Vivere insieme senza L'altro?
E’ ancora
possibile ritessere il discorso collettivo?
Intervista a Jean Pierre Lebrun
a cura di
Emanuele Montorfano
Non è certo una novità proporre l'idea che
assistiamo ad un mutamento marcato, per certi versi, inedito del legame sociale
e del discorso sociale che lo forgia. Se da un lato non possiamo non fare
riferimento alla crisi congiunturale in cui ci troviamo, che preclude la
disponibilità di risorse materiali e l'esercizio di diritti ereditati da ormai
altri tempi, d'altro canto non possiamo arrestare la nostra analisi su questo
punto. In questa intervista JPL ci invita a considerare che ciò che si presenta
come critico non è da cercare solo nell'indisponibilità della risorsa,
dell'oggetto, ma piuttosto nel particolare tipo di rapporto che il soggetto
attuale intrattiene con l'oggetto di soddisfazione e nelle conseguenze che
questo nuovo tipo di rapporto genera nello psichismo individuale.
In
particolare il discorso sociale attuale sostiene una irrinunciabilità dell'oggetto
di soddisfazione, delegittimando di fatto ogni condizione di mancanza, che, in
quanto delegittimata, non ha più possibilità di funzionare come condizione
propulsiva, origine di desiderio, spazio vuoto da fecondare con un progetto, ma
piuttosto come accidente mortificante, inammissibile intollerabile e dunque
passivizzante. Il legame sociale è minato dall’insostenibilità di questa
mancanza e quindi dalla dipendenza del soggetto da un oggetto di soddisfazione:
l’esistenza è orientata dall’oggetto del godimento. È per il fatto di ruotare
attorno all’oggetto disponibile che gli individui stessi si trasformano in
oggetto. Una società che si presenta così, non permette di assumere che la
condizione umana suppone la necessità di perdere un godimento che si possa
pensare totale perché ci sia legame. Se la questione è quella della prevalenza
di una soddisfazione individuale allora il collettivo e le sue esigenze sono
fuori campo. Tutti coloro che hanno il compito di ricordare le strettoie della
condizione collettiva umana, genitori, insegnanti, educatori, operatori
sociali..., si trovano come delegittimati. Dobbiamo quindi evitare di prendere
questo discorso sociale attuale per verità e cercare nelle risorse proprie del
soggetto umano quello che il discorso sociale non presentifica più.
Anche per la nostra generazione si pone il
problema di non sentirsi abbandonati dagli altri e, nel contempo, di non essere
soffocati dai legami. A differenza del passato, tuttavia, sembra di vivere in
una congiuntura che amplifica le due questioni, piuttosto che contenerle, fino
ad allentare i legami in modo drammatico. Da dove nasce questa impasse del
legame sociale? Introdurrei il mio ragionamento sulla questione sollevata
proponendo una riflessione di Marcel Gauchet il quale afferma che “godiamo
ormai di una libertà ineguagliata di governare noi stessi, ognuno nel suo
angolino e per suo conto”. Per osservare, subito dopo, che l’orizzonte di un
governo in comune è svanito, al punto che l’idea di una presa d’insieme
sull’organizzazione del nostro mondo non ha più né supporto, né strumenti, né
ricambi. Per concludere che non possiamo più quasi immaginare l’azione storica,
se non come la risultante di una miriade di iniziative disperse, tutte
legittime e tutte decise a non cedere nulla sulla loro indipendenza. Gauchet
mette in luce l’enorme evoluzione che c’è stata nei secoli, anche se è solo da
due, tre secoli che accettiamo di pensare che ci sia una dialettica tra
collettivo e individuale. Voglio dire, nella società greca, nella società
romana, nella società medioevale fino alla modernità, ogni individuo occupava
il posto che gli era prescritto; era così e basta. Sicuramente alcuni
trasgredivano, ma il posto era dato in anticipo ed era sempre interamente
tributario di ciò che doveva assicurare il funzionamento del collettivo. Detto
altrimenti, il collettivo prevaleva sempre sull’individuale. Nella nostra
società neoliberale, invece, si potrebbe dire che prevale lo slogan “Tutti
uguali!”. A mio avviso, questo ci sta portando su una strada senza uscita:
quando l’orientamento a partire dal collettivo è da mettere da parte, mentre è
da promuovere unicamente l’individuo, allora è tutta l’articolazione del
collettivo e del singolare che viene scossa, di fatto minacciata. Le ragioni di una società orizzontale Da dove nasce
tutto questo? Senza dubbio, l’attuale generazione di sessantenni e settantenni
assiste al più grande cambiamento da quando l'umanità esiste. Tutti sentono che
c'è qualcosa che cambia in profondità. Anche se non ci sono eventi precisi di
svolta, ci sono stati momenti nella nostra storia che hanno punteggiato questo
cambiamento. Fino alla rivoluzione francese, prima della modernità, si può dire
che la società fosse concepita come una piramide. Gli umani, dovendo
organizzarsi, hanno dovuto organizzare la loro vita collettiva in funzione di
un sovrano, di qualcosa che li regolasse, funzione che per molto tempo hanno
attribuito a Dio. Prima della modernità era il modello della religione a
organizzare la vita collettiva. Questo modello aveva almeno il beneficio di
definire immediatamente il posto in cui ciascuno si trovava. Ma nel momento in
cui qualcuno occupava il posto di Dio, ciò avveniva non senza un certo abuso,
una certa forzatura, perché in fondo nessuno può presumere di interpretare Dio.
