domenica 27 settembre 2015

Intervista a Jean Pierre Lebrun a cura di Emanuele Montorfano


Vivere insieme senza L'altro?
E’ ancora possibile ritessere il discorso collettivo?

Intervista a Jean Pierre Lebrun
a cura di Emanuele Montorfano

 

Non è certo una novità proporre l'idea che assistiamo ad un mutamento marcato, per certi versi, inedito del legame sociale e del discorso sociale che lo forgia. Se da un lato non possiamo non fare riferimento alla crisi congiunturale in cui ci troviamo, che preclude la disponibilità di risorse materiali e l'esercizio di diritti ereditati da ormai altri tempi, d'altro canto non possiamo arrestare la nostra analisi su questo punto. In questa intervista JPL ci invita a considerare che ciò che si presenta come critico non è da cercare solo nell'indisponibilità della risorsa, dell'oggetto, ma piuttosto nel particolare tipo di rapporto che il soggetto attuale intrattiene con l'oggetto di soddisfazione e nelle conseguenze che questo nuovo tipo di rapporto genera nello psichismo individuale.


 In particolare il discorso sociale attuale sostiene una irrinunciabilità dell'oggetto di soddisfazione, delegittimando di fatto ogni condizione di mancanza, che, in quanto delegittimata, non ha più possibilità di funzionare come condizione propulsiva, origine di desiderio, spazio vuoto da fecondare con un progetto, ma piuttosto come accidente mortificante, inammissibile intollerabile e dunque passivizzante. Il legame sociale è minato dall’insostenibilità di questa mancanza e quindi dalla dipendenza del soggetto da un oggetto di soddisfazione: l’esistenza è orientata dall’oggetto del godimento. È per il fatto di ruotare attorno all’oggetto disponibile che gli individui stessi si trasformano in oggetto. Una società che si presenta così, non permette di assumere che la condizione umana suppone la necessità di perdere un godimento che si possa pensare totale perché ci sia legame. Se la questione è quella della prevalenza di una soddisfazione individuale allora il collettivo e le sue esigenze sono fuori campo. Tutti coloro che hanno il compito di ricordare le strettoie della condizione collettiva umana, genitori, insegnanti, educatori, operatori sociali..., si trovano come delegittimati. Dobbiamo quindi evitare di prendere questo discorso sociale attuale per verità e cercare nelle risorse proprie del soggetto umano quello che il discorso sociale non presentifica più.

Anche per la nostra generazione si pone il problema di non sentirsi abbandonati dagli altri e, nel contempo, di non essere soffocati dai legami. A differenza del passato, tuttavia, sembra di vivere in una congiuntura che amplifica le due questioni, piuttosto che contenerle, fino ad allentare i legami in modo drammatico. Da dove nasce questa impasse del legame sociale? Introdurrei il mio ragionamento sulla questione sollevata proponendo una riflessione di Marcel Gauchet il quale afferma che “godiamo ormai di una libertà ineguagliata di governare noi stessi, ognuno nel suo angolino e per suo conto”. Per osservare, subito dopo, che l’orizzonte di un governo in comune è svanito, al punto che l’idea di una presa d’insieme sull’organizzazione del nostro mondo non ha più né supporto, né strumenti, né ricambi. Per concludere che non possiamo più quasi immaginare l’azione storica, se non come la risultante di una miriade di iniziative disperse, tutte legittime e tutte decise a non cedere nulla sulla loro indipendenza. Gauchet mette in luce l’enorme evoluzione che c’è stata nei secoli, anche se è solo da due, tre secoli che accettiamo di pensare che ci sia una dialettica tra collettivo e individuale. Voglio dire, nella società greca, nella società romana, nella società medioevale fino alla modernità, ogni individuo occupava il posto che gli era prescritto; era così e basta. Sicuramente alcuni trasgredivano, ma il posto era dato in anticipo ed era sempre interamente tributario di ciò che doveva assicurare il funzionamento del collettivo. Detto altrimenti, il collettivo prevaleva sempre sull’individuale. Nella nostra società neoliberale, invece, si potrebbe dire che prevale lo slogan “Tutti uguali!”