domenica 2 agosto 2015

Il Capitalismo morirà per overdose (Articolo di Wolfgang Streeck)


L’articolo di Wolfgang Streeck, qui sintetizzato, ha il grande merito di offrire, peraltro in linea con l’analisi svolta da Thomas Piketty nel “Il capitale nel XXI secolo”, un quadro analitico, molto sintetico ma non meno motivato, dell’attuale stato di salute del Capitalismo mondiale. Non occorre essere rigorosi cultori del materialismo scientifico, e del rapporto tra struttura economica e sovrastrutture, per sapere quanto incida su tutti gli aspetti del nostro umano vivere ciò che succede in campo economico e produttivo. La possibilità, ovviamente discutibile (anche in questo modesto Blog), che siano alle porte scenari nella “struttura” a dir poco molto problematici è un aspetto da tenere nella giusta considerazione. Il richiamo finale dell’articolo alla tragedia degli anni Trenta è quanto mai sintomatico in questo senso

 

IL CAPITALISMO MORIRA’ PER OVERDOSE

(articolo pubblicato su MicroMega n° 5/2015, ed originariamente sulla rivista New Left Review – n° 87/2014 – con titolo  How Capitalism will end
Autore Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, Direttore emerito del Max Planck Insitute fur Gesellshaftsforshung, autore di numerose pubblicazioni, e del libro “Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico” – Feltrinelli 2013



Ø La crisi del 2007/2008 è stata solo l’ultima di una lunga serie verificatesi a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso in coincidenza con la fine della prosperità post-bellica occidentale

Ø Sono quindi ormai quattro decenni che una situazione diffusa di squilibrio è diventata la norma nell’area OCSE tanto da assumere il carattere di una crisi non solo economica ma dell’intero sistema sociale capitalistico

Ø Restando in ambito meramente economica sono tre gli indicatori che meglio sintetizzano questo stato di crisi:

1.    Diminuzione costante del tasso di crescita economica

2.    Crescita dell’indebitamento complessivo (Amministrazioni Pubbliche + Famiglie + Società/Imprese private)

3.    Aumento delle diseguaglianze di reddito e di capitale

Ø Queste tre tendenze si alimentano a vicenda: la diseguaglianza crescente incide negativamente sul tasso di crescita (idem in Piketty) indebolendo la domanda aggregata, e viene a sua volta ri-alimentata dalla bassa crescita e dal collegato aumento dell’indebitamento complessivo

Ø La storia insegna che periodi di crisi, anche grave, (movimenti ciclici e scosse casuali) sono una costante nella storia del capitalismo al punto da aver rappresentato momenti necessari alla sua tenuta sul lungo periodo; quella attuale sta però sempre più assumendo il carattere di processo costante di declino graduale

Ø Non appare per nulla semplice uscirne fuori vista la concatenazione dei tre elementi base, alla quale va aggiunta la ormai nota incidenza negativa del settore finanziario, principale causa della crisi 2007/2008, che ha ripreso, dopo di essa, peso e ruolo e per il quale non è stata attuata, a tutt’oggi, una maggiore regolamentazione al fine di bloccarne gli eccessi

Ø A nulla sono valse le enormi iniezioni di liquidità operate dalle varie Banche Centrali, anche perché, in gran parte, esse sono servite a rifinanziare banche e finanziarie (responsabili della crisi 2007/2008) fornendo ulteriore spinta alla ricrescita del settore finanziario

Ø La consapevolezza che alcuni timidi segnali di ripresa (non omogenei nell’area OCSE) non rappresentano un reale punto di svolta sta spingendo le Banche Centrali a non alzare i tassi di interesse facendo così diminuire il peso del denaro a buon mercato, aspetto che, ancora una volta, rafforza l’incidenza del settore finanziario e non spinge all’adozione di correttivi strutturali

Ø L’unico correttivo messo in atto è infatti è la continua e diffusa adozione di riforme di stampo neo-liberista finalizzate all’aumento della flessibilità con risultati deludenti per la crescita ed esiti disastrosi sulla disuguaglianza