Per questo, da che mondo è mondo, c'è sempre stato bisogno di mettere in campo
una credenza, una fiction che permettesse di proteggere l'unità e
l'organizzazione del gruppo sociale, una religione. Con la modernità ciò ha
iniziato oscillare, perché si è deciso che Dio non doveva più intervenire negli
affari degli uomini come una volta. La scienza ha mostrato, attraverso il
lavoro di Galileo, che si trattava di una faccenda di calcoli e cifre. La
Rivoluzione francese, in campo politico, ha poi affermato che ciò che era
potere in nome di Dio non poteva essere considerato con uno statuto differente
dagli altri e ha dichiarato l'uguaglianza. E così oggi non abbiamo una
concezione di società costruita a piramide, piuttosto viviamo in una società costruita
a rete, come i computer. In altre parole, non abbiamo più l'idea di una società
verticale, bensì orizzontale. Con quali conseguenze? Quando si pensa a una
piramide si pensa a una cima, e oggi c'è una sorta di delegittimazione a
pensare una cima. C'è voluto molto tempo perché ciò accadesse, passando
necessariamente per la rivoluzione nella gestione del potere. Oggi è chiaro che
non c'è più nei confronti dell'autorità, della cima, lo stesso rispetto di
ieri. Vale per il capo dello stato, per lo stato stesso, in famiglia per il
padre, vale per il maestro a scuola. Noi tutti siamo “lavorati” da questa
mutazione, dunque vediamo in altro modo la questione dell'autorità. Questo è il
grande cambiamento nel quale siamo presi e che ha e avrà nel futuro delle conseguenze
a tutti i livelli della vita sociale, a cominciare da quello famigliare e dal
posto del bambino in famiglia. Siamo però scivolati in una delegittimazione di
ogni forma di autorità, e questo crea confusione. Togliendo d'emblée
legittimità all'autorità piramidale, si rischia di annullare la possibilità
stessa dell'esistenza di qualsivoglia autorità, con gravi conseguenze sulla
vita individuale e collettiva. Mi spiego. Una società che delegittima ogni
autorità non rende visibile, non rende più percepibile che la condizione umana
suppone la necessità di accettare di perdere un godimento che si possa pensare
totale. Ieri era in gioco la perdita del paradiso, come dire, una forma potente
di trascendenza. Oggi, con la caduta della religione, cade anche il riferimento
alla trascendenza. Per questo, è la ricerca d’immediatezza che prevale, la
terzietà che sparisce, come sparisce il prezzo da pagare per la
rappresentazione; è dunque la ricerca d’immediatezza che sarà prevalente.
L’insieme del nostro discorso sociale lascia intendere che questo accesso a
l’oggetto pienamente soddisfacente è possibile, è solo perché non è stato
ancora messo a punto che non lo si trova nella circostanza. Tutto è fatto per
darci l’illusione, la speranza, che sarà possibile produrre un tale oggetto. Se
dunque la necessità di tale perdita non è più esplicitata, se la società non la
rende percepibile, nello stesso momento si toglie legittimità a chiunque abbia
l’onere di ricordare quella che è la sorte della condizione umana. Che i genitori
siano oggi in difficoltà a dire “no” ai loro figli, mi sembra derivi da questa
delegittimazione. Dire “no” a vostro figlio in un grande magazzino, è rischiare
che il rampollo abbia una crisi di collera per questo “no”, è rischiare che
tutti i presenti vi guardino per vedere come ve la cavate: male di sicuro,
perché tutto ciò rischia di spingervi a lasciar correre e comprargli ciò che vi
chiede. Sullo stesso registro è quanto mi diceva un amico insegnante alcuni
giorni fa: “Compiango i giovani di oggi, perché mi domando come possano tenere
a qualcosa, con tutto ciò che è proposto loro”. La nostra non è una società del
consumo, ma una società della consolazione: ci vorrebbe sempre “qualcosa” per
consolarci del difetto di essere umani. L’incontro mancato Sta dicendo che la
società del consumo e della consolazione, occulterebbe qualcosa di decisivo di
ciò che ci rende umani? Coloro che hanno il compito di ricordare le strettoie
della condizione umana, a cominciare dai genitori, poi gli insegnanti, gli educatori,
gli operatori sociali, i dirigenti di un’organizzazione, tutti hanno l’incarico
di evidenziare che il collettivo ha da prevalere; ebbene tutti questi, a causa
del contesto generale, si trovano delegittimati e improvvisamente vacillano sul
supporto che dovrebbe permettere loro di occupare con decisione il proprio
posto. Sicuramente accentuo le caratteristiche del discorso sociale che
delegittima ogni autorità, ne faccio forse una caricatura, ma ancora venti,
trenta anni fa - non che ne abbia nostalgia, ma bisogna chiamare le cose col
loro nome - era messo in programma che questo era il dato della condizione
umana: impossibile eliminarlo; arrangiatevi, fate ciò che volete, urlate,
lamentatevi, piangete, non cambierà nulla. Oggi all’insegna è piuttosto:
“Aspettate, c’è modo di evitare la faccenda, c’è modo di evitare la stretta”.
