L’articolo di Wolfgang Streeck,
qui sintetizzato, ha il grande merito di offrire, peraltro in linea con l’analisi
svolta da Thomas Piketty nel “Il capitale nel XXI secolo”, un quadro analitico,
molto sintetico ma non meno motivato, dell’attuale stato di salute del
Capitalismo mondiale. Non occorre essere rigorosi cultori del materialismo
scientifico, e del rapporto tra struttura economica e sovrastrutture, per
sapere quanto incida su tutti gli aspetti del nostro umano vivere ciò che
succede in campo economico e produttivo. La possibilità, ovviamente discutibile
(anche in questo modesto Blog), che siano alle porte scenari nella “struttura”
a dir poco molto problematici è un aspetto da tenere nella giusta
considerazione. Il richiamo finale dell’articolo alla tragedia degli anni
Trenta è quanto mai sintomatico in questo senso
IL
CAPITALISMO MORIRA’ PER OVERDOSE
(articolo pubblicato su MicroMega n° 5/2015, ed originariamente
sulla rivista New Left Review – n°
87/2014 – con titolo “How Capitalism will end”
Autore Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, Direttore emerito del Max
Planck Insitute fur Gesellshaftsforshung, autore di numerose pubblicazioni, e
del libro “Tempo guadagnato. La crisi
rinviata del capitalismo democratico” – Feltrinelli 2013
Ø
La
crisi del 2007/2008 è stata solo l’ultima di una lunga serie verificatesi a partire
dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso in coincidenza con la fine
della prosperità post-bellica occidentale
Ø
Sono
quindi ormai quattro decenni che una situazione diffusa di squilibrio è
diventata la norma nell’area OCSE tanto da assumere il carattere di una crisi
non solo economica ma dell’intero sistema sociale capitalistico
Ø
Restando
in ambito meramente economica sono tre gli indicatori che meglio sintetizzano
questo stato di crisi:
1. Diminuzione costante del tasso di
crescita economica
2. Crescita dell’indebitamento
complessivo (Amministrazioni Pubbliche + Famiglie + Società/Imprese private)
3. Aumento delle diseguaglianze di
reddito e di capitale
Ø
Queste
tre tendenze si alimentano a vicenda: la diseguaglianza crescente incide
negativamente sul tasso di crescita (idem in Piketty) indebolendo la domanda
aggregata, e viene a sua volta ri-alimentata dalla bassa crescita e dal
collegato aumento dell’indebitamento complessivo
Ø
La
storia insegna che periodi di crisi, anche grave, (movimenti ciclici e scosse
casuali) sono una costante nella storia del capitalismo al punto da aver
rappresentato momenti necessari alla sua tenuta sul lungo periodo; quella
attuale sta però sempre più assumendo il carattere di processo costante di
declino graduale
Ø
Non
appare per nulla semplice uscirne fuori vista la concatenazione dei tre
elementi base, alla quale va aggiunta la ormai nota incidenza negativa del
settore finanziario, principale causa della crisi 2007/2008, che ha ripreso, dopo
di essa, peso e ruolo e per il quale non è stata attuata, a tutt’oggi, una
maggiore regolamentazione al fine di bloccarne gli eccessi
Ø
A
nulla sono valse le enormi iniezioni di liquidità operate dalle varie Banche
Centrali, anche perché, in gran parte, esse sono servite a rifinanziare banche
e finanziarie (responsabili della crisi 2007/2008) fornendo ulteriore spinta
alla ricrescita del settore finanziario
Ø
La
consapevolezza che alcuni timidi segnali di ripresa (non omogenei nell’area
OCSE) non rappresentano un reale punto di svolta sta spingendo le Banche
Centrali a non alzare i tassi di interesse facendo così diminuire il peso del
denaro a buon mercato, aspetto che, ancora una volta, rafforza l’incidenza del
settore finanziario e non spinge all’adozione di correttivi strutturali
Ø
L’unico
correttivo messo in atto è infatti è la continua e diffusa adozione di riforme
di stampo neo-liberista finalizzate all’aumento della flessibilità con
risultati deludenti per la crescita ed esiti disastrosi sulla disuguaglianza
Ø
In
questo quadro si incontra il tema della politica democratica: capitalismo e
democrazia sono stati a lungo in contrapposizione frontale fino alla
riconciliazione, strumentale, avvenuta nel secondo dopoguerra nel mondo
bipolare della guerra fredda
Ø
La
fragilità dei compromessi attuati in quella fase storica transitoria è stata
accentuata dalla incapacità delle politica di governare realmente i processi
