giovedì 11 giugno 2015

Babel - sintesi per Capitoli - Capitolo 3 ed ultimo


BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”
  

CAPITOLO 3

Solitari interconnessi

 
EM – Torna in ballo la questione della “responsabilità” in un contesto che, al contrario, tende a deresponsabilizzare, a farla  percepire come un peso da evitare delegando, rifiutando, guardando altrove. Sembra, così facendo, di raggiungere una stato di maggior libertà, ma si è soltanto svuotati di socialità, di vere connessioni umane. E questo, non a caso, succede in un momento del cosiddetto “progresso” caratterizzato, all’apparenza, proprio dalla continua connessione. Ma è una connessione che sfalsa il piano della conoscenza; saltano le esperienze, “vere”, quelle che diventano conoscenza, quelle la cui crescita diventa sapere consolidato, sostituite da messaggi istantanei, semplice testimonianze di fatti. Questo essere costantemente immersi nel “qui ed ora” annulla la sequenza, cancella il tempo, e con il tempo l’esperienza, la conoscenza, la competenza. Tutto questo ha ovvie conseguenze sulla formazione delle coscienze individuali e della coscienza collettiva, l’impressione ha preso il posto dell’opinione. Come si può parlare ancora di “responsabilità” in un quadro così?

ZB – In un test alla Yale University venne chiesto ad un gruppo selezionato di studenti, istruiti, intelligenti ed informati, di somministrare scariche elettriche molto dolorose ad alcuni soggetti nell’ambito di uno studio dell’apprendimento, presentato come “scientifico”. Ebbene il 65% degli studenti si dichiarò disponibile a procedere ad una azione chiaramente crudele in virtù della sua “scientificità”; la stessa percentuale venne a suo tempo misurata in un battaglione di poliziotti tedeschi chiamati ad ubbidire all’ordine di uccidere ebrei nella zona di Lublino, ordine che aveva l’aureola di provenire dall’alto, da chi ne sapeva di più.  Il denominatore comune è, e vale prese le debite misure anche ai giorni nostri, l’istinto a sfuggire alla “responsabilità”, alla scelta individuale. Passando al ruolo della Rete: a differenza delle vecchie comunità la Rete è in buona misura una rubrica di nomi e indirizzi selezionata come estensione del sè, così come viene sommariamente percepito. Spesso come riparo, come rassicurazione e scudo contro un ambiente percepito come ostile. La rete è una “comunità recintata”. Ed è bene non sottovalutare la raffinata abilità dei provider di Internet, Google in testa, grazie ad investimenti in tecniche di analisi e controllo degli utenti, di fornire ad ognuno di noi “suggerimenti” che rafforzano questa recinzione. Salta di conseguenza quella che Max Weber ha definito la “razionalità strumentale” dell’uomo moderno, ossia il mirare ad una azione intenzionale, facendola precedere dalla selezione di uno scopo e dalla ricerca degli strumenti utili a raggiungere quello scopo ed a concretizzare l’intenzione. Oggi lo schema si è esattamente rovesciato, capovolgendo anche l’assunto machiavellico, oggi i fini giustificano i mezzi

EM – E’ come se la tecnologia pretendesse di diventare, tout court, cultura, politica, una nuova moralità; non sono in discussione i limiti della scienza, ma la delega che noi stessi diamo alla tecnica, come se pensassimo che se la scienza, la tecnica rendono possibile un fatto allora è giusto farlo. E se ciò che tecnicamente è possibile diventa comunque lecito allora ciò che è efficace diventa opportuno anche se non è legale. Ciò che va perduto nei passaggi riduttivi, resi possibili dalla tecnologia, è la traccia dei fatti, il loro peso, la loro sostanza”. Ed è proprio alla sostanza dei fatti che dobbiamo puntare per ricostruire una conoscenza che consenta di andare avanti. E questa “sostanza” non è ciò che succede, ma il segno che lascia. Ed ancora una volta dobbiamo diffidare dell’informazione in tempo reale che la tecnologia ci offre. C’è differenza fra guardare e vedere, tra conoscere e capire. L’informazione di Internet ha un valore immenso che realizza il vecchio sogno di raccontare in tempo reale a tutti o quello che sta accadendo. Ma questo flusso continuo di notizie va scremato, va selezionato, valutato, interpretato, per poterlo “vedere” e “capire”. L’operazione fondamentale è l’inserire il flusso di notizie in un “contesto” che sappia spiegarlo, renderlo intellegibile. L’attuale sistema ipertecnologico di Internet alimenta il flusso ma crea una sorta di pandemonio, una moderna BABELE di lingue che si sovrappongono, di continue notizie che si auto-sostituiscono prima di produrre idee.