Assistiamo così all’incontro tra qualcuno traballante al suo posto, da dove
deve far capire che non c’è modo di prendere scorciatoie rispetto alla
mancanza, e un altro che vuol approfittare del discorso sociale per dire che, a
ogni modo, ritiene di poter evitare il confronto con questa perdita
irriducibile, questa sottrazione, questo taglio di godimento richiesto dalla
condizione umana. L’incontro di questi due produce un che di vago, qualcosa che
chiamerei volentieri un cancro che si situa nell’apparato psichico, qualcosa
che, appunto, non è al suo posto. Ciò che non è più al suo posto nell’apparato
psichico è ciò che chiamo la nozione dell’autrui, non solamente dell’altro come simile, ma de
“L’altro” in quanto tale. C’è un esempio di questo che trovo emblematico, mi
riferisco ai giovani che hanno bruciato degli autobus a Marsiglia per comparire
in televisione. Erano pronti a colpire, ma hanno lasciato passare un primo bus,
in quanto uno di loro aveva riconosciuto qualcuno che era sopra; hanno colpito
il secondo bus, dove chi non è riuscito a uscire abbastanza in fretta si è
ritrovato all’ospedale col 60% di bruciature. Leggo questo sintomo come legato
al fatto che quel giovane, per avere accesso a ciò che è “L’altro”, aveva
bisogno della presenza reale di questo “altro”. Questa nozione non era invece
interiorizzata psichicamente: se non vedeva “l’altro” che conosceva, non
c’erano più “altri” nell’autobus, con tutte le conseguenze che sono seguite.
Fino a dire in loro difesa che non avevano veramente voluto ciò, che quelle
persone avrebbero oltretutto dovuto uscire più in fretta… C’è una certa logica
in questo, poiché se non ho la sensibilità di ciò che sono gli altri, in quanto
“altri”, interiorizzata nel mio apparato psichico, allora bisogna che inciampi
in qualcosa di duro per accorgermene! Questa struttura che io chiamo “L’altro”,
è ciò che in principio si è iscritto nello psichico per il fatto dell’incontro,
realizzato a suo tempo – c’è un tempo per questo, il tempo in cui è possibile
produrre un’impronta -, con un altro concreto, da cui il soggetto ha tollerato
di essere intaccato, di essere limitato, un altro che ha fatto sì che si
consentisse a quella sottrazione, a quella perdita che la condizione umana
suppone. La lunga erranza dei “senza L’altro (autrui)” Cosa è in gioco nei
soggetti che non si lasciano “intaccare”
da un altro nella sua concretezza? Questi soggetti hanno la sensazione che si
possa evitare il confronto, e dunque si immunizzano riguardo all’incontro con
qualcuno che possa ricordarglielo. Così facendo eludono il lavoro di
soggettivazione necessario a ogni essere umano, poiché non basta che nasciate
uomo o donna per far parte della specie umana, bisogna anche che vi
riappropriate – è il tempo dato all’infanzia e all’adolescenza - delle
condizioni di ciò che è l’umanità. Ora, se questo lavoro di soggettivazione non
è più richiesto, se si può eluderlo, ci si ritrova con quelli che io chiamo “i
senza L’altro”, colpiti da una prevalenza del materno, cioè un registro di
relazione che si articola su quella matrice primordiale di rapporto con
l'oggetto caratterizzato da una soddisfazione non mediata dalla dialettica col
paterno, che invece apporterebbe un limite e un orientamento a mollare il
godimento assoluto per dirigersi verso altro, verso il legame sociale. Tutto
ciò rischia di diventare perversione sociale. Così, da qualche tempo, abbiamo a
che fare con un’inflazione galoppante di patologie che derivano da una psichiatria
medico-sociale che si trova a fronteggiare soggetti nei quali è ancora attiva
la fase di non-distinzione e per i quali è piuttosto il corpo che si incarica
di indicare che non c’è stata vera separazione, vero processo di crescita.
Quando abbiamo il 15% di tasso di obesità infantile, possiamo leggerlo come
conseguenza del fatto che la legge del desiderio non è messa in funzione nella
giusta modalità e che un buon modo di tagliare la meccanica del desiderio è
saturarla tramite l’orale. Di conseguenza, abbiamo a che fare con tempi di
erranza estremamente lunghi. Tutti conosciamo studenti che devono fare
innumerevoli anni di studio, passando da una disciplina all’altra, e prima dei
trent’anni non escono da quel tempo molto lungo che è diventata l’adolescenza.