economici e di intervenire sui mercati, e quindi sul capitalismo, per
correggerne il funzionamento nell’interesse generale dei cittadini
Ø
Tale
impotenza si è progressivamente evoluta, coinvolgendo governi di destra e di
sinistra, nella complice ’adozione dell’assunto neo-liberista che il rilancio della
crescita debba avvenire con il trasferimento di ricchezza dal basso verso
l’alto e con la cancellazione delle forme ed istituti del Welfare
Ø
Uno
degli argomenti centrali dell’attuale retorica antidemocratica portata avanti
dal neo-liberismo è la crisi fiscale dello Stato contemporaneo deducibile
dall’aumento abnorme del debito pubblico verificatosi proprio a partire dagli
anni Settanta
Ø
La
critica neo-liberista non regge alla prova dei dati: la crisi della fiscalità
non è ascrivibile ad un eccesso di democrazia redistributiva verso il basso
finalizzato al conseguimento di consenso elettorale (facilmente
deducibile proprio dal fatto che tale consenso non si è per nulla verificato ed
anzi, proprio a partire da questi stessi anni, si è assistito al crollo della
partecipazione al voto in tutti i paesi specie da parte dei gradini più bassi
della scala retributiva)
ma al contrario dalla riduzione complessiva della pressione fiscale conseguenza
del diffuso ribasso delle aliquote fiscali per i redditi più alti e per le
Società
Ø
Ed
in ogni caso l’aumento complessivo del debito pubblico, indipendentemente da
cosa e come viene generato, è usato come dato fondamentale per imporre le fallimentari
politiche di austerity
Ø
Nonostante
gli indubbi successi registrati dalle politiche neo-liberiste serpeggia nei
centri di potere internazionale una sempre meno sotterranea insoddisfazione per
la capacità della politica democratica di rimodellare più profondamente le
società secondo i desiderata neo-liberisti
Ø
Questa
insoddisfazione corre parallela alla convinzione, drammaticamente sincera, che
il capitalismo di libero mercato, una volta ripulito da ogni incrostazione
democratica, possa essere non solo più efficiente, ma anche più virtuoso e
responsabile
Ø
Il
risultato è l’aspirazione, sempre meno utopica, di una “democrazia conforme al
mercato”
Ø
La
crisi del 2007/2008 ha al contrario messo a nudo l’impossibilità che il mercato
si autoregoli, il credo neo-liberista ha evidenziato la sua inconsistenza, ma
non si è palesata a tutt’oggi una diversa proposta politico-economica
sufficientemente elaborata da divenire alternativa praticabile
Ø
In
questo senso vanno però demolite le illusioni che un sistema economico-sociale
complesso come il capitalismo, specie nella sua attuale versione neo-liberista,
possa essere in qualche modo soppresso e/o modificato alla base con un atto
deliberativo di qualsivoglia organismo di governo e/o di partito
(paradossalmente la storia ci ha insegnato che sono stati i regimi comunisti di
stampo russo ad essere stati soppressi con un decreto governativo)
Ø
Questa
consapevolezza può essere utile per immaginare un processo di fuoriuscita dalle
contraddizioni capitaliste senza che contemporaneamente sia stato già definito
nella sua interezza un sistema economico e sociale alternativo
Ø
Può
soccorrere l’avvio e lo sviluppo di un tale processo la considerazione che il
capitalismo stia, per limiti e contraddizioni interne non risolvibili,
incamminandosi verso una sorta di autodistruzione. Vero è che già dalla metà
dell’Ottocento si sono succedute a più riprese previsioni, anche ben
argomentate, della “fine del capitalismo”
Ø
La
discriminante che può avvalorare l’ipotesi che l’attuale capitalismo stia
davvero per fare i conti con un sua definitivo deterioramento consiste nella
constatazione che il progresso capitalistico ha ormai distrutto qualsiasi
dinamica in grado di dargli stabilità e di tenere a freno la sua innata
tendenza alla accumulazione infinita, ed in quanto tale autodistruttiva
Ø
Diversamente
dagli anni Trenta non si vede nessuna formula politico-economica, né di
sinistra né di destra, in grado di fornire alla società capitalista un nuovo
regime coerente di regolamentazione; lo scenario più probabile è quello di un
aumento costante di disfunzioni più o meno gravi, nessuna delle quali di per sé
letale, ma comunque sempre più irreparabili e la cui sommatoria potrebbe essere
ingovernabile.