ZB – In realtà tutta l’informazione ci arriva pre-interpretata, chi decide, e su quali basi, quali sono i “fatti reali” che hanno maggiore o minore rilevanza? E Mille informazioni, o il milione di siti proposti da Google in risposta ad una ricerca, non fanno conoscenza.

EM – Sembra di essere tutti quanti ineriti in un flusso ininterrotto di “fatti”, al di là delle modalità con le quali vengono selezionati,  in grado di farci sentire al centro della realtà; ogni riflessione sul “dietro il fatto”, ogni ragionamento in grado di farmi vedere la foresta oltre i singoli alberi, non interessano più sostituiti dalla forza del focus continuo su fatti ed avvenimenti. E questo status rende marginale anche il ruolo degli “esperti”, di qualcuno che possa aiutare a capire, ad interpretare il flusso, se il web mi tiene al centro dei fatti quello che conta è solo più la mia personale percezione di essi. La Rete sta realizzando una sorta di “amatorializzazione di massa”, ci illudiamo tutti di sapere, di capire, ma, ammesso che sia in qualche misura vero, ciò avviene ad un livello sempre più basso di vera conoscenza. Non solo: nella rete siamo uguali all’apparenza, uno vale uno, ma diventiamo “più uguali”. Nel senso che nell’universo della Rete la tendenza è di scegliere quelli che, aprioristicamente, percepisco come affini, quelli che sembrano essere in sintonia con il mio pensiero, il mio status: Si crea così un imbuto tra le opinioni che, rispetto ad ogni singolo, sono percepite come dissonanti, e quindi scartate, e quelle concordanti, di conseguenza sempre valide ed accettate. E questa non è vera uguaglianza, perlomeno quella otto-novecentesca che aveva una valenza sociale, politica, questa uguaglianza vuol solo più dire concordanza. Ha ragione Clay Shirky “quando cambiamo il modo in cui comunichiamo cambiamo la società”.

ZB – Internet eccelle in una impresa particolare: quella di creare con facilità, con abilità da bambini, una comunità, operazione che, al di fuori della Rete, è un compito quasi proibitivo. Inoltre offre la possibilità supplementare di stare contemporaneamente in più comunità, nelle quali si entra e si esce senza problemi. Si cerca, in sostanza, di riempire il vuoto del dissolvimento dei legami sociali con una sorta di “mercato delle identità illimitate”. Restando poi sullo specifico della qualità dell’informazione circolante in Rete occorre rilevare che essa non è certamente immune dalla commercializzazione. Anche quella apparentemente “scientifica ed asettica” è ormai in mano a giganti dell’editoria on-line che hanno “prezzato” gli studi e le ricerche più avanzate, creando delle barriere per molti (istituzioni scolastiche pubbliche comprese) invalicabili e ributtando la gran massa nel bazar di siti che offrono il più delle volte mezze verità. Appare ormai evidente che, anche nella Rete, il mercato dell’informazione non è distinto da quello del lavoro e della finanza. Ciò detto emerge un altro tema cruciale: il tema del “significato”, della logica che si nasconde dietro lo spessore delle parole in un ambiente, quello della Rete, che ci inonda di “significati”. Questo tema è stato a suo tempo analizzato da George Simmel, uno dei fondatori della sociologia moderna, in relazione al significato delle parole, dei discorsi, nell’universo delle metropoli, viste come ambienti in cui l’individuo era, già decenni addietro, bombardato da messaggi, visivi, sonori, verbali, sublimali. La tremenda moltitudine di suoni, immagini, cose, che riempie l’individuo, allora nelle metropoli  oggi anche nella Rete, non crea il “villaggio globale” di McLuhan, ma un ottundimento totale, la perdita del “significato” di questa impressionante marea di messaggi. Non c’è spazio e tempo per investigare a fondo, per ricostruire gli specifici significati di questa folla di impressioni, le logiche che stanno dietro