E’ il tempo di erranza dei “senza L’altro”, il tempo che questi soggetti si
prendono per confrontarsi con le invarianti della condizione umana, durante il
quale non sanno bene cosa fare, sono senza domanda perché sono senza indirizzo.
Un tempo durante il quale si “mostrano” – sia nelle peggiori difficoltà, come
capita talvolta, sia nel rifiuto di ogni intervento – ma insisto: si mostrano,
esigendo di essere visibili, “come alla TV”, perché senza questo non si sentono
esistere. Quando ascolto gli operatori che si confrontano con questi casi,
emerge che sono pazienti che non si rivolgono più a nessuno! Ci domandiamo come
fare per farli uscire da tale situazione, ma sappiamo che se ci precipitiamo
troppo si rifugeranno nella fobia sociale, nella fobia scolastica o non so più
in che altro. Comunque ci faranno ben capire che si tratta soprattutto di non
intervenire nei loro affari. La minaccia al legame tra singolare e collettivo
Siamo a una riduzione del legame sociale a scambio di oggetti di consolazione che non spezzano il meccanismo psichico
dell’erranza, ma piuttosto lo alimentano… Assolutamente sì e non solo nel mondo
giovanile. La società attuale e il suo funzionamento rischiano, se non si è
vigili, di negare ogni forma di autorità e di discorso sociale, sotto la spinta
di due grandi forze. Anzitutto il neoliberismo che produce senza sosta oggetti,
non solamente di consumo ma anche di consolazione; è il tentativo di fare in
modo che non ci si senta confrontati con l'assenza, che non si sia confrontati
con la morte, con l'impossibile. Tutte queste dimensioni che erano sacre oggi
sono evacuate. La seconda forza estremamente importante, a mio avviso, è
l'egalitarismo democratico. Mi spiego. Quando ci si trova in una società che
mira a legittimare la democrazia, si pensa che la sua dimensione fondamentale
sia l'uguaglianza delle condizioni, e fino a qui si è d'accordo. Ma ciò che è
proprio dell'uguaglianza di condizioni, come Tocqueville l'aveva già visto
bene, è che crea una passione senza limiti per l'eguaglianza, e dunque, se si
spinge fino al suo limite l'idea di uguaglianza, questione su cui non si è
riflettuto troppo, si arriva a posizioni del tipo: “In fondo perché ancora una
differenza tra genitori e figli?” e così via, nei diversi ambiti della vita sociale.
La passione per l'uguaglianza finisce per diventare ciò che chiamo
l'ugualitarismo. Come uscire egalitarismi e dedicarci insieme alla democrazia?
C'è qualcosa che non va nell'ugualitarismo perché, se ci si riflette un po', la
lingua che si utilizza non ha chiesto la nostra opinione per esistere, e noi
stessi abbiamo dovuto fare un lavoro di integrazione nella lingua di tutti.
Tutti gli umani che parlano una certa lingua, parlano una lingua che viene da
altrove, che viene prima di loro, che è degli altri, alla quale ci si è dovuti
sottomettere ma, poiché ci si è sottomessi alla lingua, non si è uguali a colui
dal quale la si è appresa! Le leggi della parola instaurano inevitabilmente un
tipo di dualità organizzata dall’ineguaglianza e dall’alterità degli
interlocutori, una irriducibile asimmetria dei posti. Questo effetto della
parola, sul quale attiro l’attenzione, lo dimentichiamo: la parola, in quanto
si indirizza a un locutore, istituisce immancabilmente un’asimmetria. In
effetti, con il semplice uso della parola non si riuscirà a realizzare l’ideale
che ci assilla, quello della fraternità, dell’uguaglianza, della transitività.