Ø In questo quadro si incontra il tema della politica democratica: capitalismo e democrazia sono stati a lungo in contrapposizione frontale fino alla riconciliazione, strumentale, avvenuta nel secondo dopoguerra nel mondo bipolare della guerra fredda

Ø La fragilità dei compromessi attuati in quella fase storica transitoria è stata accentuata dalla incapacità delle politica di governare realmente i processi economici e di intervenire sui mercati, e quindi sul capitalismo, per correggerne il funzionamento nell’interesse generale dei cittadini

Ø Tale impotenza si è progressivamente evoluta, coinvolgendo governi di destra e di sinistra, nella complice ’adozione dell’assunto neo-liberista che il rilancio della crescita debba avvenire con il trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto e con la cancellazione delle forme ed istituti del Welfare

Ø Uno degli argomenti centrali dell’attuale retorica antidemocratica portata avanti dal neo-liberismo è la crisi fiscale dello Stato contemporaneo deducibile dall’aumento abnorme del debito pubblico verificatosi proprio a partire dagli anni Settanta

Ø La critica neo-liberista non regge alla prova dei dati: la crisi della fiscalità non è ascrivibile ad un eccesso di democrazia redistributiva verso il basso finalizzato al conseguimento di consenso elettorale (facilmente deducibile proprio dal fatto che tale consenso non si è per nulla verificato ed anzi, proprio a partire da questi stessi anni, si è assistito al crollo della partecipazione al voto in tutti i paesi specie da parte dei gradini più bassi della scala retributiva) ma al contrario dalla riduzione complessiva della pressione fiscale conseguenza del diffuso ribasso delle aliquote fiscali per i redditi più alti e per le Società

Ø Ed in ogni caso l’aumento complessivo del debito pubblico, indipendentemente da cosa e come viene generato, è usato come dato fondamentale per imporre le fallimentari politiche di austerity

Ø Nonostante gli indubbi successi registrati dalle politiche neo-liberiste serpeggia nei centri di potere internazionale una sempre meno sotterranea insoddisfazione per la capacità della politica democratica di rimodellare più profondamente le società secondo i desiderata neo-liberisti

Ø Questa insoddisfazione corre parallela alla convinzione, drammaticamente sincera, che il capitalismo di libero mercato, una volta ripulito da ogni incrostazione democratica, possa essere non solo più efficiente, ma anche più virtuoso e responsabile

Ø Il risultato è l’aspirazione, sempre meno utopica, di una “democrazia conforme al mercato”

Ø La crisi del 2007/2008 ha al contrario messo a nudo l’impossibilità che il mercato si autoregoli, il credo neo-liberista ha evidenziato la sua inconsistenza, ma non si è palesata a tutt’oggi una diversa proposta politico-economica sufficientemente elaborata da divenire alternativa praticabile

Ø In questo senso vanno però demolite le illusioni che un sistema economico-sociale complesso come il capitalismo, specie nella sua attuale versione neo-liberista, possa essere in qualche modo soppresso e/o modificato alla base con un atto deliberativo di qualsivoglia organismo di governo e/o di partito (paradossalmente la storia ci ha insegnato che sono stati i regimi comunisti di stampo russo ad essere stati soppressi con un decreto governativo)

Ø Questa consapevolezza può essere utile per immaginare un processo di fuoriuscita dalle contraddizioni capitaliste senza che contemporaneamente sia stato già definito nella sua interezza un sistema economico e sociale alternativo

Ø Può soccorrere l’avvio e lo sviluppo di un tale processo la considerazione che il capitalismo stia, per limiti e contraddizioni interne non risolvibili, incamminandosi verso una sorta di autodistruzione. Vero è che già dalla metà dell’Ottocento si sono succedute a più riprese previsioni, anche ben argomentate, della “fine del capitalismo”

