martedì 1 settembre 2015

La parola del mese - SETTEMBRE 2015


LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
SETTEMBRE 2015

politically correct
 
 
politically correct = locuzione angloamericana. (traducibile con «politicamente corretto»), usata in italiano come aggettivo e sostantivo maschile
1. Con uso attributivo, e in senso proprio, di discorsi e comportamenti improntati al rispetto delle minoranze e dei gruppi sociali più deboli e discriminati
2. Come sostantivo
a. Movimento politico nato nelle università statunitensi verso la fine degli anni ’80 del Novecento per rivendicare una maggiore giustizia sociale e per la difesa e il pieno riconoscimento delle minoranze oppresse (gruppi etnici, omosessuali, donne, ecc.). Per estensione la rivendicazione, da parte di gruppi minoritarî, del riconoscimento anche giuridico della propria identità culturale
b. Con significato più generico, atteggiamento di apertura e attenzione verso i problemi delle minoranze e di quelle categorie che non hanno spazî adeguati d’espressione nella società.
L'espressione politicamente corretto designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona. L'uso dell'espressione nell'accezione corrente può essere ricondotta agli ambienti di intellettuali statunitensi di sinistra d'ispirazione comunista degli anni trenta, sebbene riguardo alle origini del concetto di "politicamente corretto" vi siano altre ipotesi. Politically Correct è anche il successivo movimento di idee d'ispirazione liberal e radical delle università americane (in particolare nella University of Michigan ad Ann Arbor, Michigan) che alla fine degli anni ottanta si proponeva, nel riconoscimento del multiculturalismo, la riduzione di alcune consuetudini linguistiche giudicate come discriminatorie ed offensive nei confronti di qualsiasi minoranza per cui: afro-americans (afro-americani) sostituisce blacks, niggers e negros (negri), gay sostituisce i molti appellativi riservati agli omosessuali, diversamente abile sostituisce varie espressioni che erano politicamente corrette in passato (minorato, l'anglicismo handicappato, poi portatore di handicap, disabile), disoccupato sostituisce nullafacente. Il movimento nacque in risposta al rapido aumento di episodi di razzismo tra gli studenti, furono così approntati ed imposti dei codici di condotta verbale (speech cdes) con i quali si voleva scoraggiare l’uso di epiteti offensivi; il ripetuto mancato rispetto di questi codes veniva sanzionato con richiami ufficiali che avrebbero potuto influire negativamente sulla carriera accademica.

8 commenti:

  1. Il caso ha voluto che, in coincidenza con la scelta di “politically correct” come parola del mese, io abbia iniziato a (ri)leggere “Storia della sessualità” di Michel Foucault, un magnifico saggio sul potere, i suoi meccanismi, i suoi dispositivi. Nella primissima pagina Foucault pone la domanda se corrisponda al vero che a partire dal XVII secolo attorno al sesso si sia creata una pesante e diffusa censura, tale da rendere anche il solo nominarlo operazione proibita e disdicevole. Ecco come Foucault descrive questa proibizione …….nominare il sesso sarebbe diventato, a partire da quel momento, più difficile e più costoso; come se per dominarlo nel reale fosse stato necessario innanzitutto porre delle restrizioni a livello del linguaggio, controllare la sua libera circolazione nel discorso, scacciarlo dalle cose dette e far tacere le parole che lo rendono presente……Foucault scriveva queste splendide righe sull’assurdità della pretesa di controllare i pensieri agendo sulle parole che li possono esprimere nel 1976 appena prima che il “politically correct” nascesse, con motivazioni non diverse anche se riferite ad altri pensieri molto meno piacevoli e giusti del sesso, nelle Università americane. Faccio mie tutte le perplessità, che credo siano presenti a tanti di noi, sulla reale efficacia, per eliminare dalle nostre relazioni sociali atteggiamenti censurabili sul piano etico, di proibire, grazie a giri di parole a volte davvero ridicoli, quelle che li esprimono. Aspetto di leggere vostri commenti per ritornare su questo aspetto, mi interessa, in questo primo commento, evidenziare una questione non meno importante: il valore, il potere, che la “parola”, ogni parola, possiede in sé. Vorrei capire meglio, riflettendoci, come sciogliere una contraddizione che, perlomeno a me, sembra esistere al riguardo. Da una parte la storia ci racconta che nell’uomo da sempre albergano pensieri ed atteggiamenti (razzismo, disprezzo per i diversi e gli esclusi, per chi prega un altro Dio, preconcetti infondati sugli “altri” in genere, per dirne alcuni), prodotti da presupposti economici piuttosto che politici, finalizzati a rafforzare coesioni sociali e collettive (la faccio ovviamente breve qui e adesso). Pensieri ed atteggiamenti che vivono in noi dagli albori della storia dell’Homo Sapiens indipendentemente dalle parole che li esprimono. Dall’altra la semantica prima (Noam Chomsky per citarne uno), le neuroscienze poi, hanno messo in luce come la “parola”, le “parole”, guidino e “formino” i nostri pensieri. Mi fermo qui, mi limito a proporre la domanda. Spero di tornarci avendo ricevuto da tutti voi, anche per questo aspetto, suggestioni e riflessioni. Dimenticavo! Foucault, nelle pagine successive, dimostra come, proprio a partire dal XVII secolo, non si sia mai parlato così tanto di sesso, seppure con tutte le proibizioni e le prescrizioni a controllare il suo linguaggio. Vorrà ben dire qualcosa questo esempio!

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  2. L’intento originario del ‘politically correct’ era sicuramente sincero, teso a garantire il rispetto delle mille diversità esistenti in una società ma gli esiti, come spesso accade, sono stati deludenti. Il linguaggio ‘politicamente corretto’ racchiude al suo interno ipocrisie e trappole, si cambia il nome alle cose ma si mantiene inalterata la sostanza. Utilizziamo eufemismi e termini socialmente ‘accettabili’ per definire realtà che non esistono e ci auto-convinciamo che le cose siano diverse solo perché le chiamiamo diversamente. Gli esempi sono tantissimi e noi tutti li conosciamo (diversamente abile, uomo di colore, missione di pace, ecce cc)
    Tutto vero, però io penso che un cambiamento del lessico sia comunque auspicabile anche se ciò può in un primo tempo non coincidere con il cambiamento della realtà. A volte un cambiamento lessicale può ‘modificare’ la percezione di un ‘cosa’ reale. Per intenderci il termine ‘single’ ha soppiantato il termine zitella ma contemporaneamente ha registrato (aiutato?) una modifica nella percezione di una donna non sposata. Analogamente la ‘messa al bando’ della parola handicappato ha aiutato a non vedere la persona chiusa in quel problema. Certo capire se il lessico è cambiato prima o dopo un cambiamento dei costumi, se è nato cioè prima l’uovo o la gallina, è, almeno per me, impresa difficile comunque un poco il ‘politically correct è ok’.