Indirizzare una parola a un altro, al contrario, produce, instaura – per il
solo fatto di prendere la parola – fra i due interlocutori un’asimmetria che
farà sì che l’uno si troverà in posizione di autorità e l’altro nella posizione
di tentare di farsi riconoscere. L’uso della parola introduce nella vita
sociale una ripartizione che crea, lo vogliamo o no, due posti differenti,
eterogenei l’uno rispetto all’altro. Non si tratta di giustificare le
disuguaglianze di valore tra individui che si sono prodotte e che si producono
tutt’oggi, quanto sottolineare che la tensione verso l’uguaglianza deve tenere
conto della asimmetria logica dei posti a partire dai quali c’è una gerarchia
dovuta alla logica dell’organizzazione del legame sociale che è la stessa della
logica del discorso. È l’assunzione di questa logica che impedisce a chi è
sopra di abusare e prevaricare e che permette a chi è sotto di non sentirsi
tiranneggiato e umiliato. Gli svincoli per non incontrarci Se ho ben capito, il
convergere del neoliberismo e dell’ugualitarismo piegano la funzione del
linguaggio fino a occultare la condizione di mancanza e di differenza costitutive
di ciò che ci può legare insieme come umani… In che modo avviene? Il legame
sociale è oggi costruito su un'immensa illusione, quella dell’evitamento del
collettivo. È come se non si concepisse più alcun legame sociale se non quello
che permetterebbe a ciascuno di fare... come la vede lui! Ma perché ci sia
legame sociale occorre che ci sia perdita di soddisfazione, anche perché
bisogna che si acconsenta al fatto che il collettivo ha le sue esigenze. Questo fa parte della medesima perdita
necessaria a livello della società, tra i suoi membri, per acconsentire a una
perdita di soddisfazione totale nel riconoscimento per il collettivo che
prevale sull'individuale. Queste esigenze sono condizione di soggettivazione
senza le quali cade la nostra singolarità e la nostra possibilità di far legame
con l'altro distinto da noi. Nonostante le apparenze, cogliamo tutti i giorni
che il collettivo deve prevalere sull'individuale, nella stessa maniera in cui
la lingua prevale sulla modalità in cui ogni bambino si mette a parlare: dovrà
parlare secondo la lingua prima di lui; è la stessa cosa! E dunque nel
collettivo, poiché si ha talmente l’impressione che io sia uguale all'altro,
non ci sono ragioni che voi decidiate per me qualche cosa e, di conseguenza, si
finisce per essere individualisti, mentre la solidarietà, che permette di stare
insieme, non la si trova più. È ciò che chiamo “vivere insieme senza “L’altro”,
proprio di una soggettività neoliberale che è quella di un soggetto che si
suppone fatto da sé, autogenerato, per il quale le istituzioni non hanno più
altro ruolo che quello di “gestire i conflitti”, contenere i percorsi erratici,
e non quello di ancorarlo alla perdita nella quale siamo tutti iscritti. Ciò
provoca rivendicazioni identitarie a non finire. La forza che annoda Da dove
ripartire per cercare di vivere “con” L’altro? Non possiamo accontentarci di
diventare organizzatori di incroci, di svincoli stradali per far in modo che -
come nel film di Gus Van Sant Elephant - giovani e adulti si organizzino per
non incontrarsi, per non incontrare L’altro. E’ questo che abbiamo davanti? Non
possiamo lasciarci ingannare da un certo tipo di discorso sociale. Per non
arrenderci ripartirei dal fatto che l’essere umano è un essere di linguaggio e
linguaggio vuol dire rinuncia all’immediato. Se non introducete qualcosa che vi
sposta di piano, che vi mette in una posizione in cui il tutto subito è
impossibile, non riuscirete a parlare. Possiamo pensare che ogni essere umano
abbia consentito – senza neppure avergli domandato il parere, in un primo
momento - ad accettare questo dato del linguaggio, cosa che non è naturale ma
implica una presa di distanza, uno spostamento dal singolare al collettivo. In
realtà ognuno è singolare, specifico. Come può questa singolarità farsi riconoscere
dagli altri? Ebbene, appunto è perché parliamo che la cosa è possibile. Il
linguaggio è questa straordinaria potenzialità umana, che annoda il singolare e
il collettivo. Poiché per dire ciò che è più specifico di cosa avete da dire,
sarete costretti a dirlo in una lingua che tutti condividono, esigeremo che
siamo capaci, tutti, di parlare le parole di tutti. Di mezzo c’è un’operazione
psichica complessa di cui il soggetto si deve riappropriare, per entrare nel
linguaggio che pone al centro la mancanza e in tal modo permette di riannodare
singolare e collettivo ponendo al centro, proprio nell’infanzia, il distacco
dalla madre, dall’attaccamento alla madre. Poco a poco si domanda al piccolo
soggetto in divenire di lasciar la presa, appoggiandosi per far ciò a qualcun
altro di cui si dirà retroattivamente che è stato suo padre, o un padre per
lui. In altre parole, sarà detto padre chi avrà aiutato il soggetto a staccarsi
dal godimento materno, che per noi presentifica quel godimento assoluto che la
condizione umana esige di lasciar cadere, nel senso forte del termine, come è
prescritto persino nella tradizione biblica con il “tu abbandonerai tuo padre e
tua madre”. Non si tratta, d’altronde, di abbandonare la madre e restare
incollati al padre, poiché il padre è lì in quanto spinta a prendere parte al
discorso sociale e lasciar ciò al quale si è restati fino a quel momento
incollati. Ora proprio questo lavoro oggi è appesantito dal tipo di discorso
sociale con cui si ha a che fare. Dov’è
l’arte di annodare? In questo scenario gli operatori sociali sentono di
muoversi controcorrente, spesso senza mezzi, nell’aiutare a mollare la presa di
legami di godimento per entrare in un discorso sociale altro da quello
prevalente… L’operatore sociale prende
su di sé la contraddizione tra il discorso sociale attuale, che non rispetta le
leggi della parola e il concreto delle situazioni. Certo, il suo lavoro è
minato, messo alla prova. Spesso non sono in grado di fare questo annodamento,
perché l’annodamento che aveva luogo ieri viene rifiutato, non è credibile. Di
conseguenza, abbiamo un compito enorme, in mancanza del quale vedremo
moltiplicarsi all’infinito le domande di intervento. In questa situazione,
tuttavia, pur non avendo i mezzi di ieri, abbiamo un compito da svolgere.