EM – Siamo certamente di fronte ad un meccanismo di conoscenza decisamente nuovo, basato su un processo in cui la percezione ha sostituito la cognizione. Per il Web la realtà è già tutta rivelata, la conoscenza tutta definita e tutta a disposizione, il sapere un qualcosa da scaricare più che da conquistare. Siamo lontanissimi da Foucault che invitava a diffidare dei significati precostituiti e a concepire il discorso come una…..violenza che noi facciamo alle cose…Ma è indubbio che vivere nel flusso continuo della Rete, nutrirsi di stimoli sensoriali più che di nozioni,  amplifica la nostra percezione, passaggio di per sé stesso non necessariamente negativo, ma la domanda che ne segue è: a che serve questa capacità percettiva amplificata? Se ci spostiamo sul terreno sociale è innegabile che percezioni, sensazioni, impressioni, emozioni, non formano un’opinione pubblica.. I cittadini della Rete sono come la folla descritta da Gustave Le Bon nel 1895: un’anima collettiva, transitoria, volubile ed incostante, attirata da idee con forma semplicissima ed al tempo stesso colpita più dall’immaginazione che dai fatti. I gruppi della Rete, come la folla del 1895, non si saldano perciò sulla base di appartenenze profonde e stabili. E la ricostruzione realistica dei fatti ha smitizzato l’epopea delle rivolte, come le primavere arabe, nate sul richiamo di tweet; la ricostruzione più attenta e ragionata dei fatti ha evidenziato non solo che i tweet non hanno svolto un ruolo così importante, come alcune impressioni immediate lasciavano intendere, ma anche che, visto l’uso in senso inverso che spesso viene fatto, le tecnologie non sono altro che “attrezzi senza manico”

ZB – il valore “politico” di Internet non è solo inferiore a quello che è stato concretamente messo in atto, ma presenta aspetti contraddittori e pericolosi: consente un controllo di massa, si presta ad usi strumentali e a facili manipolazioni; è ancora una volta la vecchia storia dell’accetta, la si può usare per spaccare legna o per tagliare teste, e l’uso non è deciso dall’accetta ma da chi la maneggia. Ma dietro la crescita della percezione rispetto alla conoscenza si può intravedere un cambio di paradigma. Freud prima e Norbert Elias poi hanno evidenziato che la storia moderna è stata anche un “processo di civilizzazione” consistente, nella finalità di rendere possibile la convivenza democratica, nella repressione delle manifestazioni di ostilità cruenta, di aggressione, fino a rendere in qualche misura vergognosa la stessa manifestazione di emozioni in pubblico. Ma è innegabile che questo processo, se in qualche modo ha inciso sulla “manifestazione” non lo ha fatto sulle “emozioni”, non ha reso l’uomo moderno più morale, amichevole, disponibile verso gli altri. Alle manifestazioni di violenza aperta si sono semmai sostituite pratiche di esclusione di intere categorie di persone giudicate scomode. In questo quadro Internet offre opportunità in tutti i sensi non ultimo prestandosi ad essere utilizzato nelle situazioni di odio umano senza tempo. Ma può essere uno strumento utile anche per un vero dialogo? Richard Sennet ha di recente definito le caratteristiche di un dialogo che voglia davvero favorire la coabitazione: deve essere informale, slegato cioè da regole e procedure, aperto, ossia sostenuto dalla voglia di parlare ma anche di ascoltare, cooperativo, finalizzato quindi non a stabilire vinti e vincitori ma all’arricchimento di tutti. Obiettivo tutt’altro che facile da raggiungere ma è l’unica possibilità di andare oltre l’ipocrisia di contenere le manifestazioni e non le emozioni, la violenza incontrollata, e le pratiche di esclusione