Ø
Concepire
la fine del capitalismo come un processo, ad oggi già decisamente avviato del
suo, e non come un evento “rivoluzionario”, trascina con sé il problema di
definire in cosa consista l’essenza ultima del capitalismo stesso.
Ø
Le
società complesse, e quella capitalista è la società più complessa storicamente
finora realizzatasi, non muoiono mai nella loro totalità, alcune
caratteristiche si estinguono, collassano, altre possono sopravvivere
Ø
Una
definizione possibile di società capitalistica potrebbe essere quella di “una
forma sociale che garantisce la propria riproduzione collettiva come effetto
collaterale, non intenzionale, della massimizzazione competitiva del profitto
orientata all’accumulazione di capitale attraverso un processo lavorativo che
unisce capitale e forza-lavoro scambiata come merce”
Ø
La
fine del capitalismo, così definito, difficilmente può quindi avvenire secondo
i piani di qualcuno, la disorganizzazione suicida del capitalismo spariglia le
carte anche a coloro che intendono sconfiggerlo e a coloro che intendono
salvarlo migliorandolo;
Ø
E
d’altronde se il capitalismo non si avvierà verso la fine per l’inevitabile
sviluppo di tensioni e contraddizione interne non è certo pensabile che esso
finisca per la forza delle opposizioni: la vecchia sinistra sta per
estinguersi, e finora non ha fatto la sua comparsa una nuova sinistra
Ø
Eppure
il fatto di non avere di fatto opposizione può essere un grosso svantaggio per
il capitalismo, che ha tratto non pochi benefici dalla opposizione storicamente
esercitata dai movimenti di lotta anticapitalista; partiti socialisti,
comunisti, sindacati facendo con la loro azione da freno al processo di
mercificazione hanno a tutti gli effetti impedito al capitalismo di accelerare
sulla strada verso la sua autodistruzione, hanno contribuito a mantenere
stabile la domanda aggregata, non raramente hanno contribuito al miglioramento
della produttività
Ø
L’indiscussa
attuale vittoria del capitalismo neo-liberista su tutta la linea potrebbe
quindi rivelarsi una vittoria di Pirro, eliminando quel contropotere che,
seppure scomodo, di fatto lo ha sostenuto esso ha eliminato un suo
equilibratore; il capitalismo trionfante è il peggior nemico di sé stesso; il
capitalismo, privo di opposizione, rimane in balia dei propri meccanismi che
non contemplano l’auto-limitazione
Ø
In
questa logica si inserisce la tesi di Karl Polanyi secondo la quale esistono
limiti all’espansione infinita del mercato determinati da quelle che definisce
“merci fittizie” (forza-lavoro, risorse naturali/natura, denaro) ossia risorse
alle quali la legge della “domanda-offerta” si applica in modo particolare e
limitato dal momento che una loro totale mercificazione finirebbe per
distruggerle. Diversi segnali indicano che l’espansione del mercato ha già
raggiunto una soglia critica in questo senso.