. A mio avviso, questo ci sta portando su una strada senza uscita: quando l’orientamento a partire dal collettivo è da mettere da parte, mentre è da promuovere unicamente l’individuo, allora è tutta l’articolazione del collettivo e del singolare che viene scossa, di fatto minacciata. Le ragioni  di una società orizzontale Da dove nasce tutto questo? Senza dubbio, l’attuale generazione di sessantenni e settantenni assiste al più grande cambiamento da quando l'umanità esiste. Tutti sentono che c'è qualcosa che cambia in profondità. Anche se non ci sono eventi precisi di svolta, ci sono stati momenti nella nostra storia che hanno punteggiato questo cambiamento. Fino alla rivoluzione francese, prima della modernità, si può dire che la società fosse concepita come una piramide. Gli umani, dovendo organizzarsi, hanno dovuto organizzare la loro vita collettiva in funzione di un sovrano, di qualcosa che li regolasse, funzione che per molto tempo hanno attribuito a Dio. Prima della modernità era il modello della religione a organizzare la vita collettiva. Questo modello aveva almeno il beneficio di definire immediatamente il posto in cui ciascuno si trovava. Ma nel momento in cui qualcuno occupava il posto di Dio, ciò avveniva non senza un certo abuso, una certa forzatura, perché in fondo nessuno può presumere di interpretare Dio. Per questo, da che mondo è mondo, c'è sempre stato bisogno di mettere in campo una credenza, una fiction che permettesse di proteggere l'unità e l'organizzazione del gruppo sociale, una religione. Con la modernità ciò ha iniziato oscillare, perché si è deciso che Dio non doveva più intervenire negli affari degli uomini come una volta. La scienza ha mostrato, attraverso il lavoro di Galileo, che si trattava di una faccenda di calcoli e cifre. La Rivoluzione francese, in campo politico, ha poi affermato che ciò che era potere in nome di Dio non poteva essere considerato con uno statuto differente dagli altri e ha dichiarato l'uguaglianza. E così oggi non abbiamo una concezione di società costruita a piramide, piuttosto viviamo in una società costruita a rete, come i computer. In altre parole, non abbiamo più l'idea di una società verticale, bensì orizzontale. Con quali conseguenze? Quando si pensa a una piramide si pensa a una cima, e oggi c'è una sorta di delegittimazione a pensare una cima. C'è voluto molto tempo perché ciò accadesse, passando necessariamente per la rivoluzione nella gestione del potere. Oggi è chiaro che non c'è più nei confronti dell'autorità, della cima, lo stesso rispetto di ieri. Vale per il capo dello stato, per lo stato stesso, in famiglia per il padre, vale per il maestro a scuola. Noi tutti siamo “lavorati” da questa mutazione, dunque vediamo in altro modo la questione dell'autorità. Questo è il grande cambiamento nel quale siamo presi e che ha e avrà nel futuro delle conseguenze a tutti i livelli della vita sociale, a cominciare da quello famigliare e dal posto del bambino in famiglia. Siamo però scivolati in una delegittimazione di ogni forma di autorità, e questo crea confusione. Togliendo d'emblée legittimità all'autorità piramidale, si rischia di annullare la possibilità stessa dell'esistenza di qualsivoglia autorità, con gravi conseguenze sulla vita individuale e collettiva. Mi spiego. Una società che delegittima ogni autorità non rende visibile, non rende più percepibile che la condizione umana suppone la necessità di accettare di perdere un godimento che si possa pensare totale. Ieri era in gioco la perdita del paradiso, come dire, una forma potente di trascendenza. Oggi, con la caduta della religione, cade anche il riferimento alla trascendenza. Per questo, è la ricerca d’immediatezza che prevale, la terzietà che sparisce, come sparisce il prezzo da pagare per la rappresentazione; è dunque la ricerca d’immediatezza che sarà prevalente. L’insieme del nostro discorso sociale lascia intendere che questo accesso a l’oggetto pienamente soddisfacente è possibile, è solo perché non è stato ancora messo a punto che non lo si trova nella circostanza. Tutto è fatto per darci l’illusione, la speranza, che sarà possibile produrre un tale oggetto. Se dunque la necessità di tale perdita non è più esplicitata, se la società non la rende percepibile, nello stesso momento si toglie legittimità a chiunque abbia l’onere di ricordare quella che è la sorte della condizione umana. Che i genitori siano oggi in difficoltà a dire “no” ai loro figli, mi sembra derivi da questa delegittimazione. Dire “no” a vostro figlio in un grande magazzino, è rischiare che il rampollo abbia una crisi di collera per questo “no”, è rischiare che tutti i presenti vi guardino per vedere come ve la cavate: male di sicuro, perché tutto ciò rischia di spingervi a lasciar correre e comprargli ciò che vi chiede. Sullo stesso registro è quanto mi diceva un amico insegnante alcuni giorni fa: “Compiango i giovani di oggi, perché mi domando come possano tenere a qualcosa, con tutto ciò che è proposto loro”. La nostra non è una società del consumo, ma una società della consolazione: ci vorrebbe sempre “qualcosa” per consolarci del difetto di essere umani. L’incontro mancato Sta dicendo che la società del consumo e della consolazione, occulterebbe qualcosa di decisivo di ciò che ci rende umani? Coloro che hanno il compito di ricordare le strettoie della condizione umana, a cominciare dai genitori, poi gli insegnanti, gli educatori, gli