EM – Una delle conseguenze della globalizzazione è che, come afferma Ulrich Beck….ogni paese è diventato il confinante quasi immediato di ogni altro paese ed ogni uomo sente la scossa  di eventi che si svolgono all’altra estremità del globo….. Il rischio è che questa “unità del mondo” dia spazio ad un aumento dell’odio, ad una irriducibile esplosione del tutti contro tutti. In un contesto in cui l’Europa ha smesso di essere, come nei due secoli precedenti, un punto di riferimento, nel bene e nel male. Oggi i popoli che l’Europa un tempo dominava rifiutano le norme prodotte da quella storia; sono tornati a decidere la propria storia. Noi Europei reagiamo, ad esempio dopo i fatti di Parigi, sorpresi dal fatto che la terra della democrazia diventi un bersaglio, spesso da parte di qualcuno che è ormai cittadino europeo, scopriamo che gli obiettivi fatti bersaglio sono luoghi in cui va in scena la grandiosa normalità della nostra democrazia materiale. Viene alla luce che spesso il nostro presunto multiculturalismo è una debole fascinazione per la diversità, un flirt con ciò che appare esotico, ma ignora quanto di non negoziabile esiste nelle altre culture. Eppure la nostra democrazia mantiene un valore immenso; la libertà di parola, quella che è stata attaccata a Parigi, è il nume tutelare della libertà religiosa. Parigi, Londra, New York sono piene di moschee, a Riyahd le chiese sono vietate e chi porta lì una Bibbia rischia la morte. A costo di rinegoziare ogni volta la sua traduzione pratica questa democrazia va difesa. La democrazia come abitudine quotidiana dei gesti, degli spazi, è ciò che da forma al nostro stile comune di vita. Tornando ai nostri dubbi sull’intreccio tra percezione ed conoscenza, sulle attuali modalità di formazione dell’opinione, individuale e pubblica, dobbiamo comunque dire che resta indispensabile una democrazia che funzioni. Poi certo resta la denuncia di Elias Canetti sul fallimento della “parola”, l’amarezza di George Steiner nel constatare che arte e cultura non hanno mai fermato guerre e barbarie. Ma ciò è nella natura umana, dipende da noi, il destino del mondo sta nelle mani dell’uomo; e risuona sempre valida la domanda di Pilato nel lavarsi le mani: quid est veritas? Che cos’è la Verità?

ZB – Domanda che, non solo nei Vangeli, non ha ancora risposta soddisfacente, specie in questa epoca in cui è morto il nostro “imperialismo culturale” occidentale. E non possiamo rispondere semplicemente resettando tutto; oggi il “lavaggio del cervello”, espressione che ha origine nell’antico insegnamento taoista e che, diventata di moda nel 1950, è stata riciclata su ampia scala nella Cina della Rivoluzione Culturale, non funziona più. Indicava una sorta di “rito di passaggio” da una assegnazione/condizione ad un’altra e funzionava se la realtà si presentava salda, sicura e coerente. Oggi non è più così; i confini da attraversare per passare da una assegnazione/condizione ad un’altra sono confusi, porosi, i passaggi sono sempre reversibili. Non esiste lavaggio del cervello quando i contenuti del cervello sono un flusso in continuo cambiamento. Con cosa sostituirlo in questa fase in cui ci viene chiesto dalla realtà di operare profondi passaggi? L’unica strada è quella di aprirci al confronto, al dialogo, rifiutando presunzioni di possesso di verità assolute ed aprendoci a “relazioni interpretative”. L’esercizio dell’ascolto delle credenze diverse dalle nostre comporta inevitabilmente il sorgere del “dubbio” sulle nostre, ma rafforza il rifiuto dei dogmatismi, specie se violenti. Dobbiamo avere, noi occidentali, consapevolezza della lunghezza del cammino, durato millenni, che abbiamo percorso per abolire la pena di morte, per vietare la schiavitù, per promuovere l’uguaglianza dei sessi, e sono risultati ancora non completi e non diffusi ovunque. Dobbiamo quindi attrezzarci per un cammino altrettanto lungo, ed il dialogo, serio e sincero fondato sui parametri indicati da Sennet, è uno dei veicoli utili a percorrere questa strada. Le tendenze attuali non annunciano nulla di buono in questo senso, alcune vanno in senso opposto. Non è certo dialogo, vero e sincero, quello basato sul fenomeno chiamato “slacktivismo” (attivismo lento), quello praticato da molti internauti che con un “mi piace”, un tweet, aderiscono in Rete a campagne su questioni pubbliche. Ci si illude così di fare qualcosa di buono senza alzarsi dalla sedia. Il vero attivismo è altra cosa. Resta sempre valido e vero il motto antico….il frutto che avrai sarà pari al lavoro che ci avrai messo…

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