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  3. Riprendo le riflessioni di Nives che ho condiviso, provo a ridirle con parole mie, tanto per restare in tema. Per sapere della potenza delle parole non occorre ricordare la versione della Genesi che affida loro la nascita del mondo stesso, che racconta di come le cose attorno a noi prendano vita quando una parola le definisce: una potenza che vale doppio: le parole testimoniano il nostro intimo sentire, e al tempo stesso lo indirizzano, lo formano. Ha quindi un senso usarle con attenzione, sceglierle con cura, specie nelle relazioni con gli “altri”. Non usare quelle che testimoniano disprezzo, intolleranza, oppressione può aiutare a superare atteggiamenti sbagliati. Non è operazione semplice: quando quelle parole “da lasciare indietro” sono sostituite da locuzioni che si attorcigliano, spesso al punto da suonare imbarazzanti persino per gli stessi soggetti da definire, allora si rischia di scadere in una inutile ossessione. Se il fine del “politically correct” è quello di educare al rispetto e alla considerazione (anche) creando un “vocabolario” che li testimoni e li rappresenti, deve evitare però di scadere nella “macchietta”, nella ridicola allegoria dell’impronunciabile. Rischia, inoltre, di produrre l’effetto contrario: imporre modi di dire esasperatamente “rispettosi” può, per molti, diventare uno stimolo a perseverare nei comportamenti e modi di pensare che si vuole modificare. Nives, pur condividendo lo sforzo ad un maggior rispetto anche nel parlare, si chiede, e chiede a noi, se questo sforzo ha qualche possibilità di riuscire nel suo intento, e cioè se viene prima la parola e poi l’agire, o viceversa. Bella domanda (fra l’altro declinabile in molte situazioni del vivere e del sapere): credo che venga prima la sensibilità, l’osservazione, la considerazione dei danni e delle ingiustizie. E’ possibile che questo avvenga perché nei nostri circuiti mentali si sono già installate parole alternative, di condanna e di proposta di altri valori? Può essere, ma in fondo il “politically correct” nasce, con pregi e difetti, grazie all’azione di qualcuno, che si è deciso ad “agire” dopo aver visto e considerato. Non sarebbe male tornare a riflettere su questo passaggio che ha valenza generale, mi limito qui a suggerire l’ipotesi che nelle nostre mappe mentali possano entrare parole in grado poi di orientarci ad un agire diverso perché qualcuno agisce ed inizia ad usarle, ce le propone, se ne fa avanguardia e testimone. Avanguardia: è una parola che si usa poco, eppure merita attenzione. Pensiamo, ad esempio, a come abbiamo modificato le nostre idee di “bello” grazie ad “avanguardie”, in pittura e in scultura, che ne hanno spostato i confini. Pensiamo a come si è ampliata e approfondita l’idea del “giusto” grazie all’insegnamento e alla testimonianza di “avanguardie”. Ripeto: discorso complesso. Lo fermo qui ora per dire, rispondendo a Nives, che “forse” viene prima l’azione, e prima dell’azione di tutti, di tanti, quella di “qualcuno” che apre la strada. Il vero ed ultimo scopo della cultura, in tutte le sue declinazioni, credo consista proprio in questo agire da “avanguardia” P.S. = Mi piacciono i commenti di Nives. Raccontano, bene e in bella sintesi, il suo personale sentire e sapere. E’ un modo giusto quello di partire da ciò che sappiamo e pensiamo, poco o tanto che sia. Su questa base acquistano senso e spessore la voglia di approfondire, di farci dire e spiegare da chi sa, nascono nuove curiosità e interessi. Lo dico perché spero che Nives, ed il suo modo di “commentare “, diventino “avanguardia” per molti altri in questo “esile e fragile” blog