operatori sociali, i dirigenti di un’organizzazione, tutti hanno l’incarico di evidenziare che il collettivo ha da prevalere; ebbene tutti questi, a causa del contesto generale, si trovano delegittimati e improvvisamente vacillano sul supporto che dovrebbe permettere loro di occupare con decisione il proprio posto. Sicuramente accentuo le caratteristiche del discorso sociale che delegittima ogni autorità, ne faccio forse una caricatura, ma ancora venti, trenta anni fa - non che ne abbia nostalgia, ma bisogna chiamare le cose col loro nome - era messo in programma che questo era il dato della condizione umana: impossibile eliminarlo; arrangiatevi, fate ciò che volete, urlate, lamentatevi, piangete, non cambierà nulla. Oggi all’insegna è piuttosto: “Aspettate, c’è modo di evitare la faccenda, c’è modo di evitare la stretta”. Assistiamo così all’incontro tra qualcuno traballante al suo posto, da dove deve far capire che non c’è modo di prendere scorciatoie rispetto alla mancanza, e un altro che vuol approfittare del discorso sociale per dire che, a ogni modo, ritiene di poter evitare il confronto con questa perdita irriducibile, questa sottrazione, questo taglio di godimento richiesto dalla condizione umana. L’incontro di questi due produce un che di vago, qualcosa che chiamerei volentieri un cancro che si situa nell’apparato psichico, qualcosa che, appunto, non è al suo posto. Ciò che non è più al suo posto nell’apparato psichico è ciò che chiamo la nozione dell’autrui,  non solamente dell’altro come simile, ma de “L’altro” in quanto tale. C’è un esempio di questo che trovo emblematico, mi riferisco ai giovani che hanno bruciato degli autobus a Marsiglia per comparire in televisione. Erano pronti a colpire, ma hanno lasciato passare un primo bus, in quanto uno di loro aveva riconosciuto qualcuno che era sopra; hanno colpito il secondo bus, dove chi non è riuscito a uscire abbastanza in fretta si è ritrovato all’ospedale col 60% di bruciature. Leggo questo sintomo come legato al fatto che quel giovane, per avere accesso a ciò che è “L’altro”, aveva bisogno della presenza reale di questo “altro”. Questa nozione non era invece interiorizzata psichicamente: se non vedeva “l’altro” che conosceva, non c’erano più “altri” nell’autobus, con tutte le conseguenze che sono seguite. Fino a dire in loro difesa che non avevano veramente voluto ciò, che quelle persone avrebbero oltretutto dovuto uscire più in fretta… C’è una certa logica in questo, poiché se non ho la sensibilità di ciò che sono gli altri, in quanto “altri”, interiorizzata nel mio apparato psichico, allora bisogna che inciampi in qualcosa di duro per accorgermene! Questa struttura che io chiamo “L’altro”, è ciò che in principio si è iscritto nello psichico per il fatto dell’incontro, realizzato a suo tempo – c’è un tempo per questo, il tempo in cui è possibile produrre un’impronta -, con un altro concreto, da cui il soggetto ha tollerato di essere intaccato, di essere limitato, un altro che ha fatto sì che si consentisse a quella sottrazione, a quella perdita che la condizione umana suppone. La lunga erranza dei “senza L’altro (autrui)” Cosa è in gioco nei soggetti che non si  lasciano “intaccare” da un altro nella sua concretezza? Questi soggetti hanno la sensazione che si possa evitare il confronto, e dunque si immunizzano riguardo all’incontro con qualcuno che possa ricordarglielo. Così facendo eludono il lavoro di soggettivazione necessario a ogni essere umano, poiché non basta che nasciate uomo o donna per far parte della specie umana, bisogna anche che vi riappropriate – è il tempo dato all’infanzia e all’adolescenza - delle condizioni di ciò che è l’umanità. Ora, se questo lavoro di soggettivazione non è più richiesto, se si può eluderlo, ci si ritrova con quelli che io chiamo “i senza L’altro”, colpiti da una prevalenza del materno, cioè un registro di relazione che si articola su quella matrice primordiale di rapporto con l'oggetto caratterizzato da una soddisfazione non mediata dalla dialettica col paterno, che invece apporterebbe un limite e un orientamento a mollare il godimento assoluto per dirigersi verso altro, verso il legame sociale. Tutto ciò rischia di diventare perversione sociale. Così, da qualche tempo, abbiamo a che fare con un’inflazione galoppante di patologie che derivano da una psichiatria medico-sociale che si trova a fronteggiare soggetti nei quali è ancora attiva la fase di non-distinzione e per i quali è piuttosto il corpo che si incarica di indicare che non c’è stata vera separazione, vero processo di crescita. Quando abbiamo il 15% di tasso di obesità infantile, possiamo leggerlo come conseguenza del fatto che la legge del desiderio non è messa in funzione nella giusta modalità e che un buon modo di tagliare la