Ø
Si
aggiunge a questo il rischio, altrettanto forte e vicino alla deadline, della
saturazione del mercato di beni e servizi sia rispetto alla capacità produttiva
teorica messa in campo già oggi decisamente sovradimensionata, sia per la
difficoltà a muoversi con buona probabilità di successo in un mercato sempre
più immateriale, sempre più condizionato dal valore simbolico delle merci
offerte e quindi sempre più difficile da interpretare
Ø
I
sintomi più gravi che inducono alla considerazione che l’attuale capitalismo
neo-liberista, rimasto privo di ogni opposizione capace di frenarlo, stia
avvicinandosi alla fine per overdose sono: la stagnazione - la redistribuzione oligarchica – il saccheggio
della sfera pubblica – la corruzione – l’anarchia globale
·
Stagnazione
(basso saggio di crescita permanente sul lungo periodo)
è
opinione sempre più condivisa fra gli economisti (anche di destra) che i
margini di intervento per rilanciare la crescita siano sempre più ristretti;
difficile immaginare un ruolo propulsivo delle innovazioni tecnologiche
all’altezza di quello finora svolto, difficile pensare a tassi di interesse più
bassi di quelli attuali, difficile contrarre l’eccesso di capitale virtuale del
mercato finanziario, difficile utilizzare l’arma dell’aumento del tasso di
inflazione, difficile governare la miriade di potenziali bolle speculative,
difficile evitare che da questo quadro complessivo derivino turbolenze da
guerra di tutti contro tutti
·
Redistribuzione
oligarchica (redistribuzione di ricchezza verso l’alto, verso pochi)
il
tasso di crescita delle disuguaglianze non pare destinato a rallentare, e
continuerà ad incidere, come già detto in precedenza, pesantemente sulla
crescita; le ricchezze in mano ai pochi, oltre ad aver raggiunto livelli e
percentuali scandalosamente incredibili, sono sempre più slegate dall’andamento
dell’economia reale, creando così nei loro possessori disinteresse ad
esercitare in essa un ruolo attivo
·
Saccheggio
sfera pubblica
nonostante
ll’ormai accertata evidenza del danno provocato al tasso di crescita non sembra
che le politiche di austerity, ossia il “credo neo-liberista” di risolvere la
crisi fiscale dello Stato agendo non sulla leva dell’imposizione fiscale
progressiva ma con il taglio drastico della spesa pubblica, stiano cedendo il
passo; la conseguenza è anche quella di ri-alimentare ulteriormente la
disuguaglianza
·
Corruzione
accanto
alla degenerazione morale del sistema democratico, evidente oltre ogni dubbio
in partiti ed amministrazioni pubbliche, è ormai endemico un altissimo livello
di corruzione e frode in particolare nel capitalismo finanziario; la finanza è
ormai un settore in cui i ricavi derivanti da attività illecite sono
difficilmente distinguibili da quelli leciti, la crisi del 2008 ha evidenziato
un livello di degrado delle pratiche “ordinarie” tale da far ritenere
impossibile un’inversione di tendenza, peraltro nemmeno avviata vista la totale
mancanza di volontà regolamentatrici
·
Anarchia
globale
il
capitalismo globale ha da sempre bisogno di un “centro” forte attorno al quale
organizzare le relazioni con le periferie, anche sul piano militare, e un
regime monetario efficiente con rapporti stabili fra le valute. Un centro di
questo tipo lo è stata l’Inghilterra fino agli anni Venti e dal secondo
dopoguerra fino agli anni Settanta lo sono stati gli Stati Uniti. Non a caso
gli anni che stanno in mezzo sono stati un periodo di caos economico e
politico. La fase attuale è di nuovo priva di un “centro”: non lo sono più gli
Stati Uniti, il dollaro non a caso non è più la valuta di riferimento mondiale,
non lo è certamente l’Europa, incapace di creare attorno all’euro un polo
politico ed istituzionale unitario di riferimento reale, non lo è nessuna delle
economia emergenti. Il tentativo compensativo di creare un paniere valutario
non ha speranze di decollare per i forti egoismi di area. Non è dissimile la
situazione sul piano militare, nessun Stato, America compresa, può oggi
svolgere il ruolo, certamente discutibile ma sotto alcuni punti di vista
necessario, di “gendarme del mondo”. Le tensioni legate al mercato delle
risorse naturali rischiano in questo quadro di avere risvolti molto pericolosi.
Ø
Il
quadro finale che scaturisce da questo insieme di considerazioni, e di
evidenze, è quello di uno scenario di un lungo e tormentato periodo di
decadenza complessiva, di attriti sempre più forti, di sostanziale non-governo,
di “incidenti”, economici e sociali, che non si può escludere saranno simili al
crollo globale degli anni Trenta.
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