Questo ci impone un certo strabismo, dobbiamo guardare un poco di lato, cioè
non prendere il discorso sociale attuale per verità, ma cercare nelle risorse
proprie del soggetto umano quello che il discorso sociale non presentifica più.
Non c’è altra soluzione. Ciò può voler dire, per esempio, sopportare il peso di
essere esigenti, critici, tutt’altro che complici, nel lavoro sociale ed
educativo, fino a “trasgredire” regole sociali troppe volte ritenute
intoccabili, soprattutto là dove
convergono ricadute del neoliberalismo e democratismo. Tutti vogliono
essere una buona mamma, che procura tutto all’altro; ebbene, questa non è
sempre la strada migliore e talvolta bisogna ricordare al soggetto che non è
così che può andare avanti. Nei gruppi, nelle istituzioni si attribuisce molta
importanza a che ciascuno dia il suo parere, ma il problema è ciò che se ne fa
dopo: si saprà decidere? Ieri era semplice, si aveva dietro un padre, un
patriarca, un dirigente, un direttore che prendeva la decisione, e si era
tranquilli. A partire dal momento in cui ci siamo orizzontalizzati, bisogna che
ciascuno assuma una parte di responsabilità di questa dimensione collettiva,
non fosse che per dire che c’è qualcuno nel posto in cui si decide e se decide
qualcosa che non avrei deciso, bisogna che accetti quel che ha deciso, per il
fatto che occupa un posto legittimo. In realtà la difficoltà degli operatori
sociali nasce anche dal fatto che essi portano ancora con sé qualcosa del
funzionamento della società di ieri, con l’idea che si tratti di dare una mano
ai più precarizzati, più poveri, più sprovvisti... A ben vedere, in passato non
c'era l'idea di poter soddisfare tutti, tuttavia questa impossibilità non era
delegittimante del loro lavoro come operatori. Oggi il modello sociale
prescrive invece all'operatore un funzionamento che nega l’impossibile, mentre
la sua parola non è riconosciuta. Di colpo l'operatore si ritrova così a dire:
“Aspettate! Il mandato che mi spetta non funziona nell'incontro! Mi si chiede
che tutti siano uguali, ma io constato che c'è piuttosto disuguaglianza. Mi si
dice che attraverso le parole ci si capisce, ma quando non ci si capisce cosa
si fa?”.
Il desiderio di incontro Di fatto nei
servizi si è sopraffatti da richieste di soddisfacimento di bisogni, ma ciò non
è possibile… L'operatore vede un tessuto sociale che si disaggrega, si
danneggia, senza poterlo riparare. E tuttavia, dentro lo sfilacciamento
generale del tessuto sociale, egli può essere il solo capace di sostenere
l’incontro. L'operatore è un essere che,
a volte almeno, può mettere delle toppe nei buchi giusti, riempire vuoti quando
le cose non vanno, ma di fatto intercetta un’umanità che è esclusa dalla parola
ed è proprio nella parola che c'è il vero buco. Il discorso sociale non riconosce
più la condizione umana nel linguaggio e dunque l'operatore, sempre sulla
frontiera, non ha più ciò a cui tutti, compreso l’operatore, siamo chiamati a
sottometterci. È come se anche per l'operatore cadesse una dimensione di
trascendenza fino a ritrovarsi incollato all’attualità della situazione:
semplicemente intende il grido, la protesta dell'utente, nulla di più. La
chance che resta all’operatore è ingaggiarsi in un incontro con qualcuno,
sapendo che non ha soluzioni da offrire. In certi casi può anche fornire
risorse materiali e prestazioni che possono migliorare la sorte delle persone,
d'accordo. Ma per la maggior parte delle situazioni non ne ha la concreta possibilità. Per
contro, se si ingaggia in una relazione con colui che incontra, ha un'arma
potente, il tratto umano comune a tutti: davanti alla realtà concreta, davanti
alla morte, davanti alla perdita, davanti al lutto, davanti alla precarietà,
abbiamo la parola. Almeno lì abbiamo qualcosa che non si può levare a nessuno.
Una lettura in termini di bisogni non è sufficiente. Ci sono sempre dei poveri
senzatetto, ogni anno di più, e soprattutto non possiamo evitare del tutto che
ci siano, perché non siamo in grado di fornire tutto. La crisi economica e le
disuguaglianze nelle quali siamo presi fanno constatare che molte persone sono
in difficoltà e che, nello stesso tempo, rischiano di non essere considerate
come soggetti di parola. Proprio l'arma che potrebbe permettere loro di
fronteggiare la situazione.