meccanica del desiderio è saturarla tramite l’orale. Di conseguenza, abbiamo a che fare con tempi di erranza estremamente lunghi. Tutti conosciamo studenti che devono fare innumerevoli anni di studio, passando da una disciplina all’altra, e prima dei trent’anni non escono da quel tempo molto lungo che è diventata l’adolescenza. E’ il tempo di erranza dei “senza L’altro”, il tempo che questi soggetti si prendono per confrontarsi con le invarianti della condizione umana, durante il quale non sanno bene cosa fare, sono senza domanda perché sono senza indirizzo. Un tempo durante il quale si “mostrano” – sia nelle peggiori difficoltà, come capita talvolta, sia nel rifiuto di ogni intervento – ma insisto: si mostrano, esigendo di essere visibili, “come alla TV”, perché senza questo non si sentono esistere. Quando ascolto gli operatori che si confrontano con questi casi, emerge che sono pazienti che non si rivolgono più a nessuno! Ci domandiamo come fare per farli uscire da tale situazione, ma sappiamo che se ci precipitiamo troppo si rifugeranno nella fobia sociale, nella fobia scolastica o non so più in che altro. Comunque ci faranno ben capire che si tratta soprattutto di non intervenire nei loro affari. La minaccia al legame tra singolare e collettivo Siamo a una riduzione del legame sociale a scambio di oggetti di consolazione  che non spezzano il meccanismo psichico dell’erranza, ma piuttosto lo alimentano… Assolutamente sì e non solo nel mondo giovanile. La società attuale e il suo funzionamento rischiano, se non si è vigili, di negare ogni forma di autorità e di discorso sociale, sotto la spinta di due grandi forze. Anzitutto il neoliberismo che produce senza sosta oggetti, non solamente di consumo ma anche di consolazione; è il tentativo di fare in modo che non ci si senta confrontati con l'assenza, che non si sia confrontati con la morte, con l'impossibile. Tutte queste dimensioni che erano sacre oggi sono evacuate. La seconda forza estremamente importante, a mio avviso, è l'egalitarismo democratico. Mi spiego. Quando ci si trova in una società che mira a legittimare la democrazia, si pensa che la sua dimensione fondamentale sia l'uguaglianza delle condizioni, e fino a qui si è d'accordo. Ma ciò che è proprio dell'uguaglianza di condizioni, come Tocqueville l'aveva già visto bene, è che crea una passione senza limiti per l'eguaglianza, e dunque, se si spinge fino al suo limite l'idea di uguaglianza, questione su cui non si è riflettuto troppo, si arriva a posizioni del tipo: “In fondo perché ancora una differenza tra genitori e figli?” e così via, nei diversi ambiti della vita sociale. La passione per l'uguaglianza finisce per diventare ciò che chiamo l'ugualitarismo. Come uscire egalitarismi e dedicarci insieme alla democrazia? C'è qualcosa che non va nell'ugualitarismo perché, se ci si riflette un po', la lingua che si utilizza non ha chiesto la nostra opinione per esistere, e noi stessi abbiamo dovuto fare un lavoro di integrazione nella lingua di tutti. Tutti gli umani che parlano una certa lingua, parlano una lingua che viene da altrove, che viene prima di loro, che è degli altri, alla quale ci si è dovuti sottomettere ma, poiché ci si è sottomessi alla lingua, non si è uguali a colui dal quale la si è appresa! Le leggi della parola instaurano inevitabilmente un tipo di dualità organizzata dall’ineguaglianza e dall’alterità degli interlocutori, una irriducibile asimmetria dei posti. Questo effetto della parola, sul quale attiro l’attenzione, lo dimentichiamo: la parola, in quanto si indirizza a un locutore, istituisce immancabilmente un’asimmetria. In effetti, con il semplice uso della parola non si riuscirà a realizzare l’ideale che ci assilla, quello della fraternità, dell’uguaglianza, della transitività. Indirizzare una parola a un altro, al contrario, produce, instaura – per il solo fatto di prendere la parola – fra i due interlocutori un’asimmetria che farà sì che l’uno si troverà in posizione di autorità e l’altro nella posizione di tentare di farsi riconoscere. L’uso della parola introduce nella vita sociale una ripartizione che crea, lo vogliamo o no, due posti differenti, eterogenei l’uno rispetto all’altro. Non si tratta di giustificare le disuguaglianze di valore tra individui che si sono prodotte e che si producono tutt’oggi, quanto sottolineare che la tensione verso l’uguaglianza deve tenere conto della asimmetria logica dei posti a partire dai quali c’è una gerarchia dovuta alla logica dell’organizzazione del legame sociale che è la stessa della logica del discorso. È l’assunzione di questa logica che impedisce a chi è sopra di abusare e prevaricare e che permette a chi è sotto di non sentirsi tiranneggiato e umiliato. Gli svincoli per non incontrarci Se ho ben capito, il convergere del neoliberismo e dell’ugualitarismo piegano la funzione del linguaggio fino a occultare la condizione di mancanza e di differenza costitutive di ciò che ci può legare insieme come umani… In che modo avviene? Il legame sociale è oggi costruito su un'immensa illusione, quella dell’evitamento del collettivo. È come se non si concepisse più alcun legame sociale se non quello che permetterebbe a ciascuno di fare... come la vede lui! Ma perché ci sia legame sociale occorre che ci sia perdita di soddisfazione, anche perché bisogna che si acconsenta al fatto che il collettivo ha le sue esigenze.  