trasformazione nella sua attuale declinazione, come caratteristica appartenente ad ogni persona in quanto essere unico e irripetibile che implica il suo pieno rispetto, è però avvenuta molto più tardi a partire dall’Illuminismo e dalla sua traduzione nelle rivoluzionarie Costituzioni americana e francese di fine Settecento che l’hanno fatta rientrare a pieno titolo nel campo dei “diritti umani”.

Il concetto di dignità umana ha successivamente conosciuto, nel corso dei complessi processi storici ottocenteschi e novecenteschi, una tormentata evoluzione caratterizzata da due sue differenti interpretazioni: una prima che ha accentuato il suo aspetto più “individualista” di “diritto soggettivo” , alla base della cosiddetta “cultura dei diritti”, ed una seconda più attenta al suo aspetto “relazionale”, al suo ineliminabile rapporto con l’ “alterità” tradotto nella cultura dei “diritti e dei doveri”. Non appare così semplice la sintesi tra queste due interpretazioni che segnando, va da sé con molti altri fattori, la stessa linea di divisione fra una visione di destra ed una di sinistra rischiano di esasperarsi fino a divenire fra di loro conflittuali.

Eppure una qualche loro conciliazione rappresenta un passaggio obbligato allorquando il concetto di dignità umana entra in gioco nel finis vitae. Per realizzarla la prima domanda alla quale occorre rispondere è se il rispetto incondizionato per la persona e la sua dignità si completa nel suo mero dato biologico, aspetto totalmente individuale, o se al contrario deve guardare alla dimensione complessiva della sua esistenza comprensiva quindi del sistema di relazioni che la compongono e del suo ruolo sociale.

Nel primo caso il rispetto potrebbe infatti essere limitato alla sola gestione “curativa” della sofferenza biologica, nel secondo invece è lo stesso percorso di avvicinamento verso la morte nella sua interezza che deve essere “preso in cura”. Ciò che viene condensato nel concetto di “morte dignitosa”, in questa seconda accezione, deve consistere nel diritto di vivere il finis vitae, soprattutto quando resa difficile e dolorosa da malattie e traumi, conservando il più possibile la sua complessiva dignità di persona. Questa concezione di morte dignitosa, per i tanti che in modo trasversale la sostengono, deve in primo luogo consistere nel riconoscimento della facoltà di autodeterminazione, vale a dire nella possibilità di decidere in “autonomia” della propria morte, scegliendone quindi momento e modalità.

Non meno diffusa è l’idea che il diritto di autonomia decisionale deve, proprio per poter essere realizzato nella sua interezza, integrarsi con quello della “benificità”, ossia l’accertamento che la scelta di tempi e modi possa essere concretamente perseguita avendo come finalità prioritaria il maggior benessere possibile della persona, ma anche quella della “giustizia/equità sociale”, garantendo cioè a tutti, nessuno escluso al di là della loro condizione socio-economica, pari opportunità di poterla pienamente esercitare (Giannino Piana integra queste considerazioni valoriali evidenziando il ruolo centrale del “rapporto medico-paziente” che deve essere improntato ad una loro “alleanza terapeutica” la quale a sua volta chiama in causa un adeguato modello di “medicina di relazione”).

A completare questi due primi fattori subentra infine il terzo che, avendo valenza di fondo, dà ad entrambi il loro senso ultimo: il difficile rapporto dell’uomo di oggi nei confronti della morte.

La paura, l’angoscia, il rifiuto, la speranza, sono i tratti fondamentali che hanno da sempre segnato universalmente il rapporto dell’uomo con il mistero della morte e che, limitandoci al mondo occidentale, sono chiaramente rintracciabili nella cultura che qui si è progressivamente costruita a partire dal Medioevo, con la sua commistione fra forme mitiche del mondo classico pagano e tradizione cristiana, per poi conoscere una svolta decisiva con il settecentesco Illuminismo e la sua messa in discussione di sacralità e visione cristiana dell’aldilà che hanno dato forma al moderno laicismo.