Ø La discriminante che può avvalorare l’ipotesi che l’attuale capitalismo stia davvero per fare i conti con un sua definitivo deterioramento consiste nella constatazione che il progresso capitalistico ha ormai distrutto qualsiasi dinamica in grado di dargli stabilità e di tenere a freno la sua innata tendenza alla accumulazione infinita, ed in quanto tale autodistruttiva

Ø Diversamente dagli anni Trenta non si vede nessuna formula politico-economica, né di sinistra né di destra, in grado di fornire alla società capitalista un nuovo regime coerente di regolamentazione; lo scenario più probabile è quello di un aumento costante di disfunzioni più o meno gravi, nessuna delle quali di per sé letale, ma comunque sempre più irreparabili e la cui sommatoria potrebbe essere ingovernabile.

Ø Concepire la fine del capitalismo come un processo, ad oggi già decisamente avviato del suo, e non come un evento “rivoluzionario”, trascina con sé il problema di definire in cosa consista l’essenza ultima del capitalismo stesso.

Ø Le società complesse, e quella capitalista è la società più complessa storicamente finora realizzatasi, non muoiono mai nella loro totalità, alcune caratteristiche si estinguono, collassano, altre possono sopravvivere

Ø Una definizione possibile di società capitalistica potrebbe essere quella di “una forma sociale che garantisce la propria riproduzione collettiva come effetto collaterale, non intenzionale, della massimizzazione competitiva del profitto orientata all’accumulazione di capitale attraverso un processo lavorativo che unisce capitale e forza-lavoro scambiata come merce”

Ø La fine del capitalismo, così definito, difficilmente può quindi avvenire secondo i piani di qualcuno, la disorganizzazione suicida del capitalismo spariglia le carte anche a coloro che intendono sconfiggerlo e a coloro che intendono salvarlo migliorandolo;

Ø E d’altronde se il capitalismo non si avvierà verso la fine per l’inevitabile sviluppo di tensioni e contraddizione interne non è certo pensabile che esso finisca per la forza delle opposizioni: la vecchia sinistra sta per estinguersi, e finora non ha fatto la sua comparsa una nuova sinistra

Ø Eppure il fatto di non avere di fatto opposizione può essere un grosso svantaggio per il capitalismo, che ha tratto non pochi benefici dalla opposizione storicamente esercitata dai movimenti di lotta anticapitalista; partiti socialisti, comunisti, sindacati facendo con la loro azione da freno al processo di mercificazione hanno a tutti gli effetti impedito al capitalismo di accelerare sulla strada verso la sua autodistruzione, hanno contribuito a mantenere stabile la domanda aggregata, non raramente hanno contribuito al miglioramento della produttività

Ø L’indiscussa attuale vittoria del capitalismo neo-liberista su tutta la linea potrebbe quindi rivelarsi una vittoria di Pirro, eliminando quel contropotere che, seppure scomodo, di fatto lo ha sostenuto esso ha eliminato un suo equilibratore; il capitalismo trionfante è il peggior nemico di sé stesso; il capitalismo, privo di opposizione, rimane in balia dei propri meccanismi che non contemplano l’auto-limitazione

Ø In questa logica si inserisce la tesi di Karl Polanyi secondo la quale esistono limiti all’espansione infinita del mercato determinati da quelle che definisce “merci fittizie” (forza-lavoro, risorse naturali/natura, denaro) ossia risorse alle quali la legge della “domanda-offerta” si applica in modo particolare e limitato dal momento che una loro totale mercificazione finirebbe per distruggerle. Diversi segnali indicano che l’espansione del mercato ha già raggiunto una soglia critica in questo senso.