Questo fa parte della medesima perdita necessaria a livello della società, tra i suoi membri, per acconsentire a una perdita di soddisfazione totale nel riconoscimento per il collettivo che prevale sull'individuale. Queste esigenze sono condizione di soggettivazione senza le quali cade la nostra singolarità e la nostra possibilità di far legame con l'altro distinto da noi. Nonostante le apparenze, cogliamo tutti i giorni che il collettivo deve prevalere sull'individuale, nella stessa maniera in cui la lingua prevale sulla modalità in cui ogni bambino si mette a parlare: dovrà parlare secondo la lingua prima di lui; è la stessa cosa! E dunque nel collettivo, poiché si ha talmente l’impressione che io sia uguale all'altro, non ci sono ragioni che voi decidiate per me qualche cosa e, di conseguenza, si finisce per essere individualisti, mentre la solidarietà, che permette di stare insieme, non la si trova più. È ciò che chiamo “vivere insieme senza “L’altro”, proprio di una soggettività neoliberale che è quella di un soggetto che si suppone fatto da sé, autogenerato, per il quale le istituzioni non hanno più altro ruolo che quello di “gestire i conflitti”, contenere i percorsi erratici, e non quello di ancorarlo alla perdita nella quale siamo tutti iscritti. Ciò provoca rivendicazioni identitarie a non finire. La forza che annoda Da dove ripartire per cercare di vivere “con” L’altro? Non possiamo accontentarci di diventare organizzatori di incroci, di svincoli stradali per far in modo che - come nel film di Gus Van Sant Elephant - giovani e adulti si organizzino per non incontrarsi, per non incontrare L’altro. E’ questo che abbiamo davanti? Non possiamo lasciarci ingannare da un certo tipo di discorso sociale. Per non arrenderci ripartirei dal fatto che l’essere umano è un essere di linguaggio e linguaggio vuol dire rinuncia all’immediato. Se non introducete qualcosa che vi sposta di piano, che vi mette in una posizione in cui il tutto subito è impossibile, non riuscirete a parlare. Possiamo pensare che ogni essere umano abbia consentito – senza neppure avergli domandato il parere, in un primo momento - ad accettare questo dato del linguaggio, cosa che non è naturale ma implica una presa di distanza, uno spostamento dal singolare al collettivo. In realtà ognuno è singolare, specifico. Come può questa singolarità farsi riconoscere dagli altri? Ebbene, appunto è perché parliamo che la cosa è possibile. Il linguaggio è questa straordinaria potenzialità umana, che annoda il singolare e il collettivo. Poiché per dire ciò che è più specifico di cosa avete da dire, sarete costretti a dirlo in una lingua che tutti condividono, esigeremo che siamo capaci, tutti, di parlare le parole di tutti. Di mezzo c’è un’operazione psichica complessa di cui il soggetto si deve riappropriare, per entrare nel linguaggio che pone al centro la mancanza e in tal modo permette di riannodare singolare e collettivo ponendo al centro, proprio nell’infanzia, il distacco dalla madre, dall’attaccamento alla madre. Poco a poco si domanda al piccolo soggetto in divenire di lasciar la presa, appoggiandosi per far ciò a qualcun altro di cui si dirà retroattivamente che è stato suo padre, o un padre per lui. In altre parole, sarà detto padre chi avrà aiutato il soggetto a staccarsi dal godimento materno, che per noi presentifica quel godimento assoluto che la condizione umana esige di lasciar cadere, nel senso forte del termine, come è prescritto persino nella tradizione biblica con il “tu abbandonerai tuo padre e tua madre”. Non si tratta, d’altronde, di abbandonare la madre e restare incollati al padre, poiché il padre è lì in quanto spinta a prendere parte al discorso sociale e lasciar ciò al quale si è restati fino a quel momento incollati. Ora proprio questo lavoro oggi è appesantito dal tipo di discorso sociale con cui si ha a che fare. Dov’è  l’arte di annodare? In questo scenario gli operatori sociali sentono di muoversi controcorrente, spesso senza mezzi, nell’aiutare a mollare la presa di legami di godimento per entrare in un discorso sociale altro da quello prevalente…  L’operatore sociale prende su di sé la contraddizione tra il discorso