Questo quadro millenario sta però conoscendo nell’attuale contemporaneità una trasformazione, alla base dei primi due fattori di cambiamento, che sembra aver davvero messo in definitiva crisi l’idea di “naturalità del morire” che lo ha sin qui ispirato. Le più rilevanti caratteristiche di questa trasformazione, che formano un connubio non privo di contraddizioni, sembrano essere:

*  una “de-naturalizzazione”, ossia, come già evidenziato in precedenza, il passaggio della morte da evento naturale ad evento culturale, un aspetto che ha accentuato i sentimenti di paura e rifiuto

*  una “de-socializzazione”, la riduzione del morire, riferito alla “persona”, ad evento privato, sganciato da riferimenti sociali salvo i limitati casi di morti determinate da particolari eventi pubblici

*  una “de-simbolizzazione”, il passaggio da una “comprensione” della morte, fornita dal viverla come mistero irrisolvibile e dal trasferirla in un orizzonte simbolico (che se coincide con una visione religiosa chiama in causa anche una “de-sacralizzazione”), ad una sua “spiegazione” resa possibile dal suo collocarla in un contesto neutro esterno all’uomo, alla persona

*  una “de-temporalizzazione”, la rimozione della morte dal procedere naturale del tempo di vita per viverla, in una sorta di “presentismo”, di piena concentrazione sul presente, come evento a sé stante privo di passato e, nella visione desacralizzata, di futuro

*  una “de-contestualizzazione”, ovvero il morire al di fuori del contesto, familiare e relazionale, in cui si è vissuti perché la sua normale gestione medica implica, ormai quasi sempre, che la morte avvenga in strutture separate (ospedali, cliniche, case per anziani e cronicari) negando così la sua condivisione con i legami che hanno segnato la vita

Dall’insieme di questi tratti sembra emergere un quadro, non armonico ed anzi decisamente disturbato, in gran misura composto da rimozione, un di più di paura, isolamento, solitudine, freddezza, che sottrae la morte, e la sua naturalità, dal generale ambito della vita rendendolo un fatto a sé e come tale estraneo, quando non antagonista, ai valori del vivere. Una evoluzione culturale che rende ormai difficile concepire la morte come il “normale compimento” del vivere umano così come per tutte le forme di vita terrestri.

La seconda parte del testo di Giannino Piana si interroga, sulla base di queste prime riflessioni, sui modi di vivere in quanto preparatori per una morte davvero dignitosa.

PARTE SECONDA = Alcune questioni preliminari

Si è già detto come l’attuale difficoltà di definire un condiviso quadro normativo del finis vitae consista, oltre che nell’ingiustificabile ignavia della politica, nella netta contrapposizione tra l’idea della “sacralità della vita”, sostenuta dal pensiero cattolico, e quella della “qualità della vita”, valore fondante del pensiero laico. Ma si è davvero di fronte a posizioni così graniticamente compatte al loro interno da escludere punti di incontro e di mediazione? E se questa si dimostrasse in qualche modo possibile quali potrebbero essere i suoi elementi caratterizzanti?

Una risposta a queste domande deve, per una corretta conoscenza e gestione dei termini della contrapposizione, entrare nel merito delle concezioni del mondo e dell’uomo che le sostengono. Nel primo campo, quello della sacralità della vita, la sua idea poggia indubbiamente su una visione religiosa: la vita viene da Dio e solo Dio può toglierla (è questa la motivazione ufficialmente addotta nella “Dichiarazione sull’eutanasia” della Congregazione per la dottrina della fede del 1974 che ancora oggi vale come indicazione dottrinale sul tema). Questa valenza così assoluta sembrerebbe escludere qualsivoglia possibilità di mediazione con l’idea laica della qualità della vita che in contrapposizione altrettanto netta viene, in quanto valore non tanto biologico quanto “biografico”, interamente attribuita alla singola persona ed al suo intero vissuto.