Si può dire che l'operatore, con l'idea
predominante di saturare il bisogno, si venga a trovare nella difficoltà di
ingaggiare un desiderio d'’incontro? Sì un desiderio, altrimenti non c'è più
incontro possibile. Il desiderio è ciò che rende le cose possibili: se non c'è
più desiderio d'incontro si perde la propria iniziativa. Da qui la difficoltà
di molti operatori, poiché se si chiudono nella logica esclusiva di poter
rispondere al bisogno, cadono nel burn out e, oltre a ciò, restano incollati al
“compito” inteso come erogazione di prestazioni. A quel punto non ci sono fili
che permettano di tessere l’incontro con l'altro. La cosa da salvaguardare a
ogni costo è l'incontro, che si abbia o no la risposta al bisogno. Non è
affatto indifferente sperare nella possibilità di incontro. Se siete in
difficoltà, avete perso il lavoro, avete perso la compagna o un figlio ha un
senso poter sperare in un interlocutore al quale poter almeno dire le cose, con
il quale ricercare un qualche significato. Eppure oggi sembra difficile che
questo accada. Intanto il cittadino non trova più nel discorso sociale un
interlocutore che sostenga la sua parola. Se mi è permessa una caricatura, se
avete qualche difficoltà… dovete fare un numero di telefono e vi dicono:
digitate uno, digitare due… Non trovate più nel discorso sociale la presenza
reale di un interlocutore nel sostenere la vostra parola. Tese tra il dramma
della vita, la mancanza di parole, la sudditanza al discorso sociale
neoliberista chiuso a “L’altro”, se non possono accedere a un incontro, le
persone esplodono. Non siamo in grado di rispondere ai bisogni, ma non possiamo
pensare che la sottomissione alla logica economica attuale possa regolare
tutto. Non è sensato. Non credo solo che occorra inventare qualcosa per tappare
i buchi; bisogna anche essere “contrari” al loro formarsi e poi costruire
alternative possibili, altrimenti ci sarà una rivoluzione. Non si possono
lasciare le persone così: è una prescrizione di inumanità. Per questo dico che,
dentro le tensioni dell’oggi, la possibilità dell’incontro è la condizione per
cui può lievitare un nuovo discorso sociale.
Il posto dell’operatore Non c’è il rischio
che l’incontro si limiti ad accondiscendere alla ricerca di consolazione? Me ne
rendo conto. Qui emerge il compito dell’operatore e la capacità di stare al suo posto. Bisogna che ci
intendiamo sul fatto che l'uguaglianza democratica non è contraddittoria
rispetto alla differenza dei posti e che la differenza dei posti ha a che fare
con il linguaggio. Come dicevo, c'è il posto del locutore e dell'uditore, di
colui che enuncia e di colui al quale ci si indirizza. Sono posti differenti
e il linguaggio ci costringe rispettare
questi posti che esistono, che lo vogliamo o no. C'è un'autorità della parola,
del linguaggio. L'uguaglianza democratica, del tutto pertinente e legittima
(non c'è alcuna ragione per cui si pensi che qualcuno valga più di qualcun
altro), siamo tutti d'accordo, è un nuovo modo di pensare la vita sociale e i
legami. Ma non è perché si riconosce il valore di ciascuno che dobbiamo annullare
il fatto che ci siano dei posti differenti. C'è il posto di colui che insegna e
c'è il posto di colui che è allievo, e anche nel lavoro sociale ci sono dei
posti differenti. Oggi sovente non si accetta più il posto differente sotto il
pretesto che è una disuguaglianza… Qui sorge l'ugualitarismo. E’ anche vero che
ci sono operatori che continuano a occupare questo posto nella modalità di
ieri. Vale a dire: "Sono io il capo ed è così". Ci sono altri che non
osano più occuparlo, perché è il modello di ieri e, di conseguenza, va bene
qualunque cosa faccia chiunque. Tuttavia, oggi ci sono leader, coordinatori,
dirigenti che hanno spontaneamente riflettuto sul rischio dell’egalitarismo e
sanno bene che non è il caso di essere tributari di ciò che l'altro vuole, ma
che non sono neanche persone che impongono dicendo “è così e basta”. Piuttosto sono impegnati in un lavoro di
dialogo e di scambio, fanno spazio alla parola di tutti, ma “tengono”
sull'inevitabilità che, dopo la parola, bisogna arrivare a decidere,e che la
decisione non può tenere conto solo del consenso della maggioranza, ma anche
del posto che si occupa. Quello che chiamo il posto dell'eccezione. Posto
logico, asimmetrico, del quale bisogna tenere conto e grazie al quale bisogna
prendere la decisione che impegna il collettivo. Dunque è importante
relativizzare il peso di questo posto, senza tuttavia annullarlo, senza farlo
sparire. Relativizzarlo perché ieri coincideva con la sommità della piramide,
dove al vertice c'era colui che decideva cosa fare. Se sono messo al vertice al
posto di Dio, del re, del capo, del maestro, del padre sono io che decido. Non
basta neppure negare la differenza dei posti. Piuttosto l’attenzione deve
posarsi su quel che fanno spontaneamente molte persone quando non affermano che
“si fa, così perché sono il padre...”, ma hanno la forza per dire “io farei
così, poi ne discutiamo...”. Esse trovano il momento per porre fine, per
tagliare, per decidere qualcosa. Non bisogna “credersi”, ma “crederci”! Ma in
nome di chi, di che cosa decidere? Chi occupa un ruolo dirigenziale deve avere
una responsabilità molto sensibile al collettivo. Se mi penso solo nel mio
ufficio, nel mio gruppo di lavoro, è una cosa. Se invece penso a ciò che sta
attorno al mio ufficio, al mio gruppo di lavoro, bisogna che tenga conto della
logica collettiva. Bisogna che mi ingaggi nel continuo riannodare il legame tra
individuale e collettivo, nella continua responsabilità verso un discorso
sociale che, senza mai lasciar cadere le acquisizioni della democrazia, solleciti
a uscire dalle logiche di regolazione dei rapporti ispirate al consumo e alla
consolazione. per alimentare forme di partecipazione secondo ciò che la nostra
umanità esige.