sociale attuale, che non rispetta le leggi della parola e il concreto delle situazioni. Certo, il suo lavoro è minato, messo alla prova. Spesso non sono in grado di fare questo annodamento, perché l’annodamento che aveva luogo ieri viene rifiutato, non è credibile. Di conseguenza, abbiamo un compito enorme, in mancanza del quale vedremo moltiplicarsi all’infinito le domande di intervento. In questa situazione, tuttavia, pur non avendo i mezzi di ieri, abbiamo un compito da svolgere. Questo ci impone un certo strabismo, dobbiamo guardare un poco di lato, cioè non prendere il discorso sociale attuale per verità, ma cercare nelle risorse proprie del soggetto umano quello che il discorso sociale non presentifica più. Non c’è altra soluzione. Ciò può voler dire, per esempio, sopportare il peso di essere esigenti, critici, tutt’altro che complici, nel lavoro sociale ed educativo, fino a “trasgredire” regole sociali troppe volte ritenute intoccabili, soprattutto là dove  convergono ricadute del neoliberalismo e democratismo. Tutti vogliono essere una buona mamma, che procura tutto all’altro; ebbene, questa non è sempre la strada migliore e talvolta bisogna ricordare al soggetto che non è così che può andare avanti. Nei gruppi, nelle istituzioni si attribuisce molta importanza a che ciascuno dia il suo parere, ma il problema è ciò che se ne fa dopo: si saprà decidere? Ieri era semplice, si aveva dietro un padre, un patriarca, un dirigente, un direttore che prendeva la decisione, e si era tranquilli. A partire dal momento in cui ci siamo orizzontalizzati, bisogna che ciascuno assuma una parte di responsabilità di questa dimensione collettiva, non fosse che per dire che c’è qualcuno nel posto in cui si decide e se decide qualcosa che non avrei deciso, bisogna che accetti quel che ha deciso, per il fatto che occupa un posto legittimo. In realtà la difficoltà degli operatori sociali nasce anche dal fatto che essi portano ancora con sé qualcosa del funzionamento della società di ieri, con l’idea che si tratti di dare una mano ai più precarizzati, più poveri, più sprovvisti... A ben vedere, in passato non c'era l'idea di poter soddisfare tutti, tuttavia questa impossibilità non era delegittimante del loro lavoro come operatori. Oggi il modello sociale prescrive invece all'operatore un funzionamento che nega l’impossibile, mentre la sua parola non è riconosciuta. Di colpo l'operatore si ritrova così a dire: “Aspettate! Il mandato che mi spetta non funziona nell'incontro! Mi si chiede che tutti siano uguali, ma io constato che c'è piuttosto disuguaglianza. Mi si dice che attraverso le parole ci si capisce, ma quando non ci si capisce cosa si fa?”.

Il desiderio di incontro Di fatto nei servizi si è sopraffatti da richieste di soddisfacimento di bisogni, ma ciò non è possibile… L'operatore vede un tessuto sociale che si disaggrega, si danneggia, senza poterlo riparare. E tuttavia, dentro lo sfilacciamento generale del tessuto sociale, egli può essere il solo capace di sostenere l’incontro.  L'operatore è un essere che, a volte almeno, può mettere delle toppe nei buchi giusti, riempire vuoti quando le cose non vanno, ma di fatto intercetta un’umanità che è esclusa dalla parola ed è proprio nella parola che c'è il vero buco. Il discorso sociale non riconosce più la condizione umana nel linguaggio e dunque l'operatore, sempre sulla frontiera, non ha più ciò a cui tutti, compreso l’operatore, siamo chiamati a sottometterci. È come se anche per l'operatore cadesse una dimensione di trascendenza fino a ritrovarsi incollato all’attualità della situazione: semplicemente intende il grido, la protesta dell'utente, nulla di più. La chance che resta all’operatore è ingaggiarsi in un incontro con qualcuno, sapendo che non ha soluzioni da offrire. In certi casi può anche fornire risorse materiali e prestazioni che possono migliorare la sorte delle persone, d'accordo. Ma per la maggior parte delle situazioni  non ne ha la concreta possibilità. Per contro, se si ingaggia in una relazione con colui che incontra, ha un'arma potente, il tratto umano comune a tutti: davanti alla realtà concreta, davanti alla morte, davanti alla perdita, davanti al lutto, davanti alla precarietà, abbiamo la parola. Almeno lì abbiamo qualcosa che non si può levare a nessuno. Una lettura in termini di bisogni non è sufficiente. Ci sono sempre dei poveri senzatetto, ogni anno di più, e soprattutto non possiamo evitare del tutto che ci siano, perché non siamo in grado di fornire tutto. La crisi economica e le disuguaglianze nelle quali siamo presi fanno constatare che molte persone sono in difficoltà e che, nello stesso tempo, rischiano di non essere considerate come soggetti di parola. Proprio l'arma che potrebbe permettere loro di fronteggiare la situazione.