Anche se non mancano nel campo laico posizioni che, partendo da un punto di vista filosofico e non religioso, comunque attribuiscono alla vita un carattere, per alcuni versi assimilabile a quello di sacralità, di “inviolabilità(Giannino Piana cita le controverse prese di posizione assunte da Norberto Bobbio in occasione del referendum sull’aborto,  in quel specifico contesto però lo stesso Bobbio precisava che il concetto di inviolabilità non significava automaticamente totale intangibilità), così come in quello cattolico corrispondenti riflessioni che molto riconoscono al concetto di qualità della vita, sembra ancora difficile, a fronte di una così netta contrapposizione di partenza, superare l’incompatibilità delle conseguenti bioetica cattolica e bioetica laica.

Per tentare di definire una convergente bioetica, il primo passo utile deve necessariamente consistere nel risalire a queste loro differenti concezioni antropologiche, alle diverse idee dell’essere uomini che ne conseguono, per cercare, in questo sforzo, di individuare quale punto di incontro possa esistere fra la maggiore importanza attribuita dalla visione cattolica alla tutela della vita fisica rispetto a quella laica della qualità della vita, così come alle non meno diversificate priorità attribuite al concetto di individuo piuttosto che di persona.

La convergenza che si deve ricercare fra queste così marcate differenze può essere costruita, al termine di un percorso di reciproco rispettoso ascolto, cercando ostinatamente di individuare un “minimo comune morale”, una concezione dell’uomo e della sua vita capace di fissare un condiviso livello di accettazione morale sotto il quale non sarebbe data alcuna coesione sociale. Un obiettivo irrinunciabile che richiede ad entrambe  le differenti concezioni antropologiche una sincera messa in atto non solamente della pur indispensabile rispettiva “razionalità”, ma anche il supporto di una non meno sincera “ragionevolezza”, vale a dire la capacità di arricchire la riflessione razionale con la concreta “esperienza” umana nella sua completezza così come si è sin qui costruita e così come è chiamata a rimodularsi in relazione al radicale cambio di paradigma di cui si è detto nella Parte prima.

Questa prospettiva, se davvero convintamente condivisa, non può non legarsi al concetto di “dignità umana”, non a caso già al centro delle discussioni sul finis vitae, concordemente inteso come il diritto di ogni individuo/persona, a prescindere dalle sue condizioni contingenti, ad essere protetto da qualsiasi forma di violazione e strumentalizzazione tenendo in debito conto la sua “relazionalità sociale”, il suo essere inserito in un contesto sociale ed umano ed al tempo stesso l’elemento trascendentale del concetto di umano che va oltre il suo essere un soggetto meramente biologico.

Sono questi i concetti ed i valori sui quali Giannino Piana analizza, nelle successive parti del suo testo, l’attuale situazione delle più importanti problematiche che concorrono a definire ciò che s’intende, nell’attuale contesto sociale e politico, come tema del finis vitae, nella convinzione che una loro sincera ed obiettiva condivisione aiuti a superare l’attuale stallo

PARTE TERZA e QUARTA = Eutanasia – suicidio assistito – accanimento terapeutico – cure palliative – testamento biologico

Eutanasia: Etimologicamente indica una “buona morte”, quella che il pensiero millenario di cui si è detto faceva coincidere con una “morte naturale la meno dolorosa possibile” e che nell’attuale mutato contesto è passata ad indicare più esattamente un “atto, passivo o attivo, finalizzato a mettere fine ad una vita umana ormai ridotta ad uno stato di insopportabile sofferenza”.

Questa casistica di massima, proprio grazie agli sviluppi delle biotecnologie, si è di molto ampliata comprendendo, oltre ai malati oncologici ormai terminali, altre patologie altrettanto impattanti. Essa chiama in causa essenzialmente due valori, non sempre così facilmente componibili: quello della vita e quello della morte dignitosa, che a seconda della specifica patologia implicano diverse loro modulazioni.