Ø Si aggiunge a questo il rischio, altrettanto forte e vicino alla deadline, della saturazione del mercato di beni e servizi sia rispetto alla capacità produttiva teorica messa in campo già oggi decisamente sovradimensionata, sia per la difficoltà a muoversi con buona probabilità di successo in un mercato sempre più immateriale, sempre più condizionato dal valore simbolico delle merci offerte e quindi sempre più difficile da interpretare

Ø I sintomi più gravi che inducono alla considerazione che l’attuale capitalismo neo-liberista, rimasto privo di ogni opposizione capace di frenarlo, stia avvicinandosi alla fine per overdose sono: la stagnazione -  la redistribuzione oligarchica – il saccheggio della sfera pubblica – la corruzione – l’anarchia globale

·         Stagnazione (basso saggio di crescita permanente sul lungo periodo)

è opinione sempre più condivisa fra gli economisti (anche di destra) che i margini di intervento per rilanciare la crescita siano sempre più ristretti; difficile immaginare un ruolo propulsivo delle innovazioni tecnologiche all’altezza di quello finora svolto, difficile pensare a tassi di interesse più bassi di quelli attuali, difficile contrarre l’eccesso di capitale virtuale del mercato finanziario, difficile utilizzare l’arma dell’aumento del tasso di inflazione, difficile governare la miriade di potenziali bolle speculative, difficile evitare che da questo quadro complessivo derivino turbolenze da guerra di tutti contro tutti

·        Redistribuzione oligarchica (redistribuzione di ricchezza verso l’alto, verso pochi)

il tasso di crescita delle disuguaglianze non pare destinato a rallentare, e continuerà ad incidere, come già detto in precedenza, pesantemente sulla crescita; le ricchezze in mano ai pochi, oltre ad aver raggiunto livelli e percentuali scandalosamente incredibili, sono sempre più slegate dall’andamento dell’economia reale, creando così nei loro possessori disinteresse ad esercitare in essa un ruolo attivo

·        Saccheggio sfera pubblica

nonostante ll’ormai accertata evidenza del danno provocato al tasso di crescita non sembra che le politiche di austerity, ossia il “credo neo-liberista” di risolvere la crisi fiscale dello Stato agendo non sulla leva dell’imposizione fiscale progressiva ma con il taglio drastico della spesa pubblica, stiano cedendo il passo; la conseguenza è anche quella di ri-alimentare ulteriormente la disuguaglianza

·        Corruzione

accanto alla degenerazione morale del sistema democratico, evidente oltre ogni dubbio in partiti ed amministrazioni pubbliche, è ormai endemico un altissimo livello di corruzione e frode in particolare nel capitalismo finanziario; la finanza è ormai un settore in cui i ricavi derivanti da attività illecite sono difficilmente distinguibili da quelli leciti, la crisi del 2008 ha evidenziato un livello di degrado delle pratiche “ordinarie” tale da far ritenere impossibile un’inversione di tendenza, peraltro nemmeno avviata vista la totale mancanza di volontà regolamentatrici

·        Anarchia globale

il capitalismo globale ha da sempre bisogno di un “centro” forte attorno al quale organizzare le relazioni con le periferie, anche sul piano militare, e un regime monetario efficiente con rapporti stabili fra le valute. Un centro di questo tipo lo è stata l’Inghilterra fino agli anni Venti e dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta lo sono stati gli Stati Uniti. Non a caso gli anni che stanno in mezzo sono stati un periodo di caos economico e politico. La fase attuale è di nuovo priva di un “centro”: non lo sono più gli Stati Uniti, il dollaro non a caso non è più la valuta di riferimento mondiale, non lo è certamente l’Europa, incapace di creare attorno all’euro un polo politico ed istituzionale unitario di riferimento reale, non lo è nessuna delle economia emergenti. Il tentativo compensativo di creare un paniere valutario non ha speranze di decollare per i forti egoismi di area. Non è dissimile la situazione sul piano militare, nessun Stato, America compresa, può oggi svolgere il ruolo, certamente discutibile ma sotto alcuni punti di vista necessario, di “gendarme del mondo”. Le tensioni legate al mercato delle risorse naturali rischiano in questo quadro di avere risvolti molto pericolosi.

Ø  Il quadro finale che scaturisce da questo insieme di considerazioni, e di evidenze, è quello di uno scenario di un lungo e tormentato periodo di decadenza complessiva, di attriti sempre più forti, di sostanziale non-governo, di “incidenti”, economici e sociali, che non si può escludere saranno simili al crollo globale degli anni Trenta.

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