Si può dire che l'operatore, con l'idea predominante di saturare il bisogno, si venga a trovare nella difficoltà di ingaggiare un desiderio d'’incontro? Sì un desiderio, altrimenti non c'è più incontro possibile. Il desiderio è ciò che rende le cose possibili: se non c'è più desiderio d'incontro si perde la propria iniziativa. Da qui la difficoltà di molti operatori, poiché se si chiudono nella logica esclusiva di poter rispondere al bisogno, cadono nel burn out e, oltre a ciò, restano incollati al “compito” inteso come erogazione di prestazioni. A quel punto non ci sono fili che permettano di tessere l’incontro con l'altro. La cosa da salvaguardare a ogni costo è l'incontro, che si abbia o no la risposta al bisogno. Non è affatto indifferente sperare nella possibilità di incontro. Se siete in difficoltà, avete perso il lavoro, avete perso la compagna o un figlio ha un senso poter sperare in un interlocutore al quale poter almeno dire le cose, con il quale ricercare un qualche significato. Eppure oggi sembra difficile che questo accada. Intanto il cittadino non trova più nel discorso sociale un interlocutore che sostenga la sua parola. Se mi è permessa una caricatura, se avete qualche difficoltà… dovete fare un numero di telefono e vi dicono: digitate uno, digitare due… Non trovate più nel discorso sociale la presenza reale di un interlocutore nel sostenere la vostra parola. Tese tra il dramma della vita, la mancanza di parole, la sudditanza al discorso sociale neoliberista chiuso a “L’altro”, se non possono accedere a un incontro, le persone esplodono. Non siamo in grado di rispondere ai bisogni, ma non possiamo pensare che la sottomissione alla logica economica attuale possa regolare tutto. Non è sensato. Non credo solo che occorra inventare qualcosa per tappare i buchi; bisogna anche essere “contrari” al loro formarsi e poi costruire alternative possibili, altrimenti ci sarà una rivoluzione. Non si possono lasciare le persone così: è una prescrizione di inumanità. Per questo dico che, dentro le tensioni dell’oggi, la possibilità dell’incontro è la condizione per cui può lievitare un nuovo discorso sociale.

Il posto dell’operatore Non c’è il rischio che l’incontro si limiti ad accondiscendere alla ricerca di consolazione? Me ne rendo conto. Qui emerge il compito dell’operatore e la capacità  di stare al suo posto. Bisogna che ci intendiamo sul fatto che l'uguaglianza democratica non è contraddittoria rispetto alla differenza dei posti e che la differenza dei posti ha a che fare con il linguaggio. Come dicevo, c'è il posto del locutore e dell'uditore, di colui che enuncia e di colui al quale ci si indirizza. Sono posti differenti e  il linguaggio ci costringe rispettare questi posti che esistono, che lo vogliamo o no. C'è un'autorità della parola, del linguaggio. L'uguaglianza democratica, del tutto pertinente e legittima (non c'è alcuna ragione per cui si pensi che qualcuno valga più di qualcun altro), siamo tutti d'accordo, è un nuovo modo di pensare la vita sociale e i legami. Ma non è perché si riconosce il valore di ciascuno che dobbiamo annullare il fatto che ci siano dei posti differenti. C'è il posto di colui che insegna e c'è il posto di colui che è allievo, e anche nel lavoro sociale ci sono dei posti differenti. Oggi sovente non si accetta più il posto differente sotto il pretesto che è una disuguaglianza… Qui sorge l'ugualitarismo. E’ anche vero che ci sono operatori che continuano a occupare questo posto nella modalità di ieri. Vale a dire: "Sono io il capo ed è così". Ci sono altri che non osano più occuparlo, perché è il modello di ieri e, di conseguenza, va bene qualunque cosa faccia chiunque. Tuttavia, oggi ci sono leader, coordinatori, dirigenti che hanno spontaneamente riflettuto sul rischio dell’egalitarismo e sanno bene che non è il caso di essere tributari di ciò che l'altro vuole, ma che non sono neanche persone che impongono dicendo “è così e basta”.  Piuttosto sono impegnati in un lavoro di dialogo e di scambio, fanno spazio alla parola di tutti, ma “tengono” sull'inevitabilità che, dopo la parola, bisogna arrivare a decidere,e che la decisione non può tenere conto solo del consenso della maggioranza, ma anche del posto che si occupa. Quello che chiamo il posto dell'eccezione. Posto logico, asimmetrico, del quale bisogna tenere conto e grazie al quale bisogna prendere la decisione che impegna il collettivo. Dunque è importante relativizzare il peso di questo posto, senza tuttavia annullarlo, senza farlo sparire. Relativizzarlo perché ieri coincideva con la sommità della piramide, dove al vertice c'era colui che decideva cosa fare. Se sono messo al vertice al posto di Dio, del re, del capo, del maestro, del padre sono io che decido. Non basta neppure negare la differenza dei posti. Piuttosto l’attenzione deve posarsi su quel che fanno spontaneamente molte persone quando non affermano che “si fa, così perché sono il padre...”, ma hanno la forza per dire “io farei così, poi ne discutiamo...”. Esse trovano il momento per porre fine, per tagliare, per decidere qualcosa. Non bisogna “credersi”, ma “crederci”! Ma in nome di chi, di che cosa decidere? Chi occupa un ruolo dirigenziale deve avere una responsabilità molto sensibile al collettivo. Se mi penso solo nel mio ufficio, nel mio gruppo di lavoro, è una cosa. Se invece penso a ciò che sta attorno al mio ufficio, al mio gruppo di lavoro, bisogna che tenga conto della logica collettiva. Bisogna che mi ingaggi nel continuo riannodare il legame tra individuale e collettivo, nella continua responsabilità verso un discorso sociale che, senza mai lasciar cadere le acquisizioni della democrazia, solleciti a uscire dalle logiche di regolazione dei rapporti ispirate al consumo e alla consolazione. per alimentare forme di partecipazione secondo ciò che la nostra umanità esige.