Il pensiero ufficiale della Chiesa Cattolica è quello di una sua ferma condanna qualunque sia la situazione specifica in cui viene invocata. Questa posizione di irremovibile condanna poggia, come si è visto nella Parte Seconda, nella inviolabilità della vita il cui solo padrone è Dio creatore e redentore. Non si discosta, in generale, da questa convinzione la ricerca teologica seppure con una certa dose di maggiore modulazione (che giunge, vedi Enzo Bianchi, alla denuncia di un rischio di “biolatria”). Non mancano tuttavia prese di posizione teologiche di aperto dissenso, la più famosa delle quali è sicuramente quella di Hans Kùng (1928/2021, teologo svizzero, la cui riflessione sul tema, come da lui stesso evidenziato, è stata influenzata dalla dolorosissima morte di un fratello, stroncato da un tumore al cervello a soli 22 anni, e da quella non meno dolorosa di un collega ed amico morto di Alzheimer dopo tanti anni di sofferenza e di totale stravolgimento della personalità).

Kùng considera il diritto ad una morte dignitosa, ancorchè indotta, un “diritto morale prima ancora che legale”, essendo convinto che dal diritto della vita non deriva un assoluto dovere di vita, soprattutto quando questa è ridotta a condizioni impossibili. Il “dono” della vita all’uomo da parte di Dio, che per il vero credente rappresenta comunque una parentesi terrena in attesa della vita eterna, è dato per essere gestito responsabilmente sulla base del principio dell’auto-disposizione di sé, e può quindi implicare anche la possibilità dell’eutanasia per quanto doverosamente circoscritta ad alcuni casi rigorosamente verificabili.

Sulla scia di Kung sono molti gli intellettuali cattolici che manifestano, e spesso promuovono, diffuse prese di posizione a favore dell’eutanasia, (una recente inchiesta condotta dal sociologo Franco Garelli, torinese e cattolico, ha indicato nel 63% la percentuale di coloro, cattolici e non, che si dichiarano favorevoli a tale soluzione). Le ragioni che spiegano questo dissenso di merito nei confronti della dottrina ufficiale cattolica sono di diverse ragioni, ma quella dichiaratamente più condivisa è proprio l’esperienza di accompagnare il finis vitae di amici e parenti duramente colpiti da dolorose malattie inguaribili e l’argomentazione quasi sempre addottata per spiegarne la legittimazione è la constatazione che in quelle condizioni estreme la vita non è più degna di essere vissuta.

Questa argomentazione ricalca nella sua sostanza quella che, semmai con maggiore enfasi, viene sostenuta dal fronte laico. Dal quale viene aggiunta una constatazione statistica di importante rilievo: in Olanda, il primo paese a legalizzare la pratica dell’eutanasia nel 1994, la percentuale sul totale della popolazione di coloro che vi hanno fino ad oggi fatto ricorso è di circa il 2%, un dato che testimonierebbe come, a fronte di una chiarezza normativa, non si innescano per nulla i temuti fenomeni di incontrollabile abuso, così come paventato nei documenti ufficiali della Chiesa Cattolica sul tema.  

La legislazione italiana sulla quale occorre intervenire, se mai un fronte ampio di sostegno alla sua riforma avesse successo, avendo prima concordemente definito il minimo comune morale sul tema, è al riguardo particolarmente rigida: l’art. 579 del Codice Penale considera infatti l’eutanasia un reato di “omicidio del consenziente”. Il problema è però complicato dal fatto che, ad aggravare l’ignavia parlamentare in materia, l’eccesso ideologico del dibattito sulla questione ha prodotto una così lunga serie di proposte di legge in materia, che vanno dalla piena legalizzazione al totale rifiuto, da rendere al momento impraticabile una qualche sintesi concretamente realizzabile.