Ho letto con attenzione l'intervista di Motorfano a Jean Pierre Lebrun e ho trovato alcune analogie con Massimo Recalcati nel libro "Le mani della madre" che sto leggendo.
RispondiEliminaSul ruolo della madre dalla quale occorre staccarsi dall'attaccamento che il figlio ha per alzare lo sguardo sull'altro da se e più in generale sul mondo esterno. Altra analogia è il linguaggio attraverso il quale dal singolare si va verso il collettivo.
L'intervista ci propone una seria riflessione sullo sconvolgimento in atto nella società moderna che tocca soprattutto la mia generazione, che ha creduto nelle istituzioni e nei ruoli che ogni individuo ricopre, anche se le abbiamo anche combattute sperando di cambiare quanto di prevaricatorio ci poteva essere. Oggi non si accetta più la differenza di ruoli ad esempio di colui che insegna e di colui che è allievo sotto il pretesto che è una disuguaglianza.
Dobbiamo fare i conti con un individualismo senza limiti e con la confusione tra uguaglianza e egualitarismo.
Il desiderio di tutto e subito e soprattutto il desiderio di consolazione che si impone nel consumare .Per Lebrun il ruolo dirigente di oggi deve presupporre un lavoro di dialogo e di scambio e deve avere una responsabilità molto sensibile al collettivo che sintetizzo con le sue precise parole con le sue precise parole..."Uscire dalle logiche del consumo e della consolazione per alimentare forme di partecipazione secondo ciò che la nostra umanità esige".
Questo dovrebbe essere anche il compito della scuola ma i nostri insegnanti più giovani saranno all'altezza di questo compito e quando lo siano saranno compresi ?
In contemporanea alla lettura dell’intervista a Jean Pierre Lebrun ho terminato quella di un libro che consiglio a tutti voi:
RispondiElimina“Psiche” – Luigi Zoja – Ed. Bollati Boringhieri (pag.154 - € 11)
Un saggio breve, denso, accessibile, chiaro, interessante. I due temi affrontati da JPL, individuo - collettivo e uguaglianza – egualitarismo, sono presenti anche in questo libro di Zoja ed anche qui affrontati da una prospettivo psicologica e psicanalitica. Confesso una mia personale diffidenza verso buona parte degli approcci legati alla sfera della “psiche”; non riesco a farmi piacere, giudicandolo terreno di opinioni ed ipotesi, affermazioni, troppo spesso perentorie, al limite della dogmaticità, portate avanti da buona parte dei suoi interpreti. Ho apprezzato questo libro di Zoja, così come altre sue precedenti affermazioni, proprio perché proposto con un giusto atteggiamento “laico” ed aperto al rapporto con altre modalità di approccio. Ripercorre in modo sintetico, ma tutt’altro che banale, l’evoluzione del concetto di “psiche” con particolare attenzione alla sua declinazione collettiva, in particolare al manifestarsi nel corso della storia di ciò che Jung ha definito l’inconscio collettivo. Lo ritengo un aspetto centrale per capire ed interpretare non solo la stessa evoluzione storica ma anche un corretto modo di porsi di fronte a fenomeni sociali in grado di assumere intensità e modalità inspiegabili solo sulle classiche basi economiche. antropologiche e politiche. Ed è in sostanza lo stesso approccio portato avanti nell’intervista da JPL. Credo che nel corso delle nostre future discussioni, virtuali su questo blog e di persona nel corso dei futuri incontri, ci sarà spazio per affrontare con la giusta attenzione questi due temi; personalmente sono molto coinvolto dalla dialettica individuo/società, ritengo infatti che l’attuale prevalere della dimensione individuale, spiegabile sulla base di svariate ragioni, sia la causa principale dell’empasse che l’umanità intera sta vivendo in questa fase. Fra queste svariate ragioni credo abbiano un ruolo centrale quella dell’avvento del “consumismo” e dell’ideologia neoliberista dell’ ”individuo come impresa”, alle quali però, proprio grazie a Zoja, riconosco debbano essere aggiunte anche quelle relative alla “psiche”, individuale e collettiva. Mi limito, qui ed ora, a dichiarare quindi la mia disponibilità ad aprirmi a questa prospettiva integrativa purchè presentata con la “modestia laica” di Zoja