2 commenti:

  1. Ho letto con attenzione l'intervista di Motorfano a Jean Pierre Lebrun e ho trovato alcune analogie con Massimo Recalcati nel libro "Le mani della madre" che sto leggendo.
    Sul ruolo della madre dalla quale occorre staccarsi dall'attaccamento che il figlio ha per alzare lo sguardo sull'altro da se e più in generale sul mondo esterno. Altra analogia è il linguaggio attraverso il quale dal singolare si va verso il collettivo.
    L'intervista ci propone una seria riflessione sullo sconvolgimento in atto nella società moderna che tocca soprattutto la mia generazione, che ha creduto nelle istituzioni e nei ruoli che ogni individuo ricopre, anche se le abbiamo anche combattute sperando di cambiare quanto di prevaricatorio ci poteva essere. Oggi non si accetta più la differenza di ruoli ad esempio di colui che insegna e di colui che è allievo sotto il pretesto che è una disuguaglianza.
    Dobbiamo fare i conti con un individualismo senza limiti e con la confusione tra uguaglianza e egualitarismo.
    Il desiderio di tutto e subito e soprattutto il desiderio di consolazione che si impone nel consumare .Per Lebrun il ruolo dirigente di oggi deve presupporre un lavoro di dialogo e di scambio e deve avere una responsabilità molto sensibile al collettivo che sintetizzo con le sue precise parole con le sue precise parole..."Uscire dalle logiche del consumo e della consolazione per alimentare forme di partecipazione secondo ciò che la nostra umanità esige".
    Questo dovrebbe essere anche il compito della scuola ma i nostri insegnanti più giovani saranno all'altezza di questo compito e quando lo siano saranno compresi ?

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  2. In contemporanea alla lettura dell’intervista a Jean Pierre Lebrun ho terminato quella di un libro che consiglio a tutti voi:
    “Psiche” – Luigi Zoja – Ed. Bollati Boringhieri (pag.154 - € 11)
    Un saggio breve, denso, accessibile, chiaro, interessante. I due temi affrontati da JPL, individuo - collettivo e uguaglianza – egualitarismo, sono presenti anche in questo libro di Zoja ed anche qui affrontati da una prospettivo psicologica e psicanalitica. Confesso una mia personale diffidenza verso buona parte degli approcci legati alla sfera della “psiche”; non riesco a farmi piacere, giudicandolo terreno di opinioni ed ipotesi, affermazioni, troppo spesso perentorie, al limite della dogmaticità, portate avanti da buona parte dei suoi interpreti. Ho apprezzato questo libro di Zoja, così come altre sue precedenti affermazioni, proprio perché proposto con un giusto atteggiamento “laico” ed aperto al rapporto con altre modalità di approccio. Ripercorre in modo sintetico, ma tutt’altro che banale, l’evoluzione del concetto di “psiche” con particolare attenzione alla sua declinazione collettiva, in particolare al manifestarsi nel corso della storia di ciò che Jung ha definito l’inconscio collettivo. Lo ritengo un aspetto centrale per capire ed interpretare non solo la stessa evoluzione storica ma anche un corretto modo di porsi di fronte a fenomeni sociali in grado di assumere intensità e modalità inspiegabili solo sulle classiche basi economiche. antropologiche e politiche. Ed è in sostanza lo stesso approccio portato avanti nell’intervista da JPL. Credo che nel corso delle nostre future discussioni, virtuali su questo blog e di persona nel corso dei futuri incontri, ci sarà spazio per affrontare con la giusta attenzione questi due temi; personalmente sono molto coinvolto dalla dialettica individuo/società, ritengo infatti che l’attuale prevalere della dimensione individuale, spiegabile sulla base di svariate ragioni, sia la causa principale dell’empasse che l’umanità intera sta vivendo in questa fase. Fra queste svariate ragioni credo abbiano un ruolo centrale quella dell’avvento del “consumismo” e dell’ideologia neoliberista dell’ ”individuo come impresa”, alle quali però, proprio grazie a Zoja, riconosco debbano essere aggiunte anche quelle relative alla “psiche”, individuale e collettiva. Mi limito, qui ed ora, a dichiarare quindi la mia disponibilità ad aprirmi a questa prospettiva integrativa purchè presentata con la “modestia laica” di Zoja

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