Una ulteriore complicazione è inoltre data dalla differenza di opinioni, ben presente all’interno del possibile fronte comune di sostegno ad una riforma, sulle forme di eutanasia da legalizzare: se su quella “attiva(la morte del paziente direttamente indotta, di solito mediante endovena) una sintesi normativa è, per certi versi, paradossalmente più semplice su quella “passiva(la cessazione di ogni trattamento medico che mantiene in vita il paziente) le opinioni sono più variegate perché si entra in una sorta di zona grigia in cui non è semplice distinguere tra eutanasia vera e propria e cessazione di accanimento terapeutico. [Un possibile compromesso sul quale sembra vertere la discussione è quello di distinguere i trattamenti applicabili tra “mezzi proporzionati” e “mezzi sproporzionati”, per indicare che lo stesso tipo di trattamento deve essere valutato in relazione alla situazione specifica del paziente, una scelta totalmente in capo al medico che deve valutare “in scienza e coscienza”]

Suicidio assistito: la finalità è identica a quella dell’eutanasia, ma sono diverse le modalità, in questo caso è il paziente stesso a darsi, seppur aiutato, la morte, e non di meno le situazioni che ne determinano la scelta. Se infatti di norma l’eutanasia interessa malati terminali in situazioni di grande sofferenza quasi sempre non più lucidi, il suicidio assistito è un atto di sostegno fornito ad un paziente mentalmente lucido colpito da identiche situazioni, ma in altri casi impedito, da traumi o malattie neurodegenerative, alle normali attività fisiologiche in forme fortemente invasive e senza speranza di soluzione.

Il termine “suicidio(etimologicamente l’omicidio su di sé) evoca un atto umano da sempre presente, con motivazioni e finalità molto differenziate, in tutte le culture umane, non di rado messo in atto anche con complesse procedure rituali a significarne un’autentica valenza culturale. Se a lungo la sua messa in atto ha comportato il ricorso a modalità violente, recentemente la disponibilità di mezzi molto meno invasivi e traumatici lo ha reso una pratica meno estrema e più facilmente praticabile, al punto che il ricorso al suicidio ha assunto un così diffuso e preoccupante incremento da porre significativi interrogativi sociologici, psicologici e financo culturali. Un quadro che nulla ha a che vedere con quello qui in questione, ma che evidenzia nella comune opinione pubblica un generale mutamento di valutazione del suicidio di cui tenere conto.

Nell’ambito del finis vitae i giudizi etici sul suicidio assistito si articolano su prese di posizione, altrettanto diversificate di quelle viste per l’eutanasia, che vanno da rifiuto radicale alla totale legittimazione passando per diversi livelli di accettazione a certe condizioni più o meno restrittive. Quella della Chiesa Cattolica è, sulla base dell’identico assunto dottrinale della sacralità della vita,  per certi versi più rigida di quella sull’eutanasia (per il suicida è sancito il rifiuto della sepoltura ecclesiastica, un norma leggermente attenuata con la concessione al Vescovo di sancire un’eccezione per casi clamorosamente dolorosi) anche se vanno storicamente registrate delle significative eccezioni di suicidi giustificati perché commessi per difendere fino all’estremo i valori della fede (esemplare è il caso di Pelagia suicida per non cedere ai persecutori e per questa sua scelta persino proclamata santa) che lascerebbero intendere che la vita in sé non sia sempre e comunque il valore ultimo dell’uomo, ma che possa essere sacrificato in ragione di valori giudicati più alti.

In questa sottilissima breccia si sono inserite riflessioni teologiche sul suicidio legato a situazioni di estrema gravità in cui, per l’appunto, intervengono altri valori oltre a quello della sacralità della vita. A fronte di un sostanziale allineamento alla posizione ufficiale della Chiesa Cattolica si possono infatti registrare in campo teologico coraggiose prese di posizione (come quella di Adrian Holderegger, professore di teologia presso l’Università di Friburgo in Svizzera) che (sempre in nome del principio dell’auto-disposizione di sé già evidenziato da Kung riguardo l’eutanasia) ritengono possibile che in situazioni estreme di grave perdita del senso della vita, esattamente quelle riscontrabili nelle due esemplari vicende di Dj Fabo (tetraplegico dopo un incidente) e di Piergiorgio Welby (colpito da una gravissima forma di distrofia muscolare), sia possibile riconoscere al soggetto la possibilità del suicido ancorchè assistito per ovvie ragioni di impedimento fisico.