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  4. Quando leggo – è Rampini a raccontarcelo - di un vero e proprio manuale di istruzioni linguistiche al politicamente corretto ad uso degli studenti di alcune università degli Stati Uniti, quali novelle Giovani Marmotte, non posso non provare un brivido sottile, perché ben ricordo dalle nostre antiche riflessioni sulla biopolitica come ogni qual volta la norma afferri troppo strettamente la vita, questa ne esca soffocata.
    Le parole, tanto come le idee - dice Hillman in un libro-intervista con Michel Ventura (“Cent’anni di psicanalisi”) - devono respirare con la vita e anzitutto ascoltarla: quando si prefiggono di migliorare il mondo senza che ci sia stato un vero spostamento del “mobilio della mente”, non germogliano, ci lasciano uguali a noi stessi, non portano ad una vera e propria ecologia del profondo. Bisogna lasciare, dice, che le parole si muovano senza forzature con la vita che cambia, riuscire a realizzare una cultura che si permetta, quando non ci sono parole pronte per ciò che sta avvenendo, di lasciare “un piccolo silenzio nella frase, un piccolo spazio nella pagina”, evitando di mettere in giro parole false o fuorvianti. Se ci precipitiamo, tanto con le parole come con le idee, a metterle in pratica, andranno in realtà perdute: perché le idee come le parole apportino un vero beneficio alla politica dell’anima e del corpo, devono prima “raccogliersi in se stesse, accumulando forza, incrementando il vigore”. Solo in questo modo diventeranno capaci di dare bellezza e senso al mondo…
    Se è così, se Hillman ha ragione, la parola del mese è stata davvero utile per darci l’occasione di riflettere sui vari “diversamente abile” ed altre espressioni consimili, che con le migliori intenzioni (sappiamo bene però che di buone intenzioni sono lastricate strade che non portano necessariamente in paradiso) burocratizzano il linguaggio e lo spengono. Così pure potremmo, in altri momenti, interrogarci sull’ossessione tutta contemporanea verso ciò che è “puro”, incorrotto, senza ombre, nel cibo come nelle parole, ma che poi produce, secondo il mio sentire, molte più ombre di quante non ne sia già pieno il mondo.

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  5. Due brevi contributi al politicamente corretto:
    1) E' indubbia la validità delle motivazioni da cui sono scaturite le espressioni del Politicamente Corretto. Infatti è nella nostra natura conoscere dividendo in categorie il conosciuto, così come è nella nostra natura avere atteggiamenti di rifiuto verso tutto quello che riteniamo DIVERSO dal nostro gruppo di appartenenza, pertanto è indubbia la validità di fornire modelli positivi nel cercare di educare al controllo dei nostri atteggiamenti istintivi. Ma nulla deve essere dato per scontato e assimilato per sempre.
    Infatti i meccanismi di difesa delle forze istintuali sono sempre in agguato, anche subdolamente.
    Un esempio? Analizziamo l'espressione DIVERSAMENTE ABILE. Nobile l'intenzione per cui è stata generata, ma che cosa significa? Tutti siamo diversamente abili, però il fatto che questa espressione sia implicitamente da limitarsi ad una determinata categoria di persone, indica una sua connotazione limitativa, cioè solo alcuni di noi sono diversamente abili e il termine diversamente sottintende quella diversità da evidenziare e da edulcorare nello stesso tempo. Il discorso qui potrebbe prolungarsi perché il fatto di indicare una persona tramite la sua cartella clinica, dovrebbe farci inorridire, ma questo è un altro discorso. Evidentemente quello che ci ha insegnato Marcuse è finito nel dimenticatoio.
    Ma l'espressione politicamente corretto la troviamo anche in altri scenari.
    2) Così scrive Diego Fusaro ( Coraggio ed. Donzelli pagg. 170-171 )
    "Schiusosi con le scintille di un'audace critica degli intellettuali al potere e con eroiche figure che pagarono con la vita la loro opposizione ( da Gobetti a Gramsci, da Edith Stein a Bonhoeffer) , il Novecento era destinato a terminare con il riassorbimento del ceto intellettuale nella voragine del potere in cui l'"essere contro" diventa un giro di valzer di ballerini che piroettano, compiaciuti e incoerenti, senza mai rischiare nulla e senza mai mettere in discussione l'ordine costituito. Questa conversione dell'eterogeneo panorama intellettuale in un desolato scenario di glaciale integrazione al fondamentalismo dell'economia produce fisiologicamente uno spirito gregario e identitario di appartenenza da parte del 'clero' degli intellettuali, che, con il loro muoversi 'a banchi come i pesci' ( Costanzo Preve), seguendo le correnti del politically correct, rifiutano ogni innovazione teorica promuovendo in modo compulsivo il 'rispecchiamento' di un mondo che deve essere interpretato ma non trasformato...."
    In questo contesto l'espressione politicamente corretto probabilmente viene usata per evidenziare un adeguamento ad un quieto vivere politico-partitico: i rispettivi scheletri vanno lasciati nell'armadio, ben tutelati. Che sia così?
    Sembra proprio di sì, Fusaro infatti invita al FACERE AUDE, ad osare ad aprire gli armadi, ad esporre gli scheletri ben riposti ( però credo quegli degli altri). Il tutto in un clima di paressia, ovvero con il coraggio di dire la VERITA'( di cui però dobbiamo essere consci della sua contestualità, del suo eventuale egocentrismo) ed evidentemente in una relazione di non reverenziale timore verso l'altro.
    E invece a che cosa assistiamo?
    Alla "paressia" nei talk-show. O tempora, o mores!

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  6. A proposito di politicamente corretto non posso fare a meno di richiamare all’attenzione un fatto, a mio parere, gravissimo accaduto nel cuore delle nostre istituzioni la cui conoscenza non è stata sufficientemente diffusa, probabilmente offuscata dalla gravità del momento.
    Nel luglio 2013 il senatore Calderoli definiva l’ex ministro per l’integrazione Kyenge “orango”.
    Qualche giorno fa il Senato della Repubblica non ha ritenuto di dover sanzionare l’espressione come diffamazione aggravata dall’odio razziale, temendo, secondo le dichiarazioni di alcuni, di varcare il limite della libertà di espressione dei parlamentari (tutelata dall’art 68 della Costituzione) e ha derubricato la scelta linguistica a semplice atto di diffamazione.
    E’ curioso assiste a questa asimmetria di comportamenti; da una parte la vigile preoccupazione per la tutela del “pensiero politico” dell’onorevole Calderoli e dall’altra la palese violazione operata dallo stesso dell’art. 3 della nostra Costituzione che recita: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali….”
    Per quanto le parole siamo importanti e potenti e non intenda abbassare la guardia rispetto ad un loro uso “disinvolto”, penso che probabilmente rischiamo talvolta, concentrandoci troppo in esercizi di equilibrismo verbale, di perdere il contatto con la realtà.

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    1. Concordo con lo sdegno, e la conseguente raccomandazione di Massima di tenere sempre nella giusta considerazione i fatti più rilevanti. Nel caso in questione ritengo, ad onor del vero, che "orango" non rientri in nessuna delle versioni più o meno discutibili del "politically correct". Non si tratta di questo. Siamo né più né meno di fronte ad un inaccettabile caso di razzismo dichiarato, di totale imbecillità politica, di mancanza del minimo senso di un corretto dibattito politico. Evidentemente per conquistare le prime pagine dei giornali ed il voto di due, massimo tre, razzisti in più ogni nefandezza, verbale e non, è buona. Aggiungo nella lista dei fatti che meritano tutto il nostro sdegno il voto assolutorio di una buona parte del PD che, per meschine convenienze, ha ritenuto di mercanteggiare la doverosa condanna di una simile nefandezza.

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  7. Politicamente Corretto alla romana
    Così scrisse Plutarco:
    " soprattutto derivati da caratteristiche fisiche sono, oltre a Silla, Nigro e Rufo, anche Cieco e Clodio. In tal modo giustamente ci si abitua a non considerare una vergogna o un motivo di riprovazione la cecità o altra menomazione fisica."
    Plutarco, Vita da Coriolano, 12.
    N.B.: I Romani usavano tre nomi: praenomen, nomen e cognomen.
    Es.: Lucio Cornelio Silla
    Lucio = praenomen ( sarebbe per noi il nome di battesimo)
    Cornelio = nomen della gens, cioè del gruppo di famiglie discendenti da uno stesso capostipite ( gens Cornelia)
    Silla = cognomen, un soprannome dedotto da qualità o da difetti fisici o morali, dal luogo d'origine, da benemerenze civili o militari, dalla condizione sociale della persona o dei suoi antenati. Silla, in latino Sulla, significava sottigliezza delle gambe.

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