Si tratta per ora di potenziali aperture ad un dialogo meno rigidamente precostituito che giocano, anche in questo caso, la loro possibile evoluzione sulla definizione di un minimo comune morale basato sulla condivisa individuazione delle situazioni in cui si rende possibile constatare una inaccettabile perdita del senso di vita. La strada appare al momento tutta in salita e la modifica dell’Art. 580 del Codice Penale che prevede pene severissime (dai cinque ai dodici anni di carcere) per chi fornisce assistenza (perché valutata come rafforzamento al suicidio) è ancora molto lontana.

Accanimento terapeutico = Consiste nell’uso esasperato, che spesso confina il paziente in una sorta di limbo privo di relazioni e stimoli affettivi, dell’apparato tecnologico medico sempre più perfezionato e potente, una pratica che trova una crescente e condivisa opposizione perché ritenuta la negazione del diritto di non essere sottoposti ad inutili e spesso molto invasive pratiche che impediscono una “morte dignitosa”. Le critiche che vengono mosse all’uso esasperato, e troppo spesso non motivato, di tutte le potenzialità tecnologiche in campo medico si basano sul concetto di “proporzionalità delle cure” altrimenti definito “proporzionalità terapeutica” che, per poter essere applicato con empatica oggettività, necessariamente chiama in causa “la competenza e la coscienza del medico”.

Su queste valutazioni si registra, ormai da tempo, una confortante convergenza fra tutti i soggetti sin qui presi in esame per le tematiche del finis vitae: la condanna dell’accanimento terapeutico della Chiesa cattolica è netta ed ormai consolidata in quanto ciò che eticamente è in questione non è la soppressione di una vita ma il suo prolungamento oltre i limiti accertabili di una morte naturale. In campo laico si evidenzia ormai una concorde limitazione in tutte le legislazioni dei paesi occidentali, quella italiana lo ha fissato già nella stessa Costituzione del 1948 che all’articolo 32 cita testualmente che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario ………. (oltre) ….. i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Si è in questo caso di fronte ad una convergenza che potrebbe, al di là delle positive ricadute sulla specifica materia, rappresentare una importante base di partenza per la definizione di una estendibile concezione umanistica della medicina che ha al suo centro la persona del malato nella concretezza della sua situazione clinica ed esistenziale.

Cure palliative = L’importanza di una concezione umanistica della medicina trova una prima rilevante conferma nel caso del “prendersi cura” dei malati terminali di malattie incurabili che procurano forti sofferenze fisiche e psicologiche. Il termine “palliativo” viene dall’inglese (palliative cure), ma ha radici etimologiche nel latino “pallium”, il mantello di lana usato dai pastori per proteggersi da freddo e malattie, che bene esprimono l’idea di cure da attivare, quando non sussistono più speranze di guarigione, per garantire la migliore qualità possibile di vita dignitosa per il tempo che rimane.

Comprendono, di conseguenza, un insieme di attenzioni mediche, psicologiche, assistenziali, relazionali, per giungere, al loro culmine, alla “sedazione terminale” ultimo baluardo contro il dolore psicofisico e la stessa paura della morte. Sia l’etica laica che quella cattolica riconoscono l’importanza delle cure palliative nell’umanizzazione del finis vitae, ma non di meno si interrogano su alcune questioni ad esse collegate. Quella più importante riguarda proprio il ricorso alla sedazione terminale che oggettivamente impedisce al malato la possibilità di assumere decisioni e che comunque determina un inevitabile accorciamento della vita, una questione che coinvolge, su versanti opposti, ambedue queste etiche.

Il concetto di minimo comune morale comune fin qui seguito in questi casi è stato quello del “bene assoluto” del malato che, declinato in termini medici, comportava la priorità di annullare con la sedazione lo stato di sofferenza del malato. Si sta però sempre più affermando un concetto diverso, quello del “bene possibile”, molto spesso semplicemente tradotto nel “male minore”. Alla base di questo concetto sta il riconoscimento dei limiti delle azioni che, in questi casi estremi, si possono mettere in atto, tutte indistintamente pongono conflitti di valori, e quindi di doveri, che impediscono la formulazione di una procedura standard adottabile in tutti i casi (per quanto la legislazione italiana in materia abbia attuato costanti miglioramenti ed ampliamenti delle risorse coinvolgibili in materia).

Torna così in scena, inevitabilmente, il controverso ricorso a forme di eutanasia, con tutto il loro carico di irrisolta conflittualità etica.

Testamento biologico = E’ di per sé una definizione equivoca, il termine testamento di norma lascia intendere la destinazione di beni agli eredi, nella fattispecie del finis vitae non c’è nulla di tutto questo essendo in effetti la dichiarazione anticipata, per prevenire la possibilità di non essere più nella condizione di esprimerlo di persona (stato terminale con condizioni di incoscienza), delle modalità con cui un individuo vorrebbe che venisse gestita.

Al di là della definizione non mancano anche in questo caso interrogativi di ordine etico che non poco hanno condizionato la sua definizione legislativa, in aggiunta alle procedure,  quale l’eutanasia (che comunque compare in molti testamenti biologici),  che come si è visto richiedono una gestione a sé stante, sono in particolare due quelle che di più hanno contraddistinto il confronto sul tema: la scelta di non essere sottoposti a nutrizione/idratazione forzate,  e fino a che punto le indicazioni testamentarie devono essere considerate vincolanti ovvero se vi sia spazio per una eventuale diversa indicazione del medico che segue il caso.

Sulla prima questione il dibattito, a suo tempo molto accentuato dalla nota vicenda di Eluana Englaro (una giovane donna caduta a seguito di un incidente in stato vegetativo tenuta in vita per ben 17 anni grazie alla nutrizione artificiale, fino alla sua morte avvenuta nel 2009 per l’interruzione di tale trattamento), fra le diverse concezioni etiche si è articolato attorno a quale definizione si debba attribuire alla nutrizione artificiale: quella di “sostegno vitale”, e quindi di una pratica che non può essere interrotta, o quella di “cura medica”, il che consentirebbe, a fronte di una precisa scelta in tal senso, di essere interrotta? La prima interpretazione è stata sostenuta dalla Chiesa Cattolica e da uno schieramento di forze politiche in gran prevalenza di centro-destra, la seconda invece dal fronte laico (al cui interno è stato forte l’impegno del padre di Eluana, Beppino Englaro) con l’appoggio del centro-sinistra. Dopo un acceso confronto, ancora una volta segnato da strumentalizzazioni ideologiche, è prevalsa la seconda tesi (Legge 219 del 2017), il che ha consentito che tale scelta possa ormai rientrare a pieno titolo nel testamento biologico.

La seconda invece resta un tema aperto (non riferito solamente alla nutrizione artificiale).  Fortunatamente non altrettanto condizionato da strumentalizzazioni politiche, che rimanda, per essere meglio compreso, al tema dell’ “alleanza terapeutica” segnalato in precedenza. Il dibattito ruota attorno alla natura vincolante del testamento biologico che, se per certi versi deve pur avere una sua concreta accettazione, potrebbe però impedire di dare spazio ad eventuali progressi in campo medico intervenuti successivamente alla stesura del testamento biologico. Potrebbe conformarsi come soluzione l’affidamento di una maggiore delega decisionale alla figura del “rappresentante legale(una persona di fiducia indicata nel testamento biologico come portavoce del testamentario) ponendolo nella condizione di essere parte attiva nell’ambito dell’alleanza terapeutica con il medico

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Giannino Piana chiude questa sua pacata riflessione sul finis vitae e sulle tante, e tanto complesse, problematiche che lo contraddistinguono, con un’ultima considerazione che riprende un’idea della “morte” che ha attraversato tutto questo suo testo:

……. Il senso di paura e di angoscia che oggi caratterizzano l’umana esperienza della morte, spingendolo alla sua rimozione, è un sintomo di uno stato di malessere esistenziale proprio dell’odierna condizione umana …. che impedisce all’uomo di prendere serena coscienza di un limite che gli è connaturale ….. e quindi di viverlo altrettanto serenamente come fatto